BLAH BLAH BLAH * le parole valgono

Page 1

BLAH BLAH BLAH*

*le parole valgono

Lingua e linguaggio sono termini spesso usati come sinonimi e questo perché nella maggior parte dei casi con essi si fa esplicito riferimento al sistema di segni - combinati in parole - convenzionalmente adoperato dagli esseri umani per comunicare.

p. 4

La duttilità dello strumento lingua per comunicare permea la storia della lingua stessa: le sue radici parlano di un lento e progressivo passaggio dalla forma orale a quella scritta, fno a divenire espressione di una data società e di una data cultura/etnia.

p. 14

Relatore: Paolo Caffoni diploma accademico di II livello Arti Visive e Studi Curatoriali NABA Nuova Accademia di Belle Arti anno accademico 2020/2021

L’architettura del linguaggio e della comunicazione

La convivenza di lingua e arte in un articolato - oltre che futtuante - sistema di comunicazione consente a qualsivoglia sentimento, ad ogni sorta di desiderio e soprattutto alle molteplici esigenze dell’essere umano di manifestarsi.

p. 28

“COMUNICARE ARTE”

Comunicare arte rappresenta un monito - oltre che una testimonianza - a liberare la propria voce per raccontare tout court le proprie battaglie e i propri ideali sperimentando ogni forma di comunicazione possibile.

p. 10

Lingua e Linguaggio andata e ritorno L’etnia e la forma di una lingua Francesca Liantonio 1802AV

Usando una metafora si potrebbe a ermare che gli esseri umani sono parole.

Editoriale

Nel corso del tempo uomini e donne hanno prodotto e continuano a produrre un’immensità di parole a sostegno del fatto che le parole/lingua rappresentano lo strumento più duttile con cui comunicano, si identifcano, si riconoscono: sono!

Ogni lingua corrisponde ad un codice verbale in cui e attraverso cui si realizza la facoltà del linguaggio che - a sua volta - consente di trasmettere, conservare ed elaborare informazioni.

Il termine linguaggio indica anche qualsiasi sistema di segni adoperato per comunicare: si parla, ad esempio, di linguaggio della matematica, del corpo, dei computer, del cinema, della musica, della pittura o più in generale di “linguaggio dell’arte” con cui si tende a sottolineare come anche l’arte - nelle sue più svariate manifestazioni - si propone come forma di comunicazione e di conseguenza è portatrice e/o custode un messaggio.

È possibile dunque istituire un parallelismo che vede percorrere - sia l’arte che la lingua - la strada delle innumerevoli metamorfosi che attraverso il tempo e lo spazio esse hanno subito e continuano a subire. Le periodizzazioni, le teorie, le note di costume testimoniano la complessità con cui questi due fenomeni umani - lingua ed arte - si rincorrono e si modifcano per raccontare l’intera storia della civiltà umana, della quale sono una straordinaria manifestazione.

È un patrimonio enorme attraverso il quale leggere il passato, comprendere i modi espressivi delle culture presenti, guardare con occhi nuovi il futuro; il tutto per rifettere sulla necessità degli esseri umani di esprimere sentimenti, ideali e principi: i messaggi intrinseci di artisti/parlatori accendono l’immaginazione, formulano nuove idee, nutrono nuovi desideri.

Questo il presupposto per leggere i tre contenuti di “comunicare arte” corrispondenti ad altrettante produzioni di artiste visive. Jenny Holzer, Barbara Kruger e Ketty La Rocca, sullo sfondo di rivoluzioni sociali e identitarie, futtuano tra poesia e avanguardia, messaggio estetico e comunicazione pubblicitaria: esse fanno parte della prima e della seconda generazione - anni ‘60 e ‘80 - di artiste/poetesse che si sono dedicate alle ricerche verbo/visuali.

Analizzare il lavoro di solo tre artiste, e di tre artiste donne, manifesta - pur nella consapevolezza di non essere esaustiva - l’intento di rifettere su un ambito di produzione costantemente in secondo piano rispetto alla storiografa tradizionale e ai grandi artisti uomini considerati più autorevoli e degni di nota.

Il tutto per sviluppare e sostenere la tesi che il linguaggio verbale e visivo vivono in stretta correlazione, si integrano l’uno con l’altro costantemente sia in campo artistico/visuale che letterario; i due codici - verbale e visivo - dialogano tra loro in modi del tutto inediti, in un connubio tra parola e immagine che genera opere d’arte totali e sinestetiche.

BLAH BLAH BLAH * le parole valgono - dal suono onomatopeico del blaterare, dallo straparlare irrefrenabile di chi interviene su tutto a dir la sua - è un’indagine sui linguaggi, una raccolta di teorie, fatti storici e ricerche verbo-visuali. Vuole essere, nel suo piccolo, uno spaccato di poesia visiva.

REPORT

La ricerca condotta in queste pagine ha permesso di approdare alla consapevolezza che la cultura visuale colloca sullo stesso piano il linguaggio e le immagini riconoscendo ad entrambi la stessa capacità di interpretazione della realtà e lo stesso potenziale comunicativo.

p. 41

DESCRIZIONE DEL PROGETTO

L’intero progetto sublima una corrispondenza voluta: far coincidere i testi della ricerca con i testi del giornale per raccontare di un fenomeno - quale quello della “comunicazione artistica” - in cui c’è un accordo perfetto tra parola e immagine.

p. 44

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Le fonti a cui si è attinto per la presente ricerca sono elencate secondo l’ordine con cui sono state consultate, piuttosto che secondo un ordine alfabetico.

p. 48

3

LINGUA E LINGUAGGIO ANDATA E RITORNO

LINGUAGGIO:

ESSENZA DELLA LINGUA

I popoli della terra parlano un gran numero di lingue diverse ma è pur vero che tutte le lingue particolari hanno qualcosa in comune: il linguaggio. Il linguaggio è - per defnizione - il fondamento comune delle molteplici lingue naturali Spesso si usa il termine linguaggio per indicare qualsiasi sistema di segni adoperato per comunicare; alcuni di questi sistemi di comunicazione sono artifciali, come il linguaggio dei computer; altri, come il linguaggio dei gesti o del corpo, sono naturali. In ogni caso però non si tratta di linguaggio vero e proprio. Quest’ultimo è esclusivamente la base comune delle varie lingue naturali parlate dagli uomini1; solo gli esseri umani parlano vere e proprie lingue perciò il linguaggio è tipicamente umano

Il linguaggio viene anche fatto corrispondere a quella facoltà dell’uomo di comunicare ed esprimersi per mezzo di suoni articolati, organizzati in parole, atte a individuare immagini e a distinguere rapporti secondo convenzioni implicite, che variano nel tempo e nello spazio. In tal senso esso è il sistema di segni più adoperato dagli uomini per comunicare con gli altri uomini: esso presenta tratti distintivi irrinunciabili in un processo di comunicazione degno di tale nome2

Non ultimo il linguaggio viene identifcato con la facoltà umana di tradurre i pensieri e i sentimenti in parole, comunicabili attraverso un sistema convenzionale di segni verbali cioè la lingua

TRA PAROLE E LANGUE

La lingua è - di conseguenza - l’attuazione storica determinata nello spazio (italiano, inglese, francese, spagnolo, tedesco, ecc.) e nel tempo (italiano del Trecento, dell’Ottocento, ecc.) della facoltà universale del linguaggio Tuttavia lingua e linguaggio conservano un tratto peculiare: le lingue particolari compaiono e scompaiono sulla scena della storia, il linguaggio - la base comune di queste linguenei millenni è rimasto sostanzialmente immutato. Dunque il linguaggio tende a essere non solo universale ma anche perenne ed il segreto di questa longevità risiede nel fatto che esso presenta una struttura sistematica di tipo gerarchico, vale a dire che è composto da un insieme di elementi, di unità, che sono in rapporto tra loro secondo regole stabilite. Questa struttura sistematica è stratifcata in modo da comprendere più sottostrutture disposte l’una sull’altra come i piani di un edifcio che vanno dal livello più elementare dei suoni a quello più complesso delle parole, per raggiungere quello ancor più complesso delle frasi e dei discorsi. Anche la lingua si caratterizza come l’insieme di convenzioni (fonetiche-morfologiche rispetto alla forma e sintattiche-lessicali rispetto al signifcato) necessarie per la comunicazione orale e l’espressione scritta fra i singoli appartenenti a una stessa comunità etnica, politica, sociale.

Saussure3 ha distinto - inoltre - all’interno del linguaggio la parole (in italiano parola) - momento sostanziale in cui il singolo individuo concretamente comunica - come atto linguistico del singolo parlante, e la langue (in italiano lingua) - sistema formale di regole condiviso dalla massa parlante - come sistema di segni storicamente defnito4

Per lo stesso autore all’interno del linguaggio c’è un lato variabile, tale per cui ogni parlante si esprime in modo diverso, e un lato invariante, codice astratto e sociale che - trascendendo la volontà del singolo - garantisce la riuscita della comunicazione.

Parole e langue sono in relazione dialettica: la parole ha bisogno di una lingua per manifestarsi e la langue, a sua volta, non potrebbe esistere se non come risultante fnale delle singole parlate individuali. Lo scarto tra parole e langue determina lo stile

Lo sviluppo del linguaggio, l’uso del linguaggio - nonché della comunicazione - dipende da vari fattori; per il linguista americano Chomsky5 l’acquisizione del linguaggio dipende da programmi innati6 sebbene ci siano altri numerosi fattori che - secondo altri linguisti - incidono sullo sviluppo linguistico e comunicativo.

La convinzione secondo la quale il linguaggio dipende interamente dai processi cognitivi e quella secondo la quale il linguaggio è solo in parte infuenzato dai processi cognitivi sono state oggetto di una vivace disputa sostenuta da due illustri studiosi del pensiero del ‘900, vale a dire lo psicologo dello sviluppo Piaget7 e lo stesso Chomsky.

NOTE

1 Gli animali comunicano tra loro, ma senza adoperare lingue.

2 Charles Francis Hockett (17 gennaio 1916, Columbus, Ohio, Stati Uniti - 3 novembre 2000, Houston, Texas, Stati Uniti), linguista americano che ha sviluppato molte idee infuenti nella linguistica strutturalista americana, ha individuato proprio questi tratti distintivi - 16 - tra i quali: l’arbitrarietà (il signifcato dei segni del linguaggio non è necessariamente in rapporto di somiglianza con la loro forma concreta); il distanziamento (è la possibilità di parlare di cose non presenti qui e ora); la prevaricazione (si può parlare di cose non reali, ma ipotetiche o immaginarie e assurde); l’apertura (col linguaggio possiamo esprimere un numero illimitato di cose); la rifessività (si può parlare del linguaggio stesso, adoperandolo in funzione metalinguistica).

