Massimo brazzini ho raccolto

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Ho

massimo brazzini

raccolto



Ho

massimo brazzini

raccolto


/ Disegni

& Testi:

Massimo Brazzini

/ AiutoAutore

(Impaginazione & Editing):

Francesca Caraffini

/ volume

stampato in occasione della mostra

‘cleansing’ @“la tana delle costruzioni” Vedano Olona

Maggio 2015


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/ PERCHÉ SCRIVI?

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/ I PARTE

Haiku, senyru, monoku, haisan (non distinti)

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/ II PARTE Versi liberi e prose



/ PERCHÉ SCRIVI? L’amore per il sole m’ha portato splendore e bellezza Saffo Tanto dipende da una carriola rossa d’acqua piovana glassata a bianche galline accostata W.C.Williams Io assalgo la vita e porto a termine una poesia; tutto il resto che riguardi la vita è dubbio e problematico G. Benn

Perché scrivere? Perché dipingere? Perché fare arte? Necessità, cura dell’anima? Certo. Ma perchè fare arte (potremmo dire fare tout-court, vista l’etimologia della parola ‘poesia’, cioé poiesis, fare, appunto) è balsamo dello spirito, cibo per la psiche? Tre poeti, tre bocche che parlano con sguardo profondo, tre esseri umani lontanissimi o nel tempo o nel carattere e visione del mondo: la Poetessa per eccellenza, la voce della classicità antica, della bellezza apollinea, l’incarnazione dell’eleganza e della sensualità, la cantrice dell’amore carnale e spirituale insieme - canto che ci è giunto solo in frammenti luccicanti; poi un poeta che creò la parola moderna di un intero Paese, 5


anzi, nella nostra cultura, il Paese, quello americano e lo fece assimilando passati e preveggendo futuri, pieno di potente grazia, essenziale e insieme sontuoso, dall’andatura sì sperimentale, ma sicura e amorevole come un classico - un artista fecondo e totale che però visse la vita vera di un medico di periferia; e, infine, appena prima nel secolo, un mirabile altro ‘doppio’, medico e poeta, anch’esso coltissimo, ma un ‘cervello dai denti canini’, un nichilista che, come sezionava i cadaveri nella Morgue all’inizio della carriera professionale, così sezionò il cadavere della storia umana, arrivando a parole che svuotano l’esistenza terrena per dare vita a scultoree creazione poetiche. Nulla in comune, al di là della bellezza. Eppure quelle tre frasi sono la spiegazione al mio personale bisogno creativo. Non so se questo intendesse Saffo con ‘amore per il Sole’, ma per me è metafora sia dell’amore per la vita, per il suo manifestarsi, sia della necessità di luce (“più luce, più luce”, disse Goethe, morendo) intesa come visione limpida, conoscenza, arrivare, per quanto possibile, a capire. Ed è, non tanto la fonte della luminosità, il Sole stesso, ma l’amore per esso, a darci splendore e bellezza, a salvarci. Non la Verità, che, vedremo, sarà sempre assai sfuggente e dubbia, ma l’amore per essa - amore inteso platonicamente come moto dell’anima, come slancio verso, come ricerca. E, in questo cammino assolato e però spesso aspro, come una via alpina che ci doni a ogni passo, in egual misura, il Sublime di panorami mozzafiato e sofferenze e pericoli, la prima certezza che troviamo, la prima oasi di pace e bello è, paradossalmente, sotto la pioggia: una carriola. Un’umile carriola dimenticata in un angolo del cortile di una fattoria. Tanto dipende, dice il Poeta, da questa carriola, da questa piccola scena di vita quotidiana di campagna. E quel che dipende non è solo il fare poesia, il creare e la bellezza che ne deriva, ma anche l’esistere stesso: sii presente, ci dice la carriola, perché il midollo della vita è qua, ora, mentre 6


mi guardi sotto la pioggia con bianche piume che corrono intorno. La salvifica bellezza (davvero la cosa più bella della vita, a ben pensarci!) è sempre presente, basta esserlo anche noi, presenti. Ma, mentre guardi fuori dalla finestra quella carriola, una mano bussa alla porta o una macchina frena nel fango del cortile. La vita, disse De Andrade, “come un liquido, circola”. La postazione serena della contemplazione è bagnata dall’acqua, si stacca, galleggia, a volte placida, a volte in maniera preoccupante. E l’acqua sommerge la scena. Allora il poeta diventa predatore, assale e svuota, fà suo anche con la forza ciò che quella materia scostante e spesso minacciosa porta via con sé. Ri-porta a galla. Porta termine. Porta in porto... La forma data dall’uomo “inventore di segni”, la forma dell’opera d’arte, diventa l’unica solida resistenza alla consunzione fatale dell’esistere, sola eternità e valore in un universo, appunto, problematico e dal significato dubbioso. Quindi, perché scrivi? Perché dipingi? Per raggiungere l’irraggiungibile. Per fermarmi dove tutto è movimento. Per cogliere con fermezza ciò che, per l’eternità, scivolerà. Per fissare con nitore in una scena irrecuperabilmente mossa. Insomma, come odo dire da quelle lontane voci magistrali, per salvarmi e rendere viva la vita. Ora, scusate, devo andare: scosto le tende accendo un sigaro e guardo fuori

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/ I PARTE

Haiku, senyru, monoku, haisan (non distinti)



/ HAIKU, SENYRU, MONOKU, HAISAN HAIKU definizione di Cascina Macondo L’Haiku è un componimento poetico rigorosamente composto di tre versi rispettivamente di 5 - 7 - 5 sillabe. Deve contenere il Kigo (un riferimento alla stagione) o il Piccolo Kigo (un riferimento ad una parte del giorno)

SENRYŪ definizione di Cascina Macondo Il Senryū è un componimento poetico rigorosamente composto ū di tre versi, rispettivamente di 5 - 7 - 5 sillabe che non contiene il Kigo, né il Piccolo Kigo.

HAISAN definizione di Cascina Macondo È un componimento poetico formato da tre versi. Il termine è composto dall’unione della prima parte della parola Haiku: HAI e dalla parola SAN che in giapponese vuol dire TRE. Quindi semplicemente “tre versi”. Sono gli haiku liberi, che non rispettano le sillabe, che non rispettano il Kigo.

MONOKU Strutturato su 17 sillabe come l’haiku, si sviluppa però su una sola linea.

http://www.cascinamacondo.com 11



passi leggeri cane nei girasoli prima ero stanco


vento, agosto, i ricordi corrono siamo aperti


nubi estive appagate dal sole �ero lontano�


nuove cicale poche campane lievi fatto un cielo


il sole scende il girasole cala l’estate sfuma

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di nera luce, il gatto apre bocca le stelle, afa...


scordato cosa? rumori incrinano le tre di notte


le Alpi laggiÚ! ‌ la schiena azzurrina... torno a casa


fresco canale, le nutrie si fiondano colmando iati


rondini svelte, tombe con una data sola: un attimo*

* questo haiku è nato dalla visione, in un cimitero, delle sepolture dei bambini nati morti o morti poco dopo il parto, con lapidi che riportavano un’unica data

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scintille sciolte sull’acqua d’argento il mais dondola


rosso e fuoco il gambero s’aizza sole e campi


una lepre sta, la nasconde il verde ho visto cose


moti di nubi sentori ozonati abbottònati

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luci a ovest la prima goccia fredda la foglia cade


portatrice di un’inquantificabile bellezza, neve


freddi cristalli ospitati dagl’aghi: bianco d’albero


sciarpe, cappotti le mani nelle tasche vinciamo noi

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le diciassette: le sillabe restano neve dal tetto


spolverio bianco la brina, il silenzio decido dopo

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il pesce intasca il rosso, i guizzi, quel boccheggiare infantile per il resto appartiene alla vaschetta


le perlustrazioni vennero fatte dai nasi dei cani si trovavano cose che gli uomini non capivano bellezza, indubitabilmente, comunque c’era

