8/2014
Novità dal Forum – Rassegna 8/2014 INDICE TEMI DI ATTUALITA’ – SISTEMI ELETTORALI Mezzogiorno e seggi europei quattro anni dopo la sentenza della Corte Costituzionale 271 del 2010 – M. Betzu TEMI DI ATTUALITA’ – SEGRETO DI STATO E SERVIZI DI INFORMAZIONE L’intelligence italiana a sette anni dalla riforma – A. Soi I PAPER DEL FORUM La “nuova” Provincia: l’avvio di una rivoluzione nell’assetto territoriale italiano – M. Gorlani Brevi riflessioni in tema di sostanziale disconoscimento del diritto costituzionale d’asilo nella recente giurisprudenza di legittimità – E. Xhanari GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2014 Discontinuità argomentativa nei giudizi su norme regionali di re inquadramento del personale di enti di diritto privato e di diritto pubblico regionali (sent. 202/2014) – S. De Gotzen Sul contenuto e sul controllo degli atti normativi (sent. 39/2014) – G. Di Cosimo GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2013 La Corte costituzionale continua (giustamente) a non prendere sul serio il federalismo demianiale – A. Ridolfi (sent. 22/2013) GIURISPRUDENZA – GIURISDIZIONI AMMINISTRATIVE I diritti delle persone con disabilità ed il ruolo dell’associazionismo (nota a TAR Lazio sent. n. 3851/2014) – S. Carnovali GIURISPRUDENZA – GIURISDIZIONI ORDINARIE Non desiderare i figli d’altri? (Tribunale Civile di Roma, ordinanza 8 agosto 2014)- L. D Angelo Tribunale per i minorenni di Roma, sent. 30 luglio 2014 (in materia di adozione) EUROSCOPIO – NOTE DALL’EUROPA Elezioni europee 2014: questa volta è diverso – M. Cartabia AUTORECENSIONI Salvatore Prisco, Costituzione, diritti umani, forma di governo (2014) Fabio Dell’Aversana, Le libertà economiche in Internet: competition, net neutrality e copyright (2014)
Mezzogiorno e seggi europei quattro anni dopo la sentenza della Corte Costituzionale 271 del 2010* di Marco Betzu** (28 agosto 2014) Nelle elezioni europee del 2014 il Ministero dell’Interno finalmente ha distribuito i seggi tra le cinque circoscrizioni in proporzione alla rispettiva popolazione, come previsto dall’art. 2 della l. 18/1979, secondo indicazioni già proposte in riferimento a precedenti votazioni (cfr. Betzu – Ciarlo, La sottrazione dei seggi europei al Mezzogiorno, in Giur. cost., 2010, 903 ss.). Invece, in nome dell’art. 21.1, n. 3, della stessa l. 18/1979, per oltre trent’anni era stato utilizzato un complesso sistema di calcolo che, nell’assegnazione finale dei seggi alle liste concorrenti nelle singole circoscrizioni elettorali, finiva per utilizzare il diverso parametro dei votanti. Era facile notare l’antinomia tra le due disposizioni: quella generale e successiva (l’art. 2 della l. 18/’79 è stato sostituito dall’art. 1 della l. 61/1984) attribuiva i seggi in proporzione al numero degli abitanti, quella particolare e precedente (l’art. 21.1, n. 3) utilizzava un meccanismo di calcolo che conduceva a un risultato applicativo riferito ai votanti, portando a favorire le circoscrizioni con una maggiore affluenza al voto, di fatto le regioni del Nord Italia, alle quali veniva assegnato un numero di seggi superiore a quello ad esse spettante assumendo come base di calcolo gli aventi diritto al voto (cfr. Tarli Barbieri, La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni nelle elezioni europee: ovvero quando il Consiglio di Stato “riscrive” una legge elettorale, in Forum di Quaderni costituzionali - Rassegna, n. 6/2014). Il Tar Lazio, con ordinanza n. 1633/2009, sollevò questione di legittimità costituzionale della norma particolare di cui al citato art. 21. La Corte costituzionale preferì non decidere, dichiarando la questione inammissibile perché rimessa alla discrezionalità del legislatore (n. 271/2010). Giustamente si è parlato di un’occasione persa, di un non liquet (M. Esposito, Le circoscrizioni elettorali come elemento costitutivo della configurazione giuridica della rappresentanza politica, in Giur. cost., 2011, 2576 ss.). Non deve sorprendere allora che un ricorrente abbia voluto insistere dinnanzi al Consiglio di Stato, sviluppando le tesi da noi avanzate: che i seggi debbano essere distribuiti sulla base della popolazione residente nei territori è, del resto, un principio fondamentale della rappresentanza politica, cui è stata data attuazione anche in ordinamenti nei quali da tempo immemore era invalsa l’antica pratica del malapportionment, ossia il ritaglio dei * Scritto sottoposto a referee. 1
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collegi in maniera sproporzionata rispetto alla consistenza demografica (basti ricordare la riforma dei borghi putridi del 1832 in Gran Bretagna e la storica sentenza Baker v. Carr del 1962 della Corte Suprema degli Stati Uniti). Il Consiglio di Stato (sez. V, n. 2886/2011) ha accolto il ricorso, valorizzando il rinvio che l’art. 51 della l. 18 fa al d.P.R. 631/1957, il cui art. 83.1, n. 8, prevede una procedura di correzione che consente ad ogni circoscrizione di ottenere tanti seggi quanti quelli ad essa spettanti in base alla propria popolazione. La problematica involgeva due piani: quello politico istituzionale, incentrato sul fenomeno dello slittamento dei seggi da una circoscrizione all’altra; quello giuridico formale, riguardante la strada percorribile de iure condito per neutralizzarlo. Il fenomeno dello slittamento dei seggi è
da tempo stigmatizzato, evidenziandone la
portata distorsiva «della proporzione nella rappresentanza delle singole circoscrizioni» (Luciani, Il voto e la democrazia, 1991, 43). Pur trattandosi di una questione complessa, ritenere che l’inconveniente fosse di modeste dimensioni o di limitata rilevanza pratica (come scriveva Russo, Collegi elettorali ed eguaglianza del voto, 1998, 30) significava, tra l’altro, sottovalutarne gli effetti punitivi che sistematicamente si sono prodotti a carico delle circoscrizioni Meridione ed Isole, ove storicamente si è sempre registrata una minore affluenza al voto. Inoltre, a suo tempo abbiamo avuto modo di dimostrare come collegare l’attribuzione dei seggi all’effettiva percentuale dei votanti dia luogo a risultati applicativi connotati da inaccettabile casualità, perché dipendenti non soltanto dall’affluenza al voto nella singola circoscrizione, ma anche da quella registrata nelle altre. Non si tratta banalmente di affermare la prevalenza della rappresentanza territoriale su quella politica, ma, al contrario, di assicurare ad ogni cittadino che il suo voto abbia lo stesso valore a prescindere dalla circoscrizione in cui è espresso. Se è vero che «sono gli abitanti e non il territorio a dover essere rappresentati» (Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, 1991, 441), non è men vero che ancorare l’effettiva rappresentanza politica di una parte del Paese al criterio del divario partecipativo, rispetto alle altre, significa sotto-rappresentarne la popolazione. Basti pensare alla già richiamata variazione percentuale dei seggi assegnati alle regioni del Mezzogiorno in forza del meccanismo di cui all’art. 21.1, n. 3, rispetto a quelli attribuiti ex art. 2: circa -12,9% nel 1999, - 14,29% nel 2004, - 19,23% nel 2009 (riferimenti analitici in Betzu – Ciarlo, op. cit., 904 ss.). Sul piano giuridico formale non sembra condivisibile la tesi secondo cui il giudice amministrativo avrebbe fatto «diventare deputato europeo l’unico ricorrente che ha avuto l’ardire di insistere su tesi totalmente infondate», emettendo una decisione «totalmente 2
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arbitraria» o fondata su «argomentazioni interpretative e logiche che gridano vendetta al cielo» (Fusaro, Quando il Consiglio di Stato irride alla Corte costituzionale ovvero degli sberleffi di Palazzo Spada alla Consulta (e alla ragione), in Quad. cost., 2011, 657 ss.). Infatti il Consiglio di Stato ha desunto la prevalenza del principio dell’attribuzione dei seggi su base demografica sia dall’applicazione del criterio cronologico, sia dalla natura di disposizione di principio dell’art. 2. Nulla di rivoluzionario, pertanto, ma ordinaria attività ermeneutica delle disposizioni applicabili al caso concreto. Tanto è stato confermato dalle S.U. della Corte di Cassazione (n. 4769/2012) che, chiamate a verificare il rispetto da parte del Consiglio di Stato dei limiti esterni della sua giurisdizione, ne hanno escluso il superamento. Superamento che, ad onta di contrarie argomentazioni (cfr. Tarli Barbieri, op. cit.), è stato escluso dalle S.U. anche rispetto ai successivi passaggi concernenti l’individuazione di una susseguente lacuna legis ed il suo riempimento mediante l’integrazione della disciplina legislativa con quella dettata dal d.P.R. 361/1957, che pur non costituendo una soluzione costituzionalmente obbligata, era pur sempre la soluzione legislativamente prevista: «attività, queste, tutte riconducibili all’interpretazione della legge, secondo il dettato dell'art. 12, comma 2, delle disposizioni sulla legge in generale» (Cass., S.U., n. 4769/2012). Al di là delle considerazioni già da noi prospettate in passato e che sono state sostanzialmente recepite dalla giurisprudenza amministrativa, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e dal Ministero dell’Interno, deve sottolinearsi come il sistema che ne è risultato appare dotato di una superiore razionalità. Consentire uno slittamento dei seggi ex post, sulla base di variabili non conoscibili ex ante nella loro portata applicativa concreta, significava falsare il “gioco elettorale”, non consentendo nemmeno agli attori politici di determinarsi razionalmente nelle proprie strategie elettorali. Le competizioni elettorali possono essere considerate un gioco strategico competitivo, nel quale gli attori coinvolti sono giocatori razionali, potenzialmente in grado di scegliere l’opzione di valore più elevato. Ciò, però, è possibile solo se tutti agiscono all’interno di un quadro di regole i cui esiti applicativi abbiano un sufficiente grado di prevedibilità. Al contrario, ove questi siano incoerenti o contraddittori non soltanto la rappresentanza ne esce distorta, ma lo stesso gioco viene falsato. In tanto un sistema elettorale funziona, anche in quanto sia in grado di raggiungere il punto di equilibrio tra due principi potenzialmente confliggenti: quello della proporzionalità politica e quello della rappresentanza degli elettori residenti in un certo territorio (cfr. Pinelli, Eguaglianza del voto e ripartizione dei seggi tra circoscrizioni, in Giur. cost., n. 3
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4/2010, 3322 ss.). Sacrificare del tutto il secondo significa vulnerare un «tassello ineliminabile della democrazia» (Bin, Rappresentanti di cosa? Legge elettorale e territorio, in le Regioni, n. 4/2013, 662), ma anche favorire inedite contiguità tra radicalismi etnico territoriali e populismi (cfr. Ciarlo, Voto europeo e trasformazioni delle affinità politiche, in Forum di Quaderni costituzionali - Rassegna, n. 6/2014), minando alla radice le basi stesse della rappresentanza politica. In occasione delle elezioni europee del 2014 l’incoerenza del sistema è stata finalmente eliminata, nel senso da noi auspicato quattro anni fa. Conformandosi al parere espresso dalla I sezione del Consiglio di Stato (n. 4748/2013), il Ministero dell’Interno ha applicato la disciplina correttiva prevista per la Camera dei deputati dall’art. 83.1, n. 8 del d.P.R. 361/1957, neutralizzando la già denunciata portata discriminatoria che era propria dell’art. 21.1, n. 3. Una scelta giuridicamente corretta, che ripristina il diritto dopo una lunga fase politica segnata da pratiche volte a favorire surrettiziamente una parte del Paese.
** Ricercatore t.d. di Diritto costituzionale nell’Università di Cagliari Il presente articolo è stato prodotto durante l’attività di ricerca finanziata con le risorse del P.O.R. SARDEGNA F.S.E. 2007-2013 - Obiettivo competitività regionale e occupazione, Asse IV Capitale umano, Linea di Attività l.3.1 “Avviso di chiamata per il finanziamento di Assegni di Ricerca”.
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L’intelligence italiana a sette anni dalla riforma di Adriano Soi* (3 settembre 2014) La riforma dell’intelligence italiana ha compiuto sette anni: il ”Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica” fu infatti istituito dalla legge 3 agosto 2007, n. 124, approvata con ampio consenso parlamentare, mentre addirittura all’unanimità, e in sede legislativa in entrambi i rami del Parlamento, è stata approvata la legge 7 agosto 2012, n. 133, che ha ritoccato alcuni importanti aspetti della riforma e ha rafforzato le attività di informazione a tutela delle infrastrutture critiche e della sicurezza informatica nazionale Non si è trattato, dunque, di una “riforma della riforma”: il legislatore non è tornato sui propri passi ma, al contrario, ha concluso il lavoro iniziato nel 2007, definendo compiutamente il disegno del “Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica”. L’idea di “sistema” - principio ispiratore del nuovo modello di organizzazione dell’intelligence italiana - e il potenziamento dei poteri del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) si sono progressivamente confermati, in questo primo settennio di vigenza della riforma, come i due pilastri su cui è basato l’edificio progettato nelle sue linee fondamentali dal legislatore del 2007 e completato da una nutrita serie di regolamenti attuativi, approvati dal Governo dopo aver acquisito, ed in larga parte recepito, i pareri espressi dal Comitato parlamentare (cfr. la relazione al Parlamento licenziata dal COPASIR il 23 gennaio del 2013 e pubblicata negli Atti parlamentari come Doc. XXXIV n. 7). Il vecchio modello costruito dalla legge n. 801 del 1977 – due Servizi dipendenti da due Ministri, sottoposti a un debole potere di coordinamento del Presidente del Consiglio dei Ministri e ad un ancor più debole controllo parlamentare – era figlio della Guerra Fredda, un tempo in cui la dimensione della sicurezza nazionale era innanzitutto e soprattutto militare. Ciò giustificava l’esistenza di un Servizio d’informazione interamente militare (il SISMI) operante in un regime di forte separatezza rispetto a quello civile (il SISDE), impegnato nella diversa, ma altrettanto ardua missione di contrasto al terrorismo e all’eversione. Tuttavia, dopo la caduta del muro di Berlino, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, quel modello perse rapidamente ragion d’essere, perché sempre meno rispondente alle nuove caratteristiche della “minaccia” e completamente inadatto a far 1
uscire i Servizi da un passato in cui l’aggettivo “segreto” evocava accuse e sospetti di deviazioni dai fini istituzionali molto di più di quanto non rinviasse alle imprescindibili esigenze della sicurezza nazionale. La riforma prese atto, con buona visione strategica, del mutamento dei tempi, segnato dall’instaurarsi di uno scenario mondiale ormai multipolare dal punto di vista della sicurezza e totalmente globalizzato dal punto di vista economico. La “minaccia” stava diventando sempre più globale e asimmetrica (cioè portata anche da attori non statali, dal terrorista allo hacker) e riguardava sempre meno la dimensione territoriale della sovranità, mandando definitivamente in pensione la difesa della soglia di Gorizia e prendendo di mira, invece, le infrastrutture critiche del Paese così come le sue proiezioni internazionali, tanto pubbliche che private, il patrimonio tecnologico delle sue aziende o la sua capacità di garantirsi un adeguato approvvigionamento energetico. Tutto ciò era sicuramente ben presente al legislatore quando ha scritto le due normechiave della legge n. 124 del 2007, vale a dire gli articoli 6 e 7, che ampliano, in maniera perfettamente simmetrica, le missioni delle due Agenzie di informazione. All’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) accanto e oltre alla ricerca di tutte le informazioni “utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica, anche in applicazione di accordi internazionali, dalle minacce provenienti dall’estero” – formula che riprende assai da vicino quella usata per il SISMI dalla vecchia legge 24 ottobre 1977, n. 801 – vengono infatti attribuite le attività informative oltre confine “a protezione degli interessi politici, militari, economici, industriali e scientifici dell’Italia”. Questo stesso elenco di finalità della ricerca informativa viene affiancato per l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI) al compito di ricercare “tutte le informazioni utili a difendere, anche in attuazione di accordi internazionali, la sicurezza interna della Repubblica e le istituzioni democratiche poste dalla Costituzione a suo fondamento, da ogni minaccia, da ogni attività eversiva e da ogni forma di aggressione criminale”, formula che riecheggia quella contenuta nella legge n. 801 per indicare le missioni del SISDE. Il cuore della riforma è qui, in quest’ampia elencazione di interessi alla cui tutela l’intelligence è chiamata a concorrere fornendo al Governo il proprio supporto normativo.
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Non sembra azzardato rinvenire in tale elenco la prima declinazione legislativa, dal 1948 a oggi, dell’interesse nazionale, estesa dalla tradizionale dimensione politicomilitare a quella economica, messa progressivamente in primo piano dalla competizione globale. Torna alla mente un passo della sentenza n. 86 del 1977, nel quale la Corte costituzionale identificava il fondamento del segreto politico-militare nei “supremi interessi che valgono per qualsiasi collettività organizzata a Stato” e “possono coinvolgere la esistenza stessa dello Stato”; “interessi istituzionali”, sottolineava ancora la sentenza, che “devono attenere allo Stato-comunità e, di conseguenza, rimangono nettamente distinti da quelli del Governo e dei partiti che lo sorreggono”. La Corte pur non usando direttamente l’espressione “interesse nazionale”, ne richiama il nucleo indefettibile mediante il ricorso alla classica formula ciceroniana della salus rei pubblicae e non la riferisce solo allo “Stato-ordinamento” ma anche allo Stato-comunità. Per un verso, dunque, la sentenza mette in risalto come questo interesse rivesta carattere “istituzionale”, si ponga come “un interesse costituzionale superiore” ed esuli nettamente dall’indirizzo politico contingente, legato a Governi e maggioranze. D’altro canto, se ben si guarda, il riferimento allo “Stato-comunità” anticipa il dibattito scientifico e l’evoluzione politica che nel mondo occidentale, a partire dagli anni Ottanta, hanno condotto al progressivo ampliamento delle nozioni di interesse nazionale e di sicurezza nazionale, estendendole oltre l’originario ambito “politico e militare” – classicamente riferito alla difesa dello Stato-ordinamento e dei suoi elementi costitutivi fino ad includere interessi di natura economica, scientifica e industriale. Questo è proprio il “perimetro” tracciato dalla legge n.124 del 2007 per inscrivervi le nuove missioni dell’intelligence italiana, un perimetro in cui si muovono soggetti pubblici e privati e che coincide, in buona sostanza, con lo spazio dello Stato- comunità. Rileggendo oggi la sentenza n. 86 del 1977, troviamo così complessivamente delineata e posta alla base della sicurezza nazionale quell’idea che oggi siamo soliti sintetizzare descrittivamente nell’espressione “sistema-Paese”; il sistema-Paese chiamato in causa dalla competizione globale almeno quanto questa coinvolge le singole imprese, il sistema-Paese portatore del complesso degli interessi nazionali alla cui difesa i Servizi di intelligence sono chiamati dalla legge a concorrere fornendo informazioni ai decisori di Governo Come dicevamo, questo appare, ogni giorno di più, il quadro di riferimento tenuto presente dal legislatore nell’improntare la riforma all’idea di “sistema”. 3
Se il perimetro da difendere è quello descritto – ampio, complesso, articolato, fatto di istituzioni, ministeri, installazioni militari, apparati e aziende pubbliche, ma anche di imprese private di rilevanza strategica, di infrastrutture critiche sia pubbliche che private, e via elencando - e se la minaccia è quella che abbiamo prima delineata globale quanto alla provenienza, trasversale per settori interessati e asimmetrica quanto agli attori - i Servizi non possono più operare come “monadi” e devono rinunciare
ad
una
applicazione
indiscriminata,
“a
tappeto”
del
binomio
riservatezza/separatezza. Per massimizzare, in quantità e qualità, le acquisizioni informative occorre, in primo luogo, saper “mettere a sistema” tutte le informazioni disponibili per trasformarle in conoscenza. A questo fine mira l’istituzione del “Sistema di informazione per la sicurezza”, in cui il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) posto alle dipendenze del Presidente del Consiglio dei ministri, ha innanzitutto il compito di portare a sintesi unitaria l’attività di ricerca informativa delle due Agenzie. La seconda, fondamentale novità introdotta dalla riforma, è la previsione di una fitta trama di relazioni tra il Sistema-intelligence e il resto della Pubblica Amministrazione (Forze Armate e di polizia, ministeri, amministrazioni pubbliche, enti, anche a ordinamento autonomo ed enti ricerca, sia pubblici che privati) per consentire al primo di acquisire, e in qualche caso anche fornire, informazioni utili alla sicurezza della Repubblica. E’ evidente che questa trama di relazioni deve essere sviluppata mantenendo i necessari livelli di sicurezza, ciò che pone problemi inediti e, certamente, rende i Servizi un po’ meno “segreti”. E tuttavia, se questo è un prezzo, merita di essere pagato: infatti, solo ripensando l’intelligence per quello che è - un settore della Pubblica Amministrazione, collegato con gli altri e come gli altri tenuto ad operare in base alla legge, pur svolgendo attività “non convenzionali” – è oggi possibile realizzare quelle sinergie informative indispensabili per garantire al sistema-Paese una cornice informativa di sicurezza adeguata ai tempi. I rischi aggiuntivi, in termini di tenuta della sicurezza delle informazioni, che certamente si affrontano in questo modo, sono largamente bilanciati dal guadagno, in termini di legittimazione, che ai Servizi deriva da una maggiore conoscenza delle loro attività da parte degli altri settori dell’Amministrazione e dell’opinione pubblica. In questo stesso senso, sia pure su un diverso piano, opera il controllo parlamentare, l’altro pilastro della riforma: l’esistenza di un soggetto di alto livello politico-istituzionale, 4
impegnato nella verifica - “in modo sistematico e continuativo” (art. 30, comma, 2 della legge n. 124 del 2007) e con strumenti assai più incisivi che in passato - della rispondenza dell’attività degli organismi informativi al dettato costituzionale e legislativo, nonché all’”esclusivo interesse” della Repubblica - rappresenta una fondamentale garanzia di trasparenza nei confronti di tutta l’opinione pubblica, rafforzando l’applicazione del principio-base degli ordinamenti democratici, in virtù del quale il “segreto” rappresenta l’eccezione alla regola generale della pubblicità. Una riforma che incide così profondamente su assetti e rapporti da cui dipende in larga misura la sicurezza della Repubblica, difficilmente può affermarsi se non è accompagnata da una nuova cultura. Quella “cultura della sicurezza” di cui parla espressamente la riforma affidandone al DIS la “promozione e diffusione”, con una norma assolutamente innovativa per la comunità intelligence italiana. Sulla scorta di fortunate esperienze straniere (ad esempio quelle maturate in Canada, Stati Uniti, Spagna e Romania) il DIS ha interpretato lo svolgimento di questa missione nella forma di un’“apertura” verso il mondo accademico, volta a creare collaborazioni con i singoli atenei per la messa a punto di iniziative formative riguardanti l’ intelligence e la sicurezza nazionale. In tale quadro si inserisce anche la serie di conferenze tenute dai vertici politicoistituzionali del Sistema di informazione in diverse sedi universitarie, per favorire la conoscenza dell’organizzazione e delle missioni dell’intelligence nazionale. Grazie a questo lavoro e alla maggiore disponibilità di documenti pubblici riguardanti i Servizi di informazione che offrono materiale di studio e dibattito (le relazioni annuali del Governo e del COPASIR, i documenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri sulla sicurezza informatica e cibernetica del Paese, gli interventi pubblici dei Presidenti del Consiglio dell’ultimo triennio) sta ora crescendo il numero di insegnamenti, corsi di perfezionamento e master in materia di intelligence e sicurezza attivi nelle nostre Università, pubbliche e private. Il cammino è ancora lungo ma la via è tracciata. * Prefetto, responsabile della comunicazione istituzionale del Dipartimento informazioni per la sicurezza
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La “nuova” Provincia: l'avvio di una rivoluzione nell'assetto territoriale italiano di Mario Gorlani* (31 agosto 2014) SOMMARIO: 1. L’ondivago percorso di riforma dell’ente di area vasta – 2. La legge Delrio: le Province (per il momento) non vengono abolite, ma trasformate – 3. Profili di criticità costituzionale della nuova disciplina - 4. La forma di governo della nuova Provincia e il sistema elettorale del Presidente e del Consiglio – 5. Le funzioni della nuova Provincia – 6. Conclusioni 1. L’ondivago percorso di riforma dell’ente di area vasta Anni, anzi decenni di tentativi di intervento sull’organizzazione territoriale del nostro Paese e, in particolare, sulla sorte delle Province 1, hanno da ultimo portato all’approvazione della legge n. 56 del 7 aprile 2014 (cosiddetta “legge “Delrio”) che, in attesa dell’annunciata revisione – ad oggi in itinere – del Titolo V della Costituzione2, ridisegna (e ridimensiona) l’identità istituzionale dell’ente provinciale, nel suo profilo politico-rappresentativo, nella sua forma di governo e nelle competenze che sarà chiamato ad esercitare. Sarebbe vano, però, cercare nelle riforme degli ultimi anni una linea di continuità con la nuova normativa, perché la legge Delrio segna un deciso cambio di rotta, addirittura opposta, a quella impressa da molte, se non da tutte, le ultime leggi in materia (legge 142 del 1990; legge 81 del 1993; legge 59 del 1997 e d.lgs. 112 del 1998; l. cost. 3 del 2001), che hanno implementato la dimensione provinciale, in nome dei principi di sussidiarietà e adeguatezza. Con la riforma del Titolo V e con le riforme legislative e amministrative degli anni ’90, infatti, si é rafforzato il ruolo delle Province, valorizzandone il profilo politico, mediante l’elezione diretta del loro presidente, e arricchendone il catalogo delle funzioni, sia di programmazione e pianificazione territoriale, sia di quelle più direttamente operative nei settori della edilizia scolastica, della formazione professionale, del turismo, della caccia e della pesca, della viabilità, dei trasporti, dell’ambiente e dei rifiuti, del lavoro; le stesse Regioni, tradizionalmente diffidenti nei confronti delle Province, non hanno esitato a subdelegare a queste ultime molte nuove competenze di cui sono state investite a partire dal d.lgs. 112 del 1998 e dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 3. Ciò, peraltro, in linea con l’esperienza della 1
Per una ricostruzione di tali tentativi cfr. C. SPERANDII, La ristrutturazione territoriale e istituzionale delle Province italiane, in www.issirfa.cnr.it. 2 Come noto, il disegno di legge costituzionale approvato in prima lettura dal Senato l’8 agosto 2014, oltre alla riforma del Titolo V, contiene disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL. 3 Per avere un’idea, in Lombardia sono oltre 100 le deleghe conferite mediamente dalla Regione alle Province, a cui si aggiungono le numerose funzioni proprie derivanti da leggi dello Stato. Numeri analoghi si ritrovano anche nelle altre Regioni.
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maggioranza dei Paesi europei4 e con il pensiero di non pochi studiosi, che hanno difeso (e continuano a difendere) l’importanza della Provincia quale essenziale elemento organizzativo delle funzioni a livello locale 5. La spinta decisiva ad un ridimensionamento, se non addirittura ad una abolizione, delle Province, anche se può vantare ascendenze lontane, risalenti all’epoca della Costituente6, è quindi molto più recente 7, a partire da metà della XVI legislatura, in coincidenza con l’aggravarsi della crisi del nostro debito pubblico. Da lì prende le mosse un percorso che giunge in breve “ad un punto di non ritorno”8 e che si sostanzia prima, nella XVI legislatura, in una serie di interventi legislativi d’urgenza, mai però attuati per l’intervento della Corte costituzionale; e poi, nel corso della corrente legislatura, nella legge Delrio; come se, dopo decenni di un’inerziale propensione all’espansione delle funzioni provinciali9, il legislatore, convinto dalla situazione emergenziale dei conti pubblici, avesse trovato il colpo di reni necessario per invertire la tendenza, e per dare finalmente corpo ad un progetto risalente, maturo nei tempi ma mai attuato 10. Sarebbe utile fermarsi a riflettere sulle ragioni di un così prolungato immobilismo riformatore, e addirittura di un indirizzo legislativo degli anni passati antitetico rispetto ai propositi che l’avevano animato; e ci si dovrebbe domandare se la difficoltà di abolire o trasformare prima di oggi le Province sia stata il frutto di una sorta di schizofrenia legislativa, o delle normali e ordinarie resistenze che 4
La maggioranza dei Paesi europei conosce il secondo livello locale (19 su 28, gli altri 9 sono Paesi di piccole dimensioni o con una tradizione amministrativa particolare). In 17 su 19 il secondo livello locale è elettivo, e non è di secondo grado. Solo in Spagna e Finlandia gli organi di governo sono eletti indirettamente (dai consiglieri dei comuni compresi nel territorio provinciale), ma ciò dipende dal fatto che la Provincia svolge in realtà compiti comunali, soprattutto a favore dei Comuni più piccoli: cfr., su questo dato, il volume di Astrid “Semplificare l’Italia. Stato, Regioni, Enti locali”, a cura di F. BASSANINI e L. CASTELLI, 2007. Come spesso accade in occasione di riforme di sistema, la comparazione con gli altri Paesi cattura l’attenzione degli studiosi: cfr. C. BACCETTI, Il ruolo dell’ente intermedio in Europa, Caratteri istituzionali e politici del livello di governo intermedio in alcuni paesi europei (Belgio, Francia, Germania, Polonia, Regno Unito e Spagna). Spunti introduttivi ad una comparazione con l’Italia, www.upitoscana.it. 5 Cfr., tra gli altri, G. C. DE MARTIN, Un ente strategico, ancorché misconosciuto: la Provincia. Audizione davanti alla I commissione della Camera 30 luglio 2009, in www.federalismi.it, n.17/2009, che sottolinea “la configurazione della Provincia come comunità territoriale: il che rappresenta un dato oggettivo e non artificiale, ossia legato ad un substrato socio-politico di appartenenza collettiva unitaria, con una precisa identità (che si atteggia ovviamente in modo parzialmente diverso nelle aree metropolitane)”. 6 Per una sintesi del dibattito in Assemblea costituente cfr. S. MANGIAMELI, La Provincia, l’area vasta e il governo delle funzioni nel territorio. Dal processo storico di formazione alla ristrutturazione istituzionale, in www.issirfa.cnr.it., 3-4. 7 Tanto che nel disegno di legge per l’approvazione del Codice delle autonomie locali, risalente al novembre 2009, il catalogo delle funzioni fondamentali delle Province viene integralmente confermato. 8 Così B. CARAVITA e F. FABBRIZZI, Riforma delle Province. Spunti di proposte a breve e lungo termine, in www.federalismi.it, n. 2/2012. 9 M. DI FOLCO, Le Province al tempo della crisi, in www.rivistaaic.it, parla di una “fase recessiva del principio autonomistico, in netta contrapposizione con la stagione che, dagli anni novanta dello scorso secolo, ne aveva viceversa visto la progressiva concretizzazione, dapprima sul piano della legislazione ordinaria e poi su quello delle regole costituzionali”. 10 Cfr., tra i molti che sono intervenuti sul tema in questi anni, T. GROPPI, Soppressione delle Province e nuovo Titolo V (Audizione davanti alla I Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, 30 luglio 2009), in www.federalismi.it, n.15/2009, che parla di “annosa questione della soppressione della Province … che ciclicamente si ripresenta fin dagli albori del Regno d’Italia per attraversare l’Assemblea costituente e il dibattito sulla organizzazione territoriale dello Stato nell’epoca repubblicana”. Cfr., anche L. VANDELLI, Poteri locali, Bologna, 1990, 289.
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accompagnano qualsiasi riforma di sistema, oppure ancora se non sia la conseguenza di un’oggettiva necessità dell’ente, non surrogabile mediante forme associative tra Comuni o altre circoscrizioni di decentramento territoriale, come insegna l’esperienza deludente dei comprensori negli anni ’70, nella prima stagione di avvio dell’esperienza delle Regioni ordinarie 11. E’ un dato, infatti, che un numero sempre crescente di servizi amministrativi diffusi sul territorio individuano in forme di aggregazione sovracomunale la loro dimensione necessaria, se non ottimale: dal servizio idrico alle reti di distribuzione del gas; dal trasporto locale alla localizzazione delle discariche; dai piani cave alle aziende speciali consortili per i servizi alla persona; dalla pianificazione territoriale alle politiche ambientali 12; a riprova di un crescente ampliamento di prospettiva nella gestione delle funzioni amministrative locali, frutto di uno sviluppo demografico e urbanistico che da tempo, e non solo intorno ai principali centri urbani, ha reso evidente l’inadeguatezza delle storiche circoscrizioni comunali13. Storicamente le Province sono nate e si sono affermate come il livello tipizzato del decentramento amministrativo statale, sul modello dei dipartimenti francesi, con a capo il prefetto e con un profilo marcatamente burocraticofunzionale, il cui scopo, secondo la legge Rattazzi n. 3702 del 23 ottobre 1859 che per prima le aveva istituite, era quello di assicurare che “da qualunque luogo del territorio fosse possibile arrivare al centro dell’amministrazione, ossia al capoluogo, in una giornata di viaggio” 14; con circoscrizioni che combinavano ragioni storico-geografiche, assetti urbanistico-demografici e opzioni di razionalità amministrativa15: in altre parole, i confini delle Province furono definiti sulla base di tradizioni di natura storica, ma anche di una naturale gravitazione di determinate comunità intorno ad un capoluogo di riferimento 16, nonché di più cartesiane ragioni di omogeneità dimensionale e demografica. 11
Per un riferimento alla ratio della istituzione dei comprensori si veda F. BASSANINI, Le Regioni tra Stato e comunità locali, Bologna, 1976, 323 ss. 12 Ma proprio questa diversa articolazione delle funzioni pubbliche pone il problema della loro dimensione geografica di gestione, che varia da settore a settore: così R. BIN, Il nodo delle Province, cit., 17; e tale variabilità pone, a sua volta, il problema della adeguatezza della Provincia a fare da unico punto di riferimento per ciascuna di esse. 13 La questione della dimensione inadeguata dei livelli territoriali esistenti, sia di quello comunale sia di quello provinciale, rispetto alla gran parte dei servizi e degli interventi attribuiti alla competenza locale, ha sempre rappresentato il nodo critico con cui qualunque ipotesi di riforma si è dovuta confrontare: si veda, in questo senso, ancora F. BASSANINI, Le Regioni tra Stato e comunità locali, cit., 323-324, secondo cui “nel presente assetto dell’amministrazione locale, com’è noto, i Comuni presentano dimensioni molto disomogenee (anche in relazione a fattori storici connessi allo sviluppo dell’amministrazione locale negli ordinamenti preunitari) e talora insufficienti rispetto alla dimensione ottimale di gran parte dei servizi e degli interventi attribuiti alla competenza comunale; mentre le Province rappresentano, non di rado, nell’attuale configurazione, circoscrizioni artificiali, non coincidenti neppure esse (di solito per eccesso) con aree territoriali adeguate allo svolgimento ottimale di servizi o interventi «di area vasta»”. Di qui la proposta di dar vita a Province-comprensori, di numero superiore a quello attuale, dimensionate più correttamente rispetto alle esigenze di programmazione e gestione dei servizi di area vasta. 14 Così G. C. DE MARTIN, Un ente strategico, ancorché misconosciuto: la Provincia, cit., 8. 15 Come osserva ancora R. BIN, Il nodo delle Province, cit., “siccome i comuni sono un capillare con cui il sistema burocratico comunica con il sistema democratico, e quindi può essere un luogo critico per l’assetto dei pubblici poteri e per la tutela della legalità, a livello di Provincia si era organizzato anche l’apparato di controllo sulle attività dei Comuni. In questa veste, è giusta una ripartizione razionale – demografica e geografica – del territorio, e una identità delle funzioni”.
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Muovendo dal decentramento delle funzioni statali è risultato naturale identificare le Province, per evitare dispendiose duplicazioni e problematici conflitti, anche come la naturale dimensione dell’ente di area vasta, con una progressivamente crescente fisionomia politico-rappresentativa, sia in virtù dell’elezione diretta dei suoi organi di governo, sia in ragione dell’attribuzione di funzioni e competenze che comportavano scelte di natura politica 17. La Provincia, quindi, ha continuato ad esistere – e, se così si può dire, a prosperare, visti alcuni eccessi moltiplicatori, derivanti da spinte puramente localistiche, che hanno portato le Province a crescere da 92 a 110 in pochi anni – per fare da punto di caduta del decentramento amministrativo statale e regionale e, contestualmente18, per dare un’entificazione politica agli interessi di area vasta, nella consapevolezza che la “polverizzazione” dei Comuni, specie in alcune Regioni settentrionali, imponesse forme di coordinamento, di pianificazione e di gestione allargata dei servizi. Ciò nonostante, mentre si è andata rafforzando nella sua identità politicoistituzionale, la Provincia è stata il primo obiettivo polemico dei propositi di riforma dell’assetto territoriale. Se ne discusse a lungo in assemblea costituente, con l’idea di abolirla; se ne è parlato nei decenni successivi, in particolare con l’istituzione, nel 1970, delle Regioni ordinarie, che sembravano togliere spazio alle Province e che, peraltro, nell’organizzazione decentrata delle loro funzioni, tentarono esperienze di decentramento alternative, come i comprensori. Poi, dopo quasi un ventennio (1990-2008) nel quale le Province hanno visto crescere il loro ruolo, si è ricominciato a ipotizzare, con insistenza, un loro ridimensionamento nella XVI legislatura, quando, all’insegna di proclamate ed indifferibili esigenze di risparmio e spending review19, la Provincia è tornata all’attenzione del legislatore, nell’ambito della copiosa legislazione emergenziale di questi anni, dettata dalla crisi economica e finanziaria, il cui filo conduttore è stato una supposta esigenza di riduzione dei costi, più che un’esigenza di riordino 16
Parla di gravitazione tra il territorio in cui sono disseminati gli enti di primo livello, i comuni, e il centro urbano più importante, il capoluogo, G. C. DE MARTIN, Un ente strategico, cit., 2. 17 Lo sottolinea R. BIN, Il nodo delle Province, cit. 18 Una delle novità introdotte dalla legge Delrio è però, in prospettiva, il venir meno della coincidenza tra circoscrizioni di decentramento statale e dimensione dell’area vasta di esercizio delle funzioni locali: ai sensi dell’art.1, co. 147, infatti, “fermi restando gli interventi di riduzione organizzativa e gli obiettivi complessivi di economicità e di revisione della spesa previsti dalla legislazione vigente, il livello provinciale e delle città metropolitane non costituisce ambito territoriale obbligatorio o di necessaria corrispondenza per l'organizzazione periferica delle pubbliche amministrazioni. Conseguentemente le pubbliche amministrazioni riorganizzano la propria rete periferica individuando ambiti territoriali ottimali di esercizio delle funzioni non obbligatoriamente corrispondenti al livello Provinciale o della città metropolitana”. Peraltro, ai sensi del successivo co. 148, “le disposizioni della presente legge non modificano l'assetto territoriale degli ordini, dei collegi professionali e dei relativi organismi nazionali previsto dalle rispettive leggi istitutive, nonché delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura”. Si profila così il rischio di una notevole disomogeneità nella distribuzione territoriale dei vari servizi, che imporrà al legislatore uno sforzo supplementare di razionalizzazione. 19 Cfr. S. MANGIAMELI, La Provincia, l’area vasta e il governo delle funzioni nel territorio, cit., 7, che nota che il quadro costituzionale definito con la riforma del Titolo V avrebbe necessitato di una coerente attuazione da parte soprattutto del legislatore statale, ma, in realtà, “il processo riformatore si è arrestato subito dopo la revisione costituzionale del Titolo V e dal 2001 ad oggi, alla mancata attuazione della riforma costituzionale, testimoniata ancora in questa legislatura dalle vicende del ddl sulla carta delle autonomie, si è aggiunta la crisi economica che ha generato una legislazione dai contenuti economico-finanziari, ma che non ha esitato ad agire anche sui profili istituzionali.”