3 Ferdinand de Saussure (26 novembre 1857, Ginevra, Svizzera - 22 febbraio 1913, Vuffens-leChâteau, Svizzera) - linguista e semiologo svizzero - è considerato uno dei fondatori della linguistica moderna, in particolare di quella branca conosciuta con il nome di strutturalismo.

4 Questa dicotomia è alla base delle prime ricerche semiotiche strutturaliste.

5 Per Noam Chomsky (7 dicembre 1928, East Oak Lane, Filadelfa, Pennsylvania, Stati Uniti) - linguista, accademico, anarchico, scienziato cognitivista, teorico della comunicazione, attivista politico e saggista statunitense - esistono meccanismi neurofsiologici, basati sulla struttura e il funzionamento del cervello e operanti già dalla nascita, che pianifcano lo sviluppo del linguaggio come un programma di un computer ne predispone il lavoro: LAD - Language Acquisition Device.

6 Più esattamente si parla di fattori biologici e di fase sensibile per l’apprendimento del linguaggio inteso come periodo biologicamente programmato in cui l’organismo è predisposto ad acquisire il linguaggio.

7 Jean Piaget (9 agosto 1896, Neuchâtel, Svizzera - 16 settembre 1980, Ginevra, Svizzera) - psicologo, biologo, pedagogista e flosofo svizzero - è il fondatore dell’epistemologia genetica, ovvero dello studio sperimentale delle strutture e dei processi cognitivi legati alla costruzione della conoscenza nel corso dello sviluppo.

IL CONTESTO SOCIALE

Una funzione di grande rilievo per lo sviluppo del linguaggio è svolta dal contesto sociale8, come è stato dimostrato da un’altra serie di ricerche: ad esempio lo sviluppo del linguaggio è infuenzato dalla classe sociale di appartenenza9 Soprattutto attraverso il rapporto con gli adulti, nella famiglia e poi nella scuola, il bambino non solo mette in azione le proprie operazioni mentali - processi cognitivi - ma può allenarli e ampliarne le possibilità: la mente di un bambino, senza l’interazione con l’ambiente sociale, sarebbe una mente “povera”.

Fu il sociologo inglese Bernstein10 ad analizzare la società inglese con riferimento esplicito al linguaggio della classe media (MC = Middle Class) e a quello della classe operaia (LWC = Lower Worker Class) per approdare ai cosiddetti stili di comunicazione in relazione alla classe sociale di appartenenza11

Per alcuni psicologi tuttavia gli stili di comunicazione rifettono modalità diverse di comunicare nei vari gruppi sociali (o all’interno di uno stesso gruppo), piuttosto che carenze linguistiche di origine sociale12

Il ruolo dei fattori sociali nello sviluppo dei processi cognitivi è stato messo in evidenza soprattutto dagli psicologi sovietici, a cominciare da Vygotskij13, ed è ormai riconosciuto come fondamentale anche da quegli psicologi che studiano in particolare la struttura di questi processi senza indagare le variabili (organiche e sociali) che ne infuenzano lo sviluppo ontogenetico.

Soprattutto nello studio dell’integrazione tra pensiero e linguaggio è possibile individuare per Vygotskij l’importanza del contesto sociale in cui si sviluppa la mente14

6

PROCESSI E PRODOTTI DELLA COMUNICAZIONE

Infne - ma non meno importane - occorre chiarire che nei processi comunicativi la comunicazione va reinterpretata come enunciazione: sono considerati testi non solo quelli costruiti appositamente a scopi comunicativi (un libro, un flm, un quadro, una lezione…) ma anche ciò che non si presenta esplicitamente sotto forma testuale come ad esempio l’articolazione degli spazi in una città, il design dei prodotti di consumo, le microazioni che si svolgono in un ascensore, i percorsi dei viaggiatori di una metropolitana, i rituali di una festa popolare, i social network.

Tutti questi elementi veicolano dei contenuti attraverso il loro discorso e si esprimono attraverso un proprio linguaggio.

Il discorso è esso stesso un fenomeno che racchiude il processo comunicativo e quindi le strategie comunicative messe in atto per veicolare determinati contenuti e il modo di enunciarli, il suo prodotto, gli attori che lo producono, la traccia del processo e degli attori all’interno del prodotto stesso. Ogni prodotto comunicativo presuppone qualcuno che lo ha comunicato (voluto, pensato ed emesso per qualche scopo) e qualcuno verso il quale esso è diretto.

Per la semiotica qualsiasi fenomeno umano e sociale è reinterpretabile come un testo; tuttavia sono i testi linguistici, legati alla forma di comunicazione verbale, ad essere stati privilegiati per lungo tempo dalla specie umana poiché ritenuti di gran lunga più adatti e/o duttili a veicolare la maggior parte dei messaggi espliciti.

Per questo tali testi hanno acquisito nel corso della storia occidentale un ruolo di primo piano: da una parte la lingua specializza le proprie capacità espressive ricorrendo alla comunicazione letteraria e il testo fnisce per essere solo quello delle opere di letteratura; dall’altra il campo d’azione della comunicazione umana si è fatto sempre più ampio della sola dimensione letteraria e di quella linguistica in generale. Ciò conferma quanto sostenuto dalla linguistica15 - e dagli studi di psicologia cognitiva - secondo cui la capacità di comunicare è antecedente all’acquisizione e alla capacità di uso del linguaggio. Per tanto prima ancora di comunicare con la lingua - parlata e/o scritta – l’essere umano adopera altri strumenti per comunicare, tra i quali anche la comunicazione non verbale (CNV). Anche quando l’individuo approda all’uso del linguaggio e quindi alla comunicazione verbale (CV), questa non soppianta mai del tutto le altre forme di comunicazione: esse continuano a coesistere, ad intrecciarsi; ci saranno sempre situazioni comunicative che vedranno prevalere ora l’una ora l’altra a seconda del contesto e delle persone che interagiscono.

Imparare a comunicare signifca infatti praticare tutte le varie forme strutturali di comunicazione tipiche della civiltà in cui si vive.

TRA CONVENZIONE E ISTITUZIONE

Linguaggio, lingua e comunicazione costituiscono dunque processi cognitivi - per la psicologia - distinti eppure strettamente connessi in termini di funzionamento e sviluppo; in termini sociologici invece Durkheim16 ha elaborato una defnizione univoca secondo la quale il linguaggio è esso stesso una istituzione sociale e - in quanto tale - percepito dalle persone come esterno e coercitivo rispetto alla loro volontà e ai loro desideri. In quest’ottica il linguaggio/lingua è una convenzione sociale, un tipico esempio di istituzionalizzazione di norme sociali, cioè di quel processo attraverso cui comportamenti verbali ripetuti e condivisi da tanti membri della società si cristallizzano in regole da rispettare17

È questa una visione ingessata della lingua secondo la quale l’individuo sembra avere poca libertà d’espressione e d’azione: una pedina che ripete inconsapevolmente quanto dettato nei codici sociali. Ovviamente è una posizione criticata e criticabile in nome delle capacità inventive e delle realizzazioni creative e delle possibilità comunicative dei singoli parlanti.

Sta di fatto che come non può essere negato il potenziale creativo del linguaggio, parimenti non può essere negato il suo ruolo nella defnizione della società e nella generazione della realtà: esso si concretizza nelle lingue che, a loro volta, consentono alle comunità umane di comunicare insieme, di progredire collaborando ma anche di esercitare un potere da parte di alcune su altre.

Si tratta di riconoscere che tutte le realizzazioni dell’umanità, sia quelle positive sia quelle negative, comportano l’uso del linguaggio. L’essere umano utilizza il linguaggio in più modi: per rappresentare le più svariate esperienze (in questo caso si parla di attività del ragionare, del pensare, del fantasticare, del raccontare); adopera il linguaggio per trasmettere il personale modello o la personale rappresentazione del mondo; non ultimo usa il linguaggio per comunicare: in questo caso lo si chiama parlare, discutere, scrivere, tenere una lezione, cantare.

Se si tiene conto di quelle realizzazioni negative di cui sopra nonché della percezione coercitiva che ciascun individuo ha del linguaggio/istituzione, allora non si può prescindere dal considerare quell’aspetto singolare eppure preponderante del linguaggio/lingua: esso è strumento di potere. Non è un caso se proprio attraverso la lingua si è sempre giocato il potere dei conquistatori, dei colonizzatori, degli imperi.

8 L’attenzione degli studiosi è rivolta soprattutto a due fattori: i genitori e gli adulti in genere e il livello sociale

9 I bambini delle classi più povere incontrano maggiori diffcolta ad impadronirsi della lingua standard del proprio paese e ciò probabilmente per il diverso clima linguistico in cui i bambini crescono.

10 Basil Bernard Bernstein (1 novembre 1924, Regno Unito - 24 settembre 2000, Londra, Regno Unito) - sociologo britannico noto per il suo lavoro nella sociologia dell’educazione - ha lavorato sulla socio-linguistica e sulla connessione tra il modo di parlare e l’organizzazione sociale.

11 I parlanti della “classe bassa” avrebbero un “codice ristretto” rispetto ai parlanti della “classe media” dotati di un “codice elaborato”.

12 Ad esempio quando si parla con gli amici si adopera o si può adoperare una forma di linguaggio, un gergo, che è diverso dal linguaggio usato con altre persone nella scuola o nel posto di lavoro. I contenuti del pensiero possono quindi assumere forme linguistiche diverse in uno stesso individuo in relazione al contesto sociale.

13 Lev Semënovič Vygotskij (17 novembre 1896, Orša, Bielorussia - 11 giugno 1934, Mosca, Russia) - psicologo e pedagogista sovietico, padre della scuola storico-culturale, defnito il “Mozart della psicologia” - è rimasto sconosciuto in Occidente fno al 1962, anno nel quale venne tradotta in inglese la sua opera “Pensiero e Linguaggio”. Solo negli anni ottanta è cominciata una ricostruzione critica della sua opera: la teoria dello sviluppo sociocognitivo.

14 Infatti per Vygotskij queste due funzioni mentali differenti ed indipendenti, cominciano ad intersecarsi verso i due anni di età; più esattamente per l’autore il linguaggio è una funzione interpsichica perché mette in relazione una persona con un’altra; solo successivamente diventa una funzione intrapsichica poiché consente di organizzare interiormente il proprio pensiero. Il linguaggio esteriore, che viene usato quando si parla con un’altra persona, è disteso e completo sul piano grammaticale e sintattico; il linguaggio interiore invece è frammentario, abbreviato, contratto tanto da apparire senza senso a degli ascoltatori.