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le carni intrise di passati-addendi, le ere si sommano, si sommano, ma a galla vengono solo meno

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se la sua ernia è, mi dice lei, signora, letale* si rassegni e continui a divorarsi, nell’attesa

* la cliente intendeva ’iattale’, chiaramente. 36


bianchi abbandonati per la via: fogli, notti, denti, occhi stralunati, una voce: un’Antartide alle spalle


UNA CITTÀ IN PRIMAVERA

I passi veloci becca delle briciole velocissimi II dal mondo-sonno palazzi abitati stacca l’azzurro III sole levato finestre accecano chiudi!, si sente IV un bimbo fissa, a fuoco nel traffico, fiori e ruote V città abito: il cuore è la storia cappello, nubi 38


VI ombra dal sole scaturiscono gemme strizzo gli occhi VII becca ancora la via intorno, mostro è concentrato VIII s’apre primula il terrazzo sospira ora ramazzo IX s’apre geranio innaffiatoio verde, di quelli fucsia X s’apre ortensia delicatamente blu vedo i monti 39


l’erba, plumbeo, onda verde-petrolio ciao, passato


bianchi abbandonati per la via: fogli, notti, denti, occhi stralunati, una voce: un’Antartide alle spalle


ho respirato nubi alte nel cielo anche oltralpe

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alla finestra ferma nella penombra rose, rondini...


village under sun dreamin’ of seas and beaches, light is everywhere

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yellows, greens, reds, whites the florist puts in order infinite beauty

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focalizzato, uno scarabeo va — dei gigli d’acqua


c’è un fremito: si slabbrano le rose tra altre rose

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naso, e chino, (aerei in cielo) il cane vaga

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mondi distanti ma la gazza mi fissa, ferma nell’erba

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barbagli negl’occhi giocavamo in riva tuffo al cuore


lĂ , in amore una tortora gruga bombi paggetti

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QUEL TUO PROFILO DISEGNATO da anni, seria, porti quel gran profilo, non te ne stacchi forse luce fu per permetterti questo: mostrarlo a noi ... per darti vanto della tua bellezza ... farci essere ... applaudire, dare testimonianza, riconoscenza da anni, seria, lo porti via con te, lasciando, vuoti, strade e cuori, pomeriggi sul grigio, attese di bus... ma quel disegno si sta staccando, giĂ qua - il tempo che va

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a Charles, Emil e i maestri oscuri prima o poi il sole esploderĂ tempo galantuomo


PAUSA INFRASETTIMANALE - microrime (2014-03-10 12:17) colazione passa da una vita a un’altra ma resta bianco, il latte, di carta toilette panni umidi sulla mia faccia il bagno cola, dopo questa doccia passeggiata con la cagnolina va in giro tutto ad annusare potesse la cittĂ da lei scappare! cena frugale di bianca carne, quelle due fettine sembrano anime con un confine davanti alla tv mi siedo, guardo, mangio un biscotto non vedo nulla, il mondo è rotto


oh, l’equinozio! impregna i petali luce dal vetro

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parla al nulla: danza, solitaria, un’ombra d’uomo


VITA CONFESSA, PARLA ’la poesia è un modo di prendere alla gola la vita’, Robert Frost vita - apri la bocca, confessa la colpa, parla, canta... l’ineluttabile bellezza che ti sporcava le mani è ammissione senza ombre, è condanna alla pena: ... omicidio d’ogni logica, delle robuste parvenze... ... sete del sangue dell’esistere, delle vene del mondo... ... crimine santo, per il finito che mangia l’infinito... ... taglio d’amore, per il tempo che divora l’illimite ... ... carnale violazione del domicilio dell’assoluto.... ... mistica violazione dei domicili della presenza... ... annichilimento dell’attimo in mille riverberi... vita - apri la bocca, confessa la colpa, parla, canta l’espiazione sarà nelle celle delle nostre anime, nel darci un giglio fatto di te e il sospiro suo

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getti di foglie arriverà il verde gl’occhi fremono

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porta puntini tutt’un peso di rosso oh, coccinella!


pulire vetri sino a cancellarli luce, pi첫 luce

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ispirandosi a Simone Weil... ti desidero ti voglio divorare mia se nulla


‘Credo che non vi sia nulla di più nobile che l’ardente contemplazione delle cose di questo mondo’ G. Flaubert dedicato a tutti gli scrittori di ’haiku’ ! semino sguardi mi perdo, mi ritrovo - carriola rossa

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ci accerchiamo fuggo con una rosa libero da me


night full of light-years pupils enclose the blue vault nose between two skies

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she walks dressin’ red all that beauty, no effort she will fly away

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mmm... no ideas... A haiku on a haiku it’s a valid one??


full green uniform sentinels of brand new skies trees stand like soldiers


SUNDAY - an haiku poem (2014-03-29 01:12)

1 suddenly, cock crows! ruthless sun blades cut shadows! - my poor dreams, corpses 2 ... Alps, Prealps, coffee, sugar, clouds, cookies, a plane, huggin’ you, window... 3 morning in my hands some aftershave on my cheeks me in my own eyes 4 fields: a dog is run– (BRAKE, let me smell these news, GO!) -ning dissolved in grass 68


5 lil’ good smell swivel the house becomes sweet daughter, the kitchen, snug Ma’ 6 resuscitated, dreams in post-lunch area: afternoon zombies 7 biking-theairshines airshines-biking-waterflows flows-thecreek-seeks-seas 8 black & white visions kisses instead of movies tv forgives us... 9 closed door, bye world the days ends like a calm pray our bed... closed eyes... 69


LA LUCE la luce, sfatta, stanca del viaggio da est giace nel giorno s’alza infine suo strascico la sera corre all’ovest mai la vedremo se c’è, appare altro è vuota di sé

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api e rondini tessono reti: primavera presa!


una boccata pipitĂ della pipa io dissolvo


TRUDY - an haiku poem Trudy is waiting unending short animal, she’s waiting again no one game is enough eternal return adept she’s waiting again restless, hopeful, all-you-can-play follower, she’s waiting — again

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mossa nell’alba la via è svuotata coda di cane

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a piedi scalzi notte franta, immersa pioggia e pioggia


metĂ gennaio: fatico a staccare piccole luci


un albero secco luna di controluce ho chiuso scuri


the creek is empty the farmer knows the reason frogs don’t - vast silence

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unexpected sun (Easter: bells sing far and high) sacralized in a flash

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un tarassaco esplode controluce fresca risata


calpesto sassi tutt’intorno montagne consegna-nubi


ho chiuso in anticipo decine di sogni molestavano la realtĂ ho preferito rimanere

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bistrattato dalle opportunitĂ , ho perso il baricentro oh, una porta, solido legno...

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tratturo sporco una rana mi guarda piacere mio


piove al di lĂ riparato dal tetto piove al di lĂ

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le nubi, via! mostrami lontananze il vento riluce

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fetta di sole polvere dalla porta mangio un’ombra

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shoulders in dim light God is sitting on a pew no one knows this church

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Ovest d’aprile: l’ultimissima luce è del glicine


camminavano come in una foschia sentivano i panorami e i boschi, d’intorno nell’attesa, si fermarono

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ho respirato nubi alte nel cielo anche oltralpe

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a gentle ’knock-knock’ flappin’ cat flap, winter’s gone warm sun, open door

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lontano, muto, un duello tra falchi ondate d’erba

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polline sulle dita le api non sono rimaste ringraziamo in contumacia

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affrontò mostri marini in mari in tempesta uccise streghe e dilaniò fauci nel buio - ma perse vista e vita dettagli

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dolci ricordi: la realtĂ aumentata a mani nude

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dei nuovi rami fanno mosse al cielo stagliano gemme


slow summer waters: half world is clouds and blue sky half is submerged

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summer is spreading walking in a hot morning --- a wall of green corn

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scroscio di sole richiudo la finestra batte al vetro

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la volpe curva, seminando lo sguardo mai pi첫 veduta


sand kissin’ the sea a brand new day on the earth seagulls behind me

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path near home - everything is always changin’ - all remains the same

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si stende, caldo è un giorno-lenzuolo - levasi giacche...