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dell’assetto territoriale italiano20. Sulla spinta di una battente vulgata mediatica, le Province (ma anche le Regioni e i Comuni) sono state presentate e percepite, più che nella loro dimensione di enti di valorizzazione della partecipazione democratica, come “una diseconomia da eliminare con le decisioni radicali necessarie a fronteggiare l’emergenza”21. Il primo provvedimento22 che nella scorsa legislatura ha perseguito l’obiettivo del depotenziamento e della progressiva dismissione della Provincia è stato il decreto-legge n. 201 del 6 dicembre 2011 (c.d. decreto “Salva Italia”), approvato dal governo Monti e convertito nella l. n. 214 del 22 dicembre 2011. Con esso si è disposta la cancellazione dell’elezione diretta degli organi provinciali di governo, la drastica riduzione del numero dei consiglieri provinciali 23 e la soppressione delle relative giunte; e, per altro verso, un sostanziale svuotamento delle funzioni attribuite alla Provincia. Quanto alle funzioni, sarebbero rimaste in capo alla Provincia esclusivamente quelle di indirizzo politico e di coordinamento delle attività dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze: tutte le altre sarebbero dovute essere trasferite ai Comuni, “salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza” (art. 23, co. 18, d.l. 201/2011). Il d.l. n. 201 del 2011 ha suscitato l’immediata reazione di molte Regioni, che l’hanno impugnato innanzi alla Corte costituzionale, tanto da indurre il governo Monti a cambiare completamente strategia: il d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (nel testo risultante dalla legge di conversione n. 135 del 7 agosto 2012), nel determinarne le funzioni fondamentali, ha segnato il recupero alla Provincia di alcune competenze di area vasta; al contempo, però, ha optato per “un complesso procedimento di razionalizzazione territoriale ispirato a criteri di ottimalità dimensionale e demografica” 24. L’opzione del legislatore del 2012, in altre parole, è andata nel senso di conservare le Province nella loro caratterizzazione tradizionale e di conseguire gli auspicati risparmi mediante una loro riduzione di numero (tanto che le Province delle Regioni ordinarie passano, nel progetto, da 86 a 54). I criteri, definiti nella delibera del Consiglio dei ministri del 20 luglio 201225, sono stati poi riversati nell’art. 2 del d.l. 5 novembre 2012, n. 20
Parla di “legislazione emergenziale della XVI legislatura” A. DEFFENU, Il ridimensionamento delle Province nell’epoca dell’emergenza finanziaria tra riduzione delle funzioni, soppressione dell’elezione diretta e accorpamento, in www.osservatoriosullefonti.it, fasc. 3/2012. 21 Cfr. S. STAIANO, Le autonomie locali in tempi di recessione: emergenza e lacerazione del sistema, in www.federalismi.it, n. 17/2012, 1 ss. 22 In precedenza c’erano stati altri interventi di portata più circoscritta, volti ad incidere soltanto sulla composizione numerica degli organi di governo provinciale. 23 In particolare il comma 16 dell’art. 23 aveva previsto che il consiglio provinciale fosse composto da non più di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia, mentre il successivo comma 17 stabiliva che il presidente della Provincia fosse eletto dal consiglio provinciale tra i suoi componenti. 24 Cfr. la deliberazione del Consiglio dei ministri 20 luglio 2012, che indica in 2500 kmq la dimensione minima e in 350.000 abitanti il numero minimo di popolazione residente. 25 Tra i tanti profili di dubbia legittimità costituzionale del processo di riforma delle Province della XVI legislatura, il più eclatante è consistito nell’aver affidato ad una delibera del Consiglio dei ministri la determinazione dei criteri di riduzione e accorpamento delle Province, che solo successivamente è stato riversato in un decreto-legge.
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188; ma il decreto legge è stato lasciato cadere senza conversione a fine legislatura, anche per le accese opposizioni politiche che esso ha suscitato, specialmente da parte delle Province interessate. La stagione delle riforme provinciali, coincidente con l’ultima parte della XVI legislatura, è così finita su un binario morto, anche perché la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 220/201326, ha reso giustizia della fretta con cui il Governo e il Parlamento avevano agito, dichiarando l’illegittimità costituzionale sia dell’art. 23 del d.l. 201 del 2011, sia degli artt. 17 e 18 del d.l. 95 del 2012, appuntando le sue censure principalmente – se non esclusivamente – sulla violazione dell’art. 77 Cost.: “il decreto-legge, infatti, è un atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, e non è strumento normativo utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate nel presente giudizio”. All’aprirsi della XVII legislatura, dunque, i tentativi di riformare le Province erano tutti falliti, ancorché il tema restasse al centro del dibattito politico 27. 2. La legge Delrio: le Province (per il momento) non vengono abolite, ma trasformate Con l’insediamento del governo Letta all’inizio della XVII legislatura il tema della riforma delle Province è stato ripreso e rilanciato 28. Abbandonati i propositi di riduzione/razionalizzazione demografica e geografica delle Province esistenti, e solo temporaneamente quelli di abolizione 29, si è tornati alla configurazione della Provincia come ente di secondo livello, secondo l’impostazione propria del d.l. n. 201 del 2011, con organi di governo eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali del territorio, titolare di poche competenze gestionali dirette e, soprattutto, di funzioni di coordinamento, supporto e pianificazione delle funzioni comunali.
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La sentenza n. 220 del 2013 della Corte costituzionale può leggersi in Giur. Cost., 2013, 3157 ss., con note di N. MACCABIANI, Limiti logici (ancor prima che giuridici) alla decretazione d’urgenza nella sentenza della corte costituzionale n. 220 del 2013, e di G. SAPUTELLI, Quando non è solo una “questione di principio”. I dubbi di legittimità non risolti della “riforma delle Province”. 27 Nei programmi delle forze politiche per le elezioni del febbraio 2013 l’abolizione delle Province mediante modifica costituzionale, compare nel programma del PDL, del Movimento 5 Stelle, di Scelta Civica e della Lega Nord. Invece, “per quanto attiene l’ente intermedio il PD ritiene che le sue funzioni mantengano ancora oggi attualità e che si debba semmai aprire una approfondita riflessione, guardando alle migliori esperienze europee sulla forma più innovativa e capace di dare risultati”. I programmi sono riportati all’indirizzo http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/25_elezioni. 28 Il 20 agosto 2013 il governo Letta ha presentato alla Camera il disegno di legge C. 1542, intitolato "Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni", che è stato approvato in prima lettura il 21 dicembre 2013, approvato con modifiche dal Senato il 26 marzo 2014 e poi approvato definitivamente in seconda lettura dalla Camera il 3 aprile 2014, dopo l’insediamento del governo Renzi. 29 Come spiega la Relazione accompagnatoria del disegno di legge n. 1542, “la premessa fondamentale che orienta tutto il disegno di legge … è di anticipare la prospettiva contenuta nel disegno di legge costituzionale deliberato dal Governo nel Consiglio dei ministri del 5 luglio 2013. Tale testo reca il titolo di abolizione delle Province e prevede che, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale, le modalità e le forme di esercizio delle loro funzioni siano individuate da parte dello Stato e delle Regioni, sulla base di una legge dello Stato che definirà criteri e requisiti generali”.
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E’ da queste premesse che nasce la legge Delrio, che – nella non insolita tecnica legislativa italiana della provvisorietà 30 – si avvia a trasformare le Province in enti ben diversi da quelli che conosciamo. La legge n. 56 del 2014 non abolisce le Province e non ne ridisegna i confini territoriali, ma si limita a innovare radicalmente la loro forma di governo e a ridefinire il perimetro delle loro competenze. Essa positivizza i proclami elettorali delle principali forze politiche, ancorché si muova in controtendenza, come abbiamo visto, rispetto ad un processo di valorizzazione delle Province, rafforzatosi negli ultimi anni, come ente di prossimità dei cittadini al pari dei Comuni e, anzi, in molti ambiti, più efficace di quest’ultimi per un’azione di tutela e promozione del territorio31. Gli organi della Provincia non sono più eletti direttamente dai cittadini, e perdono così il loro tratto politico-rappresentativo in senso proprio: la loro base elettorale sta ora nei consiglieri comunali e nei sindaci in carica nei Comuni del territorio provinciale32; viene meno l’organo esecutivo, a favore di una gestione collegiale di presidente e consiglio delle funzioni provinciali, coerente con la progressiva cancellazione di competenze gestionali dirette; viene peraltro meno anche il rapporto fiduciario tra presidente e consiglio provinciale, a ulteriore riprova dell’indebolimento del profilo politico dell’ente; infine, viene istituito un nuovo organo – l’assemblea dei sindaci – chiamato a svolgere funzioni propositive, consultive e di controllo e coinvolto nel procedimento di approvazione del bilancio e dello statuto. L’ “area vasta”, pur conservando i confini delle odierne Province, cessa così di essere un’entità autonoma, capace di esprimere un proprio indirizzo politico, ma si avvia a diventare una ripartizione funzionale e un tavolo tecnico di confronto tra i Comuni interessati, sulla falsariga di esperienze come le Comunità montane, i distretti socio-sanitari e gli ambiti territoriali di gestione delle risorse idriche e del gas. Emerge “… chiaramente il disegno di una Repubblica delle autonomie fondata su due soli livelli territoriali di diretta rappresentanza delle rispettive Comunità: le Regioni e i Comuni. A questi si accompagna un livello di governo di area vasta, chiaramente collocato in una visione funzionale più ad una razionale e coerente organizzazione dell’attività dei Comuni insistenti sul territorio che non ad un livello di democrazia locale espressione della Comunità metropolitana” 33. 30
“In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione, le province sono disciplinate dalla presente legge” (art.1, co. 51): si tratta di una formula che di regola assume il carattere di impegno politico del legislatore ad approvare, in un domani non lontano, quello che non è stato possibile deliberare oggi; ma che, nel caso specifico, vuole anche essere un modo per sottrarre ai dubbi di costituzionalità una disciplina che “depotenzia” le Province e toglie loro il carattere direttamente elettivo, a Costituzione invariata. 31 Come nota G. C. DE MARTIN, Un ente strategico, ancorché misconosciuto: la Provincia, cit., 9, la Provincia si configura come necessaria regista dello sviluppo locale e dei servizi a rete, a fronte di un Comune da intendere come punto di riferimento principale per i servizi di base alla persona. 32 Nel disegno di legge iniziale, presentato dal governo, l’elettorato attivo del Presidente e del consiglio provinciale spettava esclusivamente ai sindaci. Nel corso dell’iter parlamentare è stato poi esteso anche ai consiglieri comunali. Sulle perplessità suscitate dalla prima ipotesi si veda O. CHESSA, La forma di governo provinciale nel DDL n. 1542: profili d’incostituzionalità e possibili rimedi, in www.federalismi.it, n. 25/2013, 6. 33 Lo puntualizza la Relazione accompagnatoria del disegno di legge C. 1542, in www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0009111.pdf, 2.
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Come è stato sottolineato in un documento congiunto di Anci e Upi 34, “si tratta di una riforma che, semplificando il sistema istituzionale locale in applicazione del principio di sussidiarietà, affida ai Comuni il ruolo di istituzione base su cui, secondo i principi di differenziazione e adeguatezza, si costruiscono le Città metropolitane e le nuove Province. Si tratta di una straordinaria trasformazione istituzionale – continua il documento – che dà sostanza al principio di semplificazione e che consentirà di realizzare una gestione delle funzioni locali intese in senso lato in modo sinergico e sulla base di una rappresentanza di secondo grado che dovrà esaltare l’interesse della comunità rispetto alle decisioni di più ampio raggio”. Al netto dell’enfasi che accompagna il documento, esso coglie l’essenza della riforma: superare il dualismo politico e istituzionale tra Comuni e Province, per fare delle seconde gli strumenti “ancillari” rispetto agli interessi e alle funzioni dei primi 35, in una logica di “semplificazione” dell’assetto territoriale italiano, ad oggi frammentato fra troppi livelli di governo direttamente rappresentativi 36. La vocazione della Provincia – o di quello che ne resterà – diventa così essenzialmente, se non esclusivamente, tecnica e funzionale, lasciando alle sedi di concertazione tra Comuni, da un lato, e alla Regione, dall’altro lato, le fondamentali scelte politiche riguardanti il territorio e le comunità ivi insediate. Anticipando i propositi di riforma costituzionale, la Provincia come ente esce da quel circuito della “sovranità” che trova la sua positivizzazione negli artt. 1, 5 e 114 Cost., per rispondere esclusivamente – se ed in quanto saranno conservate dal legislatore – ad esigenze di buon andamento (art. 97 Cost.), di sussidiarietà e di adeguatezza (art. 118, co.1, Cost.). Si tratta di un cambio di prospettiva (e di riferimenti costituzionali) di non poco conto, perché implica il rimettere interamente alla discrezionalità del legislatore la scelta di conservare le Province, oppure di dismetterle in nome di diverse e più efficaci scelte di funzionalità amministrative; e non a caso su tale profilo, come vedremo 37, si sono appuntate le principali censure di incostituzionalità della disciplina. La legge Delrio abbandona, invece, il progetto di un riaccorpamento e di una riduzione delle Province. Difficile prevedere se si tratterà soltanto di un accantonamento provvisorio del progetto, che sarà ripreso una volta approvata la riforma costituzionale del Titolo V; o se, al contrario, proprio il venir meno della dimensione politica dell’ente, a favore di una sua vocazione strettamente 34
Anci e Upi, L’attuazione della legge 56/14: il riordino delle funzioni delle Province e delle Città metropolitane e l’accordo in conferenza unificata, Roma, 3 luglio 2014, in www.upinet.it. 35 F. PIZZETTI, Una grande riforma di sistema. Scheda di lettura e riflessioni su Città metropolitane, Province, Unioni di Comuni: le linee principali del ddl Delrio, in www.affariitaliani.it., 6, nota che “la vera caratteristica della nuova Provincia è di essere un ente di area vasta con un numero limitato e definito di funzioni fondamentali, sostanzialmente pensato per essere «servente» i Comuni e dare risposta alle esigenze legate ai servizi sul territorio”. 36 Il tema della semplificazione istituzionale, accanto a quella legislativa e amministrativa, è da tempo al centro dell’attenzione del legislatore e della dottrina, partendo dal presupposto che, nel nostro ordinamento, abbiamo ben quattro livelli politico-rappresentativi (oltre all’Unione europea), tutti organizzati in forme analoghe e con molteplici sovrapposizioni e confusioni di ruolo: cfr. anche il documento della Conferenza delle Regioni e Province autonome del 14 gennaio 2014, in www.regioni.it. In dottrina, ex multis, G. MELONI, La semplificazione istituzionale-amministrativa e la riforma costituzionale, in www.amministrazioneincammino.it; F. MERLONI, Il riordino del sistema istituzionale e l’individuazione delle funzioni delle autonomie locali, in www.astrid-online.it. 37 Cfr. infra par. 3.
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funzionale, costituirà la premessa per un aumento delle Province quali circoscrizioni ottimali di aggregazione delle funzioni comunali. Infine la legge Delrio riguarda tutte le Regioni, ad eccezione della Valle d’Aosta e delle Province autonome di Trento e Bolzano. Ai sensi dell’art.1, co. 145, infatti, “entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le Regioni a statuto speciale Friuli-Venezia Giulia e Sardegna e la Regione siciliana adeguano i propri ordinamenti interni ai principi della medesima legge. Le disposizioni di cui ai commi da 104 a 141 sono applicabili nelle Regioni a statuto speciale Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e con le relative norme di attuazione, anche con riferimento alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”. Benché il legislatore statale non le qualifichi espressamente come tali, quelli contenuti nella legge Delrio devono perciò intendersi come “norme fondamentali di riforma economico-sociale” e/o come “principi fondamentali dell’ordinamento giuridico”, capaci di imporsi sulla potestà legislativa primaria delle Regioni a statuto speciale. La “nuova” vocazione della Provincia trova, come vedremo, premessa e sviluppo coerente nella sua configurazione organizzativa e nelle funzioni che ad essa vengono mantenute, anche se non tutte le soluzioni adottate appaiono convincenti. Ma prima di affrontare tali profili, è opportuno soffermarsi sui dubbi di legittimità costituzionale che la disciplina solleva. 3. Profili di criticità costituzionale della nuova disciplina Secondo una tecnica di formulazione non inconsueta nella legislazione recente38, la legge Delrio annuncia, nel co. 51, un’imminente “riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione”, intendendo così conferire alla disciplina che introduce un carattere dichiaratamente transitorio39. Nella formula si avverte l’eco del progetto di riforma costituzionale proposto dal governo Renzi 40, che prevede tra l’altro la cancellazione di ogni menzione delle Province contenuta nel testo costituzionale. Approvando la riforma delle Province con legge ordinaria, anziché mediante lo strumento della decretazione d’urgenza, Governo e Parlamento hanno inteso superare le ragioni che avevano indotto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 220/2013, a dichiarare l’illegittimità costituzionale dei precedenti tentativi di riforma, attuati mediante decreti-legge 41. 38
Utilizzata, tra gli altri, anche nell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 che, “in attesa della riforma del Titolo I della parte II della Costituzione”, ipotizzava la istituzione di una Commissione bicamerale per le questioni regionali integrata con rappresentanti di Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni, chiamata a pronunciarsi in via consultiva e parzialmente vincolante sulle principali leggi in materia regionale: ma la modifica dei regolamenti parlamentari necessaria per dar vita a tale organismo non è mai stata approvata. 39 Come peraltro dichiarato nella stessa Relazione accompagnatoria al disegno di legge. 40 Identificato come A.S. 1429, in www.senato.it. Quando è stato presentato, il disegno di legge Delrio aveva quale riferimento il disegno di legge costituzionale deliberato dal Consiglio dei ministri il 5 luglio 2013, il cui oggetto era soltanto l’abolizione delle Province, e non anche le ulteriori revisioni della II parte della Costituzione proposte con il disegno di legge costituzionale Renzi. 41 Nella parte della Relazione accompagnatoria dedicata all’analisi tecnico-normativa (pag. 14) del disegno di legge Delrio si legge: “il disegno di legge interviene a seguito della recente sentenza della Corte
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La Corte, infatti, aveva statuito che “ben potrebbe essere adottata la decretazione di urgenza per incidere su singole funzioni degli enti locali, su singoli aspetti della legislazione elettorale o su specifici profili della struttura e composizione degli organi di governo, secondo valutazioni di opportunità politica del Governo sottoposte al vaglio successivo del Parlamento. Si ricava … in senso contrario, che la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero sistema, su cui da tempo è aperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che certo non nasce, nella sua interezza e complessità, da un «caso straordinario di necessità e d’urgenza»”; tanto più che “dalla disposizione sopra riportata non risulta chiaro se l’urgenza del provvedere – anche e soprattutto in relazione alla finalità di risparmio, esplicitamente posta a base del decreto-legge, come pure del rinvio – sia meglio soddisfatta dall’immediata applicazione delle norme dello stesso decreto oppure, al contrario, dal differimento nel tempo della loro efficacia operativa. Tale ambiguità conferma la palese inadeguatezza dello strumento del decreto-legge a realizzare una riforma organica e di sistema, che non solo trova le sue motivazioni in esigenze manifestatesi da non breve periodo, ma richiede processi attuativi necessariamente protratti nel tempo, tali da poter rendere indispensabili sospensioni di efficacia, rinvii e sistematizzazioni progressive, che mal si conciliano con l’immediatezza di effetti connaturata al decreto-legge, secondo il disegno costituzionale” 42. Nella stessa sentenza la Corte ha preso in esame anche il parametro dell’art. 133, co.1, Cost., sul procedimento di revisione delle circoscrizioni Provinciali, e anche per questo è giunta alla conclusione che la strada del decreto-legge risulta inappropriata e perciò non conforme a Costituzione: “emerge dalle precedenti considerazioni che esiste una incompatibilità logica e giuridica – che va al di là dello specifico oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità – tra il decreto-legge, che presuppone che si verifichino casi straordinari di necessità e urgenza, e la necessaria iniziativa dei Comuni, che certamente non può identificarsi con le suddette situazioni di fatto, se non altro perché l’iniziativa non può che essere frutto di una maturazione e di una concertazione tra enti non suscettibile di assumere la veste della straordinarietà, ma piuttosto quella costituzionale n. 220 del 2013 che ha dichiarato l’incostituzionalità di alcune norme sul riordino di enti locali contenute in due distinti strumenti normativi approvati nella preedente legislatura. L’incostituzionalità è determinata sostanzialmente dall’uso del decreto-legge in materie ritenute dalla sentenza riservate alla legge”. Ancora: “la materia risulta di competenza esclusiva dello stato, ai sensi dell’art. 117, co.2, lettera p), della Costituzione. Per quanto riguarda le competenze delle regioni a statuto ordinario, si chiarisce che, anche prevedendo incisive competenze per le città metropolitane, restano comunque ferme le funzioni di programmazione e coordinamento delle regioni, nelle materie di cui all’art. 17, commi terzo e quarto, della Costituzione … L’intervento regolatorio è comunque sottoposto alla Conferenza unificata”. Infine: “il disegno di legge detta in particolare disposizioni finalizzate a valorizzare proprio i principi di cui all’articolo 118 della Costituzione, ridisegnando l’assetto istituzionale e le funzioni degli enti locali e delle forme associative, assegnando a ciascun soggetto il ruolo che sembra più rispondente ai principi medesimi”. 42 I commenti sulla sentenza sono principalmente centrati sui limiti della decretazione d’urgenza: cfr., ad esempio, R. DICKMAN, La Corte si pronuncia sul modo d’uso del decreto-legge, in www.giurcost.org, Studi e commenti, 2013; A. SEVERINI, La riforma delle Province, con decreto legge, “non s’ha da fare”, in www.rivistaaic.it; M. MASSA, Come non si devono riformare le Province, in www.forumcostituzionale.it; G. DI COSIMO, Come non si deve usare il decreto legge, in www.forumcostituzionale.it.
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dell’esercizio ordinario di una facoltà prevista dalla Costituzione, in relazione a bisogni e interessi già manifestatisi nelle popolazioni locali” 43. La Corte non è entrata nel merito degli altri profili di censura sollevati dalle Regioni ricorrenti, ritenendoli assorbiti nella prima e principale ragione di illegittimità: si lamentava infatti anche la violazione dell’art. 5 Cost., in quanto la normativa censurata applica una logica inversa a quella del decentramento e dell’autonomia; la vanificazione del riconoscimento delle Province come enti costitutivi della Repubblica, dotati di autonomia e funzioni proprie, secondo il disposto dell’art. 114 Cost.; la violazione degli artt. 117, 118 e 119, che conterrebbero una riserva costituzionale di funzioni a favore delle Province; il contrasto con la Carta europea delle autonomie locali. Anzi, la Corte costituzionale ha puntualizzato che “le considerazioni che precedono non entrano nel merito delle scelte compiute dal legislatore e non portano alla conclusione che sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale – ma, più limitatamente, che non sia utilizzabile un atto normativo, come il decreto-legge, per introdurre nuovi assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente organizzative” 44. Nonostante il parziale via libera della Corte, restano nondimeno gli ulteriori profili di dubbia conformità con la Costituzione della legge Delrio, che parte della dottrina non ha mancato di segnalare45. La riforma, infatti, deve fare i conti con la piena vigenza di quel Titolo V della Costituzione che attende ancora di essere compiutamente attuato e che avrebbe dovuto “accentuare con chiarezza il ruolo sussidiario delle Province, rispetto ai Comuni, per il quale tutte le funzioni comunali, anche quelle più caratterizzanti, nei casi in cui questi enti presentino una naturale inadeguatezza o le funzioni medesime non siano a loro rapportabili, per il principio di differenziazione, possono essere assicurate ai cittadini dall’azione della Provincia, la quale, in una evenienza del genere, si deve considerare ente di prossimità al pari del Comune”46; così che è lecito dubitare della legittimità di un’operazione legislativa che, a Costituzione invariata e in senso contrario alle indicazioni della Carta fondamentale, da un lato svuota di funzioni l’ente provinciale, trasferendole verso il basso (ai Comuni o a forme associative tra i Comuni stessi), verso nuove forme aggregative da definire o riportandole a livello regionale; e, dall’altro lato, cancella il carattere direttamente politico-rappresentativo dell’ente, facendone sostanzialmente un’organizzazione associativa dei Comuni. 43
Cfr. punto 12.2. del Considerato in diritto. Punto 12.1. del Considerato in diritto. 45 Cfr., in merito al disegno di legge AC n. 1542, poi divenuto legge Delrio, una raccolta dei resoconti parlamentari e dei documenti per le audizioni, in www.astrid-online.it. Ivi cfr. tra l’altro gli appunti di L. VANDELLI e G. C. DE MARTIN. V. inoltre P. P. PORTALURI, Transizioni incessanti. (Appunti sul d.d.l. AC n. 1542 “svuotaprovince”), in www.federalismi.it, n. 23/2013; O. CHESSA, La forma di governo provinciale nel DDL n. 1542: profili d’incostituzionalità e possibili rimedi, ibidem, n. 25/2013; gli atti del seminario Il Ddl Delrio e il governo dell’area vasta, organizzato da Federalismi.it il 13 dicembre 2013, ibidem, n. 1/2014; gli atti del seminario sulla riforma del sistema delle autonomie locali, tenutosi a Roma, presso la LUISS il 24 novembre 2013 (in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 9 dicembre 2013). 46 Cfr. S. MANGIAMELI, La Provincia, l’area vasta e il governo delle funzioni nel territorio, cit., 7. 44
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Parrebbe ostare a tale opzione la formulazione dell’attuale art. 114 Cost., in combinato disposto con gli artt. 1 e 5 Cost. che definisce (anche) le Province come enti autonomi, con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione47; nonché le altre disposizioni costituzionali contenute nel Titolo V, ed in particolare l’art. 118, co.1, Cost., che, attraverso la combinazione di sussidiarietà e adeguatezza, vede nelle Province il naturale terminale di molte funzioni di area vasta. Tre sono le principali censure che possono essere mosse contro l’attuale disciplina. Innanzitutto, se il principio autonomistico dell’art. 5 Cost. è inscindibilmente e intrinsecamente connesso con il metodo democratico, tale metodo non potrebbe essere frustrato dal legislatore nazionale, nell’esercizio della competenza ad esso riconosciuta dall’art. 117, co.2, lett. p), Cost48. E’ questo un aspetto su cui si sono particolarmente concentrate le critiche al disegno di legge nel corso del suo iter parlamentare: si è osservato, infatti, che “se la Repubblica italiana deve essere «democratica» e se, ai sensi dell’art. 114, la Repubblica «è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato», allora per la proprietà transitiva ciascuno degli enti costitutivi deve essere a sua volta «democratico», cioè organizzato al proprio interno in modo da rispecchiare il principio di sovranità popolare” 49. Il punto critico essenziale della riforma sta proprio qui: nell’aver “dimenticato” le ragioni di valorizzazione della partecipazione democratica e di pluralismo politico e istituzionale che sono state alla base dell’affermazione della Provincia come ente territoriale autonomo e rappresentativo, e nell’averle “piegate” ad una logica funzionalistica o, peggio, di mera contingenza finanziaria. 47
Come osserva V. ONIDA, Parere sui profili di legittimità, cit., 27, “anche se di per sé l’elezione diretta o invece di secondo grado dei titolari degli organi degli enti territoriali non appare formalmente vincolata dalla Costituzione, è però certo che le Province siano configurate come enti rappresentativi delle popolazioni locali, e non come enti espressione «associativa» dei Comuni”. 48 Cfr., sul punto, le perplessità di L. VANDELLI, La Provincia italiana nel cambiamento: sulla legittimità di forme ad elezione indiretta, in www.astrid-online.it (8 ottobre 2012), 6. Si vedano anche le considerazioni di G. SAPUTELLI, Quando non è solo una “questione di principio”, cit., 3252, che, richiamando l’insegnamento di CARLO ESPOSITO – Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, in ID., La costituzione italiana, Padova, 1954, 80-82 – ricorda che il proprium dell’autonomia riconosciuta agli enti locali sta nel collegamento con la vita sociale, e che la disposizione costituzionale garantirebbe sia il cittadino, nella partecipazione attiva alla vita degli enti territoriali, sia la molteplicità e la posizione complessiva degli enti locali. 49 Cfr. O. CHESSA, La forma di governo provinciale nel ddl n. 1542: profili di incostituzionalità e possibili rimedi, cit., 11. Cfr. anche C. PADULA, Quale futuro per le Province? Riflessioni sui vincoli costituzionali in materia di Province, in Le Regioni, 2, 2013, 375, che insiste in particolare sulla elettività degli organi fondamentali degli enti costitutivi della Repubblica. Cfr. anche B. CARAVITA DI TORITTO, Abrogazione o razionalizzazione delle Province, in www.federalismi.it, 20 settembre 2006, il quale, richiamando la nozione di autonomia ex art. 5 Cost., ritiene che impedisca “la costruzione della Provincia come ente di secondo grado (e quindi la riduzione della politicità dell’ente)”; P. CARETTI, Sui rilievi di incostituzionalità dell’introduzione di meccanismi di elezione indiretta negli organi di governo locale, in Astrid Rassegna, 2013, n. 19, 2, 3. Contra però, F. BASSANINI, Sulla riforma delle istituzioni locali e sulla legittimità costituzionale della elezione in secondo grado degli organi delle nuove province, in Astrid Rassegna, n. 19/2013, 4-5; E. GROSSO, Possono gli organi di governo delle Province essere designati mediante elezioni “di secondo grado”, a Costituzione Vigente?, in Astrid Rassegna n. 19/2013, 1-2; F. PIZZETTI, La riforma Delrio tra superabili problemi di costituzionalità e concreti obiettivi di modernizzazione e flessibilizzazione del sistema degli enti territoriali, in Astrid Rassegna, n. 19/2013, 12.
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In secondo luogo, se la natura della Provincia quale ente autonomo, pariordinato a quello delle altre istituzioni territoriali, ha trovato consacrazione nell’art. 114 Cost., la riduzione delle funzioni provinciali al solo “indirizzo e coordinamento” di quelle comunali ne disconoscerebbe tale natura. In terzo luogo, tenuto conto che gli artt. 117, 118 e 119 Cost. pongono una riserva costituzionale di funzioni a favore delle Province – l’art. 117, co.6, attribuisce alle Province una potestà regolamentare per la disciplina di funzioni proprie; l’art. 118 riconosce ad esse la titolarità di funzioni proprie o conferite dalla legge statale o regionale; l’art. 119 riconosce un’autonomia di spesa e di entrata, con risorse derivanti anche dall’imposizione tributaria direttamente esercitata – l’integrale cancellazione di tali potestà e di tali profili di autonomia si scontra con il carattere vincolante del testo costituzionale50. A queste perplessità si aggiungono anche profili di dubbia conformità della riforma delle Province alla Carta europea dell’autonomia locale 51: perplessità che colpivano sia il sostanziale “svuotamento di identità e di funzioni” operato con il d.l. n. 201 del 2011, convertito nella legge 214 del 2011, sia il d.l. 95 del 2012, convertito con modificazioni nella legge 1135 del 2012, che ha mirato ad un riordino delle Province, più che ad una loro surrettizia soppressione, ed una complessiva riduzione degli enti di area vasta in base a criteri e requisiti minimi definiti con riguardo alle dimensioni territoriali e demografiche 52; ma che possono essere estese anche alla legge Delrio. A queste perplessità la legge Delrio dà una risposta autoproclamandosi espressamente provvisoria53, in attesa della revisione del titolo V che, stando alla versione approvata dal Senato in prima lettura l’8 agosto 2014, cancella ogni riferimento costituzionale alle Province, rimettendo così al legislatore ordinario ogni determinazione in proposito. La provvisorietà della disciplina parrebbe superare i rilievi critici che abbiamo evidenziato. E tuttavia, se tale provvisorietà dovesse prolungarsi, come spesso accade nel nostro Paese, non è improbabile che la Corte costituzionale si risolva ad accogliere una o più tra le probabili censure di costituzionalità; dall’altro lato, non è detto che, nonostante la dichiarata provvisorietà, la Corte non giunga a 50
Cfr. A. DEFFENU, Il ridimensionamento delle Province nell’epoca dell’emergenza finanziaria tra riduzione delle funzioni, soppressione dell’elezione diretta e accorpamento, in www.osservatoriosullefonti.it, fasc. 3/2012, 11. 51 Cfr. G. BOGGERO, La conformità della riforma delle Province alla Carta europea dell’autonomia locale, in www.federalismi.it, n. 20/2012; O. CHESSA, La forma di governo provinciale, cit., 18. Anche i ricorsi di alcune Regioni contro il d.l. 201/2011 e contro il d.l. 95/2012 evocavano tale profilo. 52 Cfr. V. ONIDA, Parere sui profili di legittimità costituzionale dell’art. 17 del d.l. n. 95 del 202, convertito in legge n. 135 del 2012, in tema di riordino delle Province e delle loro funzioni, in www.federalismi.it. 53 Come osserva M. C. ROMANO, Enti locali. Provincia e Città metropolitana, in www.treccani.it, “l’intervento legislativo si caratterizza per la provvisorietà della disciplina, pervasa di contenuti transitori, sia rispetto alla riallocazione delle funzioni tra i nuovi enti di area vasta (Province e Città metropolitane), sia rispetto ai tempi e ai meccanismi procedurali che dovranno scandire l’attuazione della riforma. Per quanto riguarda direttamente le Province, queste ultime resterebbero temporaneamente come enti di area vasta, titolari prevalentemente di funzioni di coordinamento e di indirizzo essenziale (pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, tutela e valorizzazione dell’ambiente, pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, programmazione provinciale della rete scolastica), e più limitatamente di compiti gestionali (gestione dell’edilizia scolastica, esercizio – d’intesa con i Comuni – delle funzioni di predisposizione dei documenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio dei contratti di servizio) a differenza di quanto veniva disposto dall’art. 17, d.l. n. 95/2012”.
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dichiarare l’incostituzionalità della legge Delrio fin da subito. Ed è per questo che diventa essenziale, per evitare inimmaginabili scompensi istituzionali, che arrivi in porto al più presto la revisione costituzionale, così da far combaciare normazione primaria e normazione superprimaria. 4. La forma di governo della nuova Provincia e il sistema elettorale del presidente e del consiglio Se la parola d’ordine che ha guidato le più recenti scelte istituzionali è la “semplificazione”, non ne poteva restare immune l’organizzazione interna della nuova Provincia, ed in particolare la sua “forma di governo” 54, se è lecito utilizzare questa espressione per un ente che ha perduto il suo carattere politicorappresentativo; anche se non è detto che le soluzioni prescelte vadano effettivamente verso una semplificazione della governance dell’ente, quanto meno sotto il profilo dell’efficacia decisionale e della chiarezza nella distinzione dei ruoli. Gli organi di governo propriamente provinciali saranno soltanto due, in luogo dei tre attuali: presidente e consiglio provinciale, mentre non è più prevista la giunta (che, peraltro, come vedremo, potrà essere ricreata in forma indiretta attraverso le deleghe del presidente a singoli consiglieri). Ad essi si affiancherà un organo di nuova istituzione: l’assemblea dei sindaci dei Comuni del territorio provinciale. Ai sensi dell’art. 1, co. 55, della legge Delrio, “il presidente rappresenta l’ente, convoca e presiede il consiglio provinciale e l’assemblea dei sindaci, sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti; esercita le altre funzioni attribuite dallo statuto”. In attesa di capire se e quali ulteriori spazi potrà concedere lo statuto alla figura presidenziale, la formula del co. 55 ricorda i compiti del presidente stabiliti dall’attuale art. 50, co.1-2-3, del Tuel; manca però il ruolo di guida della giunta, che è stata soppressa; manca ogni riferimento al potere di nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi, di attribuzione e definizione degli incarichi dirigenziali e di quelli di collaborazione esterna; manca il potere di nomina, revoca e designazione dei rappresentanti dell’Ente presso enti, aziende, istituzioni 55. In tal modo il futuro presidente non avrà poteri decisionali propri, ma essenzialmente compiti di rappresentanza dell’ente, di sovrintendenza del corretto funzionamento di uffici e servizi e di coordinamento e impulso dell’attività del 54
Anche se la riduzione degli organi di governo e del numero dei loro componenti risponde non solo (o non tanto) alla logica della semplificazione, quanto a quella del contenimento dei costi, in chiave di reazione alla polemica “anticasta” che da alcuni anni anima il dibattito pubblico del nostro Paese. 55 Non è chiaro se tali omissioni siano volute, oppure siano una mera dimenticanza: nel primo caso si potrebbe ipotizzare che il legislatore abbia ritenuto che, venendo meno le funzioni gestionali dell’ente, non ci sia più bisogno di procedere alla nomina dei responsabili dei vari servizi, né che ci siano più nomine di rappresentanti dell’ente in altri enti o aziende esterne. Più probabile, però, che l’omissione sia il frutto di una scarsa capacità di previsione di come si articolerà concretamente la vita dell’ente; in questo caso, sarà possibile ovviare a tale omissione in sede di redazione dello statuto, che, come vedremo, potrà offrire l’occasione per una migliore organizzazione interna del nuovo ente. D’altra parte, e in alternativa, anche in omaggio al ripetuto richiamo al principio di collegialità, si può ritenere che le nomine in questione saranno di appannaggio dell’intero consiglio: il che varrebbe ad esaltare la dimensione trasversale e concertata della gestione dell’ente, rispetto ad una gestione più verticistica.
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consiglio e dell’assemblea dei sindaci: in coerenza con il fatto che non rappresenta più i cittadini, ma i Comuni che compongono la Provincia, e che non può vantare un rapporto fiduciario con un consiglio composto a sua immagine e somiglianza, come avviene oggi grazie al premio di maggioranza a favore delle liste collegate al vincitore della competizione monocratica. Se così si può dire, il presidente sarà chiamato più ad un ruolo di mediatore e di “facilitatore” del dialogo tra i Comuni, piuttosto che a ruoli decisionali e di leadership, con un profilo politico “sbiadito” rispetto a quello attuale. Il presidente è eletto, con voto ponderato, da un corpo elettorale ristretto, formato dai consiglieri comunali e dai sindaci (ma non dagli assessori) dei Comuni della Provincia: un corpo elettorale il cui numero varia dai 142 “grandi elettori” di Prato ai 2858 di Cuneo56, a seconda del numero di Comuni presenti in ciascuna Provincia e della loro popolazione. Per la presentazione di una candidatura sarà necessaria la sottoscrizione di almeno il 15% degli aventi diritto: si tratta di una soglia piuttosto elevata, che vale, da un lato, a restringere la competizione elettorale a pochi candidati, dall’altro lato, a rendere problematica la candidatura di outsiders o di esponenti di forze minori o poco rappresentate a livello amministrativo, come il Movimento 5 Stelle. Per l’elezione del presidente (ma anche del consiglio) la legge utilizza il sistema del voto ponderato, ai sensi dei commi 33 e 34 dell’art. 1 della legge Delrio. Il co. 33 ripartisce i Comuni della Città metropolitana (e della Provincia) in 9 fasce: a) Comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti; b) Comuni con popolazione superiore a 3.000 e fino a 5.000 abitanti; c) Comuni con popolazione superiore a 5.000 e fino a 10.000 abitanti; d) Comuni con popolazione superiore a 10.000 e fino a 30.000 abitanti; e) Comuni con popolazione superiore a 30.000 e fino a 100.000 abitanti; f) Comuni con popolazione superiore a 100.000 e fino a 250.000 abitanti; g) Comuni con popolazione superiore a 250.000 e fino a 500.000 abitanti; h) Comuni con popolazione superiore a 500.000 e fino a 1.000.000 di abitanti; i) Comuni con popolazione superiore a 1.000.000 di abitanti. L’indice di ponderazione per ciascuna delle fasce demografiche è determinato sulla base del peso percentuale che la popolazione complessiva dei Comuni appartenenti ad una determinata fascia hanno sulla popolazione complessiva della Provincia; fermo restando che un singolo Comune non può comunque superare il 45% dei voti complessivi disponibili e che nessuna fascia demografica può superare il 35% dei voti complessivi disponibili. In questo caso il valore percentuale eccedente è assegnato in aumento al valore percentuale delle fasce demografiche cui non appartiene il Comune, ripartendolo fra queste in misura proporzionale alla rispettiva popolazione. La percentuale di ciascuna fascia demografica viene poi divisa per il numero complessivo di sindaci e consiglieri dei Comuni appartenenti a quella fascia e moltiplicato per 1000. In tal modo, ciascun elettore degli organi provinciali (sindaci o consiglieri comunali) dispone di un pacchetto di voti, variabile da alcune decine ad alcune centinaia, espressi necessariamente in modo univoco e riconoscibili sulla base del colore della scheda di voto (di colore diverso a 56
Per questi dati si veda la Circolare del Ministero dell’Interno 1° luglio 2014, cit.