15 La linguistica è lo studio delle lingue, nella loro storia, nelle loro strutture e nei loro rapporti con la storia della cultura. Ne esistono di vari tipi: linguistica areale (geolinguistica); linguistica cognitiva (che studia la rete delle conoscenze presupposta ad ogni enunciato o discorso e le modalità con cui le reti di conoscenze si modifcano); sociolinguistica (lo studio sociologico dei fatti linguistici, basato sull’analisi delle interrelazioni esistenti tra organizzazione e funzionamento della società umana e l’organizzazione e il funzionamento del linguaggio verbale); psicolinguistica (studio dei processi psichici che consentono la produzione e la comprensione del linguaggio a partire dall’età evolutiva).

16 Émile Durkheim (15 aprile 1858, Épinal, Francia - 15 novembre 1917, Parigi, Francia) - sociologo, flosofo e storico delle religioni - ha contribuito alla costruzione, nel corso del XX secolo, della sociologia e dell’antropologia, avendo intravisto con chiarezza lo stretto rapporto tra la religione e la struttura del gruppo sociale.

17 Va precisato anche che nelle interazioni sociali sempre il linguaggio verbale si accompagna ad una parallela comunicazione non verbale: mentre il linguaggio verbale è particolarmente adatto a trasmettere pensieri e/o ideologie e a descrivere fatti, la comunicazione non verbale è più adatta a trasmettere emozioni, sentimenti e a segnalare i ruoli e le posizioni sociali (uno sguardo di disapprovazione può essere molto più effcace di un lungo discorso).

7

IL POTERE DELLE PAROLE

La storia insegna che l’assimilazione e l’assoggettamento sono passati attraverso l’imposizione della lingua: questa volta non per comunicare ma per controllare, anzi per dominare.

Per Bell Hooks18 è il caso della lingua inglese adoperata dall’oppressore nelle colonie: essa è diventata il linguaggio per eccellenza della conquista, del massacro e del dominio Contemporaneamente la lingua inglese è stata anche la maschera che ha nascosto la perdita di un gran numero di altre lingue in quanto il colonizzato - ridotto in schiavitù - se ne è appropriato per farne uno spazio di unione, uno strumento di resistenza. Gli oppressi hanno adoperato l’inglese - un inglese ribelle - come lingua condivisa per costruire una nuova comunità, per superare i confni della conquista e del dominio, per farne una contro-lingua19

Si era così disvelato in tutta la sua grandezza il potere delle parole, il legame tra lingua e dominio.

A conferma di ciò lo stesso Winston Churchill20 - il 6 settembre 1943 - in un discorso agli studenti di Harvard affermava: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente”.

Infatti l’affermazione di una lingua su altre, oltre a portarsi dietro particolari modelli culturali e pragmatici, è una delle più effcaci strategie di egemonia culturale oltre che economica, di depauperamento delle culture locali.

La colonizzazione linguistica è una forma sottile di “omologazione”21; attraverso l’uso della propria lingua il colonizzatore mira a far prevalere il proprio punto di vista orientato ideologicamente, mira a consolidare un’egemonia politica oltre che culturale, riesce a deformare anche l’immagine geopolitica del mondo collocando l’occidente in una posizione di superiorità. Ne consegue la cancellazione della voce/lingua e della soggettività del colonizzato, la sua condizione di inferiorità, i suoi complessi psicologici e soprattutto quello che viene chiamato effetto mimicry22

colpiva al cuore della questione quando scriveva che il francese, l’inglese e il portoghese, sono le lingue uffciali di quelli che ormai da tempo sono Stati sovrani, e che quando hanno conquistato l’indipendenza non hanno riconquistato il diritto alle proprie lingue, e con esse, al proprio passato, alla propria specifca cultura. Come si sa la lingua non trasmette solo concetti, ma è legata alle esperienze specifche di popoli e comunità e abbandonando la lingua non si fa altro che abbandonare le proprie radici e peculiarità per acquisire altri modelli di vita e di pensiero. Robert Phillipson24 sostiene che, attraverso la diffusione dell’inglese come lingua dominante nei processi di comunicazione, si sta assistendo a un “genocidio linguistico”: negli Stati Uniti, paese estremamente multilingue (quelle dei nativi americani sopravvissuti, o delle popolazioni originarie del nordamerica, o dei moltissimi immigrati), si agisce per rendere il paese monolingue, e ovviamente utilizzare una sola lingua per tutti gli ambiti uffciali, secondo la menzognera equazione internazionalizzazione = englishness25 Dopo numerosi anni di ricerche sul campo, il linguista David Crystal ha lanciato una profezia inquietante secondo la

8
Joseph Ki-Zerbo23

quale nel giro di due secoli, nel mondo, si parleranno soltanto tre lingue: cinese, inglese e spagnolo27

Infne occorre riferire del fenomeno di “ricostruzione” del linguaggio che utilizza e miscela alle lingue storicamente imposte (europee) forme tutte nuove e originali: il pidgin28, per esempio è tutta quella lingua parlata che nelle diverse aree si arricchisce di forme e parole locali; una sorta di ribellione delle lingue vernacolari, di resistenza alla lingua dell’oppressore fatta in maniera naturale.

Succede allora che ci sono situazioni, ambienti e luoghi dove si parlano le lingue uffciali, ma nello stesso tempo queste lingue quasi non si riconoscono, mescolate come sono a modi di dire propri di quel posto, di quella cultura, di quella popolazione: queste lingue diventano una sorta di contro-lingua che mira a contrastare l’egemonia dell’oppressore, a raggiungere la libertà nel linguaggio, a stabilire una solidarietà di popolo, ad esprimere molto di più rispetto alla realtà dominante.

È la maniera per far riemergere il potere di quella parola così importante che si chiama identità

18 Bell Hooks è lo pseudonimo con cui è conosciuta la scrittrice, attivista e femminista statunitense Gloria Jean Watkins (25 settembre 1952, Hopkinsville, Kentucky, Stati Uniti). Tale nome deriva da quello della bisnonna materna, Bell Blair Hooks. Il focus della sua scrittura è l’intersezionalità di razza, il capitalismo, il genere e la loro capacità di produrre e perpetuare sistemi di oppressione e di dominio di classe.

19 Hooks, Bell (1994), Teaching to transgress. Education as the Practice of Freedom. Routledge, Taylor & Francis Group, London, pp. 167-175.

20 Sir Winston Leonard Spencer Churchill (30 novembre 1874, Blenheim Palace, Regno Unito - 24 gennaio 1965, Kensington, Londra, Regno Unito) - politico, storico, giornalista e militare britannico - è stato Primo ministro del Regno Unito dal 1940 al 1945 e nuovamente dal 1951 al 1955.

21 Lo facevano gli antichi romani quando assoggettavano i popoli; lo faceva il fascismo quando imponeva l’italianizzazione dei nomi in patois dei paesi della Valle d’Aosta oppure con la massiccia immigrazione di italiani nell’Alto Adige.

22 L’effetto mimicry descrive la relazione ambivalente tra colonizzatore e colonizzato; il soggetto coloniale tende ad imitare il colonizzatore adottato il suo linguaggio, la sua cultura, le sue convinzioni, i suoi valori con il risultato di una copia sfocata e/o parodiata del colonizzatore.

23 Joseph Ki-Zerbo (21 giugno 1922, Toma, Burkina Faso - 4 dicembre 2006, Ouagadougou, Burkina Faso) - politico, storico e uomo d’azione burkinabé - ha fondato il maggiore partito di opposizione del suo Paese.

24 Robert Phillipson (16 marzo 1942, Inghilterra, Regno Unito) è uno scrittore e professore di linguistica britannico.

25 Il quotidiano inglese The Independent - 20 marzo 2003 - è giunto a parlare di inglese “linguicida”, chiedendosi retoricamente: “Non è un genere ancora più sinistro del colonialismo che noi praticavamo cento anni fa? Non troppo tempo fa, noi prendevamo le loro materie prime. Ora noi invadiamo le menti, cambiando lo strumento primario col quale essi pensano: la “loro” lingua”. Proprio il progetto di Churchill, comunicato agli studenti di Harvard sessant’anni prima.

26 David Crystal (6 luglio 1941, Lisburn, Regno Unito) - un linguista, scrittore e accademico nordirlandese - si occupa di fonologia, grammatica e stilistica della lingua inglese, e nell’applicazione della linguistica a contesti educativi e clinici.

27 Ogni anno scompaiono circa 25 lingue. La cifra di quelle attualmente parlate si aggira attorno alle 7000, ma la previsione drammatica è che entro la fne del secolo la metà di queste sarà sparita. In Italia le cose paiono andar ancora più velocemente: negli ultimi settant’anni si sono persi circa 200 dialetti, che si sono portati dietro altrettante identità locali.

28 Il pidgin è una lingua semplifcata nata dall’incontro tra lingue diverse, specialmente tra una lingua europea e una lingua indigena dell’Africa, del Sud-Est asiatico o dell’America, con il preciso scopo di abrogare e rimpiazzare l’inglese standard.

9

“comunicare arte” jenny holzer

Dire Holzer è dire Truisms1: frasi enigmatiche e/o comuni modi di dire che l’artista eleva a moniti universali, a voce assoluta in grado di trascendere i singoli giudizi e pregiudizi. Jenny Holzer2 - tra le maggiori artiste neoconcettuali contemporanee - affda unicamente al linguaggio, al suo linguaggio artistico, alla parola scritta, l’analisi della realtà che la circonda. Infatti nonostante fosse orientata in principio verso la pittura astratta, già durante i suoi anni accademici inizia ad interessarsi anche al codice verbale, al linguaggio e ai suoi luoghi comuni fno a scegliere di inserire testi scritti all’interno dei suoi dipinti astratti. Il suo scopo, fn da questi primi anni di sperimentazione, è quello di riuscire a trasmettere al suo pubblico contenuti e tematiche che sentiva profondamente urgenti e reali: «Ho scelto il linguaggio perché volevo offrire contenuti che le persone, non necessariamente le persone d’arte, potevano capire»3 Dunque la Holzer ha compreso fn da subito l’importanza dell’uso del linguaggio e la potenza della parola per cui lo ha eletto a suo mezzo di espressione artistica prima che di comunicazione.