(leaves release a noise) gentle first nights of a spring... (I’m staring something)

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LE STAGIONI silloge di haiku

I gocce di marzo tre nuove foglie scosse: prepariamoci II è sabbia ferma una lucertola guizza … tuoni, lontano... III frutti ramati quelle secche cadono, chiudi la porta! IV danza il fuoco codici nella neve: zampette - fredde V ruota cosmica: stormire d’altre foglie, un batter d’ali! 106


la bestia nera riposa nell’attico, riempiendolo. io vivo al piano di sotto e ne sento il respiro. non credo l’incontrerò mai.

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riflessi gialli nel buio miagolii -- le pozzanghere

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pallina, cane, corre, si precipita sciabordio e...


le carezze s’erano fermate, come onda che muore s’intrecciarono, le mani, in una nuova polla d’acqua

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ma le finestre ripetevano approdi, laggi첫 la sicurezza era come dipinta, la lontananza, in sospeso

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s’acuiva la sensazione si destreggiò tra mille stanze, senza mai distanziarla era giunto il momento

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coltivo per sentire le mani dare raccolgo per sentire le mani accogliere metto in circolo per ricominciare, nuovo, daccapo

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guardo un’apina il mondo tutt’intorno un’altra in India


labbra sottili l’hai socchiuse appena ombre di carne

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quante sillabe stanno nei dizionari? distesa d’erba...

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/ II PARTE Versi liberi e prose


LA VISITA attaccata all’asfalto, capelli crespi lavora a maglia seduta su una sedia da cucina nessun cliente, afoso allo scattare del verde un bambino guarda ancora insù: un pianoforte dalla finestra spalancata nostalgia di un vecchio cortile in un palazzo, nella mia città, mai visto prima come se ci fosse l’eco anche della mia voce bambina non conoscere il nome di vie a soli cento metri aver sprecato formidabili contiguità vi erano confini invalicabili, mondi altri, allora la domenica alla messa scarpe rosse eleganti, impennati come galli il sacro ridotto a sensale d’amore...... ,,, e all’uscita, un sentore agrodolce senso di occasione sprecata ma ho trovato la fidanzata! e le saracinesche tutte grigie le ore allungate troppo, troppo domenica del villaggio oh, il cortile della scuola media è passato solo un giorno 118


no, neanche - siamo tutti ancora alle finestre da qualche parte ancora sto tornando a casa con la cartella, primavera, azzurro, oggi la pasta a giugno, fine scuola, Milano aspettarsi già il mare dietro le case traslocavamo d’emblée l’intera città la campanella: far passare sulle strisce far passare te stesso con il grembiule non posso dirti nulla la portiera che si chiude quella della Ford verde di mio padre si scendeva come in un telefilm americano, io con la pistola in visita: i balconi delle case di fronte sono lì da sempre erano già lì quando mi annoiavo la domenica i pomeriggi erano protezione la televisione cadenzava il tempo - tic, tac in questa camera, in qualche angolo, qualcosa dev’essere rimasto una canzone dei Chicago, la sera, da una radiolina dedicarla con forza sovrumana a Jodie ‘Tallulah’ Foster questi sì, li chiamerei eventi le veneziane abbassate, la portafinestra aperta il balcone entrava nelle stanze 119


l’estate ampliava piacevolmente cubature il giradischi apriva voragini le mura come carillon giravano inaspettati, dolcissimi guai portati dalla musica* (*Emil Cioran: Nato con un’anima ordinaria, ne ho chiesta un’altra alla musica: fu l’inizio di sventure insperate…) la commedia umana poi s’accendeva nelle mille finestre viste da una finestra un romanzo scritto contro la notte la fronte al vetro, d’inverno le luci danzanti nei negozi Natale svanito in un respiro chissà quali anfratti nascondono i libri là in alto in alto, sotto i passi dei vicini gli scaffali avevano gradi crescenti di mistero la scrivania era un ponte, sotto il letto c’era una galleria... avessi potuto vivere sopra l’armadio, sarei stato lontanissimo microclimi propri di ogni stanza l’atmosfera, cambiava anche gli abitanti, cambiavano scavalcare la finestrella del bagno atterrare silenzioso sul balcone riposarsi sul letto dopo una simil’avventura 120


prendere l’ascensore, salire dai nuovi condomini all’ottavo piano prepararsi all’uopo oh, quella vista! come se, potendo entrare in armadi e armadietti dietro le cose là dentro ci fossero cunicoli, mondi, possibilità... ... mondi che vibrano bassi ora che stai per addormentarti mondi che potrebbero spazientirsi, stanotte ma in realtà le cose nei mobili e in cucina e in bagno hanno la fedeltà di famiglia e sono sempre state buone, con te i gesti ripetuti rimangono nell’aria un inganno della mente che aspetta di rivederti passare, lì in corridoio l’album delle foto Kodak un po’ di odore come di vecchio solo questo rimarrà?i passi risuonano, dei giorni passati, come in un tempio: spaventoso e definitivo e balsamico chiuderne i portoni

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LA FRETTA - poesia sperimentale #1 parte 1 (2014-03-22 08:30) 1 amminocorroattraversostriscesfioropersoneombrediplataniuncanemiann

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LA FRETTA - poesia sperimentale #1 parte 2 (2014-03-22 08:24) 2 usainciampounbimboridecorrosaltogi첫dalmarciapiedestortasoleneglocc

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SPERIMENTALE #2 (2014-03-22 08:33) punto all’afonia evitando le consonani, e oì ie i ua o punto al caos evitando le vocal, pr cs dr l nll

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silenzi senti di spalle, guarda fuori scusa la porta si chiude

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(avranno fatto altro nel frattempo, come chiudere una persiana con violenza e rumore tanto rumore, senza sosta, fino a romperla) ALLELUIA! in una primavera laggiù nei calendari distrutto calato e deposto, piovve ... le campane sono per l’alleluia, vestiti della festa, nuvole in cielo l’agnello è caldo, un coltello affilato sarebbe perfetto le tovaglie linde, cucite dalle memorie di nonne-talco, s’insugano diventando tristi e rimpiazzabili - e giurano che nessuno l’abbia mai fatto apposta... avevo sì calendari ma ne ho fatto protezione per bicchieri di Boemia anche se scuoto la testa con ferocia non ricordo avevo calendari ma anche a sommarne i giorni non ottenevo tanto la scuoto la roteo gli occhi dentro a schizzare come palline da roulette - non ricordo avevo calendari e date sicure ma devo aver cancellato se apro le mani non ho segni sui palmi - era domenica o poco prima molta, molta polvere sul libro da cui la conseguente scomparsa di ogni forma di studio della violenza ‘Classic’ ora gestiamo solo manifestazioni di violenze ‘Avantgarde’ o ‘Vintage’ l’acqua, l’aria, i filosofi, terra che muore tutti muoiono – bel lavoro! se i buoi, i cavalli e i leoni avessero le mani plasmerebbero falsi dei l’oscurità dell’Oggetto ad avvolgere le mandrie, i clan, 126


fattorie in fiamme viste da lontano, teorie di macchine e camioncini pick up a correre su per le colline, l’Ovest un posto da cui scende rossa luce sul rosso degli incendi, ondate di schiene gobbe e bovine a infrangersi contro fumo e fuoco mentre noi, affacciati a lontane finestre, muggiamo e nitriamo e ruggiamo - le mani sporche una mosca sosta dinanzi agli occhi seduti sul divano bello è andare nel destino all’oscuro di tutto pensò uno dei due intere biblioteche vennero lanciate contro l’insetto o ritirate da annunci in rete o donate con un sorriso un po’ colpevole (mi svuoto da dentro di pagine come svuotare a manate uno stomaco col cancro) pezzi di idropittura ad ali di farfalla si staccano dalle pareti s’adagiano sulle spalle, ci confortano con la dolcezza della psicologia di gruppo non ho segni sui palmi, ripeto loro, nessun segno, forse non c’ero - sulle spalle, come petali, per terra, intorno alle caviglie, giardino di ricordi sfaldati e neppure sui piedi vedo segni - s’adagiano fa male cos’hanno fatto, gli altri? 127