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seconda della fascia demografica) e dal cui computo si ricavano i risultati delle elezioni57. L’obiettivo del sistema di ponderazione è quello di far sì che il voto di ciascun elettore pesi in proporzione al peso demografico della fascia di appartenenza. Così, se il Comune capoluogo vale il 15% della popolazione complessiva provinciale, il voto dei 33 elettori che esso esprime vale circa il 15% del totale dei voti disponibili. Risulterà eletto presidente il candidato che otterrà il maggior numero di voti ponderati, nell’unico turno di votazione. Egli rimane in carica per 4 anni, salvo che, per qualunque ragione, non venga meno la sua carica nel Comune di provenienza, perché la sussistenza della seconda è condizione essenziale per la permanenza della prima58. Il presidente non sarà legato al consiglio da un rapporto fiduciario; la loro stessa elezione non sarà sempre contestuale, se non la prima volta, perché la carica dei consiglieri provinciali dura soltanto 2 anni; salva la possibilità che, nella terza elezione del consiglio, i due organi tornino ad allinearsi. Possibilità, ma non certezza, perché – vista la necessaria coincidenza tra carica nei Comuni e carica in Provincia – può accadere che la durata dell’uno o dell’altro organo subisca interruzioni anticipate. Ne consegue che, pur se probabile, non è affatto detto che la composizione del consiglio provinciale rispecchi l’orientamento politico del presidente: trattandosi di elezioni disgiunte e non reciprocamente condizionantesi, se non sul piano delle ordinarie dinamiche politiche, la scelta del presidente potrebbe cadere su una personalità indipendente non supportata da una maggioranza omogena in consiglio, o essere condizionata dal quorum particolarmente alto – 15% degli aventi diritto – richiesto per la presentazione della candidatura; mentre la composizione del consiglio sarà meno orientabile, sia perché il quorum di presentazione delle candidature è più basso, sia perché i consigli comunali sono ricchi di candidati indipendenti e liste civiche non facilmente riconducibili ad una disciplina di partito. Il consiglio è l’organo di indirizzo e controllo, propone all’assemblea lo statuto, approva regolamenti, piani, programmi; approva o adotta ogni altro atto ad esso sottoposto dal presidente della Provincia; esercita le altre funzioni attribuite dallo statuto. Su proposta del presidente adotta gli schemi di bilancio; poi, a seguito del parere espresso dall’assemblea dei sindaci, con i voti che rappresentino almeno un terzo dei Comuni e la maggioranza della popolazione, il consiglio approva in via definitiva i bilanci dell’ente. Rispetto a quanto si è detto per il presidente, per il consiglio il “dimagrimento” dei compiti rispetto a quanto prevede l’odierno art. 42 del Tuel è ancora più evidente, non essendo nemmeno contemplata una norma di chiusura che definisca chi debba esercitare le funzioni senza un titolare preventivamente identificato dalla legge statale o regionale di conferimento. Una volta di più, toccherà allo statuto colmare la lacuna, prevedendo un criterio generale di riparto dei compiti tra presidente e consiglio. 57
Le linee guida per lo svolgimento del procedimento elettorale sono riportate nella Circolare 1° luglio 2014 del Ministero dell’Interno, consultabile sul sito www.affariregionali.it. 58 Non sono invece previsti strumenti nelle mani del consiglio per sfiduciare il presidente, coerentemente con il fatto che quest’ultimo trae la sua investitura e la sua legittimazione dai sindaci e dai consiglieri comunali, e non dal consiglio stesso.
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Il consiglio provinciale sarà composto da un numero massimo di 16 componenti più il presidente, nelle Province con popolazione superiore a 700.000 abitanti; da 12 componenti più il presidente nelle Province con popolazione compresa tra 300.000 e 700.000 abitanti; da 10 componenti più il presidente nelle Province con popolazione inferiore a 300.000 abitanti. La competizione elettorale per l’elezione del consiglio avviene sulla base di liste, composte da un numero minimo di candidati, pari al 50% dei componenti il consiglio, ad un massimo pari al numero dei componenti il consiglio stesso. Il corpo elettorale è lo stesso – consiglieri comunali e sindaci 59 – previsto per l’elezione del presidente. Rispetto al sistema elettorale introdotto con la legge 81/1993, basato sulla ripartizione del territorio provinciale in collegi uninominali secondo le disposizioni della legge n. 122 del 1951, viene meno il riferimento ai collegi 60: le liste di candidati saranno uniche per tutto il territorio provinciale, con il rischio che rilevanti zone o fasce demografiche risultino sotto rappresentate o non abbiano voce in consiglio. Dovrà perciò essere cura dei presentatori fare in modo di garantire una rappresentanza adeguata di tutto il territorio provinciale e di tutte le fasce demografiche dei Comuni. Viene previsto l’obbligo di assicurare la rappresentanza di genere almeno al 40%, pena la riduzione d’ufficio della liste fino alla loro inammissibilità, se scendono sotto il numero minimo di candidati 61. Sulla base dell’esito del voto, saranno proclamati eletti i candidati più votati a seguito di ponderazione, a prescindere dai voti ottenuti dalla lista di appartenenza. Le liste elettorali avranno quindi esclusivamente una funzione di veicolo per la presentazione delle candidature, ma non saranno invece la premessa dell’articolazione politica del consiglio. Tutti i candidati, infatti, in sede di scrutinio, verranno collocati in un’unica graduatoria formata sulla base delle preferenze individuali ponderate di ciascuno, e saranno proclamati eletti i più votati62. 59
Rispetto a quanto era stato previsto nell’art. 23, co.16, de d.l. 201 del 2011, che parlava di elettorato attivo riconosciuto genericamente agli “organi elettivi dei Comuni”, la legge Delrio scioglie ogni incertezza in proposito, chiarendo che esso spetta sia ai sindaci che ai consiglieri comunali. In tal modo, come osserva S. BELLOTTA, Il sistema elettorale nelle nuove Province, enti di secondo livello. Prime riflessioni sul disegno di legge in materia, in www.federalismi.it, n.14/2012, 8, si assicura una maggiore rappresentanza di tutte le componenti politiche esistenti sul territorio. 60 S. BELLOTTA, Il sistema elettorale nelle nuove Province, enti di secondo livello, cit., 12, osserva che il “collegio unico provinciale ha sì il pregio di semplificare le modalità e l’organizzazione stessa delle procedure elettorali, concentrando tali procedure in un solo collegio, ma anche il difetto di non garantire una omogenea rappresentanza territoriale”. 61 Ma la disposizione sull’equilibrio nella rappresentanza di genere non si applica per cinque anni dall’entrata in vigore della legge 23 novembre 2012, n. 215, “Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni”. 62 Lo si ricava dall’art. 1, co. 77, legge Delrio, secondo cui “l’ufficio elettorale, terminate le operazioni di scrutinio, determina la cifra individuale ponderata dei singoli candidati sulla base dei voti espressi e proclama eletti i candidati che conseguono la maggiore cifra individuale ponderata. A parità di cifra individuale ponderata, è proclamato eletto il candidato appartenente al sesso meno rappresentato tra gli eletti; in caso di ulteriore parità, è proclamato eletto il candidato più giovane”. La disposizione non fa alcun cenno al conteggio dei voti di lista o ad un riparto dei seggi tra le diverse liste, prodromico alla successiva assegnazione dei seggi ai candidati più votati. Conferma questa interpretazione anche la Circolare 1° luglio
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L’assemblea dei sindaci ha poteri propositivi, consultivi e di controllo secondo quanto disposto dallo statuto. Essa inoltre adotta o respinge lo statuto proposto dal consiglio ed esprime un parere – da ritenere vincolante – sugli schemi di bilancio della Provincia adottati dal consiglio su proposta del presidente. L’assemblea dei sindaci63 approva gli atti di sua competenza mediante la doppia maggioranza di 1/3 dei Comuni e 1/2 della popolazione complessivamente residente. Non è però previsto il voto ponderato, così che questa formulazione della doppia maggioranza tende a ridurre il peso politico del capoluogo e ad accrescere quello dei Comuni minori. E’ da prevedere che tale doppia maggioranza sarà particolarmente mutevole e aleatoria, specialmente in considerazione della non ben definita identità politica di molti sindaci, che potrebbero essere portati ad aggregazioni e riaggregazioni di volta in volta diverse. Come si è detto, è stata abolita la giunta, anche in linea con il fatto che le funzioni dell’ente sono più pianificatore e programmatorie che non gestionali; ma il comma 66 dell’art. 1 della legge Delrio stabilisce che “il presidente della Provincia può nominare un vicepresidente, scelto tra i consiglieri provinciali, stabilendo le eventuali funzioni a lui delegate e dandone immediata comunicazione al consiglio. Il vicepresidente esercita le funzioni del presidente in ogni caso in cui questi sia impedito. Il presidente può altresì assegnare deleghe a consiglieri provinciali, nel rispetto del principio di collegialità, secondo le modalità e nei limiti stabiliti dallo statuto”. Il ricorso alle deleghe sarà pressoché obbligato, non solo per il doppio impegno non remunerato a cui saranno chiamati presidente e consiglieri provinciali, ma anche perché la logica del nuovo ente va verso una gestione collegiale e condivisa delle funzioni: la norma cioè fa pensare, una volta di più, ad un consiglio attivo e pienamente partecipe delle funzioni che fanno capo alla Provincia. Lo statuto, negli spazi lasciati liberi dalla legge Delrio, potrà arricchire le funzioni dei diversi organi, fermo il divieto di alterare le funzioni fondamentali definite dalla legge. E questo ci dice, fin da ora, l’importanza che assumerà il passaggio statutario64. Da quel che si è detto emergono i tratti di una forma di governo dai confini 65 incerti , senza una chiara distinzione di ruoli tra i diversi organi e senza una netta preminenza di uno sugli altri, come oggi avviene con il presidente della Provincia 2014 del Ministero dell’Interno, cit., 17. Tale interpretazione, tuttavia, non sembra del tutto coerente con quanto statuito dall’art. 1, co. 78, della legge Delrio, secondo cui, in caso di subentro in un seggio rimasto vacante per qualunque causa, si attinge al più votato della medesima lista. Sarebbe utile, sul punto, un sollecito intervento del legislatore, per chiarire la questione ed evitare così probabili futuri contenziosi. 63 A cui O. CHESSA, La forma di governo provinciale, cit., 6, nega il carattere di “organo di rappresentanza politica”, sia per ragioni di ordine funzionale che strutturale. 64 Va peraltro ricordato che l’assemblea dei sindaci approva le modifiche statutarie conseguenti al disegno di legge in esame, entro sei mesi dalla elezione dei nuovi organi Provinciali. Nel caso di Province in scadenza nel 2014 (per le quali, si è ricordato, sono previste le elezioni di secondo grado entro il 30 settembre 2014), l’approvazione delle modifiche statutarie dovrà avvenire entro il 31 dicembre 2014; e il lavoro preparatorio è svolto dal Consiglio provinciale, che nei primi mesi dovrà occuparsi soltanto di quello. In caso di mancata adozione delle modifiche statutarie entro la predetta data, il Governo eserciterà il potere sostitutivo ai sensi dell’articolo 8 della legge n. 131 del 2003. Solo per le Province in scadenza nel 2014 (per le quali, si è ricordato, l’approvazione delle modifiche statutarie da parte dell'assemblea dei sindaci ha il termine del 31 dicembre 2014) è previsto un termine per l'esercizio del potere sostitutivo statale, ossia il 30 giugno 2015.
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eletto direttamente dai cittadini e rafforzato dalle regole elettorali e dalla clausola simul stabunt simul cadent. Avremo così un ente a geometrie variabili, con una spiccata propensione concertativa tra i suoi vari componenti: il che accentua il rischio che la Provincia possa faticare a fare sintesi tra i diversi interessi che il territorio esprime, e sia piuttosto portata a complessi compromessi o scambi tra le rivendicazioni dei Comuni. La conformazione della competizione elettorale, inoltre, suggerisce la necessità di ampie alleanze trasversali, anche perché il presidente non ha una maggioranza in consiglio, e comunque questa può mutare in corso di mandato 66; ma questo risponde alla logica di un ente che non esprimerà più (o non dovrebbe esprimere) una linea politica propria, ma “ancillare” alle esigenze dei Comuni che lo compongo.
5. Le funzioni della nuova Provincia Poiché lo scopo della legge Delrio è quello di ridefinire l’identità istituzionale della Provincia, insieme al ridisegno della sua forma di governo e della rappresentatività dei suoi organi si è dato avvio ad un processo di riordino/redistribuzione delle competenze tra i livelli territoriali. Il senso complessivo di tale processo si muove intorno a due capisaldi: da un lato, valorizzare il più possibile il livello comunale, in forma singola o, preferibilmente, associata; dall’altro lato, ridurre il più possibile le competenze lasciate in capo alla Provincia, anche per facilitare il futuro compito del legislatore statale e regionale, chiamato presumibilmente ad abolire le Province e ad individuare nuove forme identificative dell’ente di area vasta. Il primo caposaldo si legge nel co. 89 dell’art. 1 della legge, che pone le premesse per un massiccio trasferimento di un gran numero delle funzioni attualmente esercitate dalle stesse Province e indica nelle forme associative tra Comuni67 il punto di caduta di molte di esse. Tutte le funzioni provinciali diverse da quelle del comma 85, infatti, dovranno essere riallocate in attuazione dell’articolo 118 della Costituzione, nonché al fine di conseguire le seguenti finalità: a) individuazione dell'ambito territoriale ottimale di esercizio per ciascuna funzione; b) efficacia nello svolgimento delle funzioni fondamentali da parte dei Comuni e delle unioni di Comuni; c) sussistenza di riconosciute esigenze unitarie; d) adozione di forme di avvalimento e deleghe di esercizio tra gli enti territoriali 65
Particolarmente critico sulla configurazione della forma di governo provinciale è O. CHESSA, La forma di governo provinciale, cit., 8, che osserva che “una forma di governo in cui organi rappresentativi di II grado non sono responsabili politicamente dinanzi ad un organo rappresentativo di I grado, non soddisfa il concetto democratico di rappresentanza politica, né quindi appare conforme al principio di sovranità popolare. Peraltro la rappresentanza elettiva diretta, ossia l’assemblea dei sindaci, ha un rilievo decisamente marginale nei processi decisionali dell’ente: nel nuovo modello di sistema provinciale il funzionamento della forma di governo s’impernierebbe esclusivamente sull’iniziativa, l’indirizzo e le funzioni degli organi a elezione indiretta”. 66 Non a caso, il percorso politico che sta conducendo all’appuntamento delle prime nuove elezioni provinciali, fissate per il prossimo 12 ottobre, sta vedendo in molte Province italiane lo sforzo di dar vita ad alleanze trasversali ampie, che potrebbero addirittura sfociare in una lista unica per l’elezione del consiglio provinciale, formata dai rappresentanti dei vari partiti. 67 A cui la stessa legge Delrio dedica numerose disposizioni, dal co. 105 al co. 139 dell’art. 1.
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coinvolti nel processo di riordino, mediante intese o convenzioni. Sono altresì valorizzate forme di esercizio associato di funzioni da parte di più enti locali, nonché le autonomie funzionali68. Alla scelta del legislatore di enfatizzare il livello comunale si accompagna la consapevolezza “che i confini geografici dei Comuni non siano adatti, vuoi per eccesso (conurbazioni), vuoi per difetto (piccoli paesi), ad una produttiva gestione dei servizi”69; per questo soprattutto le “unioni di comuni” assurgono a forma organizzativa privilegiata per perseguire gli obiettivi di efficienza e razionalità dimensionale senza calpestare identità municipali fortemente radicate nelle comunità locali; ciò a dispetto del fatto che l’esperienza di questi ultimi anni, che ha seguito in molte leggi di settore un’ispirazione analoga, ha spesso dimostrato che l’unione di comuni può risultare un fattore di appesantimento burocratico e di duplicazione di uffici, anziché di semplificazione. La formulazione del co. 89 è però sufficientemente aperta da lasciare spazio ad una pluralità di soluzioni, variabili in relazione a ciascuna funzione. Come si è detto, le Province non vengono cancellate e conservano una serie di funzioni fondamentali di area vasta, che il co. 85 compendia nel seguente elenco: a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza; b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente; c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale; d) raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali; e) gestione dell’edilizia scolastica; f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale 70. La Provincia può altresì, d’intesa con i Comuni, esercitare le funzioni di predisposizione dei documenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio dei contratti di servizio e di organizzazione di concorsi e procedure selettive. La ratio dell’elenco contenuto nell’art. 1, co. 85, della legge Delrio richiama l’art. 21, co. 4, della legge 5 maggio 2009, n. 42 71, che considerava quali funzioni fondamentali provinciali di cui assicurare il finanziamento, oltre alle funzioni 68
In via transitoria, però, le funzioni che nell’ambito del processo di riordino sono trasferite dalle province ad altri enti territoriali continuano ad essere da esse esercitate fino alla data dell’effettivo avvio di esercizio da parte dell’ente subentrante; tale data è determinata nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 92 per le funzioni di competenza statale ovvero è stabilita dalla regione ai sensi del comma 95 per le funzioni di competenza regionale. 69 Così G. CLEMENTE DI SAN LUCA, Il vero irrinunciabile ruolo della Provincia e le sue funzioni fondamentali, in www.federalismi.it, n. 6/2013, 5, che peraltro ritiene, come altri, che tale circostanza giustifichi il mantenimento delle Province, e non la loro soppressione a favore di altre forme associative tra enti locali, specialmente in considerazione di essenziali esigenze di programmazione territoriale. 70 Le Province di cui al comma 3, secondo periodo (montane), esercitano altresì le seguenti ulteriori funzioni fondamentali: a) cura dello sviluppo strategico del territorio e gestione di servizi in forma associata in base alle specificità del territorio medesimo (nota bene che, da questa funzione, possono derivare potenzialità molto ampie a favore della nuova Provincia); b) cura delle relazioni istituzionali con province, province autonome, regioni, regioni a statuto speciale ed enti territoriali di altri Stati, con esse confinanti e il cui territorio abbia caratteristiche montane, anche stipulando accordi e convenzioni con gli enti predetti. 71 Recante la “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione”.
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generali di amministrazione, di gestione e di controllo, le funzioni di istruzione pubblica, ivi compresa l’edilizia scolastica, le funzioni nel campo dei trasporti, le funzioni riguardanti la gestione del territorio, le funzioni nel campo della tutela ambientale, le funzioni nel campo dello sviluppo economico relative ai servizi del mercato del lavoro. Si tratta in ogni caso di un elenco di funzioni fondamentali “eterogeneo”, nel quale rientrano sia competenze puntuali, come la “pianificazione territoriale provinciale di coordinamento”, sia funzioni amministrative più generali, come la “tutela e valorizzazione dell’ambiente 72; e, d’altra parte, sia funzioni di pianificazione/programmazione, come appunto la “pianificazione territoriale” o la “programmazione della rete scolastica”, sia funzioni gestionali dirette come la “costruzione e gestione delle strade provinciali”, la “gestione dell’edilizia scolastica”, la gestione delle gare d’appalto per conto dei Comuni 73. Peraltro, è un elenco a maglie larghe, che potrà essere riempito di tutte le funzioni complementari a quelle attribuite dalla nuova normativa 74. Dall’elenco delle funzioni fondamentali mantenute in capo alla Provincia scompaiono invece alcuni compiti che, a partire dagli anni ’90, erano entrati nella mission istituzionale dell’ente: la tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche, la valorizzazione dei beni culturali, la protezione della flora e della fauna, parchi e riserve naturali, la caccia e pesca nelle acque interne, l’organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, il rilevamento, disciplina e controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche e sonore, i servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale, secondo l’elenco contenuto nell’art. 14 della legge 142 del 72
Lo osserva il documento congiunto Anci-Upi, cit., 3, che richiama la necessità di procedere secondo i seguenti principi e criteri: 1) l’attribuzione alle Province delle diverse attività amministrative riconducibili alle nuove funzioni fondamentali elencate nel comma 85, lett. a) b) c) d) e) f); 2) la ricomposizione in modo organico in capo alle Province di tutte le competenze che sono esercitate da altri soggetti amministrativi e che invece rientrano nelle funzioni fondamentali; 3) l’eventuale trasferimento ad altri livelli di governo delle competenze amministrative oggi svolte dalle Province che non rientrano nelle loro funzioni fondamentali. 73 G. CLEMENTE DI SAN LUCA, Il vero irrinunciabile ruolo della Provincia e le sue funzioni fondamentali, cit., 6, è critico rispetto alla scelta di affiancare, nello stesso ente provinciale, funzioni di programmazione e funzioni di gestione, per due motivi di fondo: “da un canto, la ‘testa’ – per usare una espressione gergale ma efficace – di chi deve gestire non è, o assai di rado può essere, la stessa di chi deve programmare. Chi deve pensare per rispondere ai bisogni dell’oggi difficilmente può con serietà, preoccuparsi dello sviluppo, di immaginare e leggere il futuro. D’altro canto, non può essere valutata l’esperienza, ormai storica, che ha dimostrato la ‘naturale’ inclinazione del potere politico a pratiche di ‘sottogoverno’, tanto che non è affatto peregrino ipotizzare un cattivo esito della programmazione nelle mani degli stessi soggetti che sono impegnati nella gestione attiva”. Le uniche competenze gestionali che, secondo l’A., dovrebbe essere riconosciute alle Province attengono alla verifica in senso lato delle modalità di svolgimento delle funzioni comunali. 74 Cfr. il documento Anci-Upi, cit., 3: “Ad esempio: se parliamo di «tutela e valorizzazione dell’ambiente» e di «regolazione della circolazione stradale», ciò rende implicito il mantenimento delle funzioni di polizia Provinciale. Analogamente, dentro la voce «tutela e valorizzazione dell’ambiente» devono essere ricomprese le competenze amministrative sui controlli e autorizzazioni ambientali, su caccia e pesca, protezione della flora e della fauna, gestione dei parchi e delle aree protette, organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello Provinciale. Lo stesso tipo di approccio deve valere per le funzioni relative alla «programmazione Provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale» e alla «gestione dell’edilizia scolastica». Una lettura sistematica delle disposizioni sulle funzioni fondamentali dei comuni e delle province porta a concludere che restano in capo alle Province sia le attuali competenze in materia di programmazione della rete scolastica, di orientamento scolastico e diritto allo studio, sia le competenze in materia di gestione dell’edilizia scolastica delle scuole superiori”.
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1990 e poi trasfuso nell’art. 19 del Tuel (d.lgs. 267 del 2000); a cui si aggiunge il ruolo nel mercato del lavoro, con l’incontro tra la domanda e l’offerta d’impiego, riconosciuto dalle riforme Bassanini75. Ora, se alcune di queste funzioni possono essere fatte rientrare nell’ampia dizione dell’art. 1, co.85, lett. a), della legge Delrio, laddove fa riferimento alla “tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza”, per altre l’omissione non è del tutto comprensibile, se non nell’ottica del disegno di futura abolizione dell’ente; con il rischio che, se il legislatore non interverrà a correggere l’elenco, si creino vuoti amministrativi o confusione in settori delicati 76. Infine, nella logica della semplificazione e della concentrazione delle funzioni in capo ad un unico centro decisionale, il comma 90 prevede la soppressione di enti o agenzie di ambito provinciale o sub provinciale, per concentrare nella Provincia tutte le funzioni che ad essa competono. 6. Conclusioni Da quanto abbiamo sin qui osservato emerge che la nuova Provincia prenderà le mosse in un contesto di grande incertezza: in ordine al quadro costituzionale di riferimento e alla conformità della disciplina a quello attuale; in ordine alla funzionalità della forma di governo e all’efficacia dei raccordi con i Comuni; in ordine alla sorte finale di molte delle competenze attualmente esercitate dalle Province. Non è difficile prevedere che, nei primi mesi o anni, si navigherà letteralmente a vista, con sperimentazioni da un lato, resistenze al cambiamento dall’altro, e con un notevole rischio di confusione del quadro istituzionale complessivo. Sarebbe stato preferibile attendere la conclusione del processo di riforma costituzionale all’esame del Parlamento, così da avere un quadro più chiaro della cornice di riferimento e da fugare molti dei rilievi di costituzionalità che sono stati mossi; così come non sarebbe stato inutile coinvolgere maggiormente le Regioni in questo processo di riforma del sistema territoriale locale, lasciando a ciascuna di esse più spazio nella scelta della tipologia e della dimensione ottimale dell’ente di area vasta; ma è noto che, su questo punto, le principali resistenze giungono proprio dagli enti locali, che hanno sempre cercato nello Stato un ombrello protettivo dalle ingerenze regionali77. 75
Cfr. l’ “Analisi di alcune funzioni fondamentali delle Province per l’individuazione del fabbisogno standard”, ricerca sull’attuazione del federalismo fiscale nelle province coordinata da FRANCESCO DELFINO, in www.upinet.it. 76 A riprova dell’andamento ondivago del legislatore sul ruolo delle Province, va ricordato che nel disegno di legge per l’approvazione del Codice delle autonomie locali (18 novembre 2009), a tali enti venivano assegnate, quali funzioni fondamentali, anche “l’organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito sovra comunale, la protezione civile, la prevenzione delle aree ad elevato rischio ambientale, le funzioni di autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato in ambito provinciale”, oltre a tutte le altre funzioni richiamate nel testo. Cinque anni dopo lo scenario è completamente mutato, come emerge dalla lettura del co. 85 dell’art. 1 della legge Delrio. 77 Si sofferma in particolare sulla reciproca diffidenza tra Regioni ed enti locali R. BIN, Il nodo delle Province, cit., 15, che osserva che “il fatto che ancor oggi condiziona più pesantemente l’assetto dei poteri locali e ne impedisce uno sviluppo razionale … [è] la separazione – anzi, assai spesso, la contrapposizione – tra regioni e enti locali, rimasti quest’ultimi sino ad oggi soggetti alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. Questa separazione ha impedito non solo alla regione di modellare l’assetto dei «suoi» enti locali, ma
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Soprattutto, sarebbe forse stato preferibile resistere alle sirene della spending review, e riflettere più a fondo se a non essere più attuali come enti politico-amministrativi di prossimità siano oggi gli 8057 78 Comuni, piuttosto che le Province: si vuole dire che, nel contesto odierno, i Comuni hanno ragione d’essere come terminali di gestione delle funzioni amministrative fondamentali, meno invece come luoghi della decisione politica sulle principali esigenze delle comunità locali, quale l’uso del territorio, lo sviluppo economico, le infrastrutture, i servizi sociali, la gestione dei rifiuti e delle principali risorse. Per tutte queste esigenze la dimensione provinciale appare ormai come una dimensione minima imprescindibile, anche per sottrarre decisioni particolarmente rilevanti a logiche puramente localistiche o a pratiche corruttive purtroppo assai diffuse. La legge Delrio ha fatto però una precisa scelta di segno diverso: ha scelto cioè di depotenziare la dimensione politica dell’ente Provincia, facendone un organismo di coordinamento tra Comuni, ancorché abbia lasciato ad esso alcune funzioni fondamentali che possono rivelarsi tutt’altro che secondarie: pianificazione territoriale, infrastrutture stradali, tutela ambientale, oltre ad altri servizi generali il cui ambito ottimale può coincidere con il territorio provinciale. Ma, soprattutto, ha scelto il modello di ente non direttamente investito dalla legittimazione elettorale, che dovrà svolgere le proprie funzioni su base consensuale e collaborativa, non avendo l’autorità di compiere scelte politiche autonome rispetto all’indirizzo concordato dai Comuni rappresentati. Lo scopo della riforma è quindi quello di valorizzare il dialogo intercomunale, e di cancellare progressivamente l’entificazione politica dell’area vasta; anche perché non è detto che la Provincia corrisponda al livello ideale di organizzazione dei servizi di area vasta sul territorio regionale. In quest’ottica saranno i Comuni i veri protagonisti della riforma, perché la chiave della sua efficacia sta proprio nella loro capacità di superare la logica di una contrapposizione politica con il livello provinciale, e di vedere invece in quest’ultimo un punto naturale di definizione e di coordinamento di decisioni che li riguardano tutti, oltre che un momento di efficienza della loro azione; in attesa che la riforma costituzionale in itinere contribuisca a chiarire e a dare un assetto definitivo ad un’organizzazione territoriale le cui linee di sviluppo seguite in questi ultimi anni hanno mostrato i loro limiti e che richiede pressantemente una profonda riscrittura. * Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Brescia
anche agli enti locali di concepire come «propria» la regione”. 78 Secondo il dato al 1° gennaio 2014 ricavabile dal sito www.tuttitalia.it.
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Brevi riflessioni in tema di sostanziale disconoscimento del diritto costituzionale d’asilo nella recente giurisprudenza di legittimità* di Elton Xhanari** (31 agosto 2014) Sommario: I. L’art. 10, comma 3, Cost.: un diritto soggettivo perfetto? – II. L’evoluzione giurisprudenziale in relazione al diritto d’asilo costituzionale. – III. L’attuale sistema di protezione internazionale e il diritto umanitario interno. – IV. Riflessioni conclusive: diritto “attuato” o diritto “disconosciuto”? I. L’art. 10, comma 3, Cost.: un diritto soggettivo perfetto? La finalità del presente lavoro è duplice. Anzitutto si tenterà di evidenziare l’insieme dei presupposti e delle condizioni per azionare il diritto d’asilo costituzionale e quella fitta rete di tutele dello “straniero che fugge” prevista dall’ordinamento positivo. Si analizzerà, successivamente, il percorso seguito dalla giurisprudenza di legittimità che, nella colpevole e perdurante inerzia del legislatore, ha provato a dare applicazione all’art. 10, comma 3, della Costituzione. In conclusione si proverà a rispondere alla domanda se, ad oggi, il diritto costituzionale di asilo abbia ancora margini di espansione o se, come ritiene la Cassazione, esso sia già stato «pienamente attuato». La chiarezza della disposizione costituzionale, nonché il vivace dibattito sviluppatosi in
sede
di Assemblea
costituente,
consentono
all’interprete
una
ricostruzione
relativamente agevole della norma di cui all’art. 10, c. 3, della Costituzione1. Dottrina pressoché unanime ritiene che «ove si accerti che allo straniero sono negate libertà politiche e civili fondamentali nel suo Paese, il diritto all’asilo resta acclarato»2. Prescindendo,
dunque,
da
qualsivoglia
vis
persecutoria di organi pubblici od
organizzazioni private, gli stranieri (o gli apolidi) sono titolari del diritto d’asilo costituzionale in ogni caso in cui trovino «repugnante alla loro coscienza civile e morale vivere in uno Stato autoritario»3. Per fruire del diritto d’asilo sono pertanto necessari e sufficienti due sole condizioni: da un lato, che nel Paese di provenienza ci sia una situazione effettiva d’illiberalità; dall’altro lato, che tale situazione obiettiva sia il fattore *
Scritto sottoposto a referee. Art. 10, comma 3, Costituzione: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». 2 C. ESPOSITO, Asilo (diritto di), in Enciclopedia del Diritto, vol. III, Milano, 1958. In senso conforme, si veda P. BONETTI, Il diritto d’asilo nella Costituzione italiana, in C. FAVILLI (a cura di), Procedure e garanzie del diritto d’asilo, Padova, 2011; M. BENVENUTI, Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano. Un’introduzione, Padova, 2007; F. RESCIGNO, Il diritto di asilo, Roma, 2012; M. ASPRONE, Il diritto d'asilo e lo status di rifugiato, Roma, 2012. 3 A. CASSESE, Il diritto di asilo territoriale degli stranieri, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione: principi fondamentali art.1-12, Bologna, 1975, p. 536. 1
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determinante per spingere lo “straniero che fugge” a cercare protezione presso lo Stato italiano. La tesi sottostante a tale visione, ossia «della rispondenza a natura umana delle libertà garantite dalla Costituzione italiana»4, per cui qualunque essere umano deve poterne godere, è senza dubbio affascinante5. Pertanto, se nel Paese straniero di cui si è cittadini o in cui si risiede abitualmente (nel caso dell’apolide) ciò non accadesse, allora l’Italia deve poter essere un porto sicuro. Almeno nelle intenzioni del costituente. Alla luce di queste considerazioni si può affermare che l’asilo costituzionale individui con chiarezza sia i destinatari della norma (gli stranieri e, in via d’interpretazione analogica, gli apolidi) che i presupposti oggettivi per la sua applicazione (l’effettivo impedimento dell’esercizio dei diritti liberal-democratici previsti dalla Costituzione italiana nei rispettivi Paesi di provenienza). Per fruire del diritto d’asilo non è invece richiesta la presenza (o anche solo il timore) di un’attività persecutoria e pertanto non vi è la necessità che lo straniero esterni, entro i confini dello Stato di provenienza, il disagio morale di vivere in un regime illiberale. In altri termini la nostra Carta fondamentale, al fine di riconoscere il diritto d’asilo, non pretende “atti d’eroismo” ma richiede solo la fuga, ossia il fatto che lo straniero abbia trovato il modo di recarsi presso le frontiere italiane6. In proposito si deve evidenziare che, in attuazione del diritto costituzionalmente garantito, il legislatore ordinario non potrebbe in alcun modo alterare la causa di giustificazione dell’istituto che, come appena osservato, prescinde dall’esistenza di qualsiasi intento persecutorio. E non potrebbe nemmeno limitare l’ambito soggettivo degli aventi diritto d’asilo, ad esempio escludendo categorie di stranieri provenienti da Paesi considerati per presunzione legislativa assoluta come “sicuri”. Il riconoscimento del diritto d’asilo deve dipendere infatti da una valutazione individuale e soggettiva. Il legislatore dovrebbe quindi limitarsi a disciplinare le procedure per il riconoscimento e per la revoca del diritto in argomento, nonché le condizioni «di permanenza dello straniero nel territorio della Repubblica»7. Condizioni che, in ogni caso, non potrebbero essere deteriori rispetto a quelle riconosciute allo straniero in generale, 4
C. ESPOSITO, Asilo (diritto di), cit. Ricostruendo la “volontà storica” dei costituenti l’unica categoria che essi paiono voler escludere dal novero dei titolari del diritto d’asilo è quella dei “carnefici”. Si tratta di coloro che si sono adoperati a rovesciare manu militari una forma di Stato democratica al fine di instaurarvi un regime illiberale. Ad essi non può venir riconosciuto il diritto d’asilo costituzionale né nel caso in cui tale tentativo fallisca ed essi rischino di essere legalmente perseguiti nel proprio Paese, né nel caso in cui il tentativo abbia successo ma poi i responsabili decidano di abbandonare tale Paese. Si veda A. CASSESE, Il diritto di asilo territoriale degli stranieri, cit. 6 Tesi tutt’altro che pacifica in seno all’Assemblea costituente. La posizione comunista, infatti, al fine di riconoscere il diritto d’asilo prevedeva che lo straniero fosse perseguitato per aver difeso i diritti della libertà e del lavoro. 7 M. BENVENUTI, Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano. Un’introduzione, cit., p. 139. 5
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considerando il favor costituzionale previsto nei confronti di tale particolare categoria. L’ampiezza della garanzia costituzionale unitamente all’inerzia protratta del legislatore portano ad affrontare una prima questione di fondo: la riserva assoluta di legge posta dalla disposizione costituzionale in argomento non rischia di degradare la norma in esame a poco più che un “buon auspicio” ovvero a una norma meramente programmatica? Del resto la sua fedele applicazione potrebbe comportare difficoltà oggettive, visto che l’abbondanza di Stati autoritari ed illiberali presenti sul pianeta potrebbe costringere l’Italia ad accogliere milioni di stranieri potenzialmente accalcati presso le frontiere. Per scongiurare questa eventualità sarebbe sufficiente accogliere il principio costituzionale in una dimensione non assolutistica, senza con ciò abbandonare la tesi che alla legge ordinaria sia preclusa la possibilità di porre limiti quantitativi al diritto d’asilo costituzionale. Se infatti si deve certamente rifiutare l’idea di un asilo “contingentato”, allo stesso tempo nulla vieta che l’istituto di cui all’art. 10, comma 3, Cost., possa incontrare un limite fisiologico nell’esigenza di bilanciamento con altri beni costituzionali di pari livello. Un limite di questo tipo è ad esempio riscontrabile all’art. 16, comma 1, Cost. 8, in base al quale sarebbe possibile limitare l’ingresso e il soggiorno degli stranieri richiedenti il diritto d’asilo per «motivi di sanità o di sicurezza» stabiliti dalla legge in via generale9. II. L’evoluzione giurisprudenziale in relazione al diritto d’asilo costituzionale. Se è vero che un diritto soggettivo esiste solo nella misura in cui può venire tutelato dagli organi giurisdizionali, allora il c.d. “diritto d’asilo costituzionale” rappresenta un caso esemplare di tutela rimasta esclusivamente “sulla carta” per oltre mezzo secolo. A contribuire a questa grave lacuna nella tutela effettiva del diritto d’asilo è stato innanzi tutto il legislatore, che di fatto non ha mai inteso dar seguito alla riserva di legge assoluta prevista al terzo comma dell’art. 1010. Il suo sforzo maggiore è stato semmai quello di confondere due piani ben distinti, ossia quello dell’asilo e quello del rifugio, legiferando solo su quest’ultimo11 ma utilizzando (decisamente e colpevolmente a sproposito) il 8
Art. 16, comma I, Cost: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata per ragioni politiche». 9 M. BENVENUTI, Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., p. 148. 10 In questo senso Cassese ritiene che la riserva di legge precluda agli organi di potestà regolamentare di intervenire nella disciplina e allo stesso tempo inviti il legislatore ordinario ad «integrare legislativamente il dettato costituzionale» (A. CASSESE, Il diritto di asilo territoriale degli stranieri, cit., p. 534). 11 Si possono ad esempio citare: a) La c.d. “Legge Martelli” (n. 39/1990), il cui art. 1, comma 11, disponeva che «I richiedenti asilo che hanno fatto ricorso alle disposizioni previste per la sanatoria dei lavoratori immigrati non perdono il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato»; b) La c.d. legge “Bossi-Fini” (n. 189/2002), che prevedeva che per
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termine «asilo». Il contesto geopolitico della seconda metà del secolo scorso (la divisione in blocchi, l’assenza della distinzione cittadini comunitari/cittadini extracomunitari, il minore impatto delle migrazioni di massa dai Paesi dell’emisfero meridionale, ecc.) e una certa “sottovalutazione” dei problemi anche da parte della dottrina, hanno finito per provocare una sorta di colpevole silenzio sul tema dell’asilo politico così come concepito dal Costituente. E allora non ci si deve stupire se tutto il peso di una norma così progressista e garantista e così piena d’implicazioni (ideali e concrete)12 sia caduto interamente sulle spalle di una giurisprudenza di legittimità dimostratasi nell’ultimo quindicennio giocoforza ondivaga, mutevole e immemore rispetto al dettato costituzionale. Punto di partenza nella ricostruzione di tale percorso giurisprudenziale rimane una non troppo datata pronuncia della Cassazione13 che, conferendo al giudice ordinario la giurisdizione in tema d’asilo costituzionale, afferma alcuni importanti principi. In primis, la Suprema Corte sostiene che lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite nella Costituzione italiana gode ai sensi dell’art. 10, comma 3, Cost. di un «vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo». Dalla disposizione costituzionale, infatti, è possibile ricavare una norma dal carattere immediatamente precettivo dato che «seppure [essa] in parte necessita di disposizioni legislative di attuazione, delinea con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto d’asilo». Con una motivazione che appare chiara e del tutto condivisibile, la Corte sostiene che la causa di giustificazione del diritto d’asilo debba essere rintracciata nell’«impedimento all’esercizio delle libertà democratiche» ponendo l’accento, in particolare, sul carattere “effettivo” di tale illiberalità. In secondo luogo, alla domanda se la disciplina prevista in materia di rifugio14, volta a recepire nel nostro ordinamento la Convenzione di Ginevra, fosse applicabile anche agli asilanti costituzionali, la Cassazione ritiene debba rispondersi negativamente. Dal punto di vista soggettivo, infatti, rifugiati e asilanti non coincidono, poiché la categoria dei primi «è vedersi riconosciuto lo status di rifugiato, fosse necessario presentare «domanda d’asilo». 12 Appare sintomatica dell’ideologia di fondo in seno alla Costituente l’enfasi con cui l’on. Tonello sosteneva che «nella Costituzione deve essere messo limpido il concetto che sacra deve essere l’ospitalità». L’on. Nobile, d’altro canto, affermava che fosse fuori discussione concedere il diritto d’asilo «ai rifugiati politici isolati». Sarebbe sorto più di un problema, però, nel caso in cui battessero «alle nostre porte migliaia di profughi politici di altri Paesi e noi saremmo costretti a dar loro asilo senza alcuna limitazione, quando restrizioni potrebbero venir consigliate anche da ragioni di carattere economico» (Camera dei Deputati, Segretariato Generale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea costituente, Roma, 1976, p. 800). 13 Cassazione Civile, Sezioni Unite, 26 maggio 1997, n. 4674. 14 All’epoca ci si riferiva alla c.d. “Legge Martelli” (n. 39/1990) che disciplinava l’iter di richiesta e riconoscimento dello status di rifugiato plasmato sulla disciplina della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata dall’Italia con l. n. 722 del 1954.