Nel 1977 si trasferisce a New York4 - culla artistica e culturale - per frequentare il programma Indipendent Studies offerto dal Whitney Museum of American Art, avviando una ricerca personale incentrata esclusivamente sul linguaggio. E mentre la generazione di artisti neoconcettuali statunitensi attuava una decostruzione della società consumistica tramite l’appropriazione e il successivo riposizionamento di immagini pubblicitarie e cinematografche tipiche della cultura di massa, la Holzer compone la sua prima serie di Truisms - opere di solo testo scritto - stampati su fogli di carta comune, distribuiti e affssi in forma anonima per le strade e gli edifci di NY.

Più esattamente l’artista comincia a realizzare i suoi Truism - che porta avanti a tutt’oggi5 sebbene su media differentinon appena si trasferisce a Manhattan: la sua pratica artistica basata sull’analisi del

linguaggio fa del linguaggio medesimo un uso interventista, più politicizzato6. Le brevi affermazioni, spesso limitate ad una sola riga da semplici e note frasi, si convertono in ammonimenti, provocazioni e rifessioni potenziando la loro forza comunicativa in grado di non lasciare indifferente nessuno spettatore/lettore. Questi è chiamato direttamente in causa e sente la crescente necessità di sapere da dove vengono queste frasi dal tono imperativo e ideologico; viene spinto a prendere posizione e ad esercitare il pensiero critico rispetto a quello che sta leggendo; si confronta con categoriche ed energiche affermazioni sulla società circostante e tutti i suoi luoghi comuni.

I Truisms della Holzer fanno sì che fatti e concetti esterni all’individuo vengano assimilati dal fruitore/spettatore spingendolo ad assumere un personale punto di vista, una prospettiva individuale7, a rifettere sul proprio vissuto personale mentre si relaziona con l’opera d’arte medesima; l’obiettivo dell’artista, infatti, è proprio quello di raggiungere le menti e le coscienze del pubblico, di entrare nella quotidianità di ogni persona e di catturarne l’attenzione.

L’artista esplora, fn dall’inizio della sua carriera, le tematiche esistenziali come la speranza e l’amore, la guerra e la violenza, pregiudizi e stereotipi, l’oppressione e il potere, ma anche tematiche politiche, sociali e femministe: la particolare forma dei Truisms permette di trattare il maggior numero di argomenti possibili e/o caldi rifettendo sul ruolo dell’intelletto e del corpo nell’interpretazione di ciò che accade8

Una delle sue più famose sentences

“Everyone’s Work Is Equally Important” - Il lavoro di tutti è ugualmente importante - è stata posizionata su di un tabellone fuori da un teatro: con l’obiettivo di colpire gli occhi di tutti passanti tanto da essere paragonato ad un caso di guerrilla marketing9

Invece con “You Must Remember You Have Freedom Of Choice” - Devi ricordare che hai libertà di scelta - la Holzer ha inteso

suggerire al proprio pubblico che ognuno è artefce delle proprie scelte e che saranno queste a determinare il tipo di vita che si vivrà.

La particolarità dei Truisms consiste nella doppia retorica utilizzata: l’impulso irrazionale tipico del manifesto o del poster e la razionalità fredda e puramente informativa, tipica della didascalia10. L’autorialità dell’artista si perde11, la sua voce si fa neutra, inafferrabile, non identifcabile; la quasi totale assenza di pronomi personali fa si che l’opera assuma una valenza universale.

In tal modo la Holzer riesce a comunicare effcacemente messaggi, frasi, tesi e antitesi che trattano di tabù, sesso, violenza, amore, guerra, morte12 “The land belongs to no one” - La terra non è di nessuno - “Torture is barbaric” - La tortura è barbara - sono solo alcuni comuni modi di dire diventati Truisms della Holzer. Ulteriori ricerche e sperimentazioni Le consentiranno di costruire testi che parafrasano le affermazioni perentorie del capitalismo e della cultura di massa.

L’artista - che è sempre stata in prima linea nella difesa dei diritti delle donne e di tutti gli esseri umani in generale - ha perfettamente combattuto la violenza di genere e l’ambiguità del linguaggio nella serie Lustmord (Sex Murder 1993/1994): ha inciso sulla pelle di uomini e donne volontari, frasi agghiaccianti che riportavano alla memoria il trauma dell’aggressione sessuale.

I testi scritti, presentati attraverso un collage fotografco, non permettono di cogliere chi siano le vittime, chi gli aggressori e chi gli osservatori13. La registrazione simbolica dell’atto traumatico rivela in questo caso una drammatica incongruenza.

Sempre nel 1993 - anno della guerra in Bosnia - la Holzer ha fatto stampare sulla copertina del Süddeutsche Zeitung - uno dei maggiori quotidiani tedeschi - il suo messaggio “Where women die, I am awake” - Dove muoiono le donne io sono sveglia. Parole drammatiche e incisive, stampate con inchiostro misto a sangue di donne bosniache14 per testimoniare che essere sveglia mentre altre donne muoiono è monito e speranza per l’artista di riuscire ad attirare l’attenzione necessaria sui crimini sessuali compiuti durante la guerra. L’autrice fece proiettare la stessa frase sulla cima del monumento Völkerschlachtdenkmal15 - a Lipsia - nel 1996.

Nel 2017 diventa virale, in quanto ampiamente condivisa online in risposta al movimento #MeToo16, una foto scattata diversi anni prima (1983) che mostrava Lady Pink - famosa graffttista newyorkese e collaboratrice della Holzer - con indosso la maglietta “Abuse Of Power Comes As No Surprise” - L’abuso di potere non è una sorpresaparte della serie Truism T-shirts iniziata nel 1980.

10

Jenny Holzer usa il suo linguaggio artistico anche tramite mezzi decisamente inconsueti e inaspettati: “Men Don’t Protect You Anymore” - Gli uomini non ti proteggono più - è un’altra sua affermazione stampata questa volta sulle confezioni dei proflattici, parte della Survival Series, 1983-1985. Mossa sicuramente rivoluzionaria all’interno del sistema dell’arte: i contenuti della serie risultano più complessi dei precedenti e il linguaggio molto più aggressivo; il tutto per guidare il pubblico ad un pensiero critico sull’evoluzione dei ruoli di genere e le loro differenze all’interno della società. Lo specifco mezzo e la frase scelta enfatizzano la responsabilità della donna di prendersi cura del proprio corpo da sé, poiché la donna non ha più bisogno, o non ne ha mai avuto, di un uomo che si prenda cura di lei: ecco il messaggio nascosto dell’artista. Rendere pubblici i suoi personali fussi di pensiero - rifessioni, sentenze, poesie, semplici frasi - con i mezzi della pubblicità contemporanea e onnipresente17 diventa strategia effcace: li stampa su volantini e/o magliette; li incide su semplici panchine e/o monumenti. Utilizza lo spazio pubblico per affggere e/o proiettare parole e testi come se si trattasse di veri e propri slogan pubblicitari fno ad approdarenel tempo - alle monumentali insegne elettroniche a led.

Infatti la Holzer è conosciuta in tutto il mondo per le sue installazioni testuali - combinate alle nuove tecnologie elettroniche - frutto di una riconsiderazione delle parole e dei messaggi che intende veicolare, alla luce dell’era dell’informazione. Importante caratteristica dei segnali e dei media elettronici è la loro capacità di spostare i contenuti, infatti l’artista stessa - che ama questa possibilità - afferma che tale movimento è molto simile alla parola parlata: puoi enfatizzare le frasi; puoi ruotarle e fermarle, l’equivalente cinetico dell’infessione18 L’uso della tecnologia, inoltre, permette di trasmettere gli stessi messaggi ad un pubblico sempre più vasto: dal 1982 la Holzer sfrutta e utilizza assiduamente sia insegne led che proiezioni luminose come

espedienti che assicurano l’esposizione della sua arte in luoghi molto frequentati.

Spectacular Board, 1982 - una delle installazioni più popolari e tra le più ricordate della Holzer - proponeva diversi Truism tra cui “Protect Me From What I Want” - Proteggimi da quello che voglio - e “Your Oldest Fears Are The Worst Ones”Le tue più vecchie paure sono le peggiori L’enorme insegna, posta su un edifcio di Times Square a New York, sfruttava la tecnologia led per rendere i testi scritti luminosi e in continua evoluzione così da sovrapporre tesi e antitesi e intensifcare la forza provocatoria dell’intera installazione/ messaggio19

Nel 1984, invece, la tecnologia e i mezzi moderni vengono usati dall’artista per sensibilizzare il suo pubblico anche sul tema politico: l’opera dal titolo Sign on a Truck, in modo originale, si appropria delle principali strade di New York e mette in scena un road show itinerante dal 3 al 5 novembre. Uno schermo di grandi dimensioni su ruote - quasi un camion in giro per la città - offre ai newyorkesi l’opportunità di vedere i propri messaggi pre-elettorali grazie a 27.000 tubi elettronici. L’opera - pensata e prodotta dall’artista - combina interviste dal vivo e diverse dichiarazioni audio-visive che vanno dai cinque secondi ai cinque minuti, fatte da artisti come Ida Appelbroog, Leon Golub, Keith Haring, Claes Oldenburg e altri collaboratori della stessa Holzer20 L’obiettivo - sensibilizzare al tema politicoè più che raggiunto dando voce ai pensieri degli elettori americani, facendo luce sui loro dubbi e speranze: il problema dell’essere ascoltati è affrontato per la prima volta in modo creativo e inedito. Le battaglie della Holzer continuano anche oggi in maniera sempre più originale e acuta: durante l’estate 2020 in piena crisi pandemica l’artista ha inviato un camion a Washington e uno a New York per trasmettere un nuovo messaggio in risposta alla mancanza di strategie governative del governo americano nella gestione della crisi sanitaria21. Luci led dal colore rosso intenso hanno mostrato frasi

come “Unnecessary death can’t be policy” - La morte non necessaria non può essere politicizzata - ma anche parole singole di rabbia e sgomento, per focalizzare l’attenzione sui gravi problemi che ogni Paese sta faticosamente e dolorosamente affrontando, protestando contro un sistema che non ascolta e non si prende cura dei propri cittadini.

È chiaro, dunque, che questa artista predilige lo spazio pubblico e urbano rispetto a quello privato e chiuso del museo o galleria per cui il suo lavoro riformula e rinnova molti dei presupposti tipici del sistema dell’arte tradizionale, focalizzandosi sul concetto di arte pubblica.