PICNIC IN GIARDINO chinato gli occhi sporti reggo la mia città in strana posizione, ma non intendevo guardo fuori: crollano case, cattedrali di postini cadono sotto le bestemmie le divise svolazzanti nel cielo, nel cielo svolazzanti ho creduto fosse meglio così, era scritto in giardino (s’aggirano i reduci della mancata finalità hanno in mano le mappe tattiche ma sono tutte rosse di sangue) se sposto la testa, gravità e città collidono allora usciamo! scavalcando infissi, picnic time! le formiche s’adeguano alla gravità - e da secoli, gradiscono i colori confetto e i dolci molli la mia faccia è un aspic, dondola, temo fettine non diventare doggy bag è un’ossessione improvvisa questo prato galleggia James è il suo nome è scritto sulla maglia passa in bici non so chi sia capelli condominio braccia per appendere cose la mia faccia rimane un aspic formiche galleggiano (abbiamo consultato libri tra le rovine fumanti pedissequo esiste) è la colonna di papere dietro mammà 128


viste dal basso mostri da baraccone stagliati in sù mosse di becchi, fremiti di penne, immanente il passo dell’oca le formiche stanno raggelate e nere un sospiro ma era l’ultimo, quello da bara, i petali sono sui cadaveri in strada rientrati, notiamo un quadro che dondola sul chiodo grind-lounge music stesa su un tramonto atomico (cantare la caduta è particolarmente elegante, si sa) i peccati si tappetizzano e noi arrotolati dentro, con un non so che di consolante i capelli roteano sugli intonaci si segnala la voce molto roca di una cantante disidratata e poi tanghi su uno strame di piccole lettere che si formano sul vetro appannato, d’inverno - la macchina passa piano al di là del giardino, guardano dentro ... l’attuale migrazione verso i puritani del New England è residuale (leggo) ... e l’auto-esame tra le persone porta molte delle quali a voler scrivere più di un libro di memorie: la storia di un farmaco (penso) ... frantumazione dei deboli di spirito... tagliare la mente.... (scrivo) ... pensieri distribuiti alla disperata, così, per l’esistenza (fatto) tra le dita della mani dello sporco, a tema - action painting voi avete in testa una piccola città che fa una serie di domande, mi dice un uomo vestito di nero sulla soglia della stanza - risposte? 129


IL GIRO biiiip biiiip ho bisogno di zuccheri biiiip biiiip la piega è veloce, la curva entra fluida negl’occhi, ammanta la schiena, s’inginocchia al monte biiiip biiiip sento ancora le mani piene di odori di felci e sottobosco, manciate di petali grassi, le nubi materassi che tracimano al contrario spesso però stavamo ai lati della strada le mani in tasca - a volte qualcuno metteva le mani sulla faccia, c’era chi scoppiava in lacrime ‘’ioviaggioavanti’’ disse sfrecciando, l’ombra lasciata dietro a seccare a un sole abbandonato lassù - ecumenico cervello a otto corsie, respirava a vapore, pompava drenaggi d’asfalto, dislocava articolazioni, articolava massa magra, sorriso tirato, elastici attaccati a stelle trasparenti che gli curvavano gli angoli, sprint finale in accelerata eterna un tartan di campi e strade e viottoli e alberate e tetti e cape incrociamo le mappe e le dita gli elicotteri danno l’idea di forza e controllo e di solito 130


non ca do no o

o

pale roteanti raggi scintillanti sudori gocciolanti (sottofondo, elektro kardiogram, auf auf auf auf biiiip biiiip) ilrumore è unsibilo che taglia l’aria e la fa cosa-che-esiste imbosco in fretta e furia colate di immagini pomeriggi catodici, polveri galleggiano nei salotti, penombra a invito tutto pronto tarme giganti divorano feroci i mobili i vetri le pareti e i parenti si mettono dietro, sui consigli del tempio, e cambiano il mio IL MIO, ACCIDENTI, centro di gravità assolato su un cuzzolo di avanzo di palazzo, il vento nei capelli, seduto su un naufragio di divano, campo base della mia vita, accendo la tv - le tarme rimangono a sorseggiare un tè storie che si srotolano per strade sconosciute come stare davanti al cosmo - succedono cose senza un perché e questo era il senso un’acqua e limone dissetava loro; dissetava anche me - da piccolo 131


VALZER e poi si sposta lasciando i colori pastello del suo morbido completo (estivo) sospesi in aria con aria disinvolta diventa chroma key - la strada corre dentro di lui, intermittenti, lucide carrozzerie, curve silenti, sfrecciano, “bagarre in curva!” si confonde alla città nello sfondo - specchio alla sparizione di sé stesso, l’abito danzando di voluttà, pelledicielo/facciadinube/carnediaria e l’abito danzando di volut--- parentesi ero un ragazzo cisterne di calendari caldi di stampa vedevo finestre apertissime biglietti di viaggi già staccati perlustravo da seduto poi così si svuota il magazzino aria di colpevolezza nessun giudice rimpatriavo dalla solitudine ecco qua, guarda, poco ma concreto si continua a costruire, vedo, disse questo conta uscire dal magazzino vuoto ecco perché mi sono tracimato - chiusa voluttà, si diceva e le cose e gli altri a dargli confini nutrienti la luce a farlo luce 132


(danzando, danzando, l’abito, vicino alla di lui raggiunta dispersione, - il sole lo abbraccia nel Quadrato Antiorario (danzando, danzando fa un passo di valzer - con nonchalance chi fa il cavaliere, sole? sono stella, ricorda, era uno spettacolo, vederli chiusa chiusa poi si fece notte battaglie di specchi vetri che si chiudono lampadari che dondolano radio in modulazione di ampiezza che corrono sul mare onde che attraversano onde dobe vecer kjo es la noticia maghreb sotto la doccia di Casa “c’è tutto un mondo intorno” purificarsi con l’acqua esistenze a tirar somme sfregandosi asciugamani addosso e lui s’acqueta, fatto di luna i vestiti a ricadergli addosso sistema il colletto ritorna presenza che attraversa la strada, sta attenta, è vigile, e, quello che conta, torna a casa 133