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meno ampia di quella degli aventi diritto all’asilo». «Il fattore determinante per l’individuazione del rifugiato», prosegue la Corte, «è, se non la persecuzione in concreto, un fondato timore di essere perseguitato», mentre la norma costituzionale prevede semplicemente l’effettivo impedimento «dell’esercizio delle libertà democratiche». In altri termini, riportando il ragionamento sul piano teorico della distinzione fra genus e species, se tutti i rifugiati possono essere titolari del diritto d’asilo, non tutti gli asilanti costituzionali possono essere nelle condizioni giuridiche e di fatto per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato. Se si pone l’attenzione alle cause di giustificazione dei due diversi istituti si può affermare che «l’effettivo impedimento nell’esercizio delle libertà democratiche» racchiude in sé anche «la persecuzione in concreto o almeno il fondato timore di essere perseguitato». Mentre può non valere l’inverso. Tuttavia, la Suprema Corte è laconica su un punto focale, cioè su quale sia la concreta portata dei diritti degli asilanti in assenza di una legge di applicazione dell’art. 10, comma 3. Qui la Corte si limita ad affermare che «null’altro viene garantito se non l’ingresso nello Stato». Nel giro di poco più di un quinquennio, la Corte di Cassazione imbocca un’altra strada e inaugura un nuovo orientamento, relegando l’asilo costituzionale in uno spazio angusto e marginale tramite un iter argomentativo non sempre lineare15. Prende corpo l’idea secondo cui il contenuto del diritto d’asilo ai sensi dell’art. 10, comma 3, Cost., in assenza di una legge ordinaria d’applicazione, «deve intendersi come diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di esperire la procedura per ottenere lo status di rifugiato». In estrema sintesi, nelle more del procedimento amministrativo (ed eventualmente giurisdizionale) per il riconoscimento dello status di rifugiato in conformità alla Convenzione ginevrina, lo straniero non è, come parrebbe logico, un richiedente rifugio, bensì un asilante16. Il salto logico è notevole e di non facile comprensione. Il permesso di soggiorno temporaneo17 in attesa di verificare le condizioni per ottenere lo status di rifugiato, in realtà, deriverebbe dal diritto d’asilo costituzionale. Partendo da tali premesse, la Cassazione è giunta a sostenere persino che, preso atto della lacuna legislativa, «il diritto d’asilo, che può essere esercitato alle condizioni stabilite dalla legge, in realtà non
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Cassazione Civile, Sezione I, 4 maggio 2004, n. 8423; Cassazione Civile Sezione I, 1 settembre 2006, n. 18941; Cassazione Civile, Sezione I, 8 novembre 2007, n. 23352. 16 Fra le tante critiche mosse a tale orientamento giurisprudenziale, si veda in particolare, l’aspro commento di L. MELICA, La Corte di cassazione e l’asilo costituzionale: un diritto negato? Note alle recenti sentenze dalla 1^ sezione della Corte di cassazione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 4/2006, p. 57 e ss. 17 Al tempo il riferimento normativo era ancora l’art. 1, c. 5 della legge n. 39/1989.
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c’è»18. E ancora, «l’esistenza di un autonomo diritto di asilo» si ritiene essere, apertis verbis, «inconsistente»19. Nell’inerzia del legislatore, il nuovo corso giurisprudenziale riduce a ben poca cosa il diritto d’asilo costituzionale. Riecheggia, dunque, l’antica, insana polemica della prima metà degli anni ’50 sui limiti e la portata delle disposizioni costituzionali, sulla precettività dei diritti fondamentali anche in assenza dell’intervento del legislatore ordinario. Il diritto d’asilo, seppur proclamato in maniera solenne ed enfatica nei principi fondamentali della Carta repubblicana, diviene un istituto dalla minima consistenza, appiattito sullo status di rifugiato nonostante quest’ultimo poggi su ben altre motivazioni giuridicamente apprezzabili. Dopo
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fondamentali interventi del legislatore in tema di protezione
internazionale, in applicazione di altrettante direttive europee20, la Cassazione abbandona la sua giurisprudenza restrittiva per approdare ad una interpretazione vagamente “internazionalistica” in materia di asilo costituzionale. In sintesi, la Suprema Corte supera esplicitamente «la giurisprudenza di cui a Cass. 18940/2006, per la quale il diritto di cui all'art. 10, c. 3, Cost. degraderebbe a mera posizione processuale o strumentale» ma continua a ritenere che non sussiste margine d’applicazione diretta dell’asilo costituzionale21. E ciò non perché la garanzia costituzionale sia di fatto inconsistente in assenza di legge d’applicazione, bensì perché essa sarebbe stata interamente attuata in virtù degli interventi legislativi nell’ambito del c.d. «sistema pluralistico di protezione internazionale»22. In altre parole, alla luce del quadro di tutele assicurate all’interno di questo sistema, non sarebbe più necessaria una specifica legge di attuazione dell’asilo costituzionale. Esso, infatti, secondo tale tesi, «è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari» ex art. 5. comma 6, del testo unico sull’immigrazione. La Cassazione ha aggiunto diversi tasselli a tale ragionamento in pronunce successive anche recenti23, sostenendo, con maggior chiarezza, che il sistema di 18
Cassazione Civile Sezione I, 1 settembre 2006, n. 18941. La Suprema Corte ritiene «sicuramente fondato», tale ragionamento formulato dal giudice di merito (nel caso di specie la Corte d’Appello di Firenze). 19 Cassazione Civile, Sezione I, 8 novembre 2007, n. 23352. 20 Si tratta della direttiva UE 2004/83, recepita mediante il d. lgs. n. 251/2007 (c.d. “direttiva qualifiche”) che detta le norme sul riconoscimento dello status di rifugiato e di soggetto protetto in via sussidiaria, nonché della direttiva UE 2005/2007, recepita mediante il d. lgs. 25/2008 (c.d. “direttiva procedure”) che prevede norme minime sulle procedure per il riconoscimento e la revoca degli status di cui sopra. 21 Cassazione Civile, Ordinanza del 26 giugno 2012, n. 10686. 22 Cassazione Civile, Sezione VI, Sentenza del 10 gennaio 2013, n. 563. 23 Cassazione Civile, Sezione VI, Sentenza del 29 novembre 2013, n. 26887; Cassazione Civile, Sezione VI, Sentenza
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protezione internazionale (precisamente la protezione sussidiaria), nonché la protezione residuale interna (tutela umanitaria), rispondono all’esigenza di «includere nel sistema [...] situazioni di pericolo di danno grave per l’incolumità personale o altre rilevanti violazioni dei diritti umani delle persone, non riconducibili al modello persecutorio del rifugio, perché generate da situazioni endemiche di conflitto e violenza interna, dall’inerzia o connivenza di poteri statuali o da condizioni soggettive di vulnerabilità non emendabili nel paese di provenienza». Ciò ha portato il medesimo giudice a ritenere, forse con troppa enfasi, che le due figure di protezione internazionale (rifugio e protezione sussidiaria) e la misura umanitaria interna, residuale ed atipica, «hanno finalmente determinato l’attuazione del diritto d'asilo costituzionale». Per provare a comprendere questo orientamento giurisprudenziale appare opportuno porsi la seguente (non retorica) domanda: nell’attuale quadro normativo, colui al quale venga impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana gode di una qualche tutela, anche se non denominata propriamente asilo, nel territorio della Repubblica? Dopo aver analizzato la ratio del diritto d’asilo costituzionale, si deve ora focalizzare l’attenzione sulle misure di tutela dello “straniero che fugge” presenti nel nostro ordinamento e solo dopo tale ulteriore indagine si potranno da ultimo sovrapporre i due piani al fine di evidenziare eventuali coincidenze e/o discrepanze. III. L’attuale sistema di protezione internazionale e il diritto umanitario interno. Grazie alla spinta comunitaria, l’insoddisfacente quadro legislativo nazionale sulla tutela e protezione dei “migranti non economici”24 ha subito un notevole miglioramento sia in relazione agli aspetti sostanziali (condizioni di riconoscimento e di revoca dei diversi status) sia per ciò che riguarda gli aspetti procedurali (iter amministrativo ed eventuale tutela giurisdizionale). La disciplina in materia è regolata dalla direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/83/CE,25
del 13 gennaio 2014, n. 506. 24 Sono tutti quegli stranieri che abbandonano il proprio Paese d’origine per motivi diversi ed in genere più gravi rispetto alla ricerca di occupazione oppure di condizioni di vita migliori. 25 Lo scopo principale della direttiva, ai sensi del considerando 6, è quello «di assicurare che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale» e «di assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri». Il fine secondario è che «il ravvicinamento delle norme relative al riconoscimento e agli elementi essenziali dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria, dovrebbe contribuire a limitare i movimenti secondari dei richiedenti asilo tra gli Stati membri, nei casi in cui tali movimenti siano dovuti esclusivamente alla diversità delle normative» (considerando 7).
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rifusa, da ultimo, nella direttiva 13 dicembre 2011 n. 2011/95/UE26, o nuova direttiva qualifiche, attuata recentemente col d. lgs. 21 febbraio 2014 n. 18, entrato in vigore il 22 marzo 2014. Per la parte che interessa più nello specifico il presente lavoro, la nuova direttiva qualifiche si (ri)propone l’obiettivo di introdurre «definizioni comuni per quanto riguarda il bisogno di protezione internazionale intervenuto fuori dal Paese d’origine (sur place), le fonti del danno e della protezione, la protezione interna e la persecuzione, ivi compresi i motivi di persecuzione»27. Senza perdere di vista l’attuazione per mezzo del d. lgs. n. 18/201428 s’inquadrerà succintamente l’odierno diritto positivo individuando quali categorie dei cc.dd. “stranieri che fuggono”, potrebbero giovarsi in Italia di quella protezione definita “internazionale” (rifugiati e beneficiari di protezione sussidiaria) ma in realtà disciplinata a livello di Unione Europea. Infine si analizzerà la protezione umanitaria tutta interna al nostro ordinamento, prevista come garanzia residuale di chiusura, ossia come “valvola di sfogo”, dell’intero sistema. a. Status di rifugiato. Ai sensi dell’art. 2, lett. e) del decreto qualifiche (d.lgs. 251/2007 come modificato dal d.lgs. 18/2014), viene definito rifugiato lo straniero (o l’apolide) il quale non intende far ritorno nel Paese d’origine (o, per l’apolide, in quello di precedente dimora abituale) a causa del fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinione politica. Da un lato, quindi, deve sussistere un rischio oggettivo di persecuzione individuale e dall'altro lato una personale, fondata paura del richiedente di subire una lesione della sua integrità psicofisica per i motivi di cui sopra. Come si può agevolmente evincere, la figura giuridica del rifugiato riproduce fedelmente le condizioni previste dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, essendo quindi decisiva una vis persecutoria concreta o almeno fondatamente temuta. b. Straniero (o apolide) ammissibile alla protezione sussidiaria. Il decreto qualifiche, sempre all’art. 2, prosegue con la lett. g) definendo la seconda 26
Nel considerando 1 della direttiva 2011/95/CE si chiarisce come fosse «necessario apportare una serie di modifiche sostanziali alla direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004 [....]. È quindi opportuno provvedere, per ragioni di chiarezza, alla rifusione di tale direttiva». 27 Considerando 25, direttiva 2011/95/CE. 28 Atto legislativo che è andato a modificare in specifici punti il precedente d.lgs. 251/2007 producendo come risultato più tangibile il superamento del trattamento concreto dei rifugiati e dei protetti in via sussidiaria. Ad ambo le categorie, infatti, ora si rilascia un permesso di soggiorno di cinque anni (precedentemente i protetti in via sussidiaria potevano godere di un permesso di soggiorno di soli tre anni) ed usufruiscono delle medesime agevolazioni per il ricongiungimento familiare, per il riconoscimento delle qualifiche professionali, dei diplomi, dei certificati e di altri titoli conseguiti all’estero. In altre parole si eleva lo standard di trattamento dei protetti in via sussidiaria, parificandolo ai rifugiati ai sensi della Convenzione ginevrina.
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categoria della protezione internazionale. Si tratta della protezione sussidiaria riservata ai cittadini stranieri nei cui confronti non è rinvenibile una vis persecutoria individuale, motivo per il quale essi non possiedono i requisiti per essere riconosciuti come rifugiati. Se gli stranieri ammissibili alla protezione sussidiaria ritornassero nel Paese d’origine (o di precedente dimora abituale per gli apolidi), correrebbero un rischio effettivo di subire «un grave danno». E, proprio a causa di tale rischio, essi non vogliono avvalersi della protezione di detto Paese. Il «grave danno» richiesto dalla disposizione nazionale, conformemente alla disciplina di livello sovranazionale29, viene tipizzato come segue: a) la condanna a morte o l’esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese d’origine30; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. L’apparente contraddizione sub c), per cui, da un lato si evidenzia il carattere generale della violenza (tipica peraltro in ogni conflitto armato) e dall’altro si richiede una minaccia grave ed individuale alla vita, viene risolta dalla Corte di Giustizia col seguente percorso logico. Colui che intende accedere alla protezione sussidiaria è, «in via eccezionale», esonerato dall’onere di provare «la minaccia grave ed individuale» se la violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso nel Paese d’origine «raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile» che ne faccia ritorno, «correrebbe per la sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire la detta minaccia»31. Ne consegue che l’onere per l’individuo di dimostrare di essere minacciato in modo grave e individuale per situazioni che afferiscono alla propria persona sarà tanto minore quanto maggiore sarà il grado di violenza indiscriminata nel Paese d’origine32. c. Protezione umanitaria. 29
Art. 14 d. lgs 251/2017 che attua l’art. 15 direttiva 2004/83/CE, ora art. 15 direttiva 2011/95/UE. La disposizione riproduce quasi pedissequamente l’art. 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nonché la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987. Secondo la Corte di Strasburgo (sentenza dell’8 luglio 2004, Ilaşcu c. Moldavia e Russia, ricorso n. 48787/99 (Grande Chambre)) «il termine tortura designa ogni atto mediante il quale siano inflitti intenzionalmente a una persona dolore o sofferenza acuti, sia fisici che mentali, allo scopo di ottenere da essa o un’altra persona informazioni o una confessione, di punirla per un atto che essa o un’altra persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, per intimidirla o sottoporla a coercizione o intimidire o sottoporre a coercizione un’altra persona o per qualunque ragione che sia basata su una discriminazione di qualsiasi tipo, a condizione che il dolore o la sofferenza siano inflitti da o su istigazione o con il consenso o l’acquiescenza di un pubblico ufficiale o altra persona che svolga una funzione ufficiale». 31 Sentenza della Corte di giustizia nella causa C-465/07, 17 febbraio 2009. 32 E. G. CORTESE, G. RATTI, M. VEGLIO, S. VITRÒ, Lo straniero e il giudice civile, Torino, 2014, p. 399. 30
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Ai sensi dell’art. 5, comma 6, del testo unico sull’immigrazione33 allo straniero che non possiede i requisiti per vedersi riconosciuto lo status di rifugiato e che non può neppure beneficiare della protezione sussidiaria, viene concesso un ultimo, residuale strumento di tutela di natura umanitaria e di derivazione puramente nazionale. Egli, infatti, ove «ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», può ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari, di durata semestrale, rinnovabile e convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Nell’ordinamento vigente concorrono due canali per ottenere tale titolo di soggiorno. È possibile, infatti, rivolgersi alle Commissioni territoriali richiedendolo come misura residuale alla protezione internazionale (e in tal caso il Questore, che materialmente sottoscrive il provvedimento, non può esercitare alcun potere discrezionale) oppure direttamente allo stesso Questore che potrà concedere il permesso di soggiorno nell’esercizio del proprio potere discrezionale. Contro il diniego di tale protezione umanitaria è possibile adire il giudice ordinario. Ebbene, la Suprema Corte ha affermato come la protezione umanitaria condivida «l’identità della natura giuridica» con le altre misure di protezione internazionale (rifugio e protezione sussidiaria) «in quanto situazioni tutte riconducibili alla categoria dei diritti umani fondamentali»
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. Appurato che la
giurisdizione in materia è quella ordinaria (proprio perché la protezione umanitaria è un diritto soggettivo e non un interesse legittimo), la Cassazione ha precisato che «per il riconoscimento della protezione umanitaria» si prevede la sussistenza di un pericolo di persecuzione ai danni del richiedente, ove «tale persecuzione non giustifichi addirittura il riconoscimento dei più favorevoli status di rifugiato o di protezione sussidiaria»35 oppure si richiede «l’esposizione ad un elevato rischio personale ovvero ad una situazione soggettiva di vulnerabilità [...]»36. Ed è la medesima Cassazione ad ammettere che l’art. 5, comma 6, del testo unico sull’immigrazione «non definisce i seri motivi di carattere umanitario [...]» ma essi devono essere identificati facendo riferimento alle convenzioni universali o regionali nonché in 33
D. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (c.d. “legge Turco-Napolitano” e successive modifiche). Cassazione, Sezioni Unite, 9 settembre 2009, n. 19393. La Corte afferma inoltre che «la situazione giuridica soggettiva dello straniero che richieda il permesso di soggiorno per motivi umanitari, pertanto gode quanto meno della garanzia Costituzionale di cui all’art. 2 Cost., sulla base della quale, anche ad ammettere, sul piano generale la possibilità di bilanciamento con altre situazioni giuridiche costituzionalmente tutelate, [...], esclude che tale bilanciamento possa essere rimesso al potere discrezionale della P.A., potendo eventualmente essere effettuato solo dal legislatore, nel rispetto dei limiti costituzionali». 35 Cassazione, 20.07.2012, n. 12764. 36 Cassazione, 9.01.2013, n. 359. 34
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forza dell’art. 2, Cost. nella parte in cui riconosce i diritti inviolabili dell’uomo.37 d. Protezione temporanea. Per completare il quadro appare utile richiamare sia pur brevemente anche la c.d. “protezione temporanea”, ovvero una tutela eccezionale, transitoria ed immediata a favore non dei singoli stranieri che ne facciano richiesta, bensì di interi gruppi. Si tratta pertanto, più che di un diritto soggettivo, di un interesse legittimo38. Ai sensi dell’art. 20 del testo unico, il Presidente del Consiglio dei Ministri, con proprio decreto e nei limiti delle risorse disponibili, stabilisce le misure di protezione temporanea da adottarsi, anche in deroga alle altre disposizioni in materia d’immigrazione, «per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità» in Paesi che non appartengono all’Unione Europea. Il decreto39 concede una protezione straordinaria ed urgente ad un intero gruppo di migranti, in caso di massiccio afflusso presso il territorio della Repubblica ed in attesa che si metta in moto ciò che si usa, forse impropriamente, definire “sistema asilo”. Il permesso di soggiorno concesso ai sensi di tale atto, infatti, non preclude la possibilità di presentare in seguito una richiesta di protezione internazionale ovvero umanitaria ai sensi dell’art. 5 comma 6, del medesimo testo unico. IV. Riflessioni conclusive: diritto “attuato” o diritto “disconosciuto”? Dovendo ora riprendere le fila del ragionamento, si tenterà di rispondere alla domanda centrale della presente indagine, ossia se davvero il diritto d’asilo costituzionale sia correttamente e adeguatamente attuato dalle misure a tutela dello “straniero che fugge” di cui abbiamo brevemente trattato nel paragrafo che precede. Come si è già osservato, la ratio dell’art. 10, comma 3, della Costituzione immaginava l’ammissione all’interno dei confini repubblicani, in qualità di asilanti, di tutti gli stranieri che con una definizione non più attuale chiameremmo extracomunitari (e degli apolidi) i quali trovino «repugnante alla loro coscienza civile e morale vivere in uno Stato autoritario». Se «l’effettivo impedimento» dell’esercizio dei diritti liberal-democratici previsti dalla Costituzione italiana nei rispettivi Paesi di provenienza rappresenta il solo presupposto all’applicazione del diritto d’asilo costituzionale, allora la risposta al quesito iniziale appare del tutto agevole: le attuali forme di protezione dei migranti non economici 37
Cassazione, Sezioni Unite, 9.09.2009, n. 19393. E. G. CORTESE, G. RATTI, M. VEGLIO, S. VITRÒ, Lo straniero e il giudice civile, cit., p. 609. 39 Da ultimo si ricordi quello del 5 aprile 2011 recante «Misure umanitarie di protezione temporanea per i cittadini provenienti dal Nord-Africa affluiti nel territorio italiano dall’1 gennaio 2011 alla mezzanotte del 5 aprile 2011». 38
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non soddisfano le esigenze di tutela degli asilanti sottese all’art. 10, terzo comma, della Costituzione. Questa conclusione potrebbe apparire quantomeno semplicistica se non si considerasse con il dovuto riguardo la perdurante assenza di una legge di attuazione del diritto costituzionale d’asilo, circostanza che obiettivamente rende la situazione molto complessa anche per gli interpreti, trattandosi di una lacuna difficilmente colmabile dai soli giudici. Resta il fatto che la protezione internazionale di matrice eurounitaria nonché quella derivante dalla Convenzione di Ginevra non riescono da sole a coprire le esigenze sottese al diritto costituzionale di asilo. Il riconoscimento dello status di rifugiato, infatti, richiede una vis persecutoria, mentre per beneficiare della protezione sussidiaria deve esistere, nel caso di rientro nel Paese d’origine, un rischio effettivo di subire un grave danno puntualmente tipizzato dalle disposizioni legislative in materia. Né si può realisticamente ritenere che la norma di chiusura del diritto interno di cui all’art. 5, comma 6, testo unico racchiuda in sé una soddisfacente risposta alle esigenze di tutela collegate al diritto di asilo affermato nella nostra Carta costituzionale. I «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» richiesti dalla disposizione possono, in via interpretativa, risultare troppo vaghi e poco stringenti rispetto ai margini di discrezionalità dell’interprete di turno, sia esso la Commissione territoriale, il Questore o persino il giudice40. Per una maggior chiarezza valga l’esempio di uno straniero che, giunto in Italia, lamenti in patria una significativa compressione del diritto d’espressione oppure della libertà di religione. Si ponga come ulteriore elemento che il protagonista di tale finzione intellettuale non abbia mai avuto l’ardire di contestare il regime liberticida ovvero di professare un culto vietato, ma ciò non di meno senta nel suo animo di non poter più continuare a vivere in una dittatura simile. Si pensi insomma a un cittadino che, esternamente, ha sempre rispettato le restrizioni liberal-democratiche del Paese d’origine e che, se venisse rimpatriato, continuerebbe a farlo senza quindi rischiare alcuna persecuzione. Ebbene, questo soggetto, benché rientrante nell’alveo degli aventi diritto all’asilo costituzionalmente garantito, è ad oggi escluso sia dalla possibilità di ottenere lo status di rifugiato (non potendosi configurare il fondato timore di una persecuzione) sia dal beneficio 40
Senza pretesa d’esaustività, nella prassi applicativa il permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato concesso in una variegata pluralità di casi: in presenza di condizioni mediche di significativa gravità; a favore di genitori di figli minori e comunque per la tutela delle categorie vulnerabili; in caso di situazioni individuali che, a causa di un soggiorno prolungato in Italia, mostrano una erosione progressiva dei legami col Paese di provenienza. Si veda E. G. CORTESE, G. RATTI, M. VEGLIO, S. VITRÒ, Lo straniero e il giudice civile, cit., p. 607.
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della protezione sussidiaria (non essendovi né una situazione di conflitto né un rischio effettivo, in caso di rimpatrio, di subire una condanna a morte, torture o trattamenti inumani o degradanti). In una simile ipotesi residuerebbe soltanto la protezione umanitaria interna ex art. 5, comma 6, testo unico sull’immigrazione. Astrattamente non si può escludere a priori che l’autonomia interpretativa di quanti sono chiamati a valutare i «seri motivi» ex art. 5, comma 6, possa condurli a fornire anche a costui un titolo di soggiorno per poter risiedere legalmente in Italia. In concreto, tuttavia, è più facile prevedere che in un caso simile la richiesta d’asilo non troverebbe accoglimento. In altri termini sembra più realistica, anche alla prova dei fatti, l’ipotesi che i «seri motivi» cui allude il citato art. 5, senza una più stringente specificazione e un esplicito aggancio all’asilo nella sua dimensione costituzionale, non soddisfino appieno le esigenze di tutela imposte dalla Carta. La protezione umanitaria, in definitiva, si rivela un istituto troppo evanescente per poter sorreggere un diritto fondamentale. In gioco c’è il «dovere d’ospitalità» della Repubblica italiana nonché l’idea tanto ambiziosa quanto affascinante che i diritti liberaldemocratici previsti dalla Costituzione corrispondano alla natura umana e quindi che essi, in linea di principio, debbano essere garantiti a tutti. Si può ritenere che con l’avvento di un quadro più efficace e lineare di protezione internazionale ed umanitaria, l’asilo costituzionale sia stato per così dire accantonato, nonostante abbia in realtà una portata più vasta, dovendosi applicare ad una categoria più ampia di “stranieri che fuggono” rispetto a quanto disposto dalla normativa vigente. Il viaggio verso la piena implementazione del diritto d’asilo, quasi settant’anni dopo il varo della Costituzione, purtroppo non può ancora considerarsi concluso. Viene anzi da chiedersi se siamo di fronte ad un diritto fondamentale caduto in desuetudine.
** Dottorando di Ricerca in Diritto Costituzionale Italiano ed Europeo - Università degli Studi di Verona.
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Discontinuità argomentativa nei giudizi su norme regionali di re inquadramento del personale di enti di diritto privato e di diritto pubblico regionali (nota a sent. 202 del 2014) di Sandro De Gotzen (in corso di pubblicazione in Le Regioni, 2014) 1.Il percorso giurisprudenziale della Corte costituzionale nei giudizi sulla legittimità del trasferimento di personale da enti regionali al ruolo regionale risulta frastagliato e non univoco: diversi sembrano essere i parametri alla cui stregua vengono valutate le norme regionali di reinquadramento e diverse le conseguenze tratte nel merito delle diverse fattispecie. La sentenza 202/2014 ha riguardo al trasferimento di personale da Consorzio di bonifica ad altro Consorzio della medesima Regione, cioè da pubblico a pubblico, sulla base di legge regionale. La statuizione della Corte va inquadrata alla luce di alcuni recenti precedenti, che costituiscono le tappe più significative, sembra, dello sviluppo della giurisprudenza costituzionale. Un prima tappa sembra costituita dalla sentenza 227/2013, dall’ampia motivazione che si rifà per molti aspetti a precedenti giurisprudenziali più risalenti: riconosce il trasferimento automatico “nei casi di passaggio di funzioni da un ente pubblico ad un altro”, ma non “come nella specie, da una società di diritto privato, ancorché in mano pubblica, all’amministrazione della Regione (sent n. 226 del 2012)”. Nitido ed esplicito il principio di diritto enunciato, imperniato sul criterio della necessarietà del pubblico concorso: la Corte statuisce che “<<l’automatico trasferimento dei lavoratori presuppone un passaggio di status – da dipendenti privati a dipendenti pubblici (ancorché in regime di lavoro privatizzato) - che … non può avvenire in assenza di una prova concorsuale aperta al pubblico (in tal senso, sent. n.226 del 2012)>>”. “Il diritto all’inserimento nell’organico dell’ente dev’essere invece, … escluso in capo ai dipendenti illo tempore assunti da società controllate senza il ricorso a procedure selettive pubbliche “equivalenti””. La mancanza di un concorso pubblico impedisce l’accesso all’impiego di ruolo presso l’amministrazione regionale di personale proveniente dalla società regionale Gestione Immobili Friuli- Venezia Giulia spa. La sentenza 227/2013 ammette esplicitamente il trasferimento automatico di personale da ente pubblico regionale ai ruoli regionali, negando viceversa il trasferimento nel caso di passaggio da ente privato, ancorché in mano pubblica (punto 4.2. in dir.). La sentenza 227/2013 ammette il trasferimento solamente sulla base del presupposto dell’esistenza di un previo pubblico concorso, che si suppone
esistente nel caso di impiego presso un ente pubblico 1, esclusi i casi di deroga eccezionale all’obbligo di concorso2. L’orientamento della sentenza 227/2013 sembra conforme alla precedente giurisprudenza della Corte costituzionale. Ma successive decisioni, tra cui quella in commento – 202/2014 – si discostano dal filone in cui rientra la sentenza 227/2013. 2. Una successiva sentenza , la 17 del 2014, decide in difformità, negando il trasferimento del personale, da ente pubblico regionale ad amministrazione regionale, facendo richiamo non al criterio del pubblico concorso, ma al limite dell’ordinamento civile. La sentenza dichiara la illegittimità di norma legislativa regionale che prevede che in caso di mancato rinnovo o mancato conferimento dell’incarico al personale dirigente di ruolo nelle aziende per il diritto allo studio universitario, esso transita direttamente nei ruoli regionali. La Corte argomenta basandosi sulla considerazione del limite dell’ordinamento civile: rileva che ”la norma regionale impugnata … incide su un istituto, quale è la mobilità, che certamente afferisce alla disciplina del rapporto di lavoro pubblico (privatizzato)”. Se ne ricava che “Essa invade, quindi, una sfera di competenza legislativa che l’art. 117, secondo comma, lett. l) Cost. riserva esclusivamente allo Stato”. Tale orientamento, va notato, non è costante: la precedente sentenza 388 /2004 della Corte costituzionale, ad esempio, fa salva la norma statale che stabilisce il procedimento di ricollocazione del personale eccedente di pubbliche amministrazioni presso le amministrazioni regionali e degli enti locali, senza invocare il limite dell’ordinamento civile, ma gli artt. 4 e 120 Cost 3. La fattispecie considerata, peraltro, è ancora quella del trasferimento del personale, da ente pubblico regionale ai ruoli della Regione. Il richiamo all’ordinamento civile fa sì che la Corte decida sulla medesima fattispecie – trasferimento automatico del personale da ente pubblico regionale – nel senso della illegittimità della norma regionale che la prevede. La sentenza 227/2013 e 1 La sentenza 134/2014 della Corte costituzionale valorizza, in una fattispecie di trasferimento di contratti di lavoro da ente privato ad una azienda sanitaria, la insussistenza di un concorso pubblico, nel senso che a tale mancanza si ricollega la mancata immissione nell’organico della azienda sanitaria. 2 S.DE GOTZEN, Il principio del pubblico concorso ed eccezioni alla regola per motivi di pubblico interesse. Concorsi riservati e utilizzo di graduatorie esistenti, in Le Reg., 2013, p. 642 ss. 3 Sull’impiego del richiamo all’ordinamento civile da parte della sentenza 17/2014 che sembra assestarsi sulla linea per cui tutte le regole inerenti al rapporto di lavoro attengono all’area dell’ordinamento civile S. DE GOTZEN, Procedure di mobilità nel lavoro pubblico, assegnazioni a mansioni superiori dirigenziali tra organizzazione regionale e “ordinamento civile”, in corso di pubblicazione in Le Reg. 2014
la sentenza 17/2014 decidono sulla medesima fattispecie in senso opposto. La sentenza 17/2014 sembra statuire in generale la illegittimità di norme regionali che in caso di passaggio di funzioni da un ente pubblico regionale all’amministrazione regionale prevedano il trasferimento del personale, mentre la sentenza 227/2013 statuisce la legittimità di simili disposizioni, sulla base del criterio del previo concorso pubblico. In questo caso il “diritto privato” vien ad impedire il passaggio del personale dall’ente pubblico regionale ai ruoli regionali. Ci si potrebbe chiedere se invece che con la considerazione della violazione dell’ordinamento civile la diversità di decisione nel merito dipenda piuttosto dalla circostanza che nel caso della sentenza 17/2014, in cui si tratta di un mancato incarico dirigenziale, non vi è assoluta necessità del trasferimento, per cui potrebbe diventare rilevante il tema della mobilità; mentre la 227/2013 contemplerebbe un’ ipotesi di necessità del trasferimento, dovuto alla soppressione dell’ente, con riassorbimento delle funzioni nell’amministrazione regionale per cui il trasferimento ai ruoli regionali da altro ente pubblico regionale soddisferebbe alla necessità di collocazione del personale.
3. La successiva sentenza 202/2014 affronta il problema della norma di legge regionale che dispone il trasferimento di personale, questa volta da consorzio di bonifica ad altro consorzio, pubblico-pubblico. La questione incidentale è ritenuta inammissibile. Si osserva che nella sentenza 202 non sembra emergere né la questione del concorso pubblico, né quella dell’interferenza con l’ordinamento civile. L’elaborata motivazione della sentenza 202 si richiama alla necessità della interpretazione costituzionalmente orientata della norma regionale che parrebbe disporre un trasferimento automatico del personale del Consorzio di bonifica ai ruoli regionali. L’interpretazione costituzionalmente orientata fa si che la complessa situazione (il consorzio di bonifica è stato soppresso in epoca risalente, vari aspetti del rapporto di lavoro debbono essere chiariti ed affrontati e la disposizione “non corredata da alcuna istruttoria e da alcun criterio di razionalizzazione del trasferimento, inciderebbe in modo negativo sull’assetto organizzativo del consorzio ricorrente” (punto 1.1 in dir.). Il Consorzio, che dovrebbe essere destinatario del personale, secondo le indicazioni della legge regionale, precisa di aver già svolto, per svariati anni, le funzioni del consorzio soppresso con proprio personale.
La sentenza 202 statuisce che interpretata la norma regionale impugnata conformemente al principio di buon andamento, essa “si limita ad esprimere la volontà del legislatore regionale di porre rimedio ad una situazione di inerzia amministrativa” (punto 2.2. in dir.), mentre le modalità del trasferimento sono di competenza dell’amministrazione regionale e non del legislatore: l’amministrazione deve svolgere l’attività conoscitiva richiesta dalla complessa situazione sottostante. La Corte sottolinea come “agli adempimenti propedeutici al trasferimento del personale, data la loro complessità , non poteva provvedere il legislatore regionale”. Quindi, “la norma impugnata può essere interpretata come un mero sollecito alla conclusione della procedura, della quale detti adempimenti costituiscono presupposto indefettibile”. Il procedimento liquidatorio è ”propedeutico alla presa in carico dell’ ente disciolto”. Sembra sia necessaria tra l’altro, “una articolata e ponderata istruttoria attinente alle singole posizione del personale da trasferire (punto 2.3 in dir.). Questa previsione pare implicare la considerazione dell’esistenza alla base di ciascun rapporto di lavoro, di un concorso pubblico. La linearità della motivazione avrebbe forse richiesto la esplicita menzione di tale presupposto. Resta di chiarire se al trasferimento possano ostare considerazioni attinenti all’ordinamento civile, dato che la sentenza 202 non ne fa menzione. La menzione esplicita da parte della sentenza 202 del momento istruttorio e decisorio affidato all’amministrazione regionale non deve, a nostro avviso, ritenersi caratterizzante della fattispecie, dato che anche negli altri casi, quando si tratta di trasferimento generale e automatico, parte del processo decisorio ed istruttorio è riservato all’amministrazione regionale o dell’ente al quale il personale è trasferito: non vi è, in effetti, una fattispecie affidata in toto al legislatore regionale ed altre viceversa nelle quali e solo nelle quali entra la considerazione di un procedimento amministrativo. differente evidenziazione del momento del procedimento amministrativo risponde all’esigenza di sottolineare le conseguenze dell’interpretazione della norma regionale di trasferimento del personale conforme al parametro costituzionale del buon andamento, a fronte di un procedimento liquidatorio dell’ente assai complesso. Si deve pensare che anche nella fattispecie di cui alla sentenza 202 vi è un trasferimento automatico del personale, ma che in questa come nelle altre fattispecie vi sia comunque un momento di procedimento amministrativo, nel quale si accerta, per lo meno, la presenza di un concorso pubblico come presupposto del singolo rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione. Qui entra in gioco la necessità di ricollocazione del personale del Consorzio soppresso (il cui stato giuridico nel periodo precedente riesce difficile definire)
così che la misura organizzativa del trasferimento del personale risulta necessaria.
4. Si possono, quindi, considerare congiuntamente ed in parallelo le tre fattispecie sopra trattate brevemente, mettendo in evidenza come la Corte decida in base a parametri diversi: nel primo caso, la Corte ammette il trasferimento da ente pubblico ed ente pubblico (sulla base dell’esistenza del requisito del pubblico concorso alla base del singolo rapporto di lavoro), negando invece il passaggio da ente privato, anche se in mano pubblica. La sentenza, dati anche gli espliciti richiami giurisprudenziali sembra far riferimento ad un posizione consolidata sul punto. Le due decisioni più recenti sembrano uscire dal consolidato sentiero giurisprudenziale: ma si tratta di discontinutà solamente argomentativa.Nel secondo caso, quello deciso dalla sentenza 17/2014, basandosi sul criterio dell’ ordinamento civile, la Corte nega il passaggio del personale anche da ente pubblico ad ente pubblico, sul presupposto che ogni intervento sul rapporto di lavoro del personale incida sull’ordinamento civile. Va da sé che caratterizza la fattispecie la mancanza di necessarietà del trasferimento, dato che il trasferimento ai ruoli regionali dipende da un mancato incarico dirigenziale e non dalla soppressione dell’ente. Nel terzo caso, quello deciso dalla sentenza 202/2014, che riguarda come la prima fattispecie un’ ipotesi di trasferimento necessario si ammette il trasferimento del personale da ente pubblico ad ente pubblico (come nel caso di cui alla sentenza 227/2013), previa congrua istruttoria amministrativa che deve seguire la decisione di indirizzo del legislatore regionale, che si articola in attività conoscitiva più ampia che l’accertamento del previo concorso pubblico, che non pare possa mancare, secondo l’impostazione dominante della giurisprudenza costituzionale, in tutte le fattispecie considerate.