E pur derivando i suoi pensieri e le sue verità - i suoi truism - da esperienze soggettive e private, in realtà conquistano lo spazio pubblico trasformandosi in pensiero collettivo aumentandone l’effcacia comunicativa22

Nella serie Infammatory Essays - saggi scottanti - ha scritto di cose innominabili, di scottanti domande del giorno23. Ne fa parte il poster notitle, 1979-82: questoinsieme a tutti gli altri manifesti della serie che sfruttano ogni possibile tonalità di colore - è composto di cento parole ciascuno e lungo venti righe, in cui il tono usato si fa sempre più aggressivo e incalzante. Rispetto ai Truisms - di una sola riga testuale scritta - qui la Holzer predilige l’uso del paragrafo per argomentare il tema scelto di volta in volta: dalla scienza alla politica, fno alla sfera personale. L’artista parla di dominio, un domino mentale, non solo fsico, che da potere a una persona di controllare il destino di un’altra: è evidente, dunque, il parallelismo con la società governata e controllata, dominata dai poteri alti.

Da un paragrafo/saggio all’altro si apre per il lettore/ fruitore della serie un ventaglio di punti di vista e posizioni, dall’estrema sinistra all’estrema destra24: si trattava di temi forti, nel tono e nell’argomento, capaci di inculcare un senso di urgenza nel lettore.

Nella Holzer è evidente un attento sguardo verso la società consumistica, un profondo interesse verso il mondo tecnologico e mediale, ma anche la volontà di sfruttare al massimo la realtà che la circonda nel senso di usare i prodotti/oggetti quotidiani per veicolare la propria arte: la parola, il verbo, l’ammonimento, rientrano nella vita degli spettatori/fruitori delle opere non solo come volantini o come magliette da indossare, ma perfno proflattici. Si è trattato di creare nuovi modi per rendere la narrazione verbale e il suo commento parte fondante della rappresentazione visiva all’interno del costante confronto con le questioni contemporanee25

11

NOTE

1 Truism: a statement that is obviously true and says nothing new or interesting. “The truism that you get what you pay for”. / Truism: un’affermazione che è ovviamente vera e non dice nulla di nuovo o di interessante. “La verità è che ottieni quello per cui paghi”.

2 Jenny Holzer (29 luglio 1950, Gallipolis, Ohio, Stati Uniti) ha studiato presso la Ohio University di Athens - si laurea nel 1972 in pittura e incisione - e successivamente alla Rhode Island School of Design di Providence, dove ha frequentato un master.

3 I. Ferretti, Morte, politica, malattia. L’arte della parola di Jenny Holzer alla Tate Modern, in “ArtsLife. The cultural revolution online”, 2019; https://artslife.com/2019/04/13/morte-politica-malattia-larte-della-parola-di-jenny-holzer-alla-tate-modern/

4 Dove attualmente vive e lavora.

5 La prima serie dei Truism si colloca tra il 19771979.

6 H. Reckitt, P. Phelan, Differenze in Arte e Femminismo, H. Reckitt, P. Phelan, tr. it. (2005) di M. Rotondo, Phaidon, Londra, 2005, pp. 110-133, qui p. 122.

7 F. Dicuonzo, Le verità ovvie di Jenny Holzer, in Artwort, 2016; https://www.artwort. com/2016/11/15/speciali/cult/le-verita-ovvie-di-jenny-holzer/

8 G. Schiavone, Protect me from what I want. Jenny Holzer racconta l’indescrivibile al Guggenheim di Bilbao, in Juliet Art Magazine, 2019; https:// www.juliet-artmagazine.com/protect-me-fromwhat-i-want-jenny-holzer/

9 Un tipo di marketing pubblicitario, non convenzionale, che fa leva sulla creatività e sull’improvvisazione generale per stupire e cogliere di sorpresa il suo pubblico e per attirare l’attenzione degli stessi media; per questo motivo vengono scelti luoghi pubblici e aree urbane comuni in cui è facile che le persone si trovino a contatto diretto con i contenuti e i messaggi proposti.

10 A. Broggi, Sui Truisms di Jenny Holzer in Nazione Indiana, 2012; https://www.nazioneindiana. com/2012/09/13/sui-truisms-di-jenny-holzer/

11 Grazie all’assenza di una frma o di una sigla personale. Nel tempo sono i Truism stessi ad essere diventati una frma/marchio dell’artista.

12 U. Lehmann, Jenny Holzer, in Woman Artists in the 20th and 21st Century, a c. di U. Grosenick,

I. Becker, TASCHEN, Köln 2001, pp. 234-239, qui p. 234.

13 H. Reckitt, P. Phelan, “Femmes de siècle” in Arte e Femminismo, H. Reckitt, P. Phelan, tr. it. (2005) di M. Rotondo, Phaidon, Londra 2005, pp. 176-189, qui p. 181.

14 U. Lehmann, Jenny Holzer, in Women Artists in the 20th and 21st Century, a c. di U. Grosenick,

I. Becker, TASCHEN, Köln 2001, pp. 234-239, qui p. 239.

15 Il Völkerschlachtdenkmal è un monumento che si trova a Lipsia, Germania, dove fu combattuta l’omonima battaglia nel 1813, nota anche come Battaglia delle Nazioni che segnò la disfatta di Napoleone.

16 5 ways Jenny Holzer brought art to the streets; https://www.tate.org.uk/art/artists/jenny-holzer1307/5-ways-jenny-holzer-brought-art-streets

17 M. E. Le Donne, Neoconcettuale, in Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi (2008), F. Poli, M. Corgnati, G. Bertolino, E. Del Drago, F. Bernardelli, F. Bonami, Mondadori Electa, Milano, 2012, pp. 604-623, qui p. 608.

18 5 ways Jenny Holzer brought art to the streets; https://www.tate.org.uk/art/artists/jenny-holzer1307/5-ways-jenny-holzer-brought-art-streets

19 U. Lehmann, Jenny Holzer, in Women Artists in the 20th and 21st Century, a c. di U. Grosenick, I. Becker, TASCHEN, Köln 2001, pp. 234-239, qui p. 234.

20 Jenny Holzer: Sign on a Truck, in Public Art Fund; https://www.publicartfund.org/exhibitions /view/sign-on-a-truck/

21 B. Takac, Word on the Street - Jenny Holzer’s Trucks and Truisms, in Widewalls, 2020; https:// www.widewalls.ch/magazine/jenny-holzer-truisms-trucks-spruth-magers

22 D. Triolo, Jenny Holzer, in Iper Arte. Artisti Contemporanei, 2021; https://iperarte.net/ledonnedellarte/jenny-holzer/

23 Jenny Holzer, No title; https://www.tate.org. uk/art/artworks/holzer-no-title-p77407

24 In preparazione alla serie, la Holzer lesse testi di Mao, Lenin, Emma Goldman, vari fanatici religiosi e di destra, anarchici americani oltre che letteratura folkloristica.

25 E. De Cecco, G. Romano, Truismi di Jenny Holzer, in Contemporanee. Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, E. De Cecco, G. Romano, tr. it. (2002) di B. Casavecchia, M. Gioni, M. Robecchi, Postmedia Books, Milano, 2002, pp. 111-116.

26 G. Schiavone, Protect me from what I want. Jenny Holzer racconta l’indescrivibile al Guggenheim di Bilbao, in Juliet Art Magazine, 2019; https://www.juliet-artmagazine.com/protect-mefrom-what-i-want-jenny-holzer/

27 P. Epps, Jenny Holzer è l’artista contemporanea che non potete non conoscere, in i-D Vice, 2017; https://i-d.vice.com/it/article/yw3ek7/jenny-holzer-e-lartista-contemporanea-che-non-potete-non-conoscere

28 G. Schiavone, Protect me from what I want.

Jenny Holzer racconta l’indescrivibile al Guggenheim di Bilbao, in Juliet Art Magazine, 2019; https://www.juliet-artmagazine.com/protect-mefrom-what-i-want-jenny-holzer/

Dunque tutte le opere di Jenny Holzer - che si tratti di installazioni, interventi site specifc, manifesti, insegne, ecc. - fondono linguaggio visivo e testuale per creare un’esperienza unica in grado di coinvolgere sia la mente che il corpo dello spettatore. Le sue opere - come entità composte da meccanismi visuali e semantici, dichiarazioni luminose al tempo stesso concrete ed effmereinteragiscono con il fruitore mostrando che è possibile parlare all’uomo contemporaneo nel linguaggio che gli è più familiare26. È chiara l’urgenza di comunicare agli altri e con gli altri, di esprimere parole e concetti per attivare una rifessione critica su ogni tassello/lettura della società contemporanea.

L’attenzione di Jenny Holzer si è focalizzata sul linguaggio scritto, sulla parola scritta perché il peso di una parola, di una sentence, diventa di fondamentale importanza per il fruitore tale da rimanere impresso nella sua mente per giorni se non anni, e questo si rivela ancora più duraturo nel momento in cui lo stesso pensiero è scritto. Il linguaggio visivo dell’arte trasforma la parola scritta dell’immagine pubblicitaria in un’arma con cui risvegliare la società assopita e alienata proprio da quegli stessi meccanismi.

La sua produzione in mostra alla Biennale di Venezia del 1990 - Jenny Holzer è stata la prima donna a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale - rivela ed esprime il percorso del suo lavoro: frasi tratte dai suoi lavori precedenti - Truisms e Infammatory Essays - erano incise per l’occasione su pavimenti in marmo e panchine di pietra; dodici insegne a led trasmettevano testi di una nuova serie - Mother and Child, 1990 - che a differenza delle voci a-gender del suo passato, si concentravano sulla relazione madre-fglio e quindi addolorate, chiaramente femminili e personali27. In un’altra sala delle insegne intermittenti creavano una vera e propria retrospettiva su tutti i testi dell’artista, presentati in tre colori diversi e tradotti in cinque lingue. All’esterno del padiglione - così come all’aeroporto, alle fermate dei treni e dei vaporetti, tra le diverse calli di Venezia - furono messi in vendita i suoi celebri poster, cappelli e t-shirt.

The Venice Installation - Padiglione US - premiata con il prestigioso leone d’oro, ha inteso martellare e colpire gli spettatori di parole, luci a led ed insegne elettroniche per un’incredibile esperienza immersiva.

L’uso che fa del linguaggio, l’analisi della realtà che la circonda, la maestria e la consapevolezza con cui abbraccia l’era informatica, la profondità e l’importanza dei messaggi che veicola, rendono Jenny Holzer un’artista unica: con la sua arte ha dimostrato, e dimostra tuttora, che attraverso l’azione artistica l’indescrivibile può diventare comunicabile e interpretabile28

12

L’ETNIA E LA FORMA DI UNA LINGUA

L’ETNIA

Il concetto di è culturale1 in quanto ha a che fare con i rapporti di discendenza, con le usanze e le tradizioni; essa è anche dettata dalla storia e dalla geografa dei vari gruppi umani ed è proprio la lingua abitualmente parlata ad essere utilizzata come “spia e prova” di una specifca etnia. Di rifesso si parla di etnia della lingua nel senso di storia di una lingua partendo da quelle che sono le testimonianze scritte della stessa.