GEO-LOGICA antiche rocce hanno subito alcune modifiche e poi, all’improvviso, agglomerati urbani a cascata! miliardi di calate solari han fatto un’immensità di vaga immagine umana - senti l’assordante strascicar piedi per millenni? - poi ecco l’increspatura che chiami la mia storia. quindi, nel corso del tempo, il mare ha cominciato a salire lentamente verso ovest, verso nord, verso ogni verso e questo sotto la guida di piastre tettoniche versate a umanizzare croste; da ciò: natanti, lungomare, moli e week-end! guida a destra, all’inglese, a Malta consigliato il cambio automatico affrontare curve in negligé mentali (sarà anche un’increspatura - mi ci macero con gioia) e, voilà, laggiù, turchese il Mediterraneo, il nostro sogno di spuma e olivo carbone, progresso e gas - pressioni geologiche, fabbriche e budella paludi sedimentate, disegni e probiotici - carcasse d’alberi che disegnano carcasse d’alberi che adsorbono vitamine - carcasse d’alberi che conquistano il selvaggio West: ci agitiamo su un cimitero vegetale. e il mare salì che neanche Coppi, corrose un mondo e ridiscese dalle Dolomiti come niente fosse. salire a galla dove quel mare non c’è e mai ci sarà, salutare il sole - mentre al centro della terra, sotto i nostri piedi nell’abisso, fiamme increspature toccano gli angoli della bocca tirano un sorriso la storia dell’ossigeno è una catastrofe di batteri che respirano - umpf umpf 134


per anni e anni, notte e giorno umpf umpf a stordire le stelle umpf umpf da non sentire altro umpf umpf il cielo che sembra crollare. la sua storia è una palla di neve che corre intorno al sole. la mia storia è che se lo tengo galleggio, se lo levo sprofondo, se lo tengo cammino, se lo levo mi confondo. e il ghiaccio poi si sciolse, si può leggere, si sciolse proprio qui già, vedi, dove stiamo camminando ora, proprio, TUTTO, qui, qui, qui e qui.... noi.

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ABIURA Cambiò nome alle cose e ne fece la vita di un altro. Sorrise nelle nebbie per rispettare i silenzi delle sagome in lattiginoso controluce. Aspettò alle fermate a cui non era arrivato per andare in posti che non gli interessavano assolutamente. Aprì un libro, lo scelse non stampato, e usò l’ascia. Decise di soprassedere alle decisioni mai prese ma da altri. Abiurò a sé stesso con una rabbia che gli fece scheggiare le mascelle. Dipinse quadri usando l’aria come tela – asciugavano in terra. Una volta inspirò così centrato, così perfettamente in sé, così diaframmatico, che per un attimo l’universo scomparve anche agli occhi di Dio. Penetrò dentro donne mai, non solo vissute, ma immaginate (e le fece godere tutte). Esplose in silenzio, reiteratamente, in una portineria sconosciuta abbandonata per una guerra a venire. Chiuse persiane fatte di farfalle, al mattino le aprì fatte di falene. Ordinò piatti sconosciuti in lingue sconosciute in locali che mai aveva visto in città per lui irraggiungibili,lasciando laute mance a camerieri da tempo espatriati lontano. Coltivò pecore, raccolse lana e ne tessette solo i pochi fili rimasti loro sulla pelle. Decimò frazioni. Seminò, correndo a perdifiato, coloro fatti di nubi buffamente antropomorfe, e che neanche conosceva. Portò a conclusione, con pacchettine di soddisfazione sulla testa del cane, pensieri mai esistiti del cane stesso (e lo appagava in modo sublime leccarsi i genitali alla fine). Moltiplicò le facce mantenendo un solo collo e volò sopra la città imbiancata di neve come mazzo di palloncini. Mangiò sedendosi all’interno del proprio stomaco. 136


Entrò con passo pesante in uffici di periferie di altre città e si licenziò a nastro sbattendo la porta. Descrisse cerchi con la macchina ferma. Saltò in alto per evitare la forza di gravità e ristette vibrante al centro della sala fin quando essa non se andò rotolando dalle scale. Posò lo sguardo su rose appena sbocciate e vagò cieco tra le enormi spine. Infornò la pizza che stava mangiando in quella foto del settantadue. Si commosse a un tramonto che avrebbe visto nella vita successiva. Spinse la pioggia. Fece una foto a tutte le sue foto e se la impresse bene in mente per dimenticarla meglio. Alla fine si sedette, chiuse gli occhi, aprì la bocca e si mangiò tutte le paro

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FINITA Lei aprì la bocca urlandogli BASTA! e tutto si fermò intorno a lui. La Terrà frenò la sua rotazione. La luce si cristallizzò in fotoni accecanti come diamanti. Il tempo divenne rigido – con piccoli crac di assestamento. La parola BASTA cominciò ad apparire nell’aria della camera da letto come ghiaccio che si formi su di un vetro. Un secondo divenne l’eterno. Alla fine dell’eternità, il suo cuore, immoto, fece finalmente un battito e ci fu un altro rumore ma terribilmente languido e l’aria divenne gelatina – gelatina d’atmosfera terrestre. Dalla finestra ora i suoni entravano lentissimi, increspature di gelatina nella gelatina, e si scioglievano subito come acqua in mare. Poteva vedere il dna di una mosca immota a mezz’aria replicarsi. Espirò per un tempo inaudito e anche il suo respiro era muta piega gommosa - gli esce dalla bocca, subito si liquefa. Lanciò un’occhiata a lei e vide sfocatamente il proprio sguardo infilarsi piano piano nella gelatina per arrivare agli altri due occhi, lo vide indistintamente andare passo passo e voltarsi esasperante a guardarsi indietro sino ad appoggiarsi all’azzurro di lei. A intermittenza lo intravvide tornare a lui, portare quell’azzurro sul nero dei suoi, di occhi. Lo sentì distintamente adagiarvisi, rumore di un velo su di un velo, poi sentì il meccanismo della visione mettersi in moto, i coni eccitarsi, i canali sodiopotassio chiudersi, neurotrasmettitori scivolare con un sottile suono di sfregamento lungo il nervo ottico ed arrivare alle aree cognitive e mnemoniche del suo cervello e lì dire quell’azzurro e, come in una grotta, quelle parole si ampliano, si espandono, rimbombano, si moltiplicano, corrono per gli anfratti, s’aprono e diventano aria e cielo e ali d’angelo che lo avvolgono dentro 138


stringendolo sino allo stomaco. L’universo ricomincia a muoversi, accelera sempre più e dentro lui diapositive fanno clic e passano dolci e rabbiose e dolcissime e commoventi e nostalgiche e tenere davanti ai suoi occhi interni ed è come avesse se mille mani furibonde dentro il corpo, mani senza sosta, a raffica, mani addosso ai suoi organi e muscoli e ossa, il cuore si spezza - lo stomaco si stringe - i polmoni si fermano – la gola si serra – le vene si ghiacciano – le tempie pulsano – le gambe tremano – la mente si schiaccia – dolori lancinano e le diapositive corrono sempre più centrifughe, gli strappano la fronte del cranio e fuoriescono, escono per la stanza, frullano il mondo-gelatina, sciolgono tutto, tutto, e tutto diventa massa colorata in rotazione folle, muro di pigmenti e suoni acuti, anche lei si è sciolta e rotea intorno a lui, come una casa di legno sbranata da un ciclone e lui nell’occhio fermo a guardarla. Tutto scappa, tutto l’esistente s’è sciolto e rotea impazzito e finirà come sasso da fionda fuori da ogni sua esperienza e lascerà solo il suo attonito essere solo, il nulla, glielo lascerà lì, attorno alle braccia. Una goccia d’acqua, lasciata da quell’azzurro, come estranea a tutto questo, cade a normale velocità dal suo occhio, seguendo docile la forza di gravità. Una lacrima. Tocca il pavimento e la massa in rotazione si ferma e senza sbavature ritorna mondo, strada, giorno, finestra, aria, stanza, lei, BASTA. Ma ora BASTA è solo una parola, si perde nelle sue orecchie, mentre le gambe, le braccia, le mani, la pancia, l’amore stanno tornando a velocità normale, muovendo passi verso di lei, seguendo docili la legge di gravità, andandole serenamente incontro solo per un abbraccio. 139