Sul contenuto e sul controllo degli atti normativi (nota a sent. 39/2014) di Giovanni Di Cosimo (in corso di pubblicazione in “Le Regioni”, 2014) 1. La chilometrica sentenza della Corte costituzionale n. 39 del 2014 prende in esame uno dei decreti legge del Governo Monti che tentano di mettere sotto controllo la spesa pubblica. Le Regioni ricorrenti dubitano della costituzionalità di talune disposizioni che rafforzano i controlli sulla gestione economico-finanziaria regionale. Sollevano varie questioni, due delle quali affrontano aspetti legati alle fonti del diritto che meritano di essere segnalati. 2. La prima questione verte attorno alla controversa natura di un atto sul rendiconto annuale dei gruppi consiliari dei consigli regionali. Si tratta di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che, in base a una disposizione del decreto legge, riprende le linee guida approvate in Conferenza Stato-Regioni 1. Il dpcm è il risultato finale di una di quelle atipiche catene di produzione normativa che sempre più frequentemente caratterizzano la legislazione. In questo caso la sequenza comprende un atto governativo (il decreto legge) che rimanda a un altro atto governativo (il dpcm) tenuto a recepire la deliberazione (le linee guida) di un organo di raccordo fra livelli di governo (la Conferenza Stato-Regioni). In generale, le linee guida sono prive di efficacia normativa, ma va valutato caso per caso se il singolo atto sia qualificabile come fonte del diritto di livello sublegislativo 2. Una delle Regioni ricorrenti sostiene che la disposizione del decreto legge attribuisce un «potere sostanzialmente normativo» alla Conferenza Stato-Regioni e al Presidente del Consiglio e, di conseguenza, viola la disposizione costituzionale sulla potestà regolamentare3. La Corte muove dalla premessa che la disposizione del decreto legge si colloca nell’ambito della materia concorrente “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica”4. Tuttavia non ravvisa una violazione del sesto comma dell’art. 117 Cost., che per le materie concorrenti assegna la competenza regolamentare alle Regioni, perché il dpcm è «privo di contenuto normativo» e si limita «ad indicare i criteri e le regole tecniche» per assicurare l’«omogeneità nella redazione dei rendiconti annuali di esercizio dei gruppi consiliari»5. In sostanza, la Regione sostiene che il decreto legge prevede una fonte secondaria statale in materia concorrente e dunque viola il sesto comma dell’art. 117 Cost. La Corte risponde che non sussistono le condizioni per ipotizzare una simile violazione dato che l’atto statale manca di contenuto normativo. 3. La sottolineatura del carattere tecnico del dpcm richiama la giurisprudenza costituzionale secondo cui le norme tecniche contenute in atti sublegislativi statali
1 Dpcm 21 dicembre 2012 adottato sulla base dell’art. 1 comma 9 del dl 174/2012. 2 R. Bin, La scarsa neutralità dei neologismi. Riflessioni attorno a soft law e a governance, in Per il 70. compleanno di Pierpaolo Zamorani. Scritti offerti dagli amici e dai colleghi di Facoltà, a cura di L. Desanti, P. Ferretti, A.D. Manfredini, Milano, 2009, 24 s. 3 In realtà, le linee guida sono frutto di un testo presentato dalle Regioni in Conferenza Stato-Regioni il 6 dicembre 2012 (e deliberato il giorno prima in Conferenza delle Regioni). 4 Punto 2. cons. dir. 5 Punto 6.3.9.3. cons. dir.
vincolano le Regioni6. In particolare, la giurisprudenza costituzionale ha salvato regolamenti statali recanti norme tecniche accusati di ledere le competenze regionali 7. Una di queste pronunce prende in esame un decreto legge che attribuisce a un decreto ministeriale la definizione delle modalità dell’assoggettamento al Patto di stabilità interno delle società in house (sent. 46/2013). La Regione ricorrente eccepisce che si rientra in materia concorrente per la quale lo Stato non ha competenza regolamentare. Per la Corte, invece, il problema non si pone perché il decreto ministeriale costituisce «un atto che non ha contenuti normativi, ma che adempie esclusivamente ad un compito di coordinamento tecnico, volto ad assicurare l’uniformità degli atti contabili in tutto il territorio nazionale » e dunque non viola l’art. 117 sesto comma Cost. Proprio come nella sentenza in commento, la chiave della decisione sulle società in house è nella asserita mancanza di contenuti normativi che rende inapplicabile il parametro costituzionale sulla potestà regolamentare. La valutazione decisiva riguarda perciò la verifica del carattere normativo o tecnico dell’atto statale, dato che nel secondo caso l’atto rimane esterno all’area di applicazione del sesto comma dell’art. 117 Cost. 4. La sentenza cita alcuni precedenti a sostegno della tesi del carattere tecnico del dpcm sul rendiconto annuale dei gruppi consiliari. Uno di questi annulla una legge regionale che viola alcuni prìncipi costituzionali specificati dalla legge 281/1970 sugli ordinamenti finanziari delle Regioni (sent. 309/2012) 8. Un’altra pronuncia qualifica la corretta redazione del rendiconto finanziario come un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica e dunque giudica incostituzionale la legge regionale che non lo rispetta (sent. 138/2013). Come si vede, questi precedenti che la sentenza richiama a sostegno della tesi del carattere tecnico, in realtà attribuiscono valore normativo alle regole contabili. Si potrebbe pensare che il differente orientamento dipenda dalla forma dell’atto, considerato che le pronunce precedenti riconoscono il valore normativo delle regole contabili in coerenza con la sicura natura normativa degli atti che le contengono (leggi ordinarie). Ma non è vero l’inverso: la forma del decreto (del Presidente del consiglio) non implica necessariamente la mancanza di contenuti normativi, occorre valutare caso per caso. Essendo comune a molti atti, la forma del decreto non consente di distinguere gli atti normativi da quelli non normativi, ragion per cui occorre applicare il criterio sostanziale 9. Del resto, la Regione ricorrente sostiene che l’atto sul rendiconto annuale dei gruppi consiliari sia espressione di un «potere sostanzialmente normativo» senza eccepire sulla sua forma. L’indagine non va perciò riferita all’atto ma alle singole disposizioni normative 10. In altre parole, l’indagine deve svolgersi sul piano sostanziale della generalità e astrattezza delle norme, piuttosto che sul piano formale dei parametri esteriori di identificazione dell’atto (in particolare, nomen juris e procedimento formativo). 5. In forza dell’art. 1 comma 2 del dpcm sul rendiconto annuale dei gruppi consiliari le linee guida si compongono di due parti: “prescrizioni” (all. A) e modello di rendicontazione (all. B). Esaminate sul piano sostanziale le due parti rivelano caratteristiche diverse. Il modello 6 Per es. sent. 201/2012 relativa alle norme tecniche per le costruzioni dettate con un decreto ministeriale. La categoria delle norme tecniche in una certa misura è dubbia visto che non esiste una definizione univoca di “tecnica” (F. Salmoni, Le norme tecniche, Milano, 2001, 25). La Corte ha suggerito che le norme tecniche siano prescrizioni basate sulle acquisizioni delle scienze esatte (sent. 61/1997). Ma un margine di ambiguità resta comunque nelle situazioni di incertezza scientifica (sulle caratteristiche del metodo scientifico che possono dar luogo a incertezza cfr. la Comunicazione della Commissione del 2 febbraio 2000 relativa al principio di precauzione). 7 Per es. la sent. 31/2001 relativa al regolamento che definisce le caratteristiche tecniche delle piste ciclabili, che la Corte salva sul presupposto che «la definizione di standard e prescrizioni tecniche finalizzati all’incolumità e alla sicurezza stradale» costituisce una competenza che trascende la dimensione regionale. 8 Artt. 81 comma 4, 117 comma 2 lett. e), coordinamento della finanza pubblica ex art. 117 comma 3 Cost. 9 G.U. Rescigno, L’atto normativo, Bologna, 1998, 22. 10 L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 44.
di rendicontazione sembra avere effettivamente carattere tecnico, dal momento che appresta uno schema nel quale sono elencate le voci contabili che i gruppi consiliari devono compilare. Per questa parte la valutazione della sentenza, che si fonda sull’obiettivo dell’omogenea redazione dei rendiconti, pare tutto sommato condivisibile 11. Invece le prescrizioni, prima ancora di essere funzionali all’omogenea redazione dei conti, regolamentano l’attività dei gruppi consiliari: per esempio, stabiliscono che i contribuiti erogati ai gruppi non possono essere utilizzati per finanziare i partiti; che i contributi non possono essere utilizzati per rapporti di collaborazione a titolo oneroso con parlamentari, parlamentari europei ecc. Ripartite in cinque articoli divisi in commi, le prescrizioni presentano il carattere dell’astrattezza, dato che sono destinate ad essere applicate tutte le volte che si verifica la situazione prevista (l’inserimento delle spese nel rendiconto), e il carattere della generalità (tutti i gruppi consiliari devono attenersi alle prescrizioni). Sarebbe stato dunque opportuno distinguere fra le due parti delle linee guida, rilevando che le prescrizioni assumono valore sostanzialmente normativo in forza della loro generalità e astrattezza; e che, di conseguenza, questa parte del dpcm sul rendiconto annuale dei gruppi viola il sesto comma dell’art. 117 Cost. che limita alle materie esclusive la competenza regolamentare dello Stato. Del resto, in una precedente occasione la Corte ha riconosciuto il valore normativo di un decreto interministeriale recante linee guida proprio ragionando sul piano della generalità e astrattezza. «Ricorrono, nella specie, gli indici sostanziali che la giurisprudenza costante di questa Corte assume a base della qualificazione degli atti come regolamenti (…). Il d.m. 10 settembre 2010 contiene norme finalizzate a disciplinare, in via generale ed astratta, il procedimento di autorizzazione alla installazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, alle quali sono vincolati tutti i soggetti, pubblici e privati, coinvolti nell’attività in questione» (sent. 275/2011). 6. La sentenza è più convincente quando affronta l’altra questione in tema di fonti del diritto. Riguarda le modalità di controllo da parte delle sezioni regionali della Corte dei conti dei bilanci preventivi e dei rendiconti consuntivi approvati con legge regionale. Il decreto legge stabilisce che a seguito del controllo potrebbe scattare l’obbligo di modificare la legge di approvazione del bilancio o del rendiconto (per rimuovere le irregolarità riscontrate o per ripristinare l’equilibrio di bilancio). In caso negativo, «è preclusa l’attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria» 12. Scatta, cioè, quello che la sentenza definisce «un vero e proprio effetto impeditivo dell’efficacia della legge regionale»13. Un simile potere della Corte dei conti di vincolare le leggi regionali e di privarle dei loro effetti, da un lato vìola la sfera di competenza legislativa delle Regioni, dall’altro introduce una nuova forma di controllo di legittimità costituzionale delle leggi regionali che «illegittimamente si aggiunge a quello effettuato dalla Corte», visto che il controllo ha «come parametro, almeno in parte, norme costituzionali»14. Il controllo inibitorio della Corte dei conti si sarebbe sovrapposto al controllo di costituzionalità col rischio di pronunce contraddittorie: in ipotesi leggi regionali uscite indenni dal controllo di costituzionalità avrebbero potuto essere bloccate dalla Corte dei conti per violazione dei parametri costituzionali in materia economico finanziaria (artt. 119 11 A meno che non si debba pensare che, in quanto allegato, il modello ha lo stesso valore normativo dell’art. 1 comma 2 che lo prevede. Ma questo modo di ragionare, valido in generale (per es. per la legge di bilancio), in questo caso non consentirebbe di apprezzare la diversità fra i due allegati di cui si compongono le linee guida. 12 Art. 7 comma 1 dl 174/2012. 13 Punto 6.3.4.3. cons. dir. 14 Punto 6.3.4.3. cons. dir.
sesto comma e 81)15. Un doppio giudizio, irrazionale e fonte di incertezza, che la sentenza ha opportunamente cassato.
15 Senza considerare la lesione della discrezionalità politica derivante dall’obbligo di modificare la legge di bilancio secondo le linee prospettate dall’esito del controllo (F. Guella, Il carattere “sanzionatorio” dei controlli finanziari di fronte alle prerogative dei Consigli regionali e dei gruppi consiliari: ricadute generali delle questioni sollevate dalle autonomie speciali, in Corte cost. 39/2014, in osservatorioaic, aprile 2014).
La Corte costituzionale continua (giustamente) a non prendere sul serio il federalismo demaniale: osservazioni a proposito della sentenza n. 22/2013 * di Andrea Ridolfi** (4 agosto 2014) SOMMARIO: 1. Le questioni procedurali. – 2. L’art. 119 Cost. e il federalismo demaniale. – 3. La giurisprudenza costituzionale sul d.lgs. n. 85/2010. – 4. Considerazioni conclusive 1. Le questioni procedurali Con la sentenza n. 22/2013, la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Governo nei confronti dell’art. 7, comma 3; 11, lettera c), e 14 della l. reg. Liguria 7 febbraio 2012, n. 2. La Corte ha altresì dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti della intera legge, nonché delle questioni nei confronti degli artt. 1, 4, 5, 6, 8, 16 e 17 della medesima legge promosse con riferimento all’art. 117, comma 2, lett. l), Cost. La Corte, infine, ha dichiarato estinto il giudizio in ordine alle questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti degli artt. 15, commi 2 e 3; 26, comma 2; e 38, comma 5, lett. c) della medesima legge, e cessata la materia del contendere a proposito dell’art. 38, comma 5, lettera a), nonché dell’art. 47 della medesima legge. Un primo rilevo che può essere avanzato è che, in questi ultimi anni, proprio nell’ambito del giudizio in via principale, si è assistito ad un gran numero di dichiarazioni di inammissibilità della questione proposta 1, e di cessazioni della materia del contendere 2, sintomo di una conflittualità esasperata tra Stato e Regioni 3, la cui causa principale va
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Scritto sottoposto a referee. Per quanto riguarda le declaratorie di inammissibilità, si vedano C. Cost., dec. nn. 10, 15, 16, 40, 45, 52, 119, 121, 156, 172, 181, 186, 200, 201, 208, 221, 233, 254, 269, 278, 299, 309, 312, 324, 325, 326 e 331 del 2010; 7, 8, 33, 35, 36, 43, 61, 68, 79, 88, 128, 129, 185, 205 e 227 del 2011; 20, 32, 64, 80, 99, 100, 108, 115, 149, 151, 173, 183, 184, 187, 188, 193, 198, 199, 200, 241, 244, 246, 256, 298, 299, 300, 309 e 311 del 2012; 3, 4, 8, 18, 20, 22, 26, 41, 46, 54, 62, 77, 138, 141, 162, 205, 212, 218, 219, 220, 221, 222, 225, 229, 230, 234, 239, 246, 254, 255, 256, 259, 272, 273, 274, 285, 288, 292, 298, 307, 309, 311, 312 e 315 del 2013; 8, 11, 17, 23, 28, 31, 35, 36, 39, 40, 44, 49, 61, 62, 79, 85, 88, 104, 138, 145, 165, 175, 181 e 189 del 2014; ecc. 2 Per quanto riguarda la dichiarazione di cessazione della materia del contendere si vedano C. Cost., dec. nn. 1, 2, 4, 40, 52, 57, 74, 75, 112, 117, 118, 121, 125, 126, 136, 150, 155, 159, 161, 175, 179, 183, 199, 212 e 357 del 2010; 2, 57, 68, 76, 89, 153, 166, 192, 226, 238, 251, 310, 315, 316 e 325 del 2011; 11, 12, 20, 27, 28, 32, 50, 62, 74, 86, 90, 114, 137, 145, 148, 151, 157, 158, 173, 193, 200, 217, 226, 228, 241, 243, 267, 297, 300, 305, 308, 309 e 311 del 2012; 3, 18, 22, 30, 31, 53, 68, 73, 84, 218, 219, 241, 273, 286, e 298 del 2013; 19, 44, 54, 129, 141, 144, 160, 181 del 2014; ecc. 3 Si veda, in proposito, V. ONIDA, I giudizi sulle leggi nei rapporti tra Stato e Regione. Profili processuali, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale. Atti del Convegno (Trieste, 26-28 maggio 1986), Milano 1988, pp. 181 ss., il quale, nella seconda metà degli anni ’80, sottolineava come il giudizio in via principale fosse una sorta di genere minore nell’attività della Corte. 1
cercata nella revisione costituzionale del 2001 4, conflittualità che la crisi economica del 2008, lungi dall’attenuare, ha vieppiù accentuato 5. Per quanto riguarda l’inammissibilità della impugnazione di una intera legge, va detto che, se è vero che nel giudizio in via principale non c’è il limite della rilevanza della questione, c’è tuttavia quello della pertinenza dei vizi evidenziati e della sufficiente determinatezza dell’oggetto6, anche se poi la stessa Corte ha ammesso la possibilità di un suo potere interpretativo/correttivo 7. È interessante notare il maggiore rigore introdotto dalla Corte in ordine alla ammissibilità delle questioni proposte, in conseguenza della «svolta» operata tra la fine degli anni ’70 ed i primi anni ’80 sul versante del giudizio incidentale 8, e poi
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Sull’aumento della conflittualità tra Stato e Regioni, in virtù della revisione costituzionale del Titolo V, si soffermano A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, V ed., Torino 2014, pp. 261-262; N. VICECONTE, Criticità del regionalismo italiano e giustizia costituzionale: le novità del 2011 in tema di contenzioso Stato-Regioni, in Rivista AIC 2012, n. 2 (12-6-2012); ID., La giurisprudenza costituzionale Stato-Regioni: le novità del 2010, in Rivista AIC 2011, n. 3 (12-7-2011); ID., La giurisprudenza costituzionale Stato-Regioni nel 2009, in Rivista AIC 2010, n. 0 (27-2010); A. CELOTTO, F. MODUGNO, La giustizia costituzionale, in F. MODUGNO (a cura di), Lineamenti di diritto pubblico, II ed., Torino 2010, pp. 659 ss., spec. pp. 708 ss.; I. SIGISMONDI, La riforma del giudizio di costituzionalità in via principale, nell’ambito della revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione, in F. MODUGNO, P. CARNEVALE (a cura di), Trasformazioni della funzione legislativa, IV. Ancora in tema di fonti del diritto e rapporti Stato-Regione dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Napoli 2008, pp. 337 ss., spec. pp. 363 ss.; L. RONCHETTI, N. VICECONTE, La giurisprudenza costituzionale, in AA.VV., Quarto rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia, a cura di A. D’Atena, Milano 2007, pp. 133 ss.; G. CERACCHIO, Profili “quantitativi” del contenzioso costituzionale, ivi, pp. 123 ss. 5 Sul rapporto tra crisi economica e trasformazioni del regionalismo, rinvio a S. MANGIAMELI, La nuova parabola del regionalismo italiano: tra crisi istituzionale e necessità di riforme, in Rivista giuridica del Mezzogiorno 2012, n. 5, pp. 711 ss.; ID., Crisi economica e distribuzione territoriale del potere politico – Relazione al XXVIII Convegno Annuale dell’AIC, in Rivista AIC 2013, n. 4 (18-10-2013). Sulla incidenza della crisi economica nell’ambito della giurisprudenza costituzionale, rinvio a M. BENVENUTI, La Corte costituzionale, in F. ANGELINI, M. BENVENUTI (a cura di), Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica. Atti del Convegno di Roma, 26-27 aprile 2012, Napoli 2012, pp. 375 ss.; A. DOMINICI, Corte costituzionale e crisi economica: analisi della recente giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di legislazione anticrisi, in Gazzetta amministrativa della Repubblica italiana 2011, n. 4, pp. 22 ss. 6 Si vedano A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, IV ed., Milano 2004, p. 291 (che cita C. Cost., sent. nn. 154/1972; 140/1976; 85/1990; 291/1995; 438/2002; 213, 303 e 376 del 2003); ID., Corso di giustizia costituzionale plurale, Milano 2012, p. 310 (che cita C. Cost., sent. nn. 93, 94, 303, 315 del 2003; 43, 74, 134, 185 e 238 del 2004; 50, 95, 106, 270, 279 e 360 del 2005; 22, 39, 59 e 253 del 2006; 98/2007; 54 e 225 del 2009; 45, 68, 141, 178, 223, 246 e 300 del 2010; 43 e 190 del 2011; 159, 160 e 178 del 2012); G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, Bologna 2012, p. 328 (che citano C. Cost., sent. n. 251/2009). 7 Si veda A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, cit., p. 291 (che cita C. Cost., sent. n. 93/2003); G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., p. 328 (che citano C. Cost., sent. nn. 274/2003 e 159/2005). 8 Sulla svolta operata dalla giurisprudenza costituzionale, si vedano V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II. L’ordinamento costituzionale italiano. Le fonti normative. La Corte costituzionale, V ed., Padova 1984, pp. 290 ss.; M. LUCIANI, Le decisioni processuali e la logica del giudizio costituzionale incidentale, Padova 1984, spec. pp. 1 ss., 137 ss.; A. CERRI, La giurisprudenza costituzionale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico 2001, n. 4, pp. 1325 ss., spec. pp. 1349 ss.; ID., Corso di giustizia costituzionale, cit. p. 181; ID., Corso di giustizia costituzionale plurale, cit., p. 195; E. LAMARQUE, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Roma-Bari 2012, pp. 76-77, 99-100. Perplessità nei confronti delle decisioni di inammissibilità erano state sollevate da L. CARLASSARE, Le decisioni di inammissibilità e di manifesta infondatezza della Corte Costituzionale, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, cit., pp. 27 ss., spec. pp. 67 ss., ove rilevava che il ricorso frequente alle decisioni processuali fosse criticabile per l’uso pretestuoso che ne veniva fatto. Critici sono anche A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., pp. 146-147, secondo i quali, a partire, dal 1980, la Corte ha enormemente accresciuto il numero di queste pronunce, estendendone oltremodo la portata e finendo con l’annullare la distinzione tra decisioni di restituzione degli atti al giudice a quo e decisioni di inammissibilità.
esteso anche a quello in via principale 9: se nelle sentenze nn. 154/1972 e 140/1976 la Corte aveva ammesso l’impugnazione dell’intera legge, nella sentenza n. 85/1990, richiamando le sentenze nn. 517/1989, 1111/1988 e 459/1989, la Corte aveva sottolineato che ogni questione di costituzionalità sollevata nei ricorsi in via principale doveva essere adeguatamente motivata, in modo da consentire alla Corte di determinare in maniera inequivocabile l’oggetto della questione sottoposta e di verificare l’eventuale arbitrarietà, pretestuosità o astrattezza dei dubbi di legittimità prospettati 10. Proprio perché questo è ormai un punto non più in discussione, la Corte nella sentenza n. 22/2013 non cita neanche la propria giurisprudenza precedente, ma si limita a parlare genericamente di un consolidato orientamento11. D’altra parte, la mancanza di motivazione degli specifici profili di contrasto delle disposizioni censurate con il parametro di riferimento evocato è alla base della dichiarazione di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti degli artt. 1, 4, 5, 6, 16 e 17 della legge regionale, perché anche in questo caso risulta impossibile individuare uno specifico oggetto di censura 12. Per quanto riguarda, invece, la cessazione della materia del contendere, è una diretta conseguenza del giudizio in via principale, essendo questo un giudizio di parti 13, e, come tale, nella piena disponibilità di esse14. Questione discussa in dottrina è se la disponibilità del giudizio sia o 9
Cfr., in proposito, M. LUCIANI, Le decisioni processuali e la logica del giudizio costituzionale incidentale, cit., pp. 5 (nota 9) e 62, ove sottolinea come le declaratorie di inammissibilità, nate nell’ambito del giudizio incidentale, inizino, a partire dal 1981-1982, a comparire anche nei giudizi in via di azione. In senso simile, si veda anche A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, cit., p. 302, il quale sottolinea come l’istrumentario decisionale della Corte si sia formato in prevalenza nel giudizio in via incidentale, e risenta dei fattori «concreti» e «casistici» propri di quel giudizio. Dubbi nei confronti della estensione delle decisioni elaborati nel giudizio in via incidentale erano stati sollevati da V. ONIDA, I giudizi sulle leggi nei rapporti tra Stato e Regione, cit., pp. 198 ss. 10 Cfr. C. Cost., sent. n. 85/1990, n. 2 del Considerato in diritto. Per quanto riguarda la giurisprudenza più recente sulla necessità che le impugnative in via principale siano adeguatamente motivate, si vedano, ex multis, C. Cost., sent. nn. 360 e 450 del 2005; 139/2006; 119/2010; 199/2012; ecc. 11 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 3 del Considerato in diritto. Si veda, tuttavia, G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., p. 328, che sottolineano come l’impugnazione di un intero atto legislativo sia ammissibile quando riguarda normative omogenee e tutte coinvolte dalle censure (viene citata in proposito C. Cost. sent. n. 201 del 2008), laddove, invece, è da considerare inammissibile quando ciò non consenta la individuazione della questione oggetto dello scrutinio di costituzionalità (vengono citate in proposito C. Cost., sent. nn. 264/1996 e 59/2006). 12 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 4 del Considerato in diritto. 13 Così F. SORRENTINO, Lezioni sulla giustizia costituzionale raccolte dal dott. Salvatore Mileto, Torino 1990, p. 44; A. CELOTTO, La Corte costituzionale, Bologna 2004, p. 73; G. AZZARITI, Appunti per le lezioni: Parlamento, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Torino 2010, p. 172. Più sfumata è, invece, la posizione di G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., pp. 320-321, secondo i quali l’ordinamento vigente, nel qualificare il giudizio come giudizio sulle leggi e non come conflitto di attribuzioni legislative, sembrerebbe avere accolto la prospettiva del carattere oggettivo del giudizio, ripudiando quella del giudizio di parti. Tuttavia, proseguono i due studiosi, se si analizza la giurisprudenza costituzionale successiva alla revisione del 2001, essa è in prevalenza caratterizzata dalla determinazione della spettanza delle competenze legislative, secondo i nuovi assetti posti in essere dalla stessa riforma. 14 Cfr. A. CELOTTO, F. MODUGNO, La giustizia costituzionale, cit., p. 711, che sottolineano anche l’intrinseca politicità di questo tipo di giudizio. In senso simile, anche L. PALADIN, Diritto costituzionale, Padova 1991, pp. 735-736. Sulla politicità del ricorso insistono anche A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., p. 256, che, tuttavia, sottolineano anche il fatto che esso debba essere sorretto da una congrua motivazione specificamente costituita da argomenti di diritto. Diversa è la posizione di G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., p. 325,
meno in contrasto con la funzione del ricorso governativo come strumento di tutela dell’integrità dell’ordinamento costituzionale nel suo complesso 15. 2. L’art. 119 Cost. e il federalismo demaniale Se sulle questioni procedurali, quindi, la sentenza non sembra particolarmente innovativa, i punti dove la sentenza presenta profili di interesse, a mio avviso, sono costituiti dalla interpretazione del d.lgs. n. 85/2010. La sentenza n. 22/2013 costituisce, infatti, dopo la sentenza n. 339/2011 e la n. 284/2012, la terza pronuncia in cui il nostro organo di giustizia costituzionale si è occupato del controverso d.lgs. n. 85/2010, in tema di federalismo demaniale16. Comune alle tre diverse pronunce è il fatto che la Corte ne abbia dato una interpretazione restrittiva, il che porta ragionevolmente a ritenere che quella della Corte sia ormai una vera e propria interpretazione consolidata, e non, invece, un qualcosa di estemporaneo. secondo cui non si tratta di piena disponibilità dell’azione da parte del ricorrente, in quanto, per determinarsi l’effetto estintivo, occorre che le parti costituite accettino la rinuncia: di conseguenza, viene riconosciuta la rilevanza di un interesse che trascende quello del solo ricorrente. Sulla politicità del giudizio in via principale, si vedano anche V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, cit., pp. 309-310; A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, cit., pp. 287 ss.; ID., Corso di giustizia costituzionale plurale, cit., pp. 308 ss. 15 In questo senso, G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna 1977, pp. 140 ss.; G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., p. 325. Di diverso avviso sembra A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, cit., p. 307; ID., Corso di giustizia costituzionale plurale, cit., p. 336, secondo cui la gestione politica delle competenze, insieme con i requisiti della legittimazione e dell’interesse escludono azioni e ricorsi puramente astratti, mossi cioè da ragioni di mera legalità, ma disancorati dall’effettiva cura degli interessi sociali. Qualche dubbio è avanzato anche da V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, cit., pp. 308-309, secondo il quale, se l’impugnativa fosse rivolta alla tutela dell’ordine costituzionale delle competenze, la proposizione di essa dovrebbe essere, a rigore, doverosa, e mal si giustificherebbe la possibilità della rinuncia. Sulla funzione del ricorso statale come mezzo di tutela dell’ordinamento si sofferma L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., pp. 738-739. Si veda, infine, E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, III ed., Torino 2011, pp.151-152, che parlano di un’evidente ambiguità data dalla compresenza di elementi propri del modello astratto del giudizio di costituzionalità delle leggi ed elementi del modello concreto del conflitto di attribuzioni legislative. 16 Sul federalismo demaniale, si vedano L. ANTONINI, Il primo decreto legislativo di attuazione della legge n. 42/2009: il federalismo demaniale in www.federalismi.it, n. 25/2009 (30-12-2009); M. ANTONIOL, Il federalismo demaniale. Il principio patrimoniale del federalismo fiscale, Padova 2010; G.F. FERRARI (a cura di), Il federalismo demaniale. Atti del Seminario (Roma, 11 marzo 2010), Torino 2010; F. SCUTO, Il federalismo patrimoniale, in www.astrid-online.it, n. 3/2010 (9-2-2010); ID., Federalismo demaniale ed enti territoriali, in P. BILANCIA (a cura di), Modelli innovativi di governance territoriale. Profili teorici e applicativi, Milano 2011, pp. 201 ss.; F. PIZZETTI, Editoriale. Il federalismo demaniale: un buon segnale verso un federalismo fiscale «ben temperato», in Le Regioni 2010, n. 1-2, pp. 3 ss.; E. BUGLIONE, Attuazione della l. 42/2009, Atto Primo: il federalismo demaniale. Una scelta opportuna?, in Rassegna parlamentare 2010, n. 3, pp. 697 ss.; R. GALLIA, Il federalismo demaniale, in Rivista giuridica del Mezzogiorno 2010, n. 3, pp. 967 ss.; A. POLICE, Il federalismo demaniale: valorizzazione nei territori o dismissioni locali?, in Giornale di diritto amministrativo 2010, n. 12, pp. 1233 ss.; G. LO CONTE, «Federalismo demaniale» e regime giuridico dei beni pubblici, in Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana 2011, n. 1, pp. 23 ss.; D. SICLARI, Il d.lgs. n. 85 del 2010 in materia di federalismo patrimoniale nel processo di attuazione dell’art. 119 della Costituzione, in Rivista AIC 2011, n. 2 (8-2-2011); A. LEZZI, Federalismo demaniale. Prime riflessioni sul decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85, in Rivista giuridica dell’ambiente 2011, n. 2, pp. 229 ss.; F. ZAMMARTINO, Alcune considerazioni sul federalismo demaniale, in www.giustamm.it, n. 7/2011; P. MADDALENA, I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana, ivi, n. 19/2011 (5-10-2011), pp. 16 ss.; V. CAPUTI IAMBRENGHI, Il federalismo demaniale, in www.ius-publicum.com; F. COSTANTINO, La dismissione del patrimonio immobiliare e la foresta di Sherwood (11-05-2012), in www.apertacontrada.it; A. RIDOLFI, La proprietà, in F. ANGELINI, M. BENVENUTI, Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, cit., pp. 151 ss., spec. pp. 172 ss.; R. BIN, G. FALCON (a cura di), Diritto regionale, Bologna 2012, pp. 294 ss.
Come è noto, il d.lgs. n. 85/2010 trova la sua ragion d’essere nell’art. 119 Cost. 17, come novellato dalla l. cost. n. 3/2001, che, nel prefigurare una autonomia finanziaria originaria della Regione18, prevede, quasi a mo’ di corollario, la garanzia per gli enti territoriali di poter disporre di un proprio patrimonio. In questo senso, il nuovo testo dell’art. 119 Cost. è volto a garantire la coerenza tra la disponibilità dei mezzi e la titolarità delle funzioni 19. Come tutti gli enti chiamati ad espletare pubbliche funzioni, infatti, anche le Regioni necessitano di risorse economiche: i mezzi finanziari di cui questi enti dispongono non possono non riflettersi sul contenuto delle decisioni politiche adottabili nell’esercizio delle loro stesse competenze20. Sebbene la dottrina abbia messo in evidenza la singolarità di questa disposizione costituzionale21, la possibilità che Regioni ed enti locali abbiano un proprio demanio ed un proprio patrimonio non è, di per sé, un qualcosa di peregrino, ma è suffragato anche dall’analisi comparatistica. Uno studioso dei sistemi federali come Kenneth Wheare ha rilevato come il principio federale richieda che, sia il governo centrale che i governi locali, per essere indipendenti nella loro sfera di competenza, debbano avere sotto il loro 17
Sulle problematiche riguardanti il nuovo art. 119 Cost. e la sua attuazione, si vedano F. MODUGNO, A. CELOTTO, M. RUOTOLO, Aggiornamenti sulle riforme costituzionali (1998-2002), Torino 2003, pp. 59 ss.; L. ANTONINI, La vicenda e la prospettiva dell’autonomia finanziaria regionale: dal vecchio al nuovo art. 119 Cost., in Le Regioni 2003, n. 1, pp. 11 ss.; A. BRANCASI, L’autonomia finanziaria degli enti territoriali: note esegetiche sul nuovo art. 119 Cost., ivi, pp. 41 ss.; R. BIFULCO, Le Regioni. La via italiana al federalismo, Bologna 2004, pp. 112 ss.; S. BARTOLE, R. BIN, G. FALCON, R. TOSI, Diritto regionale, II ed., Bologna 2005, pp. 193 ss.; G. FRANSONI, G. DELLA CANANEA, Art. 119, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario della Costituzione, Volume Terzo: Artt. 101-139; Disposizioni transitorie e finali, Torino 2006, pp. 2358 ss.; E. BUGLIONE, La finanza, in AA.VV., Quarto rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia, cit., pp. 331 ss.; ID., La finanza delle Regioni a statuto ordinario: un bilancio di legislatura e un confronto con quelle a Statuto speciale, in AA.VV., Sesto rapporto sullo stato del regionalismo in Italia, a cura di A. D’Atena, Milano 2011, pp. 553 ss.; ID., Autonomia finanziaria e federalismo fiscale: il caso delle Regioni a statuto ordinario, in S. MANGIAMELI (a cura di), Il regionalismo italiano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma, Volume I. Atti delle giornate di studio (Roma, 20-22 ottobre 2011), Milano 2012, pp. 437 ss.; S. SPUNTARELLI, L’autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali, in F. MODUGNO, P. CARNEVALE, Trasformazioni della funzione legislativa, IV, cit., pp. 275 ss.; E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici: artt. 822-830, in AA.VV., Il Codice Civile: Commentario fondato da P. Schlesinger e continuato da F.D. Busnelli, Milano 2008, pp. 72 ss., 200-201, 264 ss.; M. RUOTOLO, Le autonomie territoriali, in F. MODUGNO, Lineamenti di diritto pubblico, cit., pp. 497 ss., spec. pp. 517 ss.; M. ANTONIOL, Il federalismo demaniale, cit., pp. 11 ss.; A. D’ATENA, Diritto regionale, Torino 2010, pp. 197 ss.; F. COVINO, “Federalismo fiscale” e collaborazione debole nell’attuazione dell’art. 119 della Costituzione, in Rivista AIC 2010, n. 0 (2-7-2010); T.E. FROSINI, Paese che vai, federalismo (fiscale) che trovi…, ivi; M. CAMMELLI, Il federalismo fiscale tra i gattopardi, ne Il Mulino 2011, n. 1, pp. 21 ss.; F. SCUTO, Nuove sfide di governance territoriale nel federalismo fiscale, in P. BILANCIA, Modelli innovativi di governance territoriale, cit., pp. 173 ss.; AA.VV., Seminario giuridico Svimez su «Lo stato di attuazione della legge 5 maggio 2009, n. 42 in materia di federalismo fiscale» (Roma, 14 marzo 2011), in Rivista giuridica del Mezzogiorno 2011, n. 3, pp. 821 ss.; F. MINNI, Cosa resterà di questo federalismo fiscale, in Autonomie locali e servizi sociali 2012, n. 1, pp. 67 ss.; T. MARTINES, A. RUGGERI, C. SALAZAR, Lineamenti di diritto regionale, IX ed., Milano 2012, pp. 277 ss.; R. BIN, G. FALCON, Diritto regionale, cit., pp. 265 ss. 18 Cfr. E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici, cit., p. 72, secondo i quali l’autonomia finanziaria della Regione viene concepita come strumento per rafforzare la separatezza dell’ente autonomo territoriale nei confronti dello Stato. 19 Cfr. E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici, cit., p. 201. 20 Così A. D’ATENA, Diritto regionale, cit., p. 197. 21 Cfr., in questo senso, E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici, cit., p. 74, secondo cui, nel quadro delle Costituzioni europee, non è presente una disposizione che riporti a livello costituzionale la problematica dei beni pubblici e della titolarità di essi, concependoli quali ulteriori risorse per la finanza territoriale.