Va da se che non c’è coincidenza fra la storia della lingua parlata e la storia della lingua scritta: ciò non solo per le ragioni già spiegate2, ma soprattutto perché l’invenzione della scrittura non è avvenuta in un momento preciso della storia; piuttosto è la risultante di una quantità di variazioni e trasformazioni di segni che - poco per volta e in varie parti dei continenti - si sono trasformati in alfabeti. Quella della scrittura è dunque una storia lenta e complessa per la quale non c’è a tutt’oggi una defnizione.

Non vi è dubbio che la scrittura trae origine dalla rappresentazione fgurativa, ma soltanto quando l’iconicità si trasforma in una serie di segni simbolici, si crea un primordiale linguaggio comunicativo comunque destinato ad evolversi nel corso del tempo.

14
etnia culturale

LA FORMA

I primi esempi di scrittura conosciuti sono disegni fortemente semplifcati che rappresentano in modo essenziale fgure di animali e/o di alcuni oggetti d’uso.

Si trattava di pittogrammi (3500-3000 a.C.) che con il passare dei secoli si sono evoluti trasformandosi in geroglifci, oppure in ideogrammi dalla confgurazione più astratta come la scrittura cuneiforme dei Sumeri. La terra d’origine della scrittura dunque corrisponde al territorio della Mesopotamia - fra il Tigri e l’Eufrate - diviso fra i Sumeri a sud e gli Accadi a nord. La scrittura cuneiforme divenne - in seguito - quella uffciale del regno di Babilonia sviluppatosi a partire dal 1760 a.C; fra il III e il I millennio a.C. la scrittura cuneiforme si diffuse fno alla Palestina (a sud) e all’Anatolia (a nord).

Il sistema cuneiforme restò in uso per un lungo periodo della storia - dall’età del Bronzo a quella del Ferro - evolvendosi parallelamente con il progredire delle civiltà mesopotamiche.

Con l’inizio del periodo ideografco e con l’avvio della scrittura geroglifca si può considerare defnitivamente superato il periodo preistorico.

A differenza di quella cuneiforme - geometrica, astratta, austera - la scrittura geroglifca è fgurativa, composta da disegni stilizzati che rappresentano teste e fgure umane, uccelli e altri animali nonché la vegetazione3; questa scrittura veniva principalmente usata per comporre inni agli dei e ai re4, liriche d’amore, poesie e fabe. A quella geroglifca si aggiunse, poi, la scrittura ieratica5 e quella demotica6. Infne tra il II e il III secolo i cristiani del Paese del Nilo adottarono l’alfabeto copto per cui fno al IV secolo coesistettero tutti e quattro i sistemi di scrittura.

Per gli egizi la scrittura non era solo una convezione grafca usata per trascrivere la loro lingua, le parole con cui si descriveva il mondo, gli esseri, le cose, ma faceva parte dell’essenza di quel mondo; la parola scritta conservava una connessione magica con tutto ciò a cui alludeva: i geroglifci come parole divine avevano il potere di intervenire nell’universo e nelle cose.

Sta di fatto che il pittogramma - elemento chiave di tutte le scritture - è sopravvissuto in diversi alfabeti, tra cui quello cinese. Originariamente pittografca, la lingua cinese scritta si è consolidata in ideografca ed è rimasta sempre monosillabica. Nata verso il II millennio a.C., la scrittura cinese viene codifcata cinquecento anni più tardi e strutturata in un sistema messo a punto tra il 200 a.C. e il 200 d.C.. Più della lingua parlata (che differisce totalmente da nord a sud), la scrittura è l’elemento di maggior unità linguistica in Cina. L’alfabeto è composto da una chiave, che ne dà il senso, e di una parte detta fonetica, che dà le indicazioni sulla pronuncia7

LA STORIA

Secondo la tradizione greca l’invenzione dell’alfabeto è da attribuire ai Fenici, popolazione semitica insediatasi in un’area geografca corrispondente all’attuale Libano. Il sistema alfabetico, da cui hanno avuto origine quasi tutte le scritture europee e mediorientali, è probabilmente iniziato a Byblos, la più antica città fenicia, fn dal II millennio durante la dominazione egizia. La diffusione dell’alfabeto avvenne lungo le coste del Mediterraneo proprio grazie all’espansione commerciale dei fenici attraverso la navigazione. La trasmissione della scrittura fenicia in Grecia è avvenuta adottando il sistema fonetico originario fenicio, che i greci completarono attribuendo valore di vocale ad alcuni segni consonantici, che non trovavano riscontro nella loro lingua. Nel V secolo a.C. l’alfabeto greco si componeva di 24 lettere, di cui 17 consonanti e 7 vocali e prevedeva l’uso sia di maiuscole sia di minuscole: quest’ultime per scrivere più agevolmente su papiri o tavolette di cera. A partire dai secoli V e IV, in Grecia questa stabile e più completa scrittura, ha permesso la nascita e lo sviluppo di una delle letterature più ricche di tutti i tempi, che spazia dalla poesia al teatro e alla narrativa, dalla storia alla flosofa. Anche i greci sono stati grandi navigatori: hanno percorso l’intera area mediterranea ed è molto probabile che abbiano trasmesso la loro scrittura anche agli etruschi8

Il sistema alfabetico greco, così stabilizzato, divenne la base dei moderni alfabeti europei, a cominciare da quello latino. In esso c’è una piena corrispondenza fra i suoni della lingua parlata e i segni che costituiscono la scrittura. La tesi più avvalorata è che l’alfabeto latino derivi da quello greco nella forma coloniale diffusa lungo le coste mediterranee, ma non va esclusa l’intermediazione etrusca. Di fatto, verso il secolo III a.C. esisteva un alfabeto latino che si componeva di diciannove lettere a cui, verso il secolo I a.C. furono aggiunte la X e la Y. Anche il senso di lettura si trasformò defnitivamente in destrorso. L’alfabeto latino non subì modifche nel signifcato delle singole lettere fno all’epoca moderna, salvo l’aggiunta della Z e, durante il Medioevo, della W. Solo in tempi molto più recenti sono state inserite la J e la U, quest’ultima assumendo il suo attuale ruolo nei confronti della V.

A differenza della Grecia - che si era vista costretta a revisionare l’alfabeto fenicio per ampliare le vocali - una delle caratteristiche delle lingue semitiche come l’ebraico e l’arabo, è proprio quella di utilizzare solo pochissime vocali. L’ebraico deriva dall’alfabeto aramaico, chiamato ebraico quadrato, modifcatosi pochissimo nel corso dei secoli.

Invece la caratteristica della scrittura araba è la sua capacità di prestarsi a innumerevoli forme, fno a tradursi in raffnati motivi decorativi, calligrafci e talvolta geometrici, come quelli che si trovano in molte moschee o in altri monumenti. Da segnalare, l’arte degli arabeschi nei diversi periodi culturali dal carattere cufco ai moderni calligrammi.

NOTE 1 La stessa cultura si identifca con un insieme complesso che comprende il sapere, le credenze, l’arte, i valori, la lingua, il diritto, i costumi, e ogni altra capacità e abitudine acquisita e condivisa da un gruppo umano. cf. E. Tylor - uno dei padri dell’antropologia - in Primitive Culture del 1871.

2 La parte 1 ha ampiamente trattato la questione.

3 I geroglifci sono rappresentazioni pittografche del mondo e costituivano la base di un complesso sistema di scrittura in cui si combinavano segni con valore ideografco (ideogrammi) che, con il passare del tempo, hanno acquisito un valore fonetico (fonogrammi) indipendente dall’oggetto rappresentato.

4 Il signifcato letterale del termine “geroglifco” equivale a scrittura degli dei.

5 Dal greco hieratikós, “sacerdotale”.

6 Dal greco demotikós “popolare”.

7 Il dizionario cinese prevede oltre quarantaquattromila segni dei quali almeno quattromila sono di uso corrente.

8 Quello etrusco è il primo popolo italico che adotta e diffonde, lungo tutti i propri territori, l’alfabeto greco.

15

TRA ORALITÀ E SCRITTURA

La scrittura rappresenta un codice secondario rispetto alla lingua parlata sebbene milioni di idiomi oggi esistenti nel mondo non hanno una traduzione scritta. Inoltre la maggior parte delle lingue parlate da gruppi consistenti di locutori (e non solo da poche centinaia o migliaia come avviene per tanti idiomi dell’Oceania e dell’Africa minacciati dall’estinzione) sono anche scritte e spesso vantano anche una tradizione letteraria di antica data.

Parimenti scritto e parlato presentano delle differenze dovute anche alle modalità di esecuzione: la lingua parlata utilizza il canale fonico-acustico, quella scritta prevalentemente il canale grafco-visivo; il parlato è una tipica comunicazione in situazione9 mentre lo scritto è solo eccezionalmente in situazione10. Quando si parla si utilizzano tempi più comuni, frasi brevi; si è più liberi e spontanei. La lingua orale si serve poi degli elementi paralinguistici per regolare la comunicazione anche sulla base delle reazioni del destinatario. Lo scritto invece è rigido e sequenziale e non offre la possibilità della retroazione (o feedback); essendo emittente e destinatario in posti differenti, chi scrive deve fornire tutte le informazioni necessarie per rendere comprensibile il testo e non dare nulla per scontato.

Lo scritto è fruibile liberamente dal destinatario, è regolato e programmato: la comunicazione scritta è quindi più faticosa, meno libera e spontanea perciò deve essere chiara, completa e ordinata.

Soprattutto se parliamo di testo scritto per una molteplicità di destinatari indifferenziati (come può accadere con la prosa saggistica) esso non può fondarsi su due meccanismi tipici dell’oralità: la presupposizione11 e la deissi12

C’è tuttavia un tipo di testo scritto - il testo letterario - che, pur essendo rivolto a destinatari plurimi e indifferenziati, ricorre abitualmente alla presupposizione specie in esordio13, per coinvolgere il lettore dandogli la sensazione di essere immesso nel vivo della vicenda.