I TORI DELL’INFERNO Tutti i tori del mondo. Tutti i tori del mondo potessero correre insieme in unica radura in unica direzione contro un unico uomo. Tutti i tori del mondo tra la polvere e la terra che trema squassata dai loro unghioni antichi. Tutti i tori correrebbero come volendo mangiare diventati carnivori. Correrebbero volendo divorare quell’unico uomo solo. E la Terra squassata cederebbe ai loro unghioni antichi, cede, cede, cede, e pian piano si sfarina e forma immense discese verso i finali fuochi interni e l’uomo inciampa, quasi cade, cade tra macigni che crollano e zampilli che s’alzano. Corrono uomo e tori e discendono forsennati nelle terre spalancate della Terra. I sensi esplosi – esplosi nella terra incrostatasi sulla pelle, esplosi nel sudore che palpita sotto la terra incrostatasi sulla pelle, esplosi nell’anidride che esce da polmoni per accendersi subito contro l’aria di fuoco, esplosi nelle gambe che pestano per salvarsi una terra che le inghiottirà, esplosi negli occhi – l’uomo corre rincorso da tutti i tori del mondo diventati carnivori. Una polverosa mano nera che rincorre nervosa un lucido puntino nero sopra oceani in tempesta di fuoco e rocce. E scendono sfrenati, e scendono nel rumore di tutte le parole di tutte le popolazioni di tutta la storia dell’umanità urlate a squarciagola dagli unghioni dei tori nelle sue orecchie umane. E mentre scivolano verso l’inferno tra gole che s’aprono in continuazione davanti a loro, nella crosta della Terra, le pareti di granito che precipitano mostrano in lontananza Atlantide e poi Mu e poi Lemuria e poi svelano nel caos gli antichi dei seminatori seduti tra menhir alti come l’Himalaya fatti di 140


carni umane e segni e poi ancora s’aprono i cieli dimenticati di Babele e di Akakor, e ancora gigantesche astronavi dorate impolverate delle polveri di Andromeda e là in fondo Zeus tra alberi d’infinita altezza e un immane Saturno che vuol divorarlo sbucato da un buio mai visto e poi ancora, correndo, flotte di croci grandi come pianure, gocciolanti sangue, a volare sopra città in fiamme e giù ancora più giù tra stigi e leti tra demoni danzanti e morti urlanti e poi giù ancora più giù tra cieli e sole sempre più lontani e nuove gole sempre più oscure, giù, giù sino ad arrivare nel buio del buio, nella morte d’ogni luce, nella fine d’ogni fuoco, NEL BUIO, sempre caracollando davanti all’urlogalassia del fiume dei tori che corrono affamati da millenni di carne negata e poi ancora un buio più buio, un nero mai immaginato, un vuoto disperato, il senso della Fine e, in quel momento un velo, un profumo di donna, lo sfiorano, e una pace che esplode, il suono della vita-che-dà-morte dei tori che si scioglie veloce come talco e si fa eco e il silenzio, il fermarsi, il respiro, la pelle, la vita, gli odori, la luce che cresce, l’erba che spunta, i fiori che sbocciano, le acque che scorrono, i soli che sorgono, le strade che portano, i cani che giocano, una mano che ti prende.

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VACUUM Lasciai la pelle appesa ai bordi della doccia, l’acqua calda a fumare, e volai fuori dalle mura. Le parole, tutte le parole del mondo si attaccavano alla mia carne rossa viva. Camminavo sulle acque delle esperienze e tutte le parole si agganciavano ai miei rossi muscoli vivi. Volavo tra i vortici di vite che salgono sugli autobus sdegnandosi d’essere e le mie rosse cicatrici calde marchiavano loro a nuovi simboli cremisi che camminano. Ma essi sorridevano a sé tramite gli altri e di nuovo s’imbiancavano. Allora vibrai verso le nuvole pacificate, ma tutte le parole dette in quel secolo circolavano ancora nell’aria, mi stanavano significati per sterilizzarli, mi facevano l’occhiolino tra le gambe di una valletta vuota e minacciavano cataclismi. Provai a salire al sole, ma tutte quelle parole vampiro mi assalirono e mi frullarono i muscoli come piranha un turista e mi fecero d’ossa. Volai allora, come bianco gesso che scrive, tra le aule e gli uffici, cercando ancora di segnare da me le parole da poter leggere da me, ma tutte quelle vecchie parole parassite erano anche lì e si appiccicavano alle mie ossa estraendo midollo… 142


vacuumizzandomi... Poi passai friabile tra libri e video e ancora loro, le parole-non-morte, mi polverizzarono, gridando per la Terra ‘vittoria!’, e fui vento. Mi rinchiusi soffiandomi nei miei pensieri, ma trovai loro pure lì... Oramai invaso il mio svuotamento, tutto il vuoto delle parole del vecchio secolo mi sbriciolò ogni molecola del mio passato. Tornai a casa, di nulla, e passai per la finestra, passai per il bagno, passai sulla mia pelle grinzosa sotto la doccia, passai per l’acqua aperta e defluii, puro rumore, scaricato a me stesso un poco torbido.

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AMMMORE Tagliò la torta di panna e la cucina s’atomizzò. Sorrise e il sole si strappò dalla notte e tornò giorno. Disse vieni qui e si levò la veste, se la levò all’infinito, ogni volta una veste diversa, tutte le vesti vestite da lei e da lei da piccola e da sua madre e da sua madre da piccola e da sua nonna e dalla mamma della nonna e si levò un panier del Settecento e una cotta fiorentina rinascimentale, un iromuji di una geisha del periodo Heian e poi il calisiris di Celopatra, ogni movimento di braccia un vestito che cade e la pelle che si rinnova, ogni movimento di braccia un tessuto che vola e seni che nascono e intorno a quelle braccia che s’aprono e riaprono milioni di volte scie di vite vissute, di foto ingiallite, di lettere sbiancate, di tavole imbandite, di storie narrate, di famiglie abbracciate, scie cinematiche d’amori e passioni, di gioie e illusioni, di lenzuola che danzano, di respiri che si gonfiano, scie accese dal movimento d’ala sullo schermo di pulviscolo, scie subito disperse nell’aria da una nostalgia a refolo. Rise e si gettò sul letto e il materasso la mangiò, donna ridens, e la risata di lei era così piena di vita che fece esplodere il materasso esplodere la stanza esplodere il palazzo esplodere la città esplodere le nuvole esplodere il cielo esplodere la galassia esplodere il cuore di chi l’amava come fiori sbocciati a velocità accelerata uno sopra l’altro che arrivarono a Dio che li raccolse con due dita enormi e delicate 144


che li porse a lei, lei che era nella stanza da letto, nel letto, nell’abbraccio, nei baci di di lui, li porse a lei ed erano ora i suoi occhi aperti, dai mille colori, che dicevano sÏ.