controllo indipendente risorse finanziarie sufficienti ad assolvere le loro funzioni esclusive22. Tra i mezzi attraverso cui sia i governi centrali che quelli regionali possono trarre delle entrate Wheare ha indicato anche le proprietà demaniali 23. Questione ulteriormente diversa è se la mancata menzione del termine demanio nel nuovo testo dell’art. 119 Cost. possa significare che i beni rientranti nella garanzia costituzionale siano solo i beni patrimoniali o anche i beni demaniali. Le posizioni della dottrina sono state alquanto articolate al loro interno 24: c’è chi ha visto nel mancato uso del termine una conferma dell’orientamento volto a superare la tradizionale distinzione codicistica tra beni demaniali e beni patrimoniali 25; c’è chi ha ritenuto che la nuova formulazione sia sostanzialmente frutto di una lacuna o di un errore da parte del legislatore costituzionale 26; chi, invece, ha ritenuto che la novella non avrebbe voluto vietare il regime demaniale dei beni territoriali, ma solo renderlo costituzionalmente non obbligatorio 27; e chi, infine, ha sottolineato che la nozione di patrimonio accolta dal nuovo testo dell’art. 119 Cost. opera su un versante distinto rispetto a quello delle coordinate civilistiche dell’istituto 28. Fin dalla sua approvazione, il d.lgs. n. 85/2010 è stato oggetto di valutazioni contrastanti: c’è chi ne ha difeso a spada tratta i suoi aspetti essenziali contro possibili strumentalizzazioni da parte dei giornali 29, chi ha sottolineato la sua importanza in ordine all’attuazione del nuovo art. 119 Cost. 30, o ai fini della trasparenza e responsabilità nei 22
Così K.C. WHEARE, Del governo federale, tr. it. a cura di S. Cotta, II ed., Bologna 1997, p. 173. Così nuovamente K.C. WHEARE, Del governo federale, cit., pp. 176-177. In senso simile, si veda anche G. FRANSONI, G. DELLA CANANEA, Art. 119, cit., p. 2375. 24 Cfr. R. BIN, G. FALCON, Diritto regionale, cit., p. 294. 25 In questo senso, G. FRANSONI, G. DELLA CANANEA, Art. 119, cit., p. 2375; F. SCUTO, Il federalismo patrimoniale, cit., pp. 2-3. Sulla necessità di superare la distinzione codicistica tra beni demaniali e beni patrimoniali si veda anche E. REVIGLIO, Per una riforma del regime giuridico dei beni pubblici. Le proposte della Commissione Rodotà, in Politica del diritto 2008, n. 3, pp. 531 ss.; U. MATTEI, E. REVIGLIO, S. RODOTÀ (a cura di), Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Bologna 2007; A. LUCARELLI, Proprietà pubblica, principi costituzionali e tutela dei diritti fondamentali. Il progetto di riforma del codice civile: un’occasione perduta?, in Rassegna di diritto pubblico europeo 2007, n. 2, pp. 11 ss. 26 In questo senso, F. ZAMMARTINO, Alcune considerazioni sul federalismo demaniale, cit., p. 5, il quale, a sua volta, cita F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma 2009, p. 720. 27 In questo senso, M. ANTONIOL, Il federalismo demaniale, cit., pp. 14-15. 28 In questo senso, E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici, cit., pp. 74-75, secondo i quali, dagli artt. 42 e 119 deriverebbe il principio secondo cui spetterebbe al legislatore statale assegnare agli enti del pluralismo territoriale i beni indispensabili per l’adempimento delle funzioni di competenza, seguendo una sorta di tendenziale parallelismo tra la titolarità del bene e la responsabilità della funzione amministrativa: in questa prospettiva, il patrimonio degli enti territoriali va inteso in senso ampio, in quanto costituito non solo dai beni, ma anche da risorse finanziarie, in modo che esso possa corrispondere alle esigenze organizzative e di funzionamento. 29 Si veda T.E. FROSINI, Paese che vai, federalismo (fiscale) che trovi…, cit., pp. 3-4. 30 Cfr. F. PIZZETTI, Editoriale, cit., p. 3; F. SCUTO, Il federalismo patrimoniale, cit., p. 3; D. SICLARI, Il d.lgs. n. 85 del 2010 in materia di federalismo patrimoniale nel processo di attuazione dell’art. 119 della Costituzione, cit., p. 1. Nello stesso senso, M. BELLETTI, Percorsi di ricentralizzazione del regionalismo italiano nella giurisprudenza costituzionale tra tutela di valori fondamentali, esigenze strategiche e di coordinamento della finanza pubblica, Roma 2012, pp. 276277, secondo il quale con questo decreto trova applicazione la clausola di residualità e sussidiarietà che caratterizza l’intero impianto del Titolo V, poiché il patrimonio è di preferenza ceduto agli enti territoriali, fatta eccezione per quella parte di patrimonio che espressamente rimane nella disponibilità statale. 23
processi di valorizzazione degli immobili 31, chi, invece, ne ha evidenziato le contraddizioni logiche e le molteplici criticità 32, in particolare per quello che riguarda il settore dei beni culturali33, sino ad arrivare a parlare, in alcuni casi, di un’inopportunità (politica) dello stesso34, e, in altri casi, addirittura di una sua evidente incostituzionalità 35. La Corte, tuttavia, non è arrivata sino al punto di dichiaralo incostituzionale, ma lo ha privato di effetti concreti in via interpretativa. 3. La giurisprudenza costituzionale sul d.lgs. n. 85/2010 Come detto, la prima sentenza in cui la Corte ha avuto a che fare con il d.lgs. n. 85/2010 è stata la n. 339/201136. Il Governo aveva impugnato l’art. 14 l. reg. Lombardia n. 19 del 23 dicembre 2010 per contrasto con l’art. 117 Cost., al che la Regione aveva eccepito che la gestione amministrativa del demanio idrico era stata trasferita a Regioni ed enti locali sin dagli anni ‘9037: in questo contesto, proseguiva la Regione, nell’attribuire ad enti locali e Regioni un proprio patrimonio, il federalismo demaniale completava il disegno riformatore, pur se era la stessa Regione ad ammettere che non erano ancora intervenuti i decreti attuativi38. A queste affermazioni la Corte rispondeva che era proprio l’art. 5 del d.lgs. n. 85/2010 ad escludere dal trasferimento una nutrita serie di beni ed infrastrutture, con una
31
Si veda L. ANTONINI, Il primo decreto legislativo di attuazione della legge n. 42/2009, cit., pp. 2-3. Sulle criticità del testo, si sofferma A. POLICE, Il federalismo demaniale, cit., spec. pp. 1234-1235, il quale, oltre a sottolineare la confusione con cui vengono affastellati i principi della devoluzione, rileva come il principio della semplificazione debba essere letto nel senso della pura e semplice dismissione per esigenze di cassa. Sottolinea le molteplici criticità anche R. GALLIA, Il federalismo demaniale, cit., pp. 971 ss., ad avviso del quale la rigidità per un uso prioritario finalizzato al risanamento del debito pubblico, locale e nazionale, finisce per attribuire al provvedimento una finalità prevalentemente congiunturale. Sul conflitto tra valorizzazione e dismissione si sofferma anche A. LEZZI, Federalismo demaniale, cit., pp. 232 ss., 244 ss., che mette in evidenza un ulteriore punto critico, ovvero la scarsa compatibilità di queste disposizioni legislative con quelle codicistiche. Sulle criticità del d.lgs. n. 85/2010, inoltre, sia consentito il rinvio a F. ZAMMARTINO, Alcune considerazioni sul federalismo demaniale, cit., pp. 33 ss.; A. RIDOLFI, La proprietà, cit., pp. 173 ss. 33 Sulle criticità del federalismo demaniale in materia di beni culturali si veda A.L. TARASCO, Il federalismo demaniale e la sussidiarietà obliqua nella gestione dei beni culturali, in Rivista giuridica del Mezzogiorno 2011, n. 4, pp. 1069 ss., spec. pp. 1084 ss.; S. SETTIS, Paesaggio, Costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Torino 2010, pp. 293-294; ID., Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino 2012, pp. 95 ss. 34 Sulla inopportunità della approvazione del decreto legislativo insiste in particolare E. BUGLIONE, Attuazione della l. 42/2009, Atto Primo, cit., spec. p. 705, secondo cui, prima di pensare al federalismo demaniale, sarebbe stato meglio completare le informazioni sul valore e la consistenza dei beni da trasferire, e definire la struttura delle entrate proprie degli enti territoriali e del sistema di perequazione. 35 Si veda P. MADDALENA, I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana, cit., p. 17, secondo il quale esso violerebbe gli artt. 1, 2, 3, 5, 42, 43, 76, 117 e 120 Cost. Di dubbi di costituzionalità parla anche G. LO CONTE, «Federalismo demaniale» e regime giuridico dei beni pubblici, cit., p. 27, secondo cui il d.lgs. n. 85/2010 si inserirebbe nell’ambito del processo di scomposizione degli schemi della demanialità. 36 Sulla sentenza n. 339/2011, si veda il commento di A. CERRI, L’autonomia regionale in tema di organizzazione e l’esclusiva competenza statale in tema di ordinamento civile: spunti e riflessioni a partire dalla sentenza n. 339 del 2011 della Corte costituzionale, ne Il Foro Italiano 2012, n. 5, col. 1361 ss.; 37 Cfr. C. Cost., sent. n. 339/2011, n. 3.3 del Ritenuto in fatto. 38 Cfr. C. Cost., sent. n. 339/2011, n. 3.3 del Ritenuto in fatto. 32
formula abbastanza elastica, per cui era necessario attendere i decreti attuativi per una identificazione più precisa dei beni e delle infrastrutture oggetto di trasferimento 39. Nella successiva sentenza n. 284/2012, la Corte si è trovata a decidere sul ricorso della Regione Veneto contro l’art. 27 del d.l. n. 201/2011. La Regione, in particolare, contestava la normativa introdotta in tema di valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del patrimonio immobiliare pubblico perché, a suo dire, attribuiva un ruolo determinante alla Agenzia del Demanio anche per quanto riguardava i beni di proprietà delle Regioni e degli altri enti territoriali, dando perciò, l’intendimento di devolvere nuovamente allo Stato questo compito, laddove, invece, proprio il d.l.gs. n. 85/2010 avrebbe trasferito larga parte di essi alle Regioni 40. Pur lasciando insoluta la questione della operatività (o meno) del d.lgs. n. 85/2010, la Corte ha replicato che le doglianze della Regione circa il ruolo esorbitante della Agenzia del Demanio non erano persuasive 41. Secondo la Corte, infatti, il nucleo della disciplina dettata dal d.l. n. 201/2011 era quello di dettare meccanismi multisettoriali riconducibili alla manovra finanziaria, e perciò attribuibili alla materia «coordinamento della finanza pubblica» 42, laddove, invece, la prospettiva evocata dalla Regione era ispirata da una visione «patrimonialistica» 43. Di conseguenza, il ruolo attribuito alla Agenzia del Demanio appariva in linea con la gamma di interventi che alla stessa erano stati via via riservati per conseguire un obiettivo di razionalizzazione e valorizzazione della gestione del patrimonio immobiliare e con gli obiettivi di coordinamento della finanza pubblica e di riduzione delle spese 44. Per quanto riguarda, infine, la sentenza n. 22/2013, va osservato che, pur invocando costantemente il d.lgs. n. 85/2010 a fondamento delle proprie pretese, sia lo Stato che la Regione Liguria ritengono che esso non sia in grado di produrre effetti giuridici sino ai decreti attuativi. In particolare, nei motivi di impugnazione della legge regionale ligure lo Stato sottolinea che permarrebbe ancora la separazione tra la gestione amministrativa dei beni (di competenza regionale) e aspetto dominicale degli stessi (di competenza statale), pur in presenza dell’art. 3 d.lgs. n. 85/2010 (che prevede il trasferimento alle Regioni dei beni del demanio marittimo), in quanto il trasferimento è subordinato alla adozione dei decreti del Presidente del Consiglio de Ministri non ancora emanati 45. A questa osservazione, la Regione replica che l’impugnativa dello Stato muova da una erronea 39
Cfr. C. Cost., sent. n. 339/2011, n. 4.2 del Considerato in diritto. Cfr. C. Cost., sent. n. 284/2012, n. 1 del Ritenuto in fatto. 41 Cfr. C. Cost., sent. n. 284/2012, n. 3 del Considerato in diritto. 42 Cfr. C. Cost., sent. n. 284/2012, n. 4 del Considerato in diritto. 43 Cfr. C. Cost., sent. n. 284/2012, n. 5 del Considerato in diritto. 44 Cfr. C. Cost., sent. n. 284/2012, n. 8 del Considerato in diritto. 45 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 1 del Ritenuto in fatto. 40
premessa,
dal
momento
che
la
normativa
impugnata
sarebbe
stata
adottata
esclusivamente nella attuazione del federalismo demaniale, e ciò emergerebbe chiaramente dalle modifiche apportate all’art. 2 della legge regionale impugnata, chiarendo perciò che nulla muterà sino alla data di entrata in vigore dei decreti attuativi 46. Ma il d.lgs. n. 85/2010 viene invocato anche con riferimento alle altre questioni sollevate. Secondo lo Stato, l’art. 11 l. reg. Liguria si porrebbe in contrasto con l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 85/2010, che escluderebbe dal trasferimento una serie di beni demaniali marittimi47. Secondo la Regione Liguria, invece, la censura sull’art. 7 della legge regionale è infondata, poiché nella normativa transitoria viene esplicitamente affermato che la nuova normativa entra in vigore solo dopo l’adozione dei decreti attuativi da parte del Presidente del Consiglio, così come errata sarebbe l’interpretazione statale dell’art. 15 della stessa legge regionale in materia di sdemanializzazione, in quanto, nel richiamare l’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 85/2010, la legge ligure escluderebbe dal trasferimento alla Regione beni appartenenti al demanio marittimo, idrico e aeroportuale, che restano assoggettati al regime previsto dal codice civile e dal codice della navigazione 48. La Corte ha accolto in pieno i rilievi della Regione Liguria, sottolineando come l’art. 7 della legge regionale non possa essere interpretata come devolutivo di esorbitanti attribuzioni dominicali o di funzioni non ancora trasferite, in virtù del fatto che la stessa normativa transitoria esclude espressamente che le funzioni statali esercitate sui beni di cui al d. lgs. n. 85/2010 possano essere esercitate dalla Regione prima dell’emanazione dei previsti decreti del Presidente del Consiglio dei ministri 49. Infondata è anche l’interpretazione addotta dal Governo a sostegno dell’impugnazione dell’art. 11 l. reg. Liguria, in quanto la disposizione chiaramente puntualizza che gli stessi entrano a far parte di quel regime solo se appartenenti alla Regione per acquisizione a qualsiasi titolo. Di conseguenza, prosegue la Corte, è evidente che non potranno considerarsi appartenenti al demanio regionale quei beni che, a norma del richiamato art. 5, comma 2, del d. lgs. n. 85/2010, sono esclusi dal trasferimento alle Regioni50. 4. Considerazioni conclusive Da quanto detto, emerge chiaramente che la Corte costituzionale non considera applicabile il d.lgs. n. 85/2010, ma lo subordina all’adozione dei decreti attuativi. Una 46
Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 4 del Ritenuto in fatto. Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 1 del Ritenuto in fatto, e n. 1 del Considerato in diritto. 48 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 2 del Ritenuto in fatto. 49 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 7.1 del Considerato in diritto. 50 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 7.2 del Considerato in diritto. 47
interpretazione minimalista sembra emergere anche dall’analisi della giurisprudenza amministrativa: pur se il d.lgs. n. 85/2010 è stato invocato da qualche T.A.R. per argomentare alcune decisioni51, prevale una interpretazione restrittiva a livello di Consiglio di Stato52. Peraltro, l’impossibilità per il d.lgs. n. 85/2010 di essere operativo prescindendo da ulteriori decreti di attuazione era stata prontamente colta da quella parte della dottrina che ne aveva rilevato l’inopportunità53. La Corte si è, perciò, mossa in controtendenza rispetto ai processi di disgregazione del demanio statale, processi tanto evidenti da fare parlare alcuni studiosi addirittura di una parabola declinante di esso 54. Si riscontra, infatti, un’evidente continuità tra la giurisprudenza costituzionale successiva al d.lgs. n. 85/2010 e quella precedente, con la quale la Corte aveva ripetutamente sostenuto che l’assetto della proprietà pubblica rimaneva inalterato fino alla completa attuazione del nuovo testo dell’art. 119 Cost., escludendo il trasferimento automatico dei beni sulla scorta della competenza legislativa in una determinata materia55. In particolare, nella sentenza n. 427/2004, la Corte, richiamando la precedente sentenza n. 98/1997, aveva sottolineato che il nuovo art. 119 Cost. non dettasse alcuna regola in ordine all’individuazione dei beni oggetto della attribuzione, con la logica conseguenza che, fino alla approvazione della legge di attuazione dell’ultimo comma di esso, i beni rimanevano nella piena proprietà e disponibilità dello Stato56. Questo non vuol dire, però, che la giurisprudenza della Corte sul nuovo art. 119 Cost. abbia in qualche modo voluto riproporre la vecchia e consunta tesi della distinzione tra norme precettive e norme programmatiche 57 – tesi che la dottrina aveva duramente contestato, e che la stessa Corte ha sconfessato sin dalla sua prima sentenza 58 –, anche 51
Cfr., ad esempio, T.A.R. Lazio, sez. II ter, 4 aprile 2013, n. 3424; T.A.R. Liguria, sez. II, 31 ottobre 2012, n. 1348; T.A.R. Liguria, sez. II, 15 giugno 2011, n. 938. 52 Cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, 19 gennaio 2012, n. 199; Cons. Stato, sez. III, 08 settembre 2011, n. 5063. 53 Cfr. nuovamente E. BUGLIONE, Attuazione della l. 42/2009, Atto Primo, cit., p. 705. 54 Sul declino del demanio si sofferma M. ESPOSITO, I beni pubblici, in AA.VV., Trattato di diritto privato diretto da Mario Bessone, Volume VII: Beni proprietà e diritti reali, Tomo I.2, Torino 2008, pp. 13 ss.; ID., L’uso generale trasformato in concessione a pagamento: la parabola declinante del demanio e dei suoi presupposti costituzionali, in Giurisprudenza costituzionale 2011, n. 4, pp. 2761 ss. 55 Cfr., in questo senso, E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici, cit., pp. 265-266, i quali citano a suffragio della propria tesi C. Cost., sent. nn. 250/2003; 26, 179, 286 e 427 del 2004; 177 e 209 del 2005. Si veda anche R. BIN, G. FALCON, Diritto regionale, cit., p. 295. 56 C. Cost., sent. n. 427/2004, n. 2.1 del Considerato in diritto. 57 Su questa distinzione, si veda S. BARTOLE, La Costituzione è di tutti, Bologna 2012, pp. 41 ss.; ID., Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna 2004, pp. 41 ss.; L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna 1996, pp. 134 ss. 58 Si veda S. BARTOLE, La Costituzione è di tutti, cit., pp. 50 ss.; ID., Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, cit., pp. 121 ss.; G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, Bologna 2008, pp. 211-212; L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, cit., pp. 135-136. Fortemente critico nei confronti della distinzione tra norme precettive e norme programmatiche era V. CRISAFULLI, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano 1952, spec. pp. 10 ss., 18 ss., 30 ss., 51 ss., 89 ss., 99 ss., 146 ss., 165 ss.
se un ritorno in auge di essa è forse riscontrabile nell’ambito della giurisprudenza a proposito dei contenuti eventuali degli Statuti regionali 59. Molto più semplicemente, per quanto riguarda la giurisprudenza anteriore al d.lgs. n. 85/2010, la Corte, in considerazione del fatto che i testi costituzionali sono caratterizzati essenzialmente da principi60, e non da regole 61 (le quali trovano, invece, espressione perlopiù nella legislazione)62, ha ritenuto che la concretizzazione dei principi contenuti nel nuovo testo dell’art. 119 Cost. dovesse avvenire ad opera del legislatore, e non ad opera del giudice 63. Vi sono, infatti, dei limiti all’uso giudiziario dei principi costituzionali, nel senso che spetta
59
Cfr. C. Cost., sent. nn. 2, 372, 378 e 379 del 2004. Una considerazione non negativa di questa giurisprudenza è in G. D’ALESSANDRO, I nuovi statuti delle Regioni ordinarie, Padova 2008, pp. 249 ss., secondo il quale essa non si discosta un granché da quella precedente alla revisione costituzionale del 1999. Critico nei confronti di questa giurisprudenza è, invece, G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, cit., p. 224. Ugualmente critico, seppur da un diverso punto di vista, è anche M. BENVENUTI, Brevi note in tema di (in)efficacia normativa dei c.d. contenuti eventuali degli statuti regionali, in Giurisprudenza costituzionale 2004, n. 6, pp. 4145 ss., secondo il quale (p. 4155) appare controverso e controvertibile che l’organo di giustizia costituzionale possa interloquire sull’efficacia di un enunciato contenuto in un atto espressione di un diverso potere costituzionale (nel caso di specie, il Consiglio regionale). Una attenuazione della vis polemica sembra esservi in ID., Le enunciazioni statutarie di principio nella prospettiva attuale, in R. BIFULCO (a cura di), Gli statuti di seconda generazione. Le Regioni alla prova della nuova autonomia, Torino 2006, pp. 21 ss., spec. pp. 55 ss., ove rileva che le indicazioni della Corte paiono puntuali, nel loro impianto schiettamene monitorio, a rimettere in discussione la equiparazione tra Statuto regionale e Costituzione. Si vedano, inoltre, A. D’ATENA, Diritto regionale, cit., pp. 104 ss.; R. CALVANO, I nuovi Statuti e le norme programmatiche nel nostro ordinamento: ci sono troppi principi fondamentali?, in F. MODUGNO, P. CARNEVALE, Trasformazioni della funzione legislativa, IV, cit., pp. 47 ss.; S. BARTOLE, R. BIN, G. FALCON, R. TOSI, Diritto regionale, cit., pp. 68-69. 60 Sull’importanza assunta dai principi nell’ambito delle Costituzioni del secondo dopoguerra si veda E. FORSTHOFF, Lo Stato della società industriale, tr. it. a cura di A. Mangia, Milano 2011, pag. 150-151, che sottolinea proprio su questo punto la profonda diversità con le Costituzioni ottocentesche. Sulle peculiarità dei principi, inoltre, si vedano V. CRISAFULLI, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, cit., pp. 14 ss., 27 ss., 127 ss., 151 ss.; ID., Lezioni di diritto costituzionale, II, cit., pp. 35-36; E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), II ed., Milano 1971, pp. 310 ss.; ID., Diritto, Metodo, Ermeneutica. Scritti scelti, a cura di G. Crifò, Milano 1991, pp. 545 ss.; R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano 1992, spec. pp. 9 ss.; L. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano 1996, pp. 115 ss., spec. pp. 126 ss.; L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, cit., pp. 109 ss., 143 ss.; R. ALEXY, Concetto e validità del diritto, tr. it. a cura di F. Fiore, Torino 1997, pp. 71 ss.; ID., Teoria dell’argomentazione giuridica, tr. it. a cura di M. La Torre, Milano 1998, pp. 192-193, 205-206, 339; ID., Teoria dei diritti fondamentali, tr. it. a cura di L. Di Carlo, Bologna 2012, pp. 101 ss.; A. GIULIANI, Le disposizioni sulla legge in generale: gli articoli da 1 a 15, in AA.VV., Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, 1. Premesse e Disposizioni Preliminari, II ed., Torino 1999, pp. 377 ss., spec. pp. 432 ss.; F. VIOLA, G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Ristampa, RomaBari 2001, pp. 366 ss.; G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, II ed., Torino 2002, pp. 13 ss., 147 ss.; ID., La legge e la sua giustizia, cit., pp. 210 ss.; ID., Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune, Torino 2009, pp. 85 ss., 102 ss.; G. BONGIOVANNI, Costituzionalismo e teoria del diritto. Sistemi normativi contemporanei e modelli della razionalità giuridica, Roma-Bari 2005, pp. 27 ss.; M. BARBERIS, Filosofia del diritto. Un’introduzione teorica, II ed., Torino 2005, pp. 144 ss.; A. LONGO, I valori costituzionali come categoria dogmatica. Problemi e ipotesi, Napoli 2007, spec. pag. 136 ss., 361 ss.; F. MODUGNO, Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli 2008, spec. pp. 31 ss., 207 ss., 227 ss., 276; A.A. CERVATI, Per uno studio comparativo del diritto costituzionale, Torino 2009, pp. 36 ss., 81 ss., 92 ss., 99 ss., 121 ss., 183 ss., 218 ss.; R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, tr. it. a cura di N. Muffato, II ed., Bologna 2010, spec. pp. 48 ss., 116 ss.; G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., pp. 222 ss. 61 Tende a ridimensionare la distinzione tra principi e regole A. PACE, Metodi interpretativi e costituzionalismo, in Quaderni costituzionali 2001, n. 1, pp. 35 ss., spec. pp. 42-43, secondo il quale le Costituzioni rigide, soprattutto se «unidocumentali», sono composte, per la maggior parte, da «regole», e non da «disposizioni di principio». 62 Così nuovamente G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, cit., p. 227. 63 Sui diversi modi di concretizzazione dei principi, si vedano G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, cit., pp. 218 ss.; G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., pp. 227 ss.
solo al legislatore, e non alla Corte, la scelta tra regole diverse, pur tutte conformi al principio stesso64. Per quanto riguarda, invece, la giurisprudenza sul d.lgs. n. 85/2010, la Corte non si è limitata a rinviare alla legislazione, ma ha esercitato anche una funzione «correttiva» di essa65, in virtù di quella che è stata chiamata la sua funzione di «supplenza» 66. Questo potere – del quale costituisce una manifestazione la grande varietà di tipi di sentenze e di motivazioni elaborate nel corso degli anni 67 – emerge quando la Corte si trova a integrare discipline costituzionali e legislative di per sé incompiute e gravemente lacunose o suscettibili di presentare contrarietà o contraddizioni non facilmente superabili o sanabili 68, e sembra difficile sostenere che il d.lgs. n. 85/2010 non rientri in uno di questi casi: trovandosi di fronte ad un testo legislativo che, in virtù dello stretto legame esistente tra Costituzione e legislazione69, avrebbe avuto profonde implicazioni sull’intero sistema costituzionale della proprietà pubblica 70, la Corte ha preferito impedirne gli effetti irragionevoli attraverso una sorta di «mascheramento formalistico» (la mancanza dei decreti attuativi)71. D’altra parte, l’inattuazione non riguarda soltanto la materia del patrimonio delle Regioni, ma quasi ogni aspetto dell’art. 119 Cost., nonostante l’approvazione della l. n. 42/2009 e 64
Sui limiti all’uso giudiziario dei principi costituzionali, si vedano G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., pp. 230-231. Si veda anche M. LUCIANI, Funzioni e responsabilità della giurisdizione. Una vicenda italiana (e non solo), in Rivista AIC 2012, n. 3 (3-7-2012), pp. 10-11, ove distingue tra attuazione (attività spettante al legislatore) e applicazione della Costituzione (attività spettante alla giurisdizione). In senso simile, si veda anche G. SILVESTRI, Le sentenze normative della Corte costituzionale, in AA.VV., Scritti sulla giustizia costituzionale in onore di Vezio Crisafulli, I, Padova 1985, pp. 755 ss., spec. pp. 786 ss., ove critica l’intervento della Corte « nel processo attuativo della Costituzione mediante la produzione di norme giuridiche con atti aventi la stessa efficacia delle leggi ordinarie, ma che non rientrano né tra le leggi formali né tra gli atti aventi forza di legge previsti alla Costituzione», in quanto «l’anomalia non sta nell’incidenza sull’indirizzo politico generale delle sentenze della Corte, quanto nel fatto che si attribuisce ad un organo politicamente irresponsabile un potere di dettare norme con efficacia erga omnes aventi la stessa forza degli atti legislativi». 65 Sulla funzione «correttiva» della legislazione ad opera della giurisprudenza, si vedano A. GIULIANI, Presentazione, in C. PERELMAN, Logica giuridica, nuova retorica, tr. it. a cura di G. Crifò, Milano 1979, pp. V ss.; ID., Le disposizioni sulla legge in generale, cit., pp. 423 ss.; F. MODUGNO, Scritti sull’interpretazione costituzionale, cit., pp. 115 ss. 66 Sulla funzione di supplenza della Corte costituzionale, si veda soprattutto F. MODUGNO, La funzione legislativa complementare della Corte costituzionale, in Giurisprudenza costituzionale 1981, parte I, pag. 1646 ss.; ID., La Corte costituzionale italiana oggi, in AA.VV., Scritti in onore di Vezio Crisafulli, I, Padova 1985, pag. 527 ss., spec. pp. 566 ss.; ID., Ancora sui controversi rapporti tra Corte costituzionale e potere legislativo, in Giurisprudenza costituzionale 1988, parte II, pp. 16 ss.; ID., Scritti sull’interpretazione costituzionale, cit., pp. 107 ss. 67 Sulla grande varietà di strumenti elaborati dalla Corte italiana si soffermano A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., pp. 188-189; E. LAMARQUE, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, cit., pp. 59 ss., 66 ss.; L. PEGORARO, Giustizia costituzionale comparata, Torino 2007, pp. 145-146; G. BONGIOVANNI, Costituzionalismo e teoria del diritto, cit., pp. 40 ss.; A.A. CERVATI, Tipi di sentenze e tipi di motivazioni nel giudizio incidentale di costituzionalità delle leggi, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, cit., pp. 125 ss. 68 Così nuovamente F. MODUGNO, Scritti sull’interpretazione costituzionale, cit., p. 194. 69 Sul legame tra Costituzione e legislazione insiste L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, cit., pp. 140 ss. 70 Sul rapporto tra Costituzione e demanio insiste in particolare M. ESPOSITO, I beni pubblici, cit., pp. 67 ss. 71 Sui mascheramenti formalistici della Corte in materia di ragionevolezza delle leggi, si sofferma G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, cit., pp. 228 ss.
dei relativi decreti delegati. Nella sentenza n. 273/2013 in materia di trasporto pubblico, la Corte ha esplicitamente affermato che, nella perdurante inattuazione della l. n. 42/2009, l’intervento statale sia ammissibile nei casi in cui risponda all’esigenza assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa 72: siffatti interventi si configurerebbero, secondo la Corte, come portato temporaneo della perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost. e di imperiose necessità sociali, indotte anche dalla attuale grave crisi economica nazionale e internazionale 73. Certamente, quella della Corte è una interpretazione centralista, ma la centralizzazione non è altro che la logica conseguenza della crisi economica, le cui ripercussioni sulla architettura istituzionale sono così evidenti da fare parlare addirittura di una vera e propria crisi del regionalismo74, se non, addirittura, della stessa idea di federalismo 75. La crisi economica legittima, infatti, una lettura della ripartizione verticale del potere in chiave centripeta, talvolta anche in deroga esplicita al riparto di competenze tra i diversi livelli territoriali previsto dalla stessa Costituzione 76, e, in questo contesto, i custodi dei nuovi equilibri tra centro e periferia sono proprio le giurisdizioni costituzionali 77. Le analisi 72
Su questa sentenza, si vedano M. BENVENUTI, Brevi annotazioni critiche intorno a una recente pronuncia della Corte costituzionale in tema di fondi a destinazione vincolata, stabiliti con legge statale in materia di trasporto pubblico locale, anche ferroviario, e di F. SAITTO, La Corte conferma la “regola dell’eccezione” in materia di fondi vincolati tra inattuazione dell’art. 119 e “imperiose necessità sociali”, in Giurisprudenza costituzionale 2013, n. 6, pp. 4391 ss. 73 C. Cost., sent. n. 273/2013, n. 4.3 del Considerato in diritto, ove, a loro volta, vengono citate C. Cost., sent. nn. 121/2010 e 232/2011. 74 Cfr., in proposito, F. COVINO, Le autonomie territoriali, in F. ANGELINI, M. BENVENUTI, Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, cit., pp. 333 ss. 75 Sull’eliminazione del federalismo fiscale dall’agenda politica nazionale come logica conseguenza del rilancio di una politica di risanamento dei conti pubblici insistono S. MISIANI, Federalismo, ultimo atto? Una nota per riaprire il dibattito, in Rivista giuridica del Mezzogiorno 2012, n. 1-2, pp. 281 ss.; A. ZANARDI, E. LONGOBARDI, Sul federalismo fiscale, ne Il Mulino 2012, n. 4. pp. 712 ss. 76 Di diverso avviso sembra, invece, M. BENVENUTI, La Corte costituzionale, cit., p. 399, secondo il quale nelle prime sentenze della Corte Costituzionale sulla crisi (C. Cost., sent. nn. 10, 16, 128, 182 del 2010) tale argomento sarebbe un mero argomento di fatto, volto non già a derogare alla lettera della Costituzione, quanto piuttosto a sfumare il passaggio da una operazione interpretativa a un’altra, ma tutte costituzionalmente lecite. Sulla forte centralizzazione operata dalla legislazione anticrisi, si soffermano S. MANGIAMELI, Crisi economica e distribuzione territoriale del potere politico, cit., pp. 26 ss.; ID., La nuova parabola del regionalismo italiano, cit., pp. 729 ss.; F. MINNI, Cosa resterà di questo federalismo fiscale, cit., pp. 75-76, 80 ss. 77 Basti pensare che in pochi casi la Corte ha optato per una dichiarazione di incostituzionalità di discipline legislative statali profondamente invasive di competenze regionali (l’art. 43 d.l. n. 78/2010, con la sentenza n. 232/2011; l’art. 11, comma 6-bis, del d.l. n. 78/2010, con la sentenza n. 330/2011; l’art. 20, commi 4 e 5, del d.l. n. 98/2011, con la sentenza n. 193/2012; l’art. 69, comma 3-bis, del d.l. n. 134/2012, con la sentenza n. 263/2013; l’art. 1, commi 7, 10, 11, 12 e 16 d.l. n. 174/2012, con la sentenza n. 39/2014; l’art. 16, commi 5, 7, e 10, d.l. n. 138/2011, con la sentenza n. 44/2014; l’art. 16, comma 2, d.l. n. 95/2012, con la sentenza n. 79/2014; ecc.), preferendo nella maggioranza dei casi la dichiarazione di infondatezza (cfr., ex multis, C. Cost., sent. nn. 62 e 273 del 2013). Né si potrebbe invocare a contrario la sent. n. 199/2012, poiché la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4 d.l. n. 138/2011 non è stata fondata sulla violazione dell’art. 117 Cost., ma dell’art. 75 Cost.! Questa impressione di un sostanziale favor nei riguardi delle istanze del centro a scapito di quelle locali mi sembra rafforzata anche dalla sentenza n. 2/2014, ove la Corte ha negato esplicitamente che la Regione possa invocare la crisi economica come argomento per derogare al riparto di competenze. Sulla sentenza n. 199/2012, si vedano i commenti di G. F ERRI, Abrogazione popolare e vincolo per il legislatore: il divieto di ripristino vale finché non intervenga un cambiamento del “quadro politico” o delle “circostanze di fatto”, in Giurisprudenza italiana 2013, n. 2, pp. 275 ss. (e in www.giurcost.org); V. CERULLI IRELLI, Servizi pubblici locali: un settore a disciplina generale di fonte europea, in Giurisprudenza costituzionale 2012, n. 4, pp. 2900 ss.; A. MURATORI, Ordinamento dei Servizi pubblici locali: la Consulta «cassa» le norme elusive delle scelte referendarie, in Ambiente e
empiriche di Wheare hanno mostrato come la crisi economica del 1929 abbia comportato processi di centralizzazione persino nell’ambito degli Stati federali 78: basti pensare, in particolare, a quel che ha significato negli Stati Uniti la «svolta giurisprudenziale» del 1937 ed il passaggio da un federalismo di tipo competitivo ad uno di tipo cooperativo, attraverso un’interpretazione estensiva della c.d. «commerce clause»79. D’altra parte, che la crisi economica possa consentire interventi statali astrattamente derogatori delle competenze regionali emerge, a maggior ragione, dall’analisi della sentenza n. 62/2013, dove la Corte non ha esitato a parlare esplicitamente di una situazione eccezionale di crisi economico-sociale che legittima un ampliamento dei confini entro i quali lo Stato deve esercitare la propria competenza legislativa 80, con la precisazione che, una volta cessata la situazione congiunturale, non si possa prescindere dagli strumenti ordinari di coinvolgimento delle autonomie territoriali 81. Tutta la giurisprudenza più recente sull’art. 119 Cost., anche quando non faccia espresso riferimento alla crisi economica, può essere letta, quindi, alla luce di questo generale processo di centralizzazione. Ci si può interrogare se il nostro modello di regionalismo non sia più in linea con le nuove esigenze finanziarie provenienti dall’Europa 82, ma questa è un’altra questione. **Dottore di Ricerca in Teoria dello Stato ed Istituzioni Politiche Comparate nell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” (XV Ciclo) e Assegnista di Ricerca in Diritto Pubblico
sviluppo 2012, n. 11, pp. 935 ss.; G. COCIMANO, L’illegittimità costituzionale dei limiti all’in house nei servizi pubblici locali, in Urbanistica e appalti 2012, n. 11, pp. 1141 ss.; S. LA PORTA, Il “ripristino” della normativa abrogata con referendum. Brevi note a margine della travagliata vicenda dei servizi pubblici locali, in Rivista AIC 2012, n. 4 (20-112012); A. Lucarelli, La sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 e la questione dell’inapplicabilità del patto di stabilità interno alle S.P.A. in house ed alle aziende speciali, in Federalismi.it 2012, n. 18 (26-9-2012); R. DICKMANN, La Corte conferma il divieto di ripristino della legislazione abrogata con referendum (nota a Corte Cost. , 20 luglio 2012, n. 199), in Federalismi.it 2012, n. 23 (5-12-2012); M. DELLA MORTE, Abrogazione referendaria e vincoli al legislatore (26-9-2012), in www.forumcostituzionale.it; A. MANGIA, Abrogazione referendaria e leggi di ripristino (31-2013), ivi; F. MERLONI, Una sentenza chiara sull’aggiramento del referendum, poco utile per il definitivo assetto della disciplina dei servizi pubblici locali, ivi. Sulla sentenza n. 2/2014, si veda A. CANDIDO, L’emergenza non estende le competenze regionali. Sulla proroga dei contratti di trasporto pubblico locale, in Rivista AIC 2014, n. 3 (11-7-2014). 78 Si vedano A. RIDOLFI, La proprietà, cit., p. 175; K.C. WHEARE, Del Governo federale, cit., pp. 193 ss., 375 ss. 79 Si vedano, in proposito, G. BOGNETTI, Federalismo, Torino 2001, pp. 30 ss.; ID., La divisione dei poteri, II ed., Milano 2001, pp. 55 ss.; ID., Lo spirito del costituzionalismo americano, II. La Costituzione democratica, Torino 2000, pp. 32 ss. e 203 ss.; E. ZOLLER, Droit constitutionnel, II ed., Paris 1999, pp. 381 ss.; K.C. WHEARE, Del governo federale, cit., pp. 250-251. 80 C. Cost., sent. n. 62/2013, n. 6.2 del Considerato in diritto. Per una considerazione positiva di questa giurisprudenza, si rinvia al commento di M. BENVENUTI, Brevi considerazioni intorno al ricorso all’argomento della crisi economica nella più recente giurisprudenza costituzionale, in Giurisprudenza costituzionale 2013, n. 2, pp. 969 ss. 81 C. Cost., sent. n. 62/2013, n. 6.2. del Considerato in diritto, la quale, a sua volta, cita C. Cost., sent. n. 10/2010, n. 6.4 del Considerato in diritto. 82 Così F. MINNI, Cosa resterà di questo federalismo fiscale, cit., p. 82. Sulla necessità di non lasciare il sistema a metà insistono, tuttavia, A. ZANARDI, E. LONGOBARDI, Sul federalismo fiscale, cit., pp. 715-716.
presso il Dipartimento di Economia e Diritto (Facoltà di Economia) dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
I diritti delle persone con disabilità ed il ruolo dell’associazionismo * (nota a TAR Lazio sent. n. 3851/2014) di Sara Carnovali** (25 agosto 2014) 1.
La sentenza n. 3851/2014 del Tribunale Amministrativo per il Lazio,
Sezione Terza Quater, costituisce un’importante pronuncia in materia di diritti delle persone con disabilità, nella misura in cui, soffermandosi sulle c.d. visite di revisione straordinaria e sulle associazioni di categoria, consente di svolgere alcune riflessioni circa la funzione di queste ultime nella tutela dei diritti, la cui garanzia rischia talvolta di essere posta in discussione dai provvedimenti adottati dalle autorità pubbliche. In particolare, pur non affermandolo espressamente, tale sentenza ha il pregio di valorizzare il ruolo dell’associazionismo, in conformità con lo spirito che negli ultimi decenni l’ha visto emergere sempre più come indispensabile punto di riferimento per le persone con disabilità. Prima di svolgere qualche osservazione proprio su questo aspetto, è opportuno sintetizzare il contenuto della sentenza in oggetto. 2. Attraverso la pronuncia in commento, il TAR Lazio si è pronunciato sul ricorso proposto dall’Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale (A.N.F.F.A.S.) contro l’INPS ed i Ministeri della Salute e dell’Economia e delle Finanze. La citata associazione agiva dinanzi al giudice amministrativo per l’annullamento del messaggio INPS n. 6763/2011 nella parte in cui – relativamente alle c.d. visite di revisione ordinaria, da effettuarsi in seguito alla scadenza del primo verbale di invalidità civile – non era prevista la presenza di medici rappresentanti né dell’associazione A.N.F.F.A.S., né di altre associazioni *Scritto sottoposto a referee.
1
rappresentative all’interno delle commissioni di verifica della persistenza dell’invalidità civile; in secondo luogo, si censurava il suddetto messaggio nella parte in cui tali visite di revisione ordinaria venivano comprese nelle 250.000 visite di revisione straordinaria1, che si sarebbero dovute effettuare nel corso dell’anno 20112. La ricorrente impugnava inoltre il successivo messaggio INPS n. 8146/2011, relativo alla sola revisione straordinaria, il quale stabiliva che le commissioni di verifica straordinaria venissero integrate da un medico 1 Per revisione ordinaria si intende l’accertamento medico che, in seguito al rilascio della certificazione che attesta lo stato di invalidità civile, sia diretto ad appurare «la permanenza nel beneficiario del possesso dei requisiti prescritti per usufruire della pensione, assegno od indennità previsti […] e per disporne la revoca in caso di insussistenza di tali requisiti» (così decreto-legge 30 maggio 1988, n. 173, articolo 3). Si tratta dunque di un accertamento relativo alla perdurante persistenza dei requisiti di carattere sanitario e reddituale. Di recente, a tali revisioni ordinarie si sono affiancate quelle straordinarie, la cui ratio consisterebbe nel far fronte al c.d. fenomeno dei “falsi invalidi”. La revisione straordinaria presuppone anch’essa un procedimento di verifica finalizzato ad «accertare, nei confronti di titolari di trattamenti economici di invalidità civile, la permanenza dei requisiti sanitari necessari per continuare a fruire dei benefici stessi» (così legge 6 agosto 2008, n. 133, di conversione del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, articolo 80, comma 3) e si aggiunge all’ordinaria attività di accertamento. A tale proposito, acquista particolare rilievo l’articolo 20, comma 2 del decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78, come modificato da ultimo dall’articolo 10, comma 4, del decreto legge n. 78/2010, convertito in legge n. 30 luglio 2010, n. 122, laddove prevede che «per il triennio 2010-2012 l’INPS effettua, con le risorse umane e finanziarie previste a legislazione vigente, in via aggiuntiva all’ordinaria attività di accertamento della permanenza dei requisiti sanitari e reddituali, un programma di 100.000 verifiche per l’anno 2010 e di 250.000 verifiche annue per ciascuno degli anni 2011 e 2012 nei confronti dei titolari di benefici economici di invalidità civile». Si rinvia inoltre al recentissimo decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 114; il comma 8 dell’articolo 25 (Semplificazioni per i soggetti con invalidità) modifica la disciplina relativa alla revisione delle visite per i soggetti che siano affetti da patologie o menomazioni stabilizzate o ingravescenti. In precedenza, l’articolo 97, comma 2 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 differenziava i soggetti affetti da tali patologie, escludendo dalle visite di revisione «i soggetti portatori di menomazioni o patologie stabilizzate o ingravescenti, che abbiano dato luogo al riconoscimento dell’indennità di accompagnamento o di comunicazione». Abrogando il primo periodo della norma originaria, il d.l. 90 del 2014 elimina tale disparità di trattamento: l’esonero dagli accertamenti di controllo e di revisione riguarderà ora tutte le patologie stabilizzate o ingravescenti, individuate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della salute. 2 «Tutti i titolari di prestazioni economiche di invalidità civile, sordità civile, cecità civile, soggette a scadenza saranno chiamati dall’Istituto a visita diretta, prima della scadenza stessa, per essere sottoposti a verifica straordinaria […]. Nell’anno 2011, saranno coinvolti nelle operazioni di verifica straordinaria i soggetti la cui revisione sanitaria è prevista per l’anno in corso, a partire dal mese di luglio […] Ove possibile, dovranno essere avviati contatti con le Associazioni di categoria dei disabili», così Messaggio INPS n. 6763/2011, Invalidità civile – accertamento sanitario delle prestazioni a scadenza. Nuove modalità gestionali ed operative.