Dal punto di vista della sintassi il tipico testo orale presenta alcune ben defnite caratteristiche sintattiche: scarsa coesione, frutto di una progettazione a breve gittata (frasi sospese, cambi di progetto), prevalenza di moduli coordinativi e giustappositivi, limitato sviluppo dell’ipotassi (le subordinate più frequenti sono relative e completive; diffcilmente si supera il secondo grado di subordinazione). Molto più variegato il quadro del testo scritto che presenta una struttura periodale complessa e che presuppone la lettura endofasica14

Infne la diversità del lessico è forse il tratto che meglio distingue la lingua parlata dalla lingua scritta: le necessità lessicali del parlato sono ben rappresentate dalla nozione di vocabolario di base15 mentre la lingua scritta attinge ad un lessico molto più ricco oltre che più sensibile a connotazioni evocative ed ironiche.

Tuttavia sempre il testo scritto vive di continui rapporti con l’oralità: da questa attinge in continuazione temi e motivi e a questa tende16

LA DIMENSIONE SOCIALE DELLA LINGUA

Pur avendo già chiarito che il linguaggio verbale è una facoltà che fa parte del bagaglio di capacità innate degli esseri umani, esso rivela tutto il suo valore e la sua utilità nella concretezza dei rapporti sociali. Ne consegue una immediata interrelazione: dell’azione della società e dei fatti sociali sulla lingua ma anche - nel senso opposto - dell’azione della lingua sulla società e sui fatti sociali. Il riconoscimento progressivo dell’importanza dei rapporti fra linguaggio verbale e società, sia per comprendere appieno il funzionamento del linguaggio sia per capire meglio le dinamiche sociali, ha conosciuto un notevole sviluppo all’inizio degli anni sessanta17: è stata la sociolinguistica ad affermare che il linguaggio è un fenomeno sociale18 Parimenti è già stato sottolineato che lo sviluppo e l’utilizzo del linguaggio sono strettamente correlati a meccanismi e processi cognitivi quali il pensiero ed il ragionamento, per cui diventa di fondamentale importanza e grande interesse indagare il livello di infuenza del linguaggio sul modo in cui gli esseri umani pensano e si comportano. Se dunque il linguaggio e il pensiero sono alla base del modo in cui gli esseri umani comunicano e costruiscono le relazioni sociali, signifca che lingua e cultura sono enti in dialogo fra loro oltre che mobili e dinamici. Infatti tra gli aspetti del linguaggio verbale (o della lingua) che più spiccano - se si considera il sistema linguistico calato negli usi di una comunità sociale e come parte di una cultura - c’è certamente la variabilità o variazione. È stata sempre la sociolinguistica a constatare che la variazione linguistica ha spesso signifcato sociale, e che il comportamento linguistico, in cui la variazione si manifesta, ha importanti conseguenze sociali.

Perciò a tutt’oggi l’interazione tra il linguaggio e la rappresentazione/costruzione della realtà sociale è uno snodo teorico fondamentale che vede impegnate numerose discipline: dalla semiotica alla letteratura, passando per la flosofa, ecc.

TRA LANGUE E CULTURE

Il multilinguismo e multiculturalismo - oggi alla base di qualsiasi sistema culturale e sociale - hanno dato nuovo impulso alla ricerca sulla dimensione sociale della lingua passando, anche, attraverso la riscoperta19 del valore e dell’utilità della traduzione - e relative implicazioni - nella consapevolezza che comunicare e/o tradurre è una costante nella vita dell’uomo, un’operazione cui molti sono volontariamente o involontariamente sottoposti.

La traduzione è stata considerata da Meschonnic20 una delle forme centrali della comunicazione interculturale: non un fatto semplicemente linguistico ma un’operazione che coinvolge un ambito molto più vasto, una interazione tra culture che lo stesso autore chiamò langue-culture21; invece è stato Peirce22 per primo ad affermare che la traduzione interlinguistica23 consentiva un raffronto dinamico tra mondi differenti sottolineando e problematizzando le differenze tra le lingue e le culture.

Appare chiaro dunque che un’analisi del decennale dibattito sul ruolo, sulla forma e sulla pratica della traduzione diventa il percorso privilegiato e/o obbligato per cogliere gli innumerevoli aspetti sociali della lingua.

16

CULTURA E TRADUZIONE

Il passo successivo si deve ad Even-Zohar24 che, alla luce della riconsiderazione del rapporto fra traduzione e cultura, giunse a coniare la defnizione di Polysystem Theory: la rete di sistemi correlati in un rapporto dialettico della quale fa parte anche il sistema della letteratura tradotta. Secondo il ricercatore la letteratura era un elemento di quel complesso di sistemi integranti defnito cultura e la letteratura tradotta - in modo particolare - è il mezzo attraverso cui arricchire il funzionamento di questo polisistema: attraverso le opere straniere vengono di fatto introdotte nella letteratura di un Paese elementi nuovi25

Vista da questo punto di vista la traduzione non è un fenomeno la cui natura e i cui limiti sono prestabiliti, ma un’attività che dipende dalle relazioni che si stabiliscono all’interno di un certo sistema culturale e tra sistemi culturali diversi: la traduzione non è più una ingenua attività linguistica, la cui diffcoltà consiste nell’individuare il corrispettivo linguistico di una parola in un’altra lingua, ma un’attività che comporta scelte, responsabilità oltre che coscienza culturale e individuale.

9 Per comunicazione in situazione si intende quella svolta in un dato contesto, oltre a presupporre un emittente ed uno o più destinatari che possono ascoltare o anche intervenire nel discorso.

10 Per lo più si scrive ad un destinatario distante oppure a destinatari astratti e/o ideali.

11 Meccanismo per il quale si danno per note circostanze evidenti nel contesto comunicativo.

12 La deissi è il meccanismo che aggancia una comunicazione allo spazio (per es. con gli avverbi qui, là o con i pronomi questo, quello), al tempo (ieri, oggi), alle persone implicate (io, tu). Si tratta di un requisito tipico del testo parlato.

13 Inizio in medias res. La locuzione latina in medias res signifca “nel mezzo della cosa, dell’argomento” e indica ogni modo di narrare che spezzi l’ordine naturale della fabula.

14 Nella terminologia linguistica e della critica letteraria, l’endofasia è il discorso interiore.

15 Questa nozione è stata approfondita in Italia da Tullio De Mauro (31 marzo 1932, Torre Annunziata - 5 gennaio 2017, Roma) - linguista, lessicografo, accademico e saggista italiano - e dalla sua scuola. Cf. (GRADIT 1999-2007 = De Mauro, Tullio (dir.), Grande dizionario italiano dell’uso Torino, UTET, 8 voll.)

16 Cardona, Giorgio R. - Giorgio Raimondo Cardona (7 gennaio 1943, Roma - 14 agosto 1988, Roma) è stato un glottologo, linguista e traduttore italiano - Culture dell’oralità e culture della scrittura in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1983, 15 voll., vol. 2° (Produzione e consumo), pp. 25-101.

17 Sino ad allora gli studiosi erano stati inclini ad ignorare programmaticamente i rapporti fra lingua e società e il linguaggio continuava ad essere studiato come sistema a sé, indipendente dai suoi usi e dai suoi utenti.

18 La sociolinguistica è una branca degli studi linguistici che mette in relazione linguaggio e società. Più che una disciplina è una etichetta interdisciplinare, un termine valigia che comprende studi di diverso tenore, fatto salvo il comune interesse per la dimensione sociale del linguaggio. Oggetti di ricerca tipici della sociolinguistica sono lingua e comunicazione, e il rapporto di queste con società e cultura.

19 Di fatto, in un passato molto lontano, il termine interpretare (dal lat. interprĕtor, āris “tradurre da una lingua a un’altra”) includeva l’operazione compiuta sia sulla lingua scritta che su quella parlata; con la fne della latinità c’è stata la scissione tra l’operazione orale, interpretare, e quella scritta, tradurre

20 Henri Meschonnic (18 settembre 1932, Parigi8 aprile 2009, Villejuif, Francia) è stato soprattuto un poeta francese ma anche un linguista, saggista e traduttore.

21 H. Meschonnic, Poétique de la traduction, in ID., Pour la poétique, II, Gallimard, Paris 1973, pp. 305- 323; (trad. it. di M. Corenna e D. D’Oria, in Per la traduzione, num. mon. di «Il lettore di provincia», n. 44, 1981, pp. 23-31).

22 Charles Sanders Peirce (10 settembre 1839, Cambridge, Massachusetts, Stati Uniti - 19 aprile 1914, Milford, Pennsylvania, Stati Uniti) è stato un matematico, flosofo, semiologo, logico, scienziato e accademico statunitense. Conosciuto per i suoi contributi oltre che alla logica anche all’epistemologia, Peirce è considerato fondatore del pragmatismo e uno dei padri della moderna semiotica.

23 È stato Romàn Jakobsòn (10 ottobre 1896, Mosca, Russia - 18 luglio 1982, Cambridge, Massachusetts, Stati Uniti) - linguista, semiologo, traduttore russo naturalizzato statunitense e studioso della letteratura slava, considerato uno dei principali iniziatori della scuola del formalismo e dello strutturalismo nonché uno dei maggiori linguisti del XX secolo - a distinguere più tipi di traduzioni: interlinguistica (da una lingua all’altra); intralinguistica (da uno stile o genere ad un altro all’interno della stessa lingua); intersemiotica (mappatura da un sistema semiotico ad un altro).

24 Itamar Even-Zohar (23 marzo 1939, Tel Aviv, Israele) - ricercatore e professore di cultura israeliano all’Università di Tel Aviv - è un pioniere della teoria dei polisistemi e della teoria dei repertori culturali.

25 Queste includono non solamente un nuovo possibile modello di realtà per rimpiazzare convenzioni non più in vigore, ma anche una serie complessiva di altri elementi, come un nuovo linguaggio poetico, nuove matrici, tecniche, intonazioni e via dicendo. È chiaro che i principi per selezionare le opere da tradurre sono determinati dalla situazione che regola il polisistema: i testi sono scelti a seconda della loro compatibilità con i nuovi approcci e del ruolo presumibilmente innovativo che essi possono assumere entro la letteratura di arrivo.

17

TRANSLATION STUDIES

La necessità di individuare un campo di studi e di ricerca che inquadrasse la questione “traduzione” nel dialogo tra culture, portò alla costituzione di una vera e propria disciplina, che prese forma nel 1976 ad opera di André Lefevere26, uno dei più eminenti teorici della traduzione del ‘900: con Translation Studies si identifcò quell’ambito di studi che riguardava i problemi derivanti dalla produzione e dalla descrizione delle traduzioni27

Lefevere fu anche tra i primi a sostenere che la traduzione - infuenzata da ideologie e fattori esterni - non poteva più essere letta in termini di equivalenza linguistica e testuale ma diveniva momento di mediazione culturale poiché comprendeva concezioni ideologiche, politiche e poetiche della società di arrivo oltre che del traduttore.