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TROPPA Al primo sospiro le palpebre si chiusero... Gettatosi sul divano a fine giornata, giornata trascinata, ingolfata, fastidiosamente troppa, approfittando d’una forza di gravità meritata, si lasciò andare. Al secondo sospiro si chiusero tutti i pori e la pelle divenne di cerata. Che, al terzo sospiro, si inspessì violentemente, divenne di un metro e lo schiacciò sciogliendolo dentro. Sempre più massa compatta rosa, sempre più pesante, si auto-gravava. Dall’interno di sé sentiva solo il proprio respiro: i pensieri stavano pian piano allontanandosi, come musica da una macchina a finestrini aperti che. in prima. se ne va. Quindi il divano si aprì, ma non per rompersi, per inghiottirlo e finì sotto, nel dentro e poi i suoni cambiarono e il sotto divenne l’intorno e lui acquisì altra materia e divenne il divano. Ma non gli bastava, voleva più gravità. Senza pensare se non, lento, attraverso il naso, sospirò ancora e divenne piastrelle, tutte le piastrelle del salotto e cemento e acciaio, le intere fondamenta e poi tutta la terra sotto casa e poi concrezione inerale amplissima. Ristette un’eternità e un attimo, poi ancora inspirò. All’espirare aggiunse un salto e cadde a fondersi con una roggia d’acqua buia e silenziosa e lì si sciolse, correndo senza sforzo, liquido e senziente, sotto il paese. Corse sempre più veloce con un rumore lieve e giocoso e coprì l’intera mappa della provincia, l’intera mappa della regione, l’intera mappa della sua vita e toccò tutte le fondamenta delle case, tutti i binder delle strade e tutte le radici, grandi e filiformi, dei boschi dove avesse mai colto ricordi e lì risalì vaporizzandosi e divenne schermo fatuo su cui si proiettavano antiche immagini solo sue, proiezioni d’un tempo solo suo; struggendosi ai ricordi, si brinò negli angoli, velò le ombre, si ammorbidì in rugiada e gocciolò giù. Impregnò il terreno e, a ogni sussulto d’emozione, si assottigliava e s’allargava. Bagnò posti appena visti, s’adagiò in squarci di mondo che aveva solo sognato. Coprì come invisibile carezza di pianto l’intera crosta terrestre. Giunse alla commozione di raggiungersi al Polo, vedendosi. Un sospiro sottile ancora sotto la Luna e si riavvolse veloce feroce tenace 146


fino a risucchiarsi ed esplodere dal divano, gettato lĂŹ stanco dopo una giornata troppa.

Sospirò.

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L’UCCELLO DEL PENSIERO È l’uccello del pensiero, è piccolo come una virgola e vola attraverso il cranio dei passanti. Attraversa loro come piccolo vapore rosso in frenetico movimento e ne esce un pochino più grosso, i pensieri della persona diventati piume. A ogni passaggio diventa più grosso e più lento. I pensieri vibrano all’aria, ravvicinati uno all’altro come barbule di piuma, pensieri che si parlano addosso con vocine piccole ed elettriche, vibrano sulle sue ali tutti eccitati e l’uccello rosso attraversa un’altra persona. Sono passati mesi ed è grande come un viso e raccoglie anche i dolori e le paure. Le espressioni delle facce gli si raccolgono sulla parte superiore del piumaggio colorandolo di azzurri e grigi e verdi, una punta anche di bianco qua e là. Un’intera via trafficata attraversata per un intero anno ed è grande come un busto. Agile, si porta addosso, quando esce dalle schiene, amori e odi, i cuori interi. Si colora di nero e di gialli di diversa gradazione e continua ad attraversare persone, perché questo è il suo destino. Dopo sei anni è alto come un piano americano, dalla testa al ginocchio, e così trattiene e porta a sé, il corpo rete da pesca, emozioni carnali, paure mai dette, ulcere e dolori reumatici. È imponente e assai variopinto, dal volo armonioso, ma sempre più l e n t o. Quando, il ventennio successivo, è alto come un’intera persona, cammina. Aprendo le immense ali su marciapiedi sempre più affollati, raccoglie di tutto, dai cervelli come dai piedi, dalle spalle come dagli stomaci. Quindi, un bel giorno, pesante e barcollante, ma severo e importante, quasi morale, esce dalla città e comincia a camminare sui prati. E attraversa alberi. 148


Attraversa gli alberi e lo fa per un secolo. Il piumaggio ora è di tutti i colori della natura e ogni emozione umana è scomparsa, sostituita da purissima sensazione innocente di foglia. Diventa alpe e sente la fine e l’inizio e la verità, è troppo pesante per camminare, cade. Si trascina per mille anni fino all’oceano e lì scompare. Piano piano, secondo dopo secondo, s’iniziano a disciogliere tutti i pensieri di carne, di pelo, di linfa e di roccia che ha accumulato su di sé. Quando, nel tempo infinito, dei dalle immense ali giungono da lontane galassie sul mondo ormai vuoto, trovano l’oceano, vi mettono i piedi dentro, ma l’acqua in realtà è finalmente evaporata e l’oceano ora è l’uccello. Vi nuotano dentro, ne bevono e rimangono stupiti. Si siedono sulla riva e si mettono, per la prima volta, a raccontar storie.

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L’UOMO CHE SCONFISSE LA PROPRIA FACCIA L’uomo che sconfisse la propria faccia, quando rideva di gusto, aveva un’increspatura al centro della palla di gomma rosa chiamata testa che ricordava Shirley Temple nei film anni ‘30. L’uomo che sconfisse la propria faccia sorrideva spingendo labbra e denti contro la pelle chiusa e tesa come un palloncino e pareva sorridesse un fantasma. L’uomo che sconfisse la propria faccia diventava terribile quando s’arrabbiava, era un incrocio tra un caprone e un pezzo rotto di formaggio a pasta extra-dura. L’uomo che sconfisse la propria faccia, quando dormiva, gli si intravvedevano decine di piccola facce buffe o mostruose giragli sottopelle come tanti film proiettati su di uno schermo concavo, uno sopra l’altro. L’uomo che sconfisse la propria faccia respirava dai pori e assorbiva nutrienti appoggiando la testa sulle pietanze e piangeva all’interno. L’uomo che sconfisse la propria faccia aveva una voce e la sua voce era la voce di un personaggio piccolo piccolo chiuso dentro un libro chiuso. L’uomo che sconfisse la propria faccia però diventava rosso. L’uomo che sconfisse la propria faccia a volte diventava tutt’orecchi e faceva impressione. L’uomo che sconfisse la propria faccia a volte metteva un passamontagna per far ridere gli amici. L’uomo che sconfisse la propria faccia aveva come amici l’uomo che aveva superato ogni limite, l’uomo senza e Goffredo, che aveva sei braccia. L’uomo che sconfisse la propria faccia beveva spesso whisky con i suoi tre amici e ricordavano sempre quando andarono in un bordello, l’uomo senza era senza voglia, gli diedero una droga, divenne senza ritegno, l’uomo che sconfisse la propria faccia e Goffredo riuscirono, ridendo, a rifugiarsi in macchina, mentre l’uomo che aveva superato ogni limite non s’era tirato indietro, anzi, e l’uomo senza divenne l’uomo senza pietà per qualche minuto, poi l’uomo senza forze, poi l’uomo senza pace, mentre l’uomo che aveva superato ogni limite ne segnò un altro, sessuale. L’uomo che sconfisse la propria faccia lo fece tanto tempo fa stanco di essere, ma non di esistere. L’uomo che sconfisse la propria faccia decise così di cancellarsi e rimanere 150


contemporaneamente. L’uomo che sconfisse la propria faccia si sforzò così tanto che ci riuscì e cadde dentro sé stesso. L’uomo che sconfisse la propria faccia ogni tanto se ne pente. Si tocca con le mani, ma non sente niente.