2
rappresentante delle associazioni A.N.M.I.C., U.I.C. ed E.N.S., ma non dell’associazione A.N.F.F.A.S.3 La ricorrente riteneva che i predetti messaggi INPS, a causa della mancata consultazione di alcune associazioni di categoria, si ponessero in contrasto con il c.d. principio di sussidiarietà orizzontale, sancito dall’ultimo comma dell’articolo 118 della Costituzione. L’associazione ricorrente lamentava inoltre l’eccesso di potere degli atti impugnati per difetto di istruttoria, la carenza di motivazione, l’illogicità manifesta e la contraddittorietà
dell’azione
posta
in
essere
dalla
pubblica
amministrazione. Infine, veniva impugnato il messaggio INPS n. 6796/2012, anch’esso relativo alle sole revisioni straordinarie, nuovamente per mancanza della rappresentanza di A.N.F.F.A.S.4 Oltre all’eccesso di potere per carenza di motivazione e difetto di istruttoria, si denunciava altresì, a causa della predetta esclusione, la violazione dell’articolo 2 della Costituzione e l’esistenza di una disparità di trattamento posta in essere nei confronti delle persone affette da patologie intellettive e/o relazionali rispetto a 3 «Le Commissioni mediche INPS deputate ad accertare la permanenza dei requisiti sanitari di invalidità civile, di cecità civile e di sordità civile sono di volta in volta integrate con un medico in rappresentanza, rispettivamente, dell’Associazione nazionale dei mutilati e invalidi civili (A.N.M.I.C.), dell’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti (U.I.C.) e dell’Ente nazionale per la protezione e l’assistenza dei sordi (E.N.S.)», così il Messaggio INPS n. 8146/2011, Programmi di verifiche della permanenza dei requisiti nei confronti dei titolari di benefici economici di invalidità civile, di cui all’articolo 20, comma 2, secondo periodo, del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e successive modifiche. Integrazione delle Commissioni mediche INPS.
4 «L’art. 20, comma 2, del decreto legge n. 78/2009, come modificato da ultimo dall’articolo 10, comma 4, del decreto legge n. 78/2010, convertito in Legge n. 30 luglio 2010, n. 122, dispone che “per il triennio 2010-2012 l’INPS effettua, con le risorse umane e finanziarie previste a legislazione vigente, in via aggiuntiva all’ordinaria attività di accertamento della permanenza dei requisiti sanitari e reddituali, un programma di 100.000 verifiche per l’anno 2010 e di 250.000 verifiche annue per ciascuno degli anni 2011 e 2012 nei confronti dei titolari di benefici economici di invalidità civile”. L’articolo 20 comma 2, della legge 102/2009 dispone inoltre che: “L’INPS accerta altresì la permanenza dei requisiti sanitari nei confronti dei titolari di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità”. In conformità al dettato normativo, l’Istituto sta procedendo anche nell’anno in corso all’attuazione di un piano di verifiche», così il Messaggio INPS n. 6796/2012, Programma di verifiche straordinarie da effettuare nell’anno 2012 nei confronti dei titolari di benefici di invalidità civile, sordità, cecità civile ed handicap.
3
coloro che presentano tipologie di tipo differente, con conseguente violazione anche dell’articolo 3 del testo costituzionale. L’INPS giustificava tale esclusione richiamandosi all’articolo 10 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni nella legge 2 dicembre 2005, n. 248, che prevedeva, all’interno delle commissioni mediche di verifica, la sola presenza di medici rappresentanti di A.N.M.I.C., U.I.C. ed E.N.S.5 Il giudice amministrativo, tuttavia, ha evidenziato come tale disposizione non avesse in precedenza impedito all’INPS di prevedere la presenza, all’interno delle commissioni medico-legali competenti per le visite di revisione ordinaria, anche di medici designati dall’associazione ricorrente 6. Partendo da tale considerazione, il TAR Lazio si è così pronunciato per l’illegittimità dell’esclusione dalle commissioni straordinarie dei medici rappresentanti
dell’A.N.F.F.A.S.,
ravvisando
la
contraddittorietà
dell’operato dell’INPS e la violazione del principio di ragionevolezza, in ragione della mancanza di elementi che potessero giustificare la differente composizione delle commissioni straordinarie rispetto a quelle ordinarie. Il giudice amministrativo, inoltre, ha dichiarato fondata anche l’altra censura, relativa alla decisione dell’INPS di estendere alle visite di revisione
ordinaria
le
modalità
previste
per
quelle
di
revisione
straordinaria. In considerazione della differente composizione delle commissioni ordinarie e straordinarie, da tale assimilazione ne sarebbe 5 «Resta ferma la partecipazione nelle commissioni mediche di verifica dei medici nominati in rappresentanza dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi civili, dell’Unione italiana dei ciechi e dell’Ente nazionale per la protezione e l’assistenza dei sordomuti »,
così il Decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria, articolo 10, comma 1. 6 La Circolare INPS n. 131/2009, Art. 20 del D.L. n. 78/2009 convertito con modificazioni nella Legge 102 del 3 agosto 2009 – Nuovo processo dell’Invalidità Civile – Aspetti organizzativi e prime istruzioni operative. Istruzioni contabili. Variazioni al piano dei conti, al punto 7, lettera B prevede che «la visita sarà effettuata da una Commissione medica costituita da: un medico INPS, indicato dal Responsabile del CML e diverso dal componente della Commissione medica integrata, con funzione di Presidente al quale compete il giudizio definitivo, da un medico rappresentante delle associazioni di categoria (ANMIC, ENS, UIC, ANFASS) e dall’operatore sociale nei casi previsti dalla legge».
4
infatti scaturita l’esclusione dei medici designati dall’A.N.F.F.A.S. da qualsiasi visita di revisione. Come affermato dalla ricorrente, tale provvedimento dell’INPS integrava una violazione del principio di non discriminazione, vista la conseguente minor tutela nei confronti delle persone affette da disabilità intellettive e/o relazionali. 3. Prima di entrare nel vivo delle questioni affrontate dal giudice amministrativo, è opportuno spendere qualche parola sulle c.d. procedure di revisione straordinaria. Come già accennato, l’introduzione delle visite di revisione straordinaria e l’assimilazione ad esse di quelle di revisione ordinaria troverebbero la propria ratio nel fenomeno dei c.d. “falsi invalidi”, tema che – almeno in una certa prospettiva – si lega a quello della limitatezza delle risorse economiche e dell’onerosità dei diritti sociali. In un momento, come quello presente, in cui ci si domanda come sia possibile garantire l’efficace attuazione dei diritti sociali sanciti dalla Costituzione, considerate le gravi difficoltà economico-finanziarie a cui lo Stato deve far fronte7, il
rischio da più parti evidenziato è che la cd. crisi del Welfare State
trascini con sé anche la garanzia dei diritti sociali8.
Invocando il “principio del
pareggio di bilancio”, infatti, negli ultimi anni il legislatore ha posto 7 Così G. FONTANA, Crisi economica ed effettività dei diritti sociali in Europa, in Forumcostituzionale.it, Forum di Quaderni Costituzionali, pp. 1, 6-7, G. RAZZANO, Lo “statuto” costituzionale dei diritti sociali, in Convegno annuale dell’Associazione Gruppo di Pisa I diritti sociali: dal riconoscimento alla garanzia. Il ruolo della giurisprudenza, Trapani 8-9 giugno 2012, Gruppodipisa.it, pp. 1-4, A. SPADARO, I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, più solidale, più sostenibile), in Associazionedeicostituzionalisti.it, Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2011, pp. 1, 9-10, C. SALAZAR, Crisi economica e diritti fondamentali, Relazione al XVIII Convegno annuale dell’AIC, in Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti cit., p. 1.
8 Cfr. ad esempio L. VIOLINI – B. VIMERCATI, Lavoro e disabilità: un binomio possibile anche in un momento di crisi, in Università e persone con disabilità, in M. D’AMICO – G. ARCONZO (a cura di), Università e persone con disabilità. Percorsi di ricerca applicati a vent’anni dalla legge n. 104 del 1992, Franco Angeli, Milano, 2013, pp. 122-123, G. MERLO, Il tempo della crisi economica e le conseguenze sulla vita della disabilità, in M. D’AMICO – G. ARCONZO (a cura di), Università e persone con disabilità cit., p. 142 e A. ROVAGNATI, Sulla natura dei diritti sociali, , Torino, 2009, pp. 101-103.
5
in
essere
una
serie
di
interventi
di
ridimensionamento
nell’erogazione delle prestazioni concernenti i diritti sociali, a fronte di una corrispondente riduzione degli investimenti pubblici. È in tale contesto che si inserisce la normativa concernente le visite di revisione straordinaria, volte a “scoprire” i c.d. “falsi invalidi”. Al fine di combattere le spese ingiustificate, dal 2009 al 2013 sono state effettuate dall’INPS 854.192 verifiche straordinarie e sono state sottoposte a revoca 67.225 provvidenze, per mancata conferma dei requisiti sanitari o per assenza alla visita di accertamento. In altre parole, la revoca delle provvidenze ha interessato il 7,9% delle verifiche effettuate. In tale percentuale, peraltro, sono comprese – a partire dal 2011, anno in cui l’INPS ha previsto l’inclusione delle visite di revisione ordinaria nel Piano straordinario di verifica – anche le visite effettuate su persone per le quali era già stata prevista una revisione (in via ordinaria) dell’invalidità. Come hanno sottolineato molte associazioni per i diritti delle persone con disabilità, la percentuale del 7,9 è dunque al lordo di quanto si sarebbe in ogni caso realizzato in via ordinaria. Attraverso l’effettuazione delle visite di revisione straordinaria, l’INPS stima di aver ricavato in totale 352,7 milioni di euro. Anche tale cifra è al lordo, in quanto l’INPS si è avvalso dell’ausilio di medici anche esterni, per una la spesa dichiarata di 101,2 milioni di euro dal 2009 al 2012. Il risparmio effettivo, pertanto, rappresenterebbe solo l’1,51% della spesa annua per le provvidenze agli invalidi civili, ovverosia poco più di 15 miliardi, secondo quanto riportato dalla Corte dei Conti. Da tale cifra, oltretutto, andrebbero detratte le spese per il personale interno e per il contenzioso, generato da coloro che ricorrono in giudizio a seguito della revoca delle provvigioni in precedenza accordate. A fronte di tali considerazioni, è presumibile che l’effettivo risparmio ammonti appena a 111,4 milioni. Questa cifra corrisponde allo 0,67% della spesa annuale per pensioni e indennità, la quale nel nostro Paese è pari
6
solamente all’1,1% del PIL, percentuale che ci colloca al ventiquattresimo posto in Europa.9 A parte il modesto risparmio di risorse che determinano, tali norme
rischiano però di discriminare chi persona con disabilità lo è davvero. Il pericolo è infatti quello di sottoporre a forti disagi persone affette da disabilità dalle quali è conclamato non si possa guarire. A differenza delle visite di revisione ordinaria, infatti, nel caso di revisioni straordinarie non troverebbe applicazione l’articolo 97, comma 2, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, che esonera
da
successivi
accertamenti
i
soggetti
portatori
di
menomazioni o patologie stabilizzate o ingravescenti 10. In considerazione di ciò, le associazioni rappresentative lamentano da tempo la situazione di grave stress psicologico al quale sono spesso sottoposti i propri associati, convocati a visita senza tenere in considerazione le specifiche condizioni di salute, talvolta anche molto gravi, nonché la pesante dilatazione dei tempi necessari per ottenere il riconoscimento delle prestazioni dovute.
4.
Ciò premesso, dalla lettura della sentenza emerge chiaramente
l’importanza delle organizzazioni associative per la tutela e il godimento 9 Dati ricavati da CORTE DEI CONTI, Relazione sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) per l’esercizio 2011, approvata con Determinazione n. 91/2012, GUARDIA DI FINANZA, Rapporto Annuale 2012 GDF, ISTAT, Istituto Nazionale di Statistica, Rapporto Annuale 2014, Istat.it, CITTADINANZATTIVA, I Rapporto nazionale sulla invalidità civile e la burocrazia, Cittadinanzattiva.it e FISH ONLUS, Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, Fishonlus.it. 10 «I soggetti portatori di menomazioni o patologie stabilizzate o ingravescenti, inclusi i soggetti affetti da sindrome da talidomide, che abbiano dato luogo al riconoscimento dell’indennità di accompagnamento o di comunicazione sono esonerati da ogni visita medica finalizzata all’accertamento della permanenza della minorazione civile o dell’handicap. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della salute, sono individuate, senza ulteriori oneri per lo Stato, le patologie e le menomazioni rispetto alle quali sono esclusi gli accertamenti di controllo e di revisione ed è indicata la documentazione sanitaria, da richiedere agli interessati o alle commissioni mediche delle aziende sanitarie locali qualora non acquisita agli atti, idonea a comprovare la minorazione», così la Legge 23 dicembre 2000, n. 388, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001), articolo 97, comma 2. Come già visto, il primo periodo della norma è stato abrogato dall’articolo 25 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 114.
7
dei diritti da parte delle persone con disabilità. In particolare, il ruolo delle associazioni si manifesta in tutta la sua portata nella misura in cui esse si fanno portavoce degli interessi di specifiche categorie di persone, le quali, a causa di determinate circostanze, sono poste in una condizione di maggiore “debolezza” rispetto ad altre per quanto concerne i rapporti con i pubblici poteri. L’importanza delle associazioni consiste soprattutto nel fatto di essere in grado di arrivare laddove il singolo da solo non riesce, in quanto – per le più disparate ragioni, economiche, sociali, culturali – privo degli strumenti capaci di far valere efficacemente i propri diritti. Ecco la ragione, chiaramente
affermata
dal
TAR
nella
sentenza
in
commento,
dell’importanza di non escludere i medici rappresentanti di certe associazioni di categoria dalle commissioni medico-legali di verifica. In effetti, analogo principio si rinviene nell’articolo 4 della legge 1 marzo 2006, n. 67, che attribuisce alle associazioni rappresentative la legittimazione ad agire in giudizio, da una parte, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, dall’altra, qualora gli atti discriminatori fondati sulla presenza di una disabilità assumano carattere collettivo11. Le associazioni legate al mondo della disabilità si collocano al di fuori dei tradizionali schieramenti partitici e associativi, ma tuttavia formano oggi un vero e proprio soggetto socio-politico, capace di dialogare col mondo delle istituzioni, rivendicando i diritti di partecipazione e di integrazione sociale sanciti dalla Costituzione e dalle diverse leggi in materia di disabilità.
11 «Sono altresì legittimati ad agire […] in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti individuati con decreto del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base della finalità statutaria e della stabilità dell'organizzazione […]. Le associazioni e gli enti di cui al comma 1 sono altresì legittimati ad agire, in relazione ai comportamenti discriminatori di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 2, quando questi assumano carattere collettivo », così Legge 1 marzo 2006,
n. 67, Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni, articolo 4.
8
L’associazionismo in Italia è elaborato e composito, esistendo gruppi di ispirazione sia laica che religiosa, gruppi appartenenti al mondo della sinistra e associazioni legate ai diritti di specifici individui. Il movimento associativo si è sviluppato notevolmente nel corso degli ultimi decenni, ma presenta in realtà una lunga storia, che nasce spesso dalla presa di coscienza della propria condizione da parte delle persone con disabilità e dalla necessità di rivendicare i propri diritti ad opera di queste
ultime
e
dei
loro
familiari.
La
nascita
del
movimento
associazionistico è datata infatti agli inizi del Novecento, in relazione alle conseguenze del primo conflitto mondiale, e si caratterizza per una cultura “di categoria”, cioè per la creazione di associazioni che rivendicano i diritti spettanti solo a specifiche categorie di persone con disabilità 12. Tuttavia è nel secondo dopoguerra che il movimento associativo per i diritti delle persone con disabilità si sviluppa molto più diffusamente 13. Si presenta la forte esigenza di riconoscere e tutelare disabilità nuove, tipiche dell’età moderna e causate né da guerre né da infortuni sul lavoro. Le associazioni legate al mondo della disabilità rivendicano servizi e cure ad hoc e cominciano ad organizzare le c.d. “marce del dolore”, capaci di dare visibilità alle proprie esigenze e di influenzare talvolta le decisioni istituzionali. Negli anni Cinquanta e Sessanta si sviluppano in Inghilterra e negli Stati Uniti, all’interno di gruppi tradizionalmente soggetti a discriminazioni (donne, minoranze etniche, omosessuali), movimenti che rivendicano i diritti delle persone con disabilità. Vengono fondati centri di assistenza e 12 Nel primo Novecento nascono l’Associazione mutilati di guerra (1917), l’Unione italiana ciechi (UIC, 1920), la Federazione italiana delle associazioni fra i sordomuti (FIAS, 1922), l’Unione sordomuti italiani (1932) e l’Associazione nazionale fra i lavoratori mutilati e invalidi del lavoro (ANMIL, 1933). 13 Dopo la seconda guerra mondiale nascono l’Unione nazionale mutilati per servizio (1945), l’Associazione italiana assistenza spastici (AIAS, 1954), l’Associazione nazionale mutilati e invalidi civili (ANMIC, 1956), l’Associazione nazionale invalidi per esiti di poliomelite (ANIEP, 1957) e l’Associazione nazionale famiglie di fanciulli minorati psichici (1958, dal 1960 ANFAS). Nei primi anni Sessanta sono fondate l’Associazione nazionale invalidi civili (ANICI, 1960) e l’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare (UILDM, 1961), che rivendicano e riescono ad ottenere nel 1962 la prima legge sul collocamento obbligatorio delle persone con disabilità.
9
consulenza14 e nascono i c.d “disability studies” e il “modello sociale della disabilità”15. I sostenitori del modello sociale affermano che l’ostacolo maggiore all’emancipazione delle persone con disabilità sia costituito da un approccio sbagliato al tema da parte di molti studiosi, politici e in generale della collettività. Viene criticato in particolare il “modello medico della disabilità”, teorizzato nel 1965 dal sociologo Talcott Parsons, il quale identifica la disabilità con la malattia e sostiene che essa sia una devianza che perturba l’ordine sociale, ponendo dunque l’accento esclusivamente sulla menomazione.16 I sostenitori del modello sociale affermano invece che la disabilità non sia tanto un dato biologico, quanto invece una condizione sociale: è la società, negando il riconoscimento dei diritti e ponendo la persona in un contesto di esclusione ed emarginazione, a creare disabilità.17 Da questo momento le rivendicazioni delle associazioni
14 Nel 1972 Ed Roberts fonda in California il primo “Centro per la vita indipendente”, modello per quello che verrà fondato nel 1984 in Svezia e per la nascita, nel 1989, della “Rete europea per la vita indipendente”. 15 Il “modello sociale della disabilità” viene concettualizzato nel 1960 da Paul Hunt e sviluppato ulteriormente nel 1976, anno in cui la Union of the Physically Impaired Against Segregation (UPIAS) elabora i “Principi fondamentali in materia di disabilità”. 16 Secondo T. Parsons il malato può essere accettato dalla società solo se si conforma al suo ruolo di persona malata: lui per primo deve accettare la sua condizione ed effettuare tutte le cure riabilitative se si tratta di un malato guaribile, altrimenti andrà esonerato dai suoi obblighi sociali. M. SCHIANCHI in Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Carocci editore, Roma, 2012, p. 15. Cfr. anche A. MARRA, Diritto e disability studies. Materiali per una nuova ricerca multidisciplinare, Falzea, Reggio Calabria, 2009. 17 «It is necessary to grasp the distinction between the physical impairment and the social situation, called “disability”, of people with such impairment. Thus we define impairment as lacking part of or all of a limb, or having a defective limb, organ or mechanism of the body; and disability as the disadvantage or restriction of activity caused by a contemporary social organisation which takes no or little account of people who have physical impairments and thus excludes them from participation in the mainstream of social activities. Physical disability is therefore a particular form of social oppression. […] It is the same society which disables people whatever their type, or degree of physical impairment, and therefore there is a single cause within the organisation of society that is responsible for the creation of the disability of physically impaired people. Understanding the cause of disability will enable us to understand the situation of those less affected, as well as helping us to prevent getting lost in the details of the degrees of oppression at the expense of focusing on the essence of the problem », così UPIAS, Fundamental Principles of Disability, 1976, pp. 14-15.
10
per i diritti delle persone con disabilità non parleranno più tanto di deficit, ma insisteranno sui concetti di integrazione e partecipazione sociale. I movimenti angloamericani legati al mondo della disabilità influenzano, nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, anche l’associazionismo italiano18. Negli anni Ottanta si fa acceso il dibattito sulla natura dello Stato sociale in Italia, secondo molti basato ancora su un sistema di tipo risarcitorio ed assistenzialistico, anziché volto all’integrazione effettiva della persona con disabilità all’interno del tessuto sociale. Si sviluppa sempre di più il fenomeno
del
volontariato
e
cresce
l’esigenza
di
una
minore
frammentazione tra le associazioni, che cominciano ad aggregarsi e a fare fronte comune su alcune questioni di interesse generale 19. Nel corso degli anni Novanta, l’associazionismo italiano si è per lo più confrontato con il permanere di carenze all’interno del sistema di welfare, in cui si assiste ad una mancata o insufficiente erogazione di servizi per molte tipologie di disabilità e all’emergere della più volte citata questione dei “falsi invalidi”, connessa probabilmente al permanere di meccanismi basati sull’erogazione di denaro. In questi anni nascono associazioni che dialogano con l’Europa e le istituzioni 20 e numerosi gruppi a livello locale, in connessione allo sviluppo del volontariato e alla necessità di un maggiore radicamento sul territorio21.
18 Nascono in questo periodo l’Associazione italiana sclerosi multipla (AISM, 1968), Famiglie italiane associate per la difesa dei diritti degli audiolesi (FIADDA, 1973), il Fronte radicale invalidi (1976, poi Lega arcobaleno), la Lega nazionale per il diritto al lavoro degli handicappati (1979), l’Associazione italiana paraplegici (1979), la Lega per i diritti degli handicappati (LEDHA, 1979) e l’Associazione italiana per le persone down (AIPD, 1979). 19 Nascono negli anni Ottanta Federhand per le associazioni campane, il Coordinamento sanità e assistenza per le associazioni piemontesi (poi Consulta delle persone in difficoltà), il Comitato unitario invalidi per le associazioni toscane e il Coordinamento H per le associazioni siciliane. Negli anni Novanta nascono inoltre due grandi federazioni, la Federazione italiana per il superamento dell’handicap (FISH, 1993) e la Federazione tra le associazioni nazionali dei disabili (1997). 20 Nascono il Consiglio nazionale sulla disabilità (CND), all’interno dell’European Disability Forum, e il Consiglio italiano dei disabili per i rapporti con l’Unione europea (CIDUE).
11
5. L’importanza rivestita dall’associazionismo per la tutela dei diritti delle persone con disabilità emerge in modo evidente anche dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 2009. La Convenzione rappresenta il punto di arrivo di decenni di lavoro da parte delle Nazioni Unite volti a cambiare l’approccio generale in tema di disabilità: anziché come “oggetto” di carità, trattamenti medico-sanitari e protezione sociale, bisogna guardare alle persone con disabilità come “soggetti” attivi titolari di specifici diritti, in grado di reclamarne il riconoscimento e la garanzia, di assumere decisioni in base ad un consenso libero e informato e di partecipare in prima persona alla vita della propria società 22. Il negoziato viene effettuato da un Comitato ad hoc dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e ad esso partecipano le più importanti associazioni rappresentative internazionali, singole persone con disabilità e loro familiari. Si assiste dunque alla collaborazione tra governi e associazioni, elemento nuovissimo e di grande significato, la cui importanza viene sottolineata dalla stessa Convenzione23. Fondamentale a tale proposito è l’articolo 4, comma 3, il quale sancisce in capo agli Stati Parti l’obbligo di coinvolgere attivamente le persone con disabilità, anche e soprattutto attraverso le proprie
21 Così M. SCHIANCHI, Storia della disabilità cit., pp. 14-15, 220-229. Cfr. anche V. PANUCCIO, Volontariato, in Enciclopedia del diritto, XLVI, Giuffrè, Milano, 1993, pp. 1083-1084 e A. MARRA, Diritto e disability studies cit. 22 Così UNITED NATIONS ENABLE, Convention on the Rights of Persons with Disabilities, un.org., N. FOGGETTI, Diritti umani e tutela delle persone con disabilità: la Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006, in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, 2009, fasc. 33, p. 105, G. GRIFFO, Le ragioni della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite, in O. OSIO, P. BRAIBANTI (a cura di), Il diritto ai diritti. Riflessioni e approfondimenti a partire dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, Milano, 2012, pp. 39, 41-42, F. SEATZU, La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili: diritti garantiti, cooperazione, procedure di controllo, in Diritti umani e diritto internazionale, 2009, fasc. 2, p. 277 e G. GRIFFO, Conclusioni. Le prospettive di cambiamento introdotte dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, in O. OSIO, P. BRAIBANTI (a cura di), Il diritto ai diritti cit., p. 241. 23 «Considerando che le persone con disabilità dovrebbero avere l’opportunità di essere coinvolte attivamente nei processi decisionali relativi alle politiche e ai programmi, inclusi quelli che li riguardano direttamente», così Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, Preambolo, lettera o).
12
organizzazioni rappresentative24. Si afferma il ruolo fondamentale della società civile per la garanzia dei diritti: i cittadini degli Stati Parti, tra cui in particolare le persone con disabilità e le loro associazioni, devono essere coinvolti nel processo di monitoraggio relativo all’attuazione della Convenzione, a livello sia nazionale che internazionale 25. L’Italia ha sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite il 30 marzo 2007, data nella quale essa è stata aperta alla firma, e il Parlamento italiano l’ha ratificata all’unanimità il 3 marzo 2009, data a partire dalla quale essa ha acquisito pertanto forza vincolante 26. La ratifica consente per la prima volta un’applicazione organica dell’articolo 3 della Costituzione in tutti gli ambiti in cui si esplica l’esistenza della persona con disabilità, tanto che la Corte costituzionale ha affermato che tutta la legislazione nazionale in materia debba essere riletta alla luce della Convenzione27. La legge di ratifica n. 18 del 2009 prevede, all’articolo 3 e in attuazione dell’articolo
33
della
Convenzione 28,
l’istituzione
dell’Osservatorio
nazionale sulla condizione delle persone con disabilità 29, presieduto dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali e composto per circa metà da 24 «Nell’elaborazione e nell’attuazione della legislazione e delle politiche da adottare per attuare la presente Convenzione, così come negli altri processi decisionali relativi a questioni concernenti le persone con disabilità, gli Stati Parti operano in stretta consultazione e coinvolgono attivamente le persone con disabilità, compresi i minori con disabilità, attraverso le loro organizzazioni rappresentative», Ibid., articolo 4, comma 3.
25 «La società civile, in particolare le persone con disabilità e le loro organizzazioni rappresentative, è associata e pienamente partecipe al processo di monitoraggio», Ibid., articolo 33, comma 3. G. GRIFFO, Le ragioni della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, in O. OSIO, P. BRAIBANTI (a cura di), Il diritto ai diritti cit., p. 44, M. BUCCIARELLI, C. CELLAI, Diritti delle persone con disabilità: La Convenzione Onu e il suo recepimento, in Quaderni di tecnostruttura, , Milano, 2009, fasc. 34, p. 148 e G. GRIFFO, Conclusioni cit., pp. 242, 246. 26 Così Così I. MENICHINI in La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e L’Osservatorio nazionale sulla disabilità e la Convenzione in Italia, Voxdiritti.it, Osservatorio italiano sui diritti, M. SCHIANCHI, Storia della disabilità cit., p. 237, A. MARRA, La protezione dei minori con disabilità in Italia dopo la Convenzione delle Nazioni Unite del 2006, in Minorigiustizia, 2010, fasc. 3, p. 25 e M. BUCCIARELLI, C. CELLAI, Diritti delle persone con disabilità cit., pp. 145-146. 27 Corte cost., sent. 26 febbraio 2010, n. 80. Cfr. G. GRIFFO, Conclusioni cit., pp. 241-242 e M. BUCCIARELLI, C. CELLAI, Diritti delle persone con disabilità cit., p. 149.
13
rappresentanti di amministrazioni centrali, regionali e locali e da esperti in materia, e per l’altra metà da rappresentanti delle associazioni rappresentative e dalle parti sociali. Si tratta di un organismo consultivo e di supporto tecnico-scientifico per l’elaborazione
delle
politiche
nazionali
in
materia
di
disabilità 30.
L’Osservatorio ha il compito di promuovere l’attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite; di predisporre un programma di azione biennale per la garanzia dei diritti e l’integrazione sociale delle persone con disabilità; di effettuare indagini statistiche, studi e ricerche; infine, di redigere una relazione sullo stato di attuazione delle politiche in materia di disabilità 31. All’interno
dell’Osservatorio
viene
costituito
un
Comitato
tecnico-
scientifico, con il compito di analizzare e indirizzare l’attività svolta dall’Osservatorio stesso32. 28 «Gli Stati Parti designano, in conformità al proprio sistema di governo, uno o più punti di contatto per le questioni relative all’attuazione della presente Convenzione, e si propongono di creare o individuare in seno alla propria amministrazione una struttura di coordinamento incaricata di facilitare le azioni legate all’attuazione della presente Convenzione nei differenti settori ed a differenti livelli. Gli Stati Parti, conformemente ai propri sistemi giuridici e amministrativi, mantengono, rafforzano, designano o istituiscono al proprio interno una struttura, includendo uno o più meccanismi indipendenti, ove opportuno, per promuovere, proteggere e monitorare l’attuazione della presente Convenzione», così Convenzione delle Nazioni Unite cit., articolo 33, comma 1 e 2. 29 «Allo scopo di promuovere la piena integrazione delle persone con disabilità, in attuazione dei principi sanciti dalla Convenzione di cui all’articolo 1, nonché dei principi indicati nella legge 5 febbraio 1992, n. 104, è istituito, presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, l’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità», così Legge 3 marzo 2009, n. 18, articolo 3, comma 1. 30 Così Decreto Interministeriale 6 luglio 2010, n. 167, articolo 1. 31 «L'Osservatorio ha i seguenti compiti: a) promuovere l’attuazione della Convenzione di cui all’articolo 1 ed elaborare il rapporto dettagliato sulle misure adottate di cui all’articolo 35 della stessa Convenzione, in raccordo con il Comitato interministeriale dei diritti umani; b) predisporre un programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, in attuazione della legislazione nazionale e internazionale; c) promuovere la raccolta di dati statistici che illustrino la condizione delle persone con disabilità, anche con riferimento alle diverse situazioni territoriali; d) predisporre la relazione sullo stato di attuazione delle politiche sulla disabilità, di cui all'articolo 41, comma 8, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato dal comma 8 del presente articolo; e) promuovere la realizzazione di studi e ricerche che possano contribuire ad individuare aree prioritarie verso cui indirizzare azioni e interventi per la promozione dei diritti delle persone con disabilità», Legge 3 marzo 2009, n. 18 cit., articolo 3, comma 5.
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All’attività svolta dalle associazioni in seno all’Osservatorio va poi aggiunta quella svolta in seno alla Conferenza nazionale sulle politiche per la disabilità, che ha visto svolgersi, nel luglio 2013 il IV incontro. Tale conferenza è stata istituita dalla legge n. 162 del 1998, che inserendo l’art. 41 bis all’interno la legge n. 104 del 1992, stabilisce che ogni tre anni venga convocata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali una Conferenza nazionale, alla quale partecipano soggetti pubblici, privati e del
privato
sociale
che
operano
nel
campo
dell’assistenza
e
dell’integrazione delle persone con disabilità. Le conclusioni di tale Conferenza sono trasmesse al Parlamento, il quale potrà poi operare eventuali
correzioni
della
legislazione
vigente 33.
La
Conferenza
rappresenta il momento di incontro delle istituzioni con le associazioni, gli operatori e gli esperti in tema di disabilità, i quali si confrontano sullo stato di attuazione delle politiche in materia e definiscono gli interventi da porre in essere per il futuro. La Conferenza nazionale svoltasi a Bologna nel luglio del 2013 ha di fatto consacrato il ruolo sinergico dei due organi: in quella sede si è infatti presentato il Programma d’azione per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, elaborato dall’Osservatorio nazionale e avente come punto di riferimento il Primo rapporto delle Nazioni Unite. Partendo dall’analisi delle persistenti criticità nella normativa in materia di disabilità, il Programma individua gli obiettivi prioritari del prossimo biennio e gli strumenti volti a conseguirli 34.
32 «Nell’ambito dei componenti di cui all'articolo 2 del presente decreto, è costituito un Comitato tecnico-scientifico con finalità di analisi ed indirizzo scientifico in relazione alle attività ed ai compiti dell'Osservatorio», Ibid., articolo 3, comma 1. Relativamente all’Osservatorio nazionale M. SCHIANCHI, Storia della disabilità cit., p. 237, I. MENICHINI, L’Osservatorio nazionale cit., V. VADALÀ in La tutela delle disabilità, , Milano, 2009, p. 55, N. FOGGETTI, Diritti umani cit., pp. 116-117, G. GRIFFO, Conclusioni cit., pp. 242-243 e M. BUCCIARELLI, C. CELLAI, Diritti delle persone con disabilità cit., p. 146. 33 Così Legge 5 febbraio 1992, n.104, articolo 41-bis.
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6. Ancora una volta, dunque, è possibile percepire il ruolo fondamentale rivestito dalle associazioni rappresentative per la tutela e il godimento effettivi dei diritti da parte delle persone con disabilità. Da più parti si è spesso evidenziata l’importanza
del ruolo che i privati cittadini e le
organizzazioni del Terzo settore possono svolgere ai fini della realizzazione degli obiettivi di cui agli articoli 2 e 3, comma 2 della Costituzione 35, soprattutto alla luce della riforma intervenuta nel 2001, che ha introdotto in Costituzione, attraverso il comma 4 dell’articolo 118, il c.d. “principio di sussidiarietà orizzontale”. La Corte costituzionale, già nella sentenza n. 75/1992, ha affermato che il volontariato costituisce «la
più diretta realizzazione del principio di solidarietà
sociale […] Si tratta di un principio che […] è posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, dall’art. 2 della
Carta
costituzionale
come
base
della
convivenza
sociale
normativamente prefigurata dal Costituente»36. All’interno di tale contesto, pertanto, è possibile affermare che nel nostro Paese sia da sempre particolarmente forte la connessione che intercorre tra le organizzazioni del Terzo settore37, tra cui le associazioni rappresentative38, e la tutela degli interessi dei soggetti “più deboli” 39, tutela che costituisce proprio la principale ragione dell’esistenza stessa di tali organizzazioni.40 Alcuni autori hanno parlato, a tale proposito, del passaggio dal binomio pubblico – privato al trinomio pubblico – privato – civile, ad indicare lo sviluppo della c.d. “economia
34 Come evidenziato da I. MENICHINI, Conferenza nazionale sulle politiche per la disabilità, Voxdiritti.it, Osservatorio italiano sui diritti, il programma afferma la necessità di riformare il sistema di certificazione della disabilità, così come il sistema socio-sanitario nel suo complesso, ed il bisogno di interventi più incisivi in tema di lavoro, autonomia ed inclusione sociale, accessibilità e mobilità, istruzione scolastica, salute e riabilitazione, cooperazione internazionale. Numerosi interventi individuati dal Programma non necessitano di ulteriori investimenti, bensì di una revisione delle politiche, delle normative e dei procedimenti in tema di disabilità. 35 E. VIVALDI, Introduzione, in E. VIVALDI (a cura di), Disabilità e sussidiarietà. Il “dopo di noi” tra regole e buone prassi, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 15-26, R. A. CERVELLIONE, La tutela dei diritti dei disabili durante i momenti di crisi economica, in M. D’AMICO – G. ARCONZO, Università e persone con disabilità cit., pp. 133-134, G. RAZZANO, Lo “statuto” costituzionale dei diritti sociali cit., pp. 41-42, E. ROSSI, I diritti sociali nella prospettiva della sussidiarietà verticale e circolare, in E. VIVALDI (a cura di), Disabilità e sussidiarietà cit., p. 46, A. SIMONCINI, Le “caratteristiche costituzionali” del terzo settore ed il nuovo Titolo V della Costituzione cit., pp. 705-710, 726-730 e V. PANUCCIO, Volontariato cit., pp. 1084-1085. 36 Così Corte cost., sent. 28/02/1992, n. 75, considerato in diritto, n. 2.
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civile di mercato”, la quale, pur agendo all’interno del mercato, tuttavia non è guidata dallo scopo capitalistico del profitto41. L’importanza del Terzo settore, peraltro, è stata di recente sottolineata anche da parte delle istituzioni europee. Nella Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009 sull’economia sociale si afferma che «l’economia sociale, unendo redditività e solidarietà, svolge un ruolo essenziale nell’economia europea, permettendo la creazione di posti di lavoro di qualità e il rafforzamento della coesione sociale, economica e territoriale, generando capitale sociale, promuovendo la cittadinanza attiva, la solidarietà e una visione dell’economia fatta di valori democratici e che ponga in primo piano le persone, nonché appoggiando lo sviluppo sostenibile e l’innovazione sociale, ambientale e tecnologica»42.
In conclusione, la sentenza del TAR Lazio deve essere salutata positivamente perché essa valorizza molto bene il ruolo indispensabile delle associazioni rappresentative, riconosciuto peraltro dalla stessa Costituzione all’articolo 2. Inoltre, tale decisione si
pone in linea con la recente
37 «Sintetizzando [...] la definizione di “lavoro” del termine “terzo settore”, con esso indicheremo quegli organismi collettivi, dalla diversificata forma giuridica, operanti per finalità non speculative, in cui, cioè, il profitto individuale non è lo scopo diretto e principale dell’azione sociale», così A. SIMONCINI, Le “caratteristiche costituzionali” del terzo settore ed il nuovo Titolo V della Costituzione, in Diritti, nuove tecnologie, trasformazioni sociali. Scritti in memoria di Paolo Barile, , Padova, 2003, p. 701. Ed anche: «Il dato comune del Terzo settore è costituito dal carattere privatistico delle entità che lo compongono, dal loro operare per finalità socialmente rilevanti e per la valutazione positiva dell’ordinamento nei loro confronti, che si traduce in varie agevolazioni», così L. MENGHINI, Volontariato e gratuità del lavoro, in Enciclopedia del diritto, Annali VI, Milano, 2013, p. 1038. 38 Tali associazioni si caratterizzano per lo “scopo di solidarietà”, il quale viene definito «sia come particolare destinazione dei risultati dell’attività posta in essere, sia, più in generale, come paradigma di azione di alcune formazioni sociali all’interno di ogni settore della vita collettiva», così A. SIMONCINI, Le “caratteristiche costituzionali” del terzo settore ed il nuovo Titolo V della Costituzione cit., p. 703. Cfr. anche L. MENGHINI, Volontariato e gratuità del lavoro cit., pp. 10381039 e V. PANUCCIO, Volontariato cit., pp. 1086-1087. 39 Il Terzo settore conta oltre 235 mila organizzazioni non profit, ovverosia il 5,4% di tutte le unità istituzionali, circa 488 mila lavoratori, ovverosia il 2,5% del totale degli addetti, infine, 4 milioni di persone coinvolte in veste di volontari. Dal punto di vista del valore economico, il volume di entrate è stimato attorno ai 67 miliardi di euro, pari al 4,3% del Pil. Dati ricavati da ISTAT, Istituto Nazionale di Statistica, Istat.it. 40 Così E. ROSSI, I diritti sociali nella prospettiva della sussidiarietà verticale e circolare cit., pp. 47-48. 41 Tra gli altri, B. CARAVITA, Oltre l’eguaglianza formale. Un’analisi dell’art. 3, comma 2 della Costituzione, Padova, 1984, p. 90 e S. ZAMAGNI, Introduzione: slegare il Terzo settore, in S. ZAMAGNI (a cura di), Libro bianco sul Terzo settore, , Bologna, 2011, p. 22. Cfr. anche G. RAZZANO, Lo “statuto” costituzionale dei diritti sociali cit., pp. 38-39 e E. ROSSI, I diritti sociali nella prospettiva della sussidiarietà verticale e circolare cit., pp. 46-47. 42 Così Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009 sull’economia sociale, Considerazioni generali, n. 1.
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giurisprudenza della Corte costituzionale da un duplice punto di vista:
nell’affermare che la
pubblica amministrazione non possa escludere determinate associazioni rappresentative dalle commissioni di verifica della presenza della invalidità, il giudice amministrativo sembra avere ben presente il principio fatto proprio dalla Corte costituzionale secondo cui le disabilità sono diverse e necessitano di trattamenti diversi43. Di qui la necessità, pena la discriminazione nei confronti delle persone affette da alcune tipologie di disabilità e ai fini della realizzazione della parità di trattamento e del rispetto del principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione 44, di medici specializzati nella diagnosi e nella cura di determinate patologie all’interno delle commissioni di verifica. **Laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Milano
43 «I disabili non costituiscono un gruppo omogeneo. Vi sono, infatti, forme diverse di disabilità: alcune hanno carattere lieve ed altre gravi. Per ognuna di esse è necessario, pertanto, individuare meccanismi di rimozione degli ostacoli che tengano conto della tipologia di handicap da cui risulti essere affetta in concreto una persona», così Corte cost., sent. 80/2010 cit., considerato in diritto, n. 3. 44 Va ricordato anche che la Corte costituzionale ha altresì affermato che la grave congiuntura economica non può giustificare provvedimenti che intacchino i diritti delle persone con disabilità nel loro “nucleo essenziale” (cfr. ancora sent. 80 del 2010) o che pongano in essere deroghe al principio di eguaglianza (cfr. Corte cost., sent. 11 ottobre 2012, n. 223, secondo cui « l’eccezionalità della situazione
economica che lo Stato deve affrontare è […] suscettibile senza dubbio di consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano. Tuttavia, è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza, sul quale è fondato l’ordinamento costituzionale».
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Non desiderare i figli d’altri?* (nota a Tribunale Civile di Roma, ordinanza 8 agosto 2014, Giud. S. Albano). di Luigi D’Angelo** Sommario: 1) Premessa: 2) Spunti di riflessione: principio di autodeterminazione e conflitto tra maternità gestazionale e maternità genetica. 1. Premessa Il provvedimento in commento ha statuito riguardo ad una vicenda del tutto peculiare nell’attuale panorama giuridico ma che non può escludersi possa nuovamente riproporsi nelle aule giudiziarie alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale 9 aprile-10 giugno 2014 n. 162 che, come noto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei precetti legislativi contemplanti il divieto della c.d. fecondazione eterologa e contenuti nella legge 19 febbraio 2004 n. 40 recante “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”1. Nel caso di specie, infatti, per un errore della struttura sanitaria, si è posta in essere una tecnica di fecondazione eterologa conseguente ad uno scambio di embrioni in vitro generati con gli ovociti ed il seme di due coppie che, invero, si erano rivolte all’ente ospedaliero in ragione di problematiche riproduttive ed al fine specifico di realizzare un “progetto di maternità” mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita (PRA) di tipo omologo. Per un fatale errore umano, tuttavia, i due embrioni formati con il patrimonio genetico delle coppie sono stati impiantanti nell’utero “sbagliato” con la conseguenza che si è prodotta una gravidanza - non essendo andato a buon fine l’altro erroneo impianto - giunta a termine con la nascita di due gemelli geneticamente appartenenti, appunto, all’altra coppia. Di qui, semplificando, la necessità per il giudicante di bilanciare due interessi in conflitto nell’ottica altresì della tutela dei minori: quello manifestato della madre partoriente e dal rispettivo coniuge di essere considerati genitori dei nati ad ogni effetto di legge e quello manifestato dall’altra coppia di vedersi riconsegnati i bambini - o comunque di instaurare con i medesimi un rapporto affettivo anche mediante il riconoscimento di un “diritto di visita” - in quanto, appunto, genitori genetici. Il Tribunale di Roma, all’esito di un dotto ma non condivisibile percorso argomentativo tracciato sulla scorta delle norme del codice civile in materia di filiazione per come anche recentemente modificate nonché esaltando la centralità dell’interesse del minore, ha statuito circa il carattere recessivo della verità genetica rispetto alla verità “naturale” (la gestazione) affermando che “Il legislatore ha accolto il principio in base al quale la tutela
*La nota è pubblicata anche in Persona e danno. 1 Per una ricostruzione delle vicende e delle ragioni che hanno portato a sollevare la questione di costituzionalità, RAPISARDA, Il divieto di fecondazione eterologa: la parola definitiva alla Consulta, in Nuova Giur. Civ., 2013, 10, 912; D’AMICO, La fecondazione eterologa ritorna davanti la Corte Costituzionale, in Corr. Giur., 2013, 6, 745.
del diritto allo status ed alla identità personale può non identificarsi con la prevalenza della verità genetica”. Soggiunge l’ordinanza che “Il diritto della personalità costituito dal diritto all’identità appare sempre più sganciato dalla verità genetica della procreazione e sempre più legato al mondo degli affetti ed al vissuto della persona cresciuta ed accolta all’interno di una famiglia”. Per l’effetto, pertanto, è stato rigettato il ricorso d’urgenza dei genitori genetici come anche le loro istanze circa la necessità di sollevare una questione di legittimità costituzionale delle vigenti norme del codice civile in materia di filiazione nella parte in cui non consentono un’azione diretta a “invalidare” lo status acquisito dai due gemelli con la nascita. Sul punto si legge nell’ordinanza che “…riconoscendo la prevalenza della madre genetica e quindi ritenendo rilevante la questione di costituzionalità sollevata, si attribuirebbe legittimità giuridica ad una coattiva maternità di sostituzione, con la rinuncia imposta ad un figlio che pure la madre biologica ha condotto alla vita. Soluzione che è totalmente inconciliabile con il diritto della donna che ospita il feto all’intangibilità del suo corpo e, pertanto, ad assumere ogni decisione in ordine alla sua gravidanza, nonché gravemente lesiva della dignità umana della gestante”. I precetti ordinamentali che hanno portato il Tribunale a ritenere prevalenti, nella prospettiva della instaurazione del rapporto di filiazione, gli interessi della donna partoriente e del rispettivo coniuge rispetto all’interesse vantato dalla coppia ricorrente circa il ripristino della filiazione/verità genetica, sono stati individuati, tra l’altro, negli artt. 269, comma 3, c.c. e 231 c.c.. Osserva il giudicante, infatti, che “Il nostro sistema normativo prevede che “la maternità è dimostrata provando la identità di colui che pretende di essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre” (art 269, comma 3, c.c.). Tale norma è stata introdotta con la riforma del 1975 quando ancora le tecniche di procreazione assistita erano agli albori, ma è pur vero che la sua formulazione è stata mantenuta dal legislatore della riforma della filiazione di cui al D.Lgs. n. 154 del 2013 … Non può negarsi, quindi, la volontà del legislatore, molto recente, di mantenere quale principio cardine dell’ordinamento la maternità naturale legata al fatto storico del parto”. Parimenti, evidenzia il Tribunale “Nel caso in cui la donna gestante, unita in matrimonio, dichiari nell’atto di nascita il figlio come nato durante il matrimonio, il marito ne diviene il padre legale (art. 231 c.c., come modificato dal D.Lgs n. 154/2013 che ha soppresso l’inciso “concepito” durante il matrimonio). Peraltro, in presenza dello status di figlio di altra persona (il marito della donna gestante), il padre genetico non può promuovere l’azione di disconoscimento…” Da tali dati positivi che assegnano prevalenza alla maternità gestazionale - rispetto a quella genetica - il Tribunale sviluppa ulteriormente le proprie argomentazioni facendo
discendere dai precetti codicistici citati un favor ordinamentale, non esclusivamente di fonte interna, riguardo la stabilità dei rapporti familiari affettivi: si evidenzia in fatti che “Tutte le più recenti pronunce dei giudici interni o europei che si sono trovate a dover dirimere interessi in conflitto relativi al rapporto di filiazione, sono fondate sulla valutazione del dato concreto del legame affettivo familiare ed hanno come punto di riferimento l’interesse del minore (secondo quanto stabilito dalla Convenzione sui diritti dell’Infanzia approvata dalle Nazioni Unite il 20.11.1989 e ratificata in Italia dalla L. n. 176/91) ed il principio di “autoresponsabilità” che deve sottendere al rapporto genitoriale, che trova il proprio fondamento nell’obbligo di solidarietà sancito dall’art. 2 della Costituzione, mettendo, quindi, seriamente in discussione il principio del carattere necessariamente biologico o genetico del rapporto di filiazione”. Sembra tuttavia - e qui si appuntano gli elementi di criticità della decisione in commento che il vigente dato positivo per come anche interpretato dalle pronunzie pretorie richiamate dal giudice romano, intanto può portare a privilegiare, nell’ottica del consolidamento del rapporto di filiazione, la verità biologica (ovvero la maternità gestazionale) rispetto alla verità genetica in quanto, a monte, siano comunque rispettati poziori interessi costituzionalmente garantiti e, segnatamente, il diritto ex art. 2 Cost. alla autodeterminazione della persona (nella specie, quello dei genitori genetici) circa le sorti del rispettivo e personalissimo patrimonio genetico. 2. Spunti di riflessione: principio di autodeterminazione e conflitto tra maternità gestazionale e maternità genetica. Procedendo con ordine occorre menzionare talune fondamentali disposizioni di cui alla legge 19 febbraio 2004 n. 40 da leggere, peraltro, anche alla luce della sentenza della Consulta n. 162/2014 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di ricorrere a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. Si tratta dell’art. 8, rubricato “Stato giuridico del nato” e dell’art. 9, rubricato “Divieto del disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre”. Ai sensi della prima disposizione “I nati a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime…”; ovviamente per effetto della menzionata sentenza della Consulta n. 162/2014 il riferimento testuale alle “tecniche di procreazione medicalmente assistita” deve essere oggi inteso come riferito anche alle tecniche di PRA di tipo eterologo 2.
2 In tal senso si è espressa la Corte Costituzionale nella sentenza 9 aprile-10 giugno 2014 n. 162 laddove al punto 11.1. afferma che “La constatazione che l’art. 8, comma 1, di detta legge contiene un ampio riferimento ai «nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita», in considerazione della genericità di quest’ultima locuzione e dell’essere la PMA di tipo eterologo una species del genus, come sopra precisato, rende, infatti, chiaro che, in virtù di tale norma, anche i nati da quest’ultima tecnica «hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime»”.
Il secondo citato precetto (art. 9) recita al comma 3 che “In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo … il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto…”. Orbene, il caso specifico portato alla cognizione del Tribunale di Roma vedeva in concreto realizzata una procreazione medicalmente assistita sicuramente non di tipo “omologo” bensì di tipo “eterologo” seppure giustamente definita dalla decisione in nota come una fecondazione “eterologa da errore” essendo invero la finalità delle due coppie, rivoltesi alla struttura sanitaria, quella di effettuare una fecondazione “omologa”. Ecco allora che nella specie viene in rilievo una fondamentale distinzione tra una fecondazione eterologa “consensuale” - quella oggetto di considerazione da parte della legge 19 febbraio 2004 n. 40 - ed una fecondazione eterologa “da errore”, propria del caso affrontato dal provvedimento in commento, laddove comunque si è posta in essere una tecnica di procreazione medicalmente assistita che della fecondazione eterologa, sul piano oggettivo, ha tutti i requisiti: provenire il materiale genetico impiantato nell’utero della donna da soggetti “esterni” alla coppia. Se detta premessa appare corretta ne deve discendere, per l’effetto, l’inapplicabilità al caso di specie dei due precetti della legge n. 40 sopra richiamati che, sulla falsa riga di quanto previsto dalle norme del codice civile, assegnano prevalenza, quanto all’instaurazione del rapporto di filiazione, all’interesse della madre gestazionale (e rispettivo coniuge) rispetto all’interesse del genitore genetico (involontario “donatore”). Quello che si intende sottolineare è che la legge n. 40, anche per come ad oggi vigente a seguito degli interventi della Consulta, ha in effetti ab initio preso posizione sui possibili conflitti tra genitori naturali e genitori genetici, risolvendo gli stessi nell’ottica di un necessario bilanciamento di tutti gli interessi coinvolti 3. Sicuramente tale è la disposizione di cui all’art. 9, comma 3, ai sensi della quale “ In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto…”: qui il conflitto in argomento è risolto dal legislatore “a monte” disconoscendosi, in linea peraltro con le norme del codice civile in materia di filiazione, ogni diritto sul nato in capo al genitore genetico/donatore. Allo stesso modo il conflitto viene risolto dall’altra disposizione sopra richiamata ovvero dall’art. 8 ai sensi della quale “I nati a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime…”; poiché detta disposizione trova applicazione anche per i casi di PRA eterologa, ciò per effetto della citata sentenza della Consulta n. 162/2014, la norma de qua anch’essa assume una valenza risolutiva di eventuali conflitti tra genitori naturali e genitori genetici, assegnandosi 3 Recita l’art. 1 della legge 19 febbraio 2004 n. 40: “Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”.
prevalenza, quanto alla instaurazione del rapporto di filiazione, ai primi (sempre in linea con le disposizioni del codice civile). Ciò che però non deve sfuggire all’interprete è che dette norme di bilanciamento per le ipotesi di un eventuale conflitto di interessi tra i genitori naturali e i genitori genetici/donatori, subordinano il prevalere delle istanze dei primi sui secondi e dunque la radicazione del rapporto di filiazione, al sussistere, sempre e comunque, del consenso preventivo di quest’ultimi. Nella misura in cui l’art. 9, comma 3 4, pone il principio per cui “In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto…” il legislatore ha appunto presupposto l’esistenza di un “donatore” ovvero di un soggetto che presta un espresso consenso alla preventiva rinunzia, in favore di terzi, del rispettivo patrimonio genetico. Lo stesso art. 8, per come innovato quanto ad ambito di applicazione ovvero come riferibile anche alla fecondazione eterologa, fonda sul consenso di tutte le parti coinvolte l’operare della regola di prevalenza della maternità gestazionale (a scapito di quella genetica): non basta cioè soltanto il consenso della coppia che decide di ricorrere alla fecondazione eterologa ma occorre anche quello del soggetto o dei soggetti “donatori”. In altri termini i precetti della legge n. 40 parrebbero aver inverato sul piano del diritto positivo uno dei postulati del principio di autodeterminazione della persona nel campo del diritto ad abdicare al proprio patrimonio genetico: soltanto a fronte di un consenso validamente prestato potranno operare le regole, di rango legislativo, circa la prevalenza della verità naturale su quella genetica 5, ciò con i conseguenti effetti circa il radicamento del rapporto di filiazione. Non si intende ragionare in un’ottica “proprietaria” ma deve pur tenersi a mente che alla luce delle indicate disposizioni della legge n. 40 parrebbe essere sempre e soltanto il consenso di tutte le parti coinvolte - anche in tema di fecondazione eterologa che presuppone appunto un “donatore” - a costituire il presupposto dell’operare le regole positive disciplinanti il conflitto tra genitore naturale e genitore genetico in punto di instaurazione del rapporto di filiazione. In sintesi, da una lettura a contrario della norma fondamentale di cui all’art. 9, comma 3, legge n. 40, discende che in assenza di un consenso validamente prestato ovvero in assenza di un soggetto “donatore” rectius in assenza di un suo preventivo atto abdicativo del rispettivo patrimonio genetico, è quest’ultimo che appare legittimato ad acquisire con il 4 Disposizione in parte dichiarata incostituzionale dalla sentenza della Consulta n. 162/2014 limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3». 5 Anche la Corte Costituzionale nella recente sentenza n. 162/2014 opera un diretto riferimento al principio di autodeterminazione nella materia de qua: si legge al punto 6) che “Deve anzitutto essere ribadito che la scelta di tale coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che, come questa Corte ha affermato, sia pure ad altri fini ed in un ambito diverso, è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare”
nato una relazione giuridica parentale e far valere nei suoi confronti i relativi diritti che, appunto, non possono che essere quelli previsti dalla norme in materia di filiazione. In via interpretativa parrebbe dunque potersi enucleare il seguente principio discendente dalle richiamate disposizioni della legge n. 40: il titolare del patrimonio genetico che non abbia preventivamente e irrevocabilmente assentito atti dispositivi dello stesso “in favore” di terzi non può essere escluso dal rapporto di filiazione. Il coordinamento sistematico delle norme della legge n. 40 con quelle codicistiche in materia di filiazione potrebbe allora condurre a soluzione esegetiche del tutto antipodiche rispetto a quella di cui alla decisione in nota. Fermo restando, peraltro, il prevalere delle disposizioni della legge n. 40, quale legge speciale, rispetto alle norme codicistiche in parte qua. Si badi, infine, che lo stesso Tribunale di Roma non disconosce la primazia delle manifestazioni di volontà dei soggetti coinvolti nelle ipotesi di avvenuto trasferimento a terzi del proprio materiale genetico. Al riguardo il giudicante afferma che “… nelle ipotesi nelle quali si è data rilevanza alla maternità genetica in luogo di quella biologica (v. C.A. Bari e sentenze CEDU citate), si trattava di un contratto che, sebbene vietato dall’ordinamento interno, prevedeva la sussistenza del pieno consenso di tutti i soggetti coinvolti, la madre genetica si era assunta in pieno la responsabilità genitoriale al contrario della madre uterina che aveva consegnato i figli alla nascita e che tale responsabilità non intendeva proprio assumersi”. Vero è che il passaggio de quo risulta funzionale ad affermare “l’eccezionalità” del prevalere della maternità genetica rispetto a quella naturale; è vero anche, però, che le pronunzie nazionali e sovranazionali richiamate hanno invero fondato detta prevalenza proprio sul mancato consenso dei genitori genetici a “spogliarsi” del rispettivo materiale genetico (come avvenuto nella specie). Ecco allora che il solo consenso manifestato della madre gestazionale (e rispettivo coniuge) a tenere con sé i nati non pare sufficiente per radicare il rapporto di filiazione tanto più nell’ipotesi di espresso dissenso manifestato dai genitori genetici e ciò in ossequio alla opzione ermeneutica più sopra divisata e fondata sulle disposizioni della legge n. 40. Insomma e volendo concludere senza alcuna pretesa di neppure approssimativa esaustività pare potersi affermare che il vigente tessuto ordinamentale in materia di instaurazione del rapporto di filiazione non può giammai obliterare la verità genetica salvo un preventivo e irrevocabile atto di “disposizione” del titolare del patrimonio genetico, attestante una volontà abdicativa della persona nel rispetto del principio personalissimo all’autodeterminazione ex art. 2 Cost. come inverato dalla legge n. 40. Da ultimo la decisione in commento appare criticabile anche nella misura in cui ha escluso qualsivoglia “contatto” tra i genitori genetici e i nati e nonostante fosse stata richiesta giudizialmente quantomeno una regolamentazione del “diritto di visita” tale da permettere il
sorgere di un pur minimo legame affettivo: forse proprio la novitĂ della questione ed il suo essere potenzialmente oggetto di contrastanti statuizioni nel prosieguo del percorso giudiziario intrapreso avrebbe resa opportuna una pronunzia non limitata al solo statuire di â&#x20AC;&#x153;non desiderare i figli dâ&#x20AC;&#x2122;altriâ&#x20AC;?. **Magistrato della Corte dei conti.
Elezioni europee 2014: questa volta è diverso di Marta Cartabia* (25 luglio 2014)
«Questa volta è diverso» è il motto scelto dal Parlamento europeo per le elezioni 2014. E diverse, queste elezioni europee, in qualche misura, sono state. Due le principali ragioni per cui l’appuntamento dello scorso maggio è stato atteso e percepito come un passaggio di peculiare rilievo nella storia dell’integrazione europea. In primo luogo, perché si è trattato delle prime elezioni europee dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e le novità da esso introdotte. In secondo luogo, perché il tema dominante della verifica elettorale è stato la crisi economica e finanziaria che da anni ha investito il continente europeo, producendo effetti gravi e persistenti sulla vita di milioni di cittadini. In questo contesto, l’aspettativa che il rinnovo dell’assemblea parlamentare europea potesse determinare un passo importante - «una piccola finestra di opportunità storica», come l’ha definita Habermas - nel faticoso cammino di democratizzazione delle istituzioni europee si trovava esposta al rischio di risultare frustrata dal prevalere dell’euroscetticismo, vuoi nella forma della mancata partecipazione al voto, vuoi in quella dell’affermarsi dei partiti antieuropei. Nell’insieme, le elezioni 2014 segnano un progresso nel percorso di consolidamento della polis europea, anche se non si possono sottacere gli elementi di complessità che emergono dalla lettura dei risultati elettorali. Tra le principali novità istituzionali introdotte con il Trattato di Lisbona, significative sono quelle che riguardano il rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo nella nomina del presidente della Commissione. Secondo l’art. 17, comma 7 TUE, «Tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della
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Commissione. Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono». Questa procedura potenzia il ruolo del Parlamento europeo nella nomina del Presidente della Commissione, in linea di continuità con la progressiva, benché graduale, “parlamentarizzazione” della forma di governo dell’Unione già avviata con i trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza. Se fino al trattato di Maastricht la nomina del Presidente della Commissione era rimessa integralmente alla decisione, adottata all’unanimità, dei governi degli Stati membri, oggi il Consiglio europeo ha mantenuto un potere di proposta, da sottoporre alla decisione del Parlamento, che delibera a maggioranza dei membri che lo compongono. Se dunque permane una duplice forma di legittimazione della figura presidenziale – intergovernativa e parlamentare – il peso della voce parlamentare risulta significativamente incrementato in base alla nuova procedura di nomina. Da un lato, la candidatura del presidente della Commissione necessita di una indicazione dei governi degli Stati membri, anche se il potere di ciascuno di essi è stato significativamente ridimensionato sia dal fatto che la proposta è decisa dal Consiglio a maggioranza qualificata (sin dal trattato di Nizza), sia dal vincolo che ora grava sul Consiglio europeo di tenere «conto delle elezioni del parlamento europeo» e «dopo aver effettuato le consultazioni appropriate», che comprendono anche i gruppi parlamentari; d’altro lato, il Presidente assume la sua carica in virtù di una vera e propria elezione da parte del Parlamento europeo, risultando così rafforzato il suo legame con la volontà dei cittadini europei, tanto che - sempre secondo l’art. 17, par 7 TUE - in caso di mancata elezione del candidato proposto dal Consiglio, la procedura si ripete a distanza di un mese. Decisiva per assicurare una effettiva prevalenza del momento parlamentare in questo procedimento bi-polare, e più in generale per connotare in senso genuinamente europeo la consultazione elettorale 2014, è stata la scelta dei maggiori partiti europei di indicare i rispettivi candidati per la Presidenza della Commissione già durante la campagna elettorale. Tale scelta si collega indirettamente alla disposizione dell’art. 17, par. 7 TUE, che dispone che il Consiglio europeo, nel proporre un candidato alla Presidenza dell’Unione, deve «tenere conto delle elezioni europee». Allo scopo di dare effettività a tale previsione la Commissione, in una Comunicazione del 13 marzo 2013, aveva auspicato che i partiti rendessero noti tanto i candidati alla carica di presidente della
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Commissione, quanto i rispettivi programmi, in modo da creare un legame tra l’elezione dei rappresentati dei cittadini e l’elezione del capo dell’esecutivo europeo. Similmente, il Parlamento europeo, in una risoluzione del 4 luglio 2013, invitava i partiti a collegare la campagna elettorale a esplicite candidature per la presidenza della Commissione e alla presentazione di programmi politici, specificando che il candidato del partito europeo che «otterrà la maggioranza dei seggi dovrebbe avere la prima chance» di essere eletto. Ad eccezione dei Conservatori e dei Riformisti europei, tutti i maggiori partiti politici europei hanno indicato il proprio candidato, rispettivamente nelle persone di Jean- Claude Juncker per il Partito popolare europeo, Martin Schulz per il S&D – Progressive Alliance of Socialists and Democrats, Guy Verhofstadt per l’Alleanza dei democratici e dei liberali per l’Europa, e Alexis Tsipras per la Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica. Il confronto mediatico tra i vari candidati svoltosi a più riprese a Bruxelles e in varie città europee – significativa in Italia è stata la serata ospitata dall’Istituto universitario europeo nell’ambito della Conference on the State of the Union, il 9 maggio 2014 a Palazzo vecchio a Firenze, al cospetto del Capo dello Stato Giorgio Napolitano – ha permesso poi di attirare l’attenzione degli elettori su temi tipicamente europei: dalle strategie per affrontare la crisi economico-finanziaria, in termini di austerità o di politiche per la crescita e di contrasto della disoccupazione, all’immigrazione, allo sviluppo di una politica estera unitaria. Così, grazie alla spontanea designazione dei candidati alla presidenza dell’esecutivo europeo da parte dei maggiori partiti e grazie al dibattito europeo che intorno ad esse si è animato, le ultime elezioni hanno segnato effettivamente un momento di novità, nella misura in cui sono riuscite ad affrancarsi, almeno in parte, dall’orizzonte puramente nazionale entro il quale si sono normalmente consumati i precedenti appuntamenti. Per la prima volta le elezioni del maggio 2014 non si sono ridotte a una pura verifica di mid-term, vòlta a confermare o a mettere in crisi i governi nazionali in carica. In qualche misura i cittadini si sono espressi sull’Europa, e non solo sul gradimento dei rispettivi governi nazionali offrendo, tramite il voto, il loro contributo per colmare il deficit politico dell’Unione europea (R. Dehousse e JHH. Weiler) e, indirettamente, per individuare il futuro Presidente della Commissione europea. Da questo punto di vista, dunque, si può ritenere che l’ambizione del Parlamento europeo di marcare un passaggio storico (anche se non
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epocale) non è andata delusa. Più complessa e articolata è la valutazione degli esiti elettorali. Il primo dato significativo da registrare è che, a dispetto di molti timori, la partecipazione dei cittadini al voto non è diminuita, ed è anzi lievemente aumentata, passando dal 43% del 2009 al 43,09 % nel 2014. Si è scongiurato così il rischio più grave, e cioè che i cittadini, astenendosi in massa dalla consultazione elettorale, esprimessero risentimento e disaffezione alle istituzioni europee in quanto tali, riversando su di esse, a torto o a ragione, le responsabilità del grave disagio sociale generato dal protrarsi della crisi e permettendo che la crisi travolgesse con sé il progetto europeo. Molti commentatori hanno ritenuto significativo il fatto che il tasso di partecipazione elettorale si sia mantenuto costante, con un lieve incremento, proprio nell’occasione in cui la consultazione ha assunto un significato più marcatamente sovranazionale, nonostante il clima euroscettico che si respirava in molti ambienti. Ciò detto, come era largamente prevedibile, nessuno dei partiti ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, necessaria per assicura l’elezione del proprio candidato alla Presidenza della Commissione. Il PPE è stato riconfermato primo partito con 221 seggi, nonostante la perdita di sette punti percentuali; il PSE, in crescita anche grazie all’acquisto del Partito democratico (che ha confermato l’alleanza con i socialisti già sperimentata nel corso della precedente legislatura) che ha assicurato un significativo apporto di deputati, ha ottenuto 190 seggi, mentre le altre formazioni sono assai meno numerose (ALDE 59; V-ALE 52; ECR 46; GUE-NGL 45; EFD 38). La frammentazione della composizione politica dell’assemblea rappresentativa europea, unitamente alla risoluta opposizione del governo britannico, ha rallentato la procedura di nomina del Presidente della Commissione. La candidatura di Juncker - designato dal partito di maggioranza relativa - non è stata affatto scontata e ha, anzi, richiesto lunghe trattative tra i governi nazionali prima di essere formalizzata, nonché la previa definizione di un programma di azione che delineasse una piattaforma di contenuti condivisi, specie in materia economico-finanziaria. A riprova della laboriosità della trattativa, basti osservare il tempo intercorso tra la celebrazione delle elezioni europee (22-25 maggio), la proposta ad opera del Consiglio europeo (27 giugno) e l’elezione (15 luglio) da parte del Parlamento europeo che ha visto, infine,
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il successo del leader di maggioranza relativa, eletto con 422 voti favorevoli, 250 contrari e 47 astenuti. La faticosa composizione dell’esecutivo europeo, tuttavia, non è ancora giunta a termine, essendo a tutt’oggi in corso l’individuazione degli altri commissari europei. Pesa, certamente, il successo dei partiti dichiaratamente antieuropei: non si può sottovalutare la vittoria del Front National di le Pen in Francia e dello UKIP di Farage nel Regno unito, nonché il risultato – ridimensionato rispetto alle aspettative – del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo in Italia. Pesa, certamente, e interroga l’affermazione di queste formazioni politiche, data la loro complessiva consistenza numerica. Si tratta, tuttavia, di soggetti che esaltano sentimenti nazionalisti ed anti-europei soprattutto a livello nazionale, e che finora hanno invece mostrato una scarsa capacità di aggregazione reciproca, risultando distribuiti sul territorio europeo in modo disomogeneo e presentando scarsi elementi di affinità. D’altra parte, nel determinare la composizione della Commissione, neppure si può sorvolare sul grande consenso ottenuto a livello nazionale dai partiti di governo tedesco e italiano, il cui peso politico sullo scenario europeo pare in ascesa, tanto che, forte di un esito assai significativo in patria (40, 81 % dei voti), il Governo italiano (nel momento in cui si scrive) rivendica la prestigiosa e importante carica dell’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, destinato a guidare la politica estera dell’Unione, che costituisce un terreno su cui l’integrazione necessita di irrobustire la sua azione, anche alla luce dello scenario internazionale, tormentato da numerosi fronti di crisi. Ancora sospesa, dunque, è la definitiva composizione della Commissione europea, che richiederà che si compongano i desiderata dei governi nazionali (e tra questi, in particolare, quelli degli Stati membri che hanno ottenuto un più marcato consenso elettorale) con la manifestazione di volontà del Parlamento europeo. Anche per la nomina dei singoli Commissari, infatti, il TUE prevede una complessa procedura che assicura la compartecipazione dei Consiglio e del Parlamento. Ai sensi dell’art. 17, par. 7, infatti, il Consiglio, di comune accordo con il presidente della Commissione eletto «adotta l'elenco delle altre personalità che propone di nominare membri della Commissione. Dette personalità sono selezionate in base alle proposte presentate dagli Stati membri». Deve poi seguire una votazione da parte del Parlamento europeo, al quale spetta approvare
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collettivamente il presidente, l'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e gli altri membri della Commissione. In ogni caso, la nomina effettiva della compagine di governo dell’Unione è rimessa al voto definitivo del Consiglio, il quale nomina infine la Commissione con deliberazione a maggioranza qualificata. Pertanto, gli snodi principali della formazione del governo dell’Unione preservano un ruolo significativo tanto all’organo che esprime la volontà dei Governi degli Stati membri, quanto a quello che rappresenta la volontà dei cittadini europei; di conseguenza anche i risultati elettorali da tenere presenti nelle scelte da operare saranno tanto quelli di livello nazionale, quanto quelli europei, complessivamente considerati. «Questa volta è diverso» è, dunque, una promessa mantenuta, se letta alla luce del metodo che ha segnato l’integrazione europea sin dalle origini, che procede da sempre non per svolte epocali – tanto che i tentativi di palingenesi costituzionale non hanno portato buoni frutti –, ma per instancabile graduale progresso verso una unione sempre più stretta fra i popoli europei. * giudice della Corte costituzionale
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Salvatore Prisco, Costituzione, diritti umani, forma di governo. Frammenti di un itinerario di studio tra Storia e prospettive -Torino, Giappichelli, 2014, pagg. XVI - 281, Euro 25 Nel libro sicuramente le cose migliori non sono dell’autore, bensì la poesia iniziale e quella finale. Nel merito, ci si è accorti - raccogliendo assieme scritti più antichi e altri recenti e avendo dunque dovuto l’estensore allo scopo rileggerli, per verificarne la “tenuta” a distanza di tempo; i testi della seconda e terza parte sono pubblicati in sequenza cronologica, ma non sono stati cambiati, salvo correggere gli errori di stampa - che c’è un’ipotesi di base a collegarli: il “centrismo” come DNA del sistema politico italiano, elemento indispensabile per comprendere il funzionamento effettivo della forma di governo. L’espressione va intesa nel senso che si registra un’attitudine persistente e di lungo periodo (come viene documentato nei saggi della prima parte, recenti, benché esplorino contesti antichi: si veda la parte sul “governo misto” o la riflessione sulla continuità del trasformismo tra età liberale e fase repubblicana) al formarsi costante di un’area trasversale comunque filo-“governista” e “ministerialista”, il che porta ad attrarre, come una calamita, pezzi di personale politico da destra e da sinistra, staccandolo dalle rispettive estreme ed evitando così la diversa strada del confronto elettorale bipolare, che certo viene affrontato, ma in genere sempre dopo alleanze “miste” e non prima, per legittimare al più solo successivamente un tale tipo di competizione. Il bipolarismo italiano dei governi Berlusconi e Prodi e - agli inizi dell’esperienza repubblicana - con De Gasperi è schema funzionale recessivo, perché iper-conflittuale. Per restare all’oggi, per avere ragione del movimento di Grillo e della Lega (e in minima parte di Fratelli d’ItaliaAlleanza Nazionale) è occorso il sostanziale accordo degli altri, con uno sguardo “benevolo” di opposizioni divenute pro-sistema quand’anche partite diversamente - Forza Italia e SEL - coinvolte infatti anch’esse nell’ennesimo processo di riforme costituzionali e istituzionali attualmente aperto. Se le condizioni del sistema politico sono allora queste (e la sequenza dell’esperienza Monti - Letta - Renzi sembra confermarlo), è inutile negare che la forma di governo parlamentare a dinamica sostanzialmente consociativa ne è lo schema istituzionale che lo contiene più coerente, caratterizzata però da un ruolo particolarmente elastico del Capo dello Stato, che “doppia” e stabilizza dall’esterno del continuum GovernoParlamento la fiducia parlamentare verso governi altrimenti resi comunque troppo deboli e poco coesi dalla loro necessaria eterogeneità, il che oggi avviene soprattutto per fornire garanzia di stabilità ai nostri alleati stranieri, in Europa e fuori, nonché ai mercati. L’Italia è insomma un Paese sostanzialmente moderato, in cui un’aggregazione centrale, di volta in volta diversamente caratterizzata e comunque non omogenea prevale, spiazzando le opposizioni che (diverse
fra loro come sono) non possono “congiungersi” per sorreggere in positivo una proposta alternativa. Di opportuno c’è che è difficile che attecchiscano con rilievo decisivo fenomeni partitici di segno estremo, come altrove Alba Dorata o il Front National. Quella che precede non è beninteso un’opzione di valore dell’autore, essendo la diagnosi solo il risultato di un’analisi a suo parere realistica
Fabio Dell’Aversana, Le libertà economiche in Internet: competition, net neutrality e copyright, Roma, Aracne editrice, giugno 2014, pp. 296, ISBN: 978-88-548-7479-4. Il volume è pubblicato nell’ambito della collana Diritto e Policy dei Nuovi Media diretta dai proff. Oreste Pollicino e Giovanni Maria Riccio. Può l’impiego delle nuove tecnologie – in particolare, di Internet – alterare il regime giuridico previsto in Costituzione per la tutela delle libertà economiche? Esistono degli obblighi aggiuntivi rispetto a quelli tradizionalmente catalogati nell’ambito del c.d. statuto generale dell’imprenditore quando l’iniziativa economica è esercitata in Internet? E, dunque, è utile introdurre una lex specialis che sia applicabile alle sole società operanti sul world wide web? L’Autore analizza le questioni appena poste ripercorrendo il dibattito sulla competition online, sul principio della network neutrality e sulla tutela del copyright in Internet. In particolare, il primo capitolo è incentrato sulla ricostruzione della disciplina antitrust applicabile alle imprese operanti nella web economy. La soluzione proposta esclude la configurazione di una zona franca per gli operatori economici, nella misura in cui suggerisce di regolare Internet tenendo ben presente la ratio giustificatrice del diritto della concorrenza; inoltre, essa consente all’Autore di sviluppare – in una prospettiva de jure condendo – una più ampia riflessione sulle categorie generali del diritto antitrust. I capitoli centrali del lavoro sono dedicati al delicato tema della neutralità della rete. Tutta la ricostruzione ruota attorno ai seguenti interrogativi: cui prodest una rete a più velocità, che consenta ai grandi operatori economici di discriminare gli utenti e i content provider in ragione di valutazioni economiche? Negare la neutralità della rete conduce, forse, a una sorta di contradictio in adjecto rispetto alle finalità perseguite con lo sviluppo di Internet? Infine, nell’ultimo capitolo, si affrontano i problemi posti dalla tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica. Dopo aver ricostruito i principali problemi tecnici connessi alla diffusione telematica delle opere di ingegno, l’Autore conclude sostenendo l’inopportunità e illegittimità di un sistema normativo che, in virtù di sanzioni meramente repressive, sia fonte di (irragionevoli) compressioni delle libertà fondamentali interessate dal tema.
Fabio Dell’Aversana ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in diritto pubblico e costituzionale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Nel 2010, presso la medesima Università, ha conseguito con la votazione di 110 e lode la laurea magistrale in
giurisprudenza, discutendo la tesi in istituzioni di diritto privato. Contemporaneamente agli studi giuridici, ha completato la propria formazione presso il Conservatorio di Musica di Napoli “San Pietro a Majella” conseguendo, cum laude, i diplomi accademici di primo e secondo livello in pianoforte. È autore di una monografia e di vari saggi: Le libertà economiche in Internet: competition, net neutrality e copyright, Roma, 2014 (il volume è pubblicato nella collana Diritto e Policy dei Nuovi Media diretta dai proff. Oreste Pollicino e Giovanni Maria Riccio); Il minore: autore dei contratti telematici, in A. Ciancio – G. De Minico – G. Demuro – F. Donati – M. Villone (a cura di), Nuovi mezzi di comunicazione e identità: omologazione o diversità?, Roma, 2012 (pubblicato anche in G. De Minico (a cura di), Nuovi media e minori, Roma, 2012); Nota alla Segnalazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sulle recenti proposte di legge in materia di concorrenza e liberalizzazioni, in Osservatorio sulle fonti, 2012, 1; L’actio finium regundorum tra le Autorità Amministrative Indipendenti nella repressione delle pratiche commerciali scorrette: la posizione del Consiglio di Stato, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2012; Il “regime patrimoniale” della famiglia di fatto, in Vita notarile, 2012, 2; Segregazione patrimoniale e famiglia di fatto, in Gazzetta forense, 2012, 3. Dal giugno 2011 collabora con la rivista Osservatorio sulle fonti, diretta dal prof. Paolo Caretti: in particolare, segue le attività normative dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture. È docente di diritto e legislazione dello spettacolo presso vari Conservatori di Musica e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Contatto dell’Autore: f.dellaversana@hotmail.it.