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PRIMA ORECCHIO POI DIVERSE BOCCHE POI 2432 OCCHI Non ci fu sforzo nel diventare orecchio. Pur dondolando al primo refolo d’aria, per la conformazione arrotondata della coda dell’elice su cui poggiava, riusciva a stare retto di fronte all’Altro. In mezzo alla strada, l’Altro continuava a fissarlo, come faceva da un mese. Provò a dirgli ti ascolto, ma la bocca corrispondeva ora all’entrata del padiglione esterno e non emetteva suoni – poteva solo accoglierli. Due week end dopo, allora, si risolse a divenire diverse bocche. Come centinaia di dentature avulse dalle rispettive facce e inglobate per ogni centimetro del suo corpo, tornato umano, in un collage tridimensionale delirante; ogni parte della sua epidermide era bocca. Provò a dirgli ti ascolto , ma le bocche avevano movimenti diversi l’una dall’altra, trasformandolo in un centro di produzione cacofonica spettrale, corpo posseduto da centinaia di demoni dementi che cercano di uscirgli dalle viscere, lacerandogli la pelle. Ristette quando constatò che, l’avesse anche detto, non aveva più posto per un orecchio. Divenne, allora, la stagione successiva, occhi, per potergli leggere le labbra. 2432 bulbi oculari coprirono le sue membra, come cappottino optical, e il suo cranio divenne un unico occhio dondolante. Ma l’Altro rimaneva impassibile. Impassibile. Impassibile. Impossibile. Chiuse gli occhi, scomparve a sé e dovette divenire utero, per poter ricominciare tutto daccapo. E così intuì che, da utero, avrebbe potuto far suo l’Altro, rinascendolo, ma non trovò seme. Divenne allora pene, ma spruzzò verso una nuvola e non servì. Senza volerlo divenne, quindi, enorme buco del culo puntato verso l’Altro – lo fece per rabbia. Se ne pentì subito e divenne colossale mano tesa, ma cadde a palmo in giù sul selciato e, muovendosi per rialzarsi e porgersi, sembrava applaudire contro l’asfalto e si sentì in imbarazzo e divenne rossore. Si diffuse allora su varie cose nei dintorni – tra cui, sull’Altro. Che, arrossito, ebbe un brivido, rinvenne dopo circa sei anni di immobilità, e bofonchiò, sudando anche un pochetto, no, niente, non era importante, per poi girare i tacchi e andarsene, lasciando il proprio 152


rossore a mezz’aria, maschera abbandonata. L’altro rossore la fece sua ed esplose e la città divenne in un attimo tutta ammantata di rosso, rosso che piano piano poi si dissolse con la notte, lasciando una fragranza, tra le finestre accese, di qualcosa di buono.

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AFFINCHÉ affinché non veniva letta da nessuno. Era a pagina 143 del 532a copia di un libro che nessuno mai apriva. Era da un’infinità di tempo al buio, sentendo solo le sottili vibrazioni delle parole vicino e addosso a lei (incartapecorita, della pagina 142, le stava schiacciata addosso da sempre) e i cupi rimbombi da oltre-copertina, nient’altro. Vedere la luce, sentire la scia di un occhio accarezzarla, magari anche una voce ripeterla facendola aria e mondo, addirittura essere toccata con un dito, rimanevano sogni irrealizzati. Una sola volta sarebbe bastata: sapere che le sue molecole d’inchiostro avrebbero lasciato una traccia, anche leggerissima, nella mente di qualcuno, anche solo per un momento fugace, poterne vedere in controluce la silhouette della testa china, sentirne addosso il respiro mentre la leggeva sottovoce, rendendole la sua stessa immagine speculare sotto forma di soffio, le sarebbe bastato. Un piccolo, grande evento così e sarebbe potuta sbiadire serenamente. Ma gli anni passavano senza aperture. Arrivò poi il giorno del macero. Caricate con violenza su camion giganteschi, sballottate per chilometri, gettate in mucchi rotti e confusi, miliardi e miliardi di parole andarono insieme alla triturazione. affinché, nonostante il trambusto, non vedeva nessuna luce, percepiva solo rumori pesanti e sordi tonfi, chiusa ancora nelle pagine serrate del libro. Il sole si accese all’improvviso quando, tra clangori metallici e stridii taglienti, fu strappata dal resto della pagina 143. La sua luce la inondò, dandole un immediato senso di pace in quella follia apocalittica che le turbinava attorno. Anche se sentiva che era finita, quel calore la riempì di gioia. 154


Gioia che si tenne stretta anche quando altri colpi, di violenza inaudita, iniziarono ad abbattersi, facendo tornare il buio. Come se la carta, la sua carta, avesse percepito quella vibrazione energetica di felicità - o forse solo per un colpo d’aria – appena tornò la luce, affinché, seppure in parte compressa, con gli altri miliardi di parole, in un cubo pressato sputato fuori da una macchina assordante, se ne staccò e prese il volo. Era di carattere piccolo e leggero, e svolazzò tranquillamente al di fuori del centro di raccolta. Volteggiò inebriata dalla luce e poté vedere l’erba e le case e i cortili e cani correre e bambini correre e subito dopo – giravolta! - le nubi, correre. Passò tra le macchine saltando su e giù frenetica per i continui spostamenti d’aria. Si posò per un attimo su di una foglia caduta e una mosca fece lo stesso su di lei, dandole la strana sensazione di essere guardata da mille occhi contemporaneamente. E poi, complice un grande autobus, fece un gran balzo e volò via con foglia e mosca. Poi ancora si ritrovò a veleggiare da sola e passò tra capelli vaporosi e nasi bbondanti e sorrisi smaglianti e, alla fine, atterrò sul davanzale grigio di un piano terreno. Un’ombra la sormontò e una mano la prese con delicatezza. Il viso grinzoso di un’anziana signora dal profumo di cipria si avvicinò a lei sino a portarla quasi attaccata alla cornea. ‘Ma guarda, disse: una parola...’. affinché, così vicina all’occhio, si vide riflessa. èhcniffa. Si chiese cosa significasse. ‘Nulla succede per caso...’ 155


Cominciò a camminare per la casa in mano alla signora. ‘Adesso ti metto in una scatolina e vediamo se arrivano altre parole!’ e si mise a ridere. affinché passò altri 10 anni in quella scatolina di plastica trasparente. Ogni giorno la signora la guardava e sorrideva. ‘Chissà da quale libro arrivi, chi t’ha scritta... in che frase eri...’ si chiedeva leggendola. ‘Dovrei leggere qualche libro, invece che guardare sempre la tivù... Magari ti trovo!’ e rideva ancora di una risata leggera da bambina. Piano piano in quegli anni si accumularono decine e decine di libri, centinaia, nella stessa stanza dove stava la scatolina. E la tivù rimase sempre più in silenzio. affinché se andò, dentro la sua scatolina trasparente, quando la signora morì. Finì in un sacco di plastica con altri oggetti, poi su di un assordante camion. Quando la plastica cominciò a sciogliersi, lei prese subito fuoco e s’incenerì. Non conobbe mai il suo significato. I libri trovati dai nipoti nella casa erano milleduecentotrentasette, a quel momento. Alla biblioteca del paese dovettero aprire un’altra sala per accoglierli. Fu intitolata alla signora.

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FALENE (Boys and Girls, 1985, Brian Ferry) ... mentre abbandono le membra su estati passate... ... apollinei futuri, di lino bianco, superfici che riflettono luci lontane... ... un globo di vetro profumato - classicità sempre, e nelle sensazioni a pelle... ... guardare lontano, oltre l’orizzonte verde del mare, la mano sopra gli occhi, caldo, secco, perfetto, stasi, à rebours... ... escludiamo complicazioni, è giusto miscelato, mai shakerato... ... risolto tutto in un’eleganza che... ... traguardo raggiunto, riposo meritato, serriamo le fila contro nuovi eventi., contro.. ... esterno-interno, interno-esterno, nulla, ma una delizia... ... se esiste un soffrire, è vestito di preziosi tessuti, giuro... una grazia Graziosamente mai raggiunta: aspro, il midollo della vita (levirtùdellepianteamare) un gesto armonioso, una sfumatura di platino, un accenno di danza sulle crude radici, sui duri asfalti - bellezza farfalle hanno un senso, anche nella sensuale, quasi buia, notte, no? perfetto 157





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