La pratica porta quindi i traduttori a creare un’immagine dell’originale infuenzata dall’ideologia, dalla poetica e dalle aspettative dei destinatari della traduzione; ogni traduttore concilia le informazioni fornite dal testo e dal dizionario con la realtà del proprio contesto socioculturale: Lefevere parlava di scenes-and-frames intendendo con frame la struttura e/o forma linguistica del testo, con scene lo scenario, il vissuto individuale con il quale il lettore/traduttore si accosta ad un testo.

Negli anni successivi gli studiosi spostarono la loro attenzione sulla “teoria della traduzione” per cui dalla impostazione che vedeva l’impegno teorico-scientifco funzionale alla pratica, si passò a studi teorico-descrittivi dei fattori ed elementi caratterizzanti la traduzione28. Ciò portò alla ribalta il testo letterario con l’intento di fondare una disciplina che non fosse né scientifca né prescrittiva; non ci si concentrò più sulla lingua ma sul testo: per traduzione si cominciò ad intendere il passaggio di un testo da una lingua ad un’altra.

Negli anni ‘80 con “Translation Studies” si indicava il vasto campo di studi interdisciplinari sottesi allo studio della traduzione: non si trattò più di fornire istruzioni pratiche su come tradurre né proporre modelli, ma di sviluppare una teoria induttiva basata sulla pratica, sull’osservazione, sull’analisi e sulla descrizione di ciò che rendeva una traduzione buona e/o cattiva.

Il processo di traduzione non veniva più considerato come un processo meccanico29 - trasposizione da una lingua ad un’altra - ma come un processo creativo non accessibile a tutti; venne anche dato rilievo e valore ai fattori extralinguistici ed extratestuali che consentivano una visione molto più ampia del processo medesimo.

Il compito del traduttore somiglia sempre più a quello di mediatore culturale, insostituibile poiché, conoscendo le due culture a confronto, è il solo in grado di adeguare il testo originale alle esigenze culturali dei fruitori30: egli diventa l’anello di collegamento che determina l’interazione di culture diverse31

Nel 1985 - nell’antologia di saggi The Manipulation of Literature - Theo Hermans32 sosteneva che i criteri della riscrittura sono dettati dall’ideologia del traduttore, a volte anche inconsapevole, e dalla poetica predominante dell’epoca33 alla luce dell’altra considerazione secondo la quale la traduzione è un genere letterario primario a disposizione delle istituzioni sociali per “manipolare” una data società e costruire il tipo di cultura desiderata. La cosiddetta “tesi manipolativa” sostiene che il testo originale viene di fatto reinterpretato, alterato e/o manipolato.

CULTURAL STUDIES

Gli ulteriori studi sulla traduzione danno sempre maggiore importanza agli aspetti ideologici e culturali e ai problemi che nascono dalle relazioni che si instaurano in alcune circostanze tra le culture lontane ed eterogenee sino a giungere a coinvolgere anche gli studi post-coloniali. In tal modo al dibattito prendono parte attivamente anche studiosi non occidentali che introducono le problematiche dei Cultural studies: indagare cioè la traduzione tra culture dominanti e culture dominate, traduzione e ideologia, traduzione e soggettività come pure i rapporti fra traduzione e genere (gender studies).

È proprio la questione gender a caratterizzare l’opera sulla traduzione di Sherry Simon - femminista e teorica del gender - la quale in uno studio dal titolo Gender in Translation: Cultural Identity and the Politics of Transmission del 1996, affronta la questione della traduzione dalla prospettiva femminista condannando la particolare tendenza al maschilismo linguistico. A suo parere analizzare la questione “traduzione” consente di comprendere le complessità di genere e della cultura insieme tanto da suggerirle un parallelismo fra lo stato della traduzione, spesso considerata derivativa e inferiore rispetto al testo originale, e lo stato della donna, spesso svalutata tanto in ambito sociale quanto in ambito letterario.

Ulteriori studi condotti dalle donne e dal femminismo in genere, hanno additato il linguaggio e le pratiche linguistiche come veicoli privilegiati per l’affermazione e la reiterazione di determinati valori e codici culturali ma soprattutto che il linguaggio è uno strumento tutt’altro che neutro e che la lingua non è né neutra né neutrale. Le studiose femministe hanno sollevato la problematicità del linguaggio androcentrico che ha portato a moltissime produzioni nell’ambito della scrittura e dell’arte35: manuali sul linguaggio neutrale di genere creato per riformare il linguaggio sessista che escludeva ed esclude a tutt’oggi le donne.

18

INCLUSIONE E LINGUA

La teoria/pratica della traduzione è diventata anche occasione per costruire un linguaggio capace di scuotere la lingua e sovvertire il rapporto con il lettore, ponendolo di fronte a qualcosa di nuovo, frutto di manipolazione, anche ironica, del testo di partenza, della cui parola, dice la Simon, ci si deve riappropriare.

Per questo - a partire dagli anni ‘70 - si è fatta strada la concezione del linguaggio inclusivo il cui obiettivo è quello di soddisfare gli ideali di uguaglianza, evitare quindi espressioni che implichino qualsiasi idea denigratoria contro ogni tipo di gruppo di persone, arrivando anche ad includere nuove parole nel vocabolario. Attraverso l’uso di un linguaggio inclusivo si intende ridurre pregiudizi inconsci, imparare a rifettere e considerare un altro tipo di preoccupazioni, quelle del gruppo in questione, con maggiore empatia.

Il linguaggio inclusivo differisce dal politicamente corretto, perché l’uso di quest’ultimo si basa principalmente sulla censura delle parole offensive trasformandole in “non offensive”, seguendo la legge. Invece, il linguaggio inclusivo si basa anche sulla creazione di nuove terminologie nel vocabolario in base alle esigenze della società, senza preoccuparsi di ciò che è “corretto” e garantendo la parità.

Ad esempio il cosiddetto schwa (o scevà) - ə - nell’alfabeto fonetico internazionale designa la vocale centrale media36 Quel suono che, ad esempio, si emette quando in inglese si pronunciano parole come people (/’piːpəl/), again (/ə’gen/), woman (/’wʊmən/), e che si ritrova anche in alcuni dialetti, tipo nel napoletano mammətə e fratəmə. È una lettera neutra inclusiva introdotta dal discorso femminista negli ultimi anni; si utilizza in fnale di parola al posto della declinazione: il maschile plurale “tutti” per riferirsi a un gruppo misto di persone si trasforma in “tuttə”.

Lo ə37 è solo uno dei tanti modi proposti per superare la connotazione di genere fortemente spinta verso il maschile della lingua italiana. Non c’è solo lo ə, ma anche altre soluzioni ugualmente valide: l’asterisco, la x, la u, la @, l’underscore - tutt*, tuttx, tuttu, tutt@, tutt_ - e altre ancora; sono utili per non supporre l’identità di genere di alcuno, per eliminare il sessismo e il potere discriminatorio delle parole, per annullare il genere di una lingua sebbene non c’è ancora una regola universalmente accettata38

Negli ultimi anni si stanno cercando soluzioni “altre” per una lingua che possa rispecchiare una società che si voglia dire davvero inclusiva, non patriarcale, più fuida riguardo alle questioni di genere nella consapevolezza che il concetto di genere - proprio come la stessa lingua/linguaggio umano - è una costruzione sociale. Il sistema sociale ancora e soprattutto patriarcale, ha una grande infuenza sul linguaggio, sul modo di parlare e/o comunicare, su tutte le lingue.

26 André Alphons Lefevere (19 giugno 1945, Belgio - 27 marzo 1996, Austin, Texas, Stati Uniti) è stato un linguista belga, uno dei più importanti teorici della traduzione della seconda metà del ventesimo secolo.

27 Più precisamente, il termine venne per la prima volta usato da James Holmes nel suo saggio The Name and the Nature of Translation del 1972, in cui Holmes considera la defnizione translation studies appropriata per una disciplina che si poneva due obiettivi: descrivere il fenomeno della traduzione secondo l’esperienza personale (descriptive translation studies), e stabilire i principi generali attraverso cui detti fenomeni andavano spiegati (theoretical translation studies).

28 Antoine Berman (24 giugno 1942, Argenton-sur-Creuse, Francia - 22 novembre 1991, Parigi, Francia), flosofo, traduttore e critico della traduzione francese, considerato uno studioso molto importante della traduzione moderna, chiama questo campo d’indagine Traduttologia: «una teoria della traduzione intesa come sapere obiettivante e esteriore, l’articolazione cosciente dell’esperienza della traduzione».

29 Negli anni ‘50 - ‘60, con la comparsa dei computer e dei traduttori automatici, si apriva un nuovo capitolo nella storia delle teorie traduttive tanto da parlare di scienza della traduzione: si provò ad elaborare una sorta di decalogo del buon traduttore, si cercarono modelli matematici, fondamenti scientifci - basati sulla teoria dell’universalità linguistica di Chomsky - che potessero assicurare la perfezione a traduzioni realizzate interamente dalle macchine. Di fatto in queste ricerche si videro impegnati soprattutto teorici dell’informatica, linguisti, ingegneri, matematici, i quali ritenevano che il problema della traduzione potesse essere descritto, schematizzato e formalizzato in termini logici.

In questo periodo, inoltre, si utilizzano per la traduzione unicamente testi scientifci escludendo quelli letterari ritenuti troppo complessi per essere sottoposti a una qualsiasi classifcazione scientifca; si insistette su traduzioni a livello della parola o al massimo della frase poiché i ricercatori erano convinti che andavano tradotti i singoli termini e non le parole nel loro contesto testuale e culturale. I risultati ottenuti con questi metodi tecnici e meccanici rivelarono presto dei limiti: le traduzioni erano considerate funzionali solo all’originale, al testo di partenza, senza alcuna considerazione per la cultura di arrivo; le traduzioni tendevano a formulare delle regole generali che prescindevano dalla specifca situazione testuale, contestuale e linguistica.

30 Di fronte a un testo letterario il traduttore individua la diversità tra la cultura di partenza e quella di arrivo e valuta come procedere nel suo lavoro, in modo da decidere quali elementi mantenere, quali adattare e come presentare al pubblico destinatario gli elementi peculiari della cultura originaria.

31 Agli inizi del novecento Walter Benjamin - (15 luglio 1892, Berlino, Germania - 26 settembre 1940, Portbou, Spagna) è stato un flosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco, pensatore eclettico che si è occupato di epistemologia, estetica, sociologia, misticismo ebraico e materialismo storico - scriveva un testo sul compito del traduttore in cui dichiarava che questo compito consistesse nel liberare la lingua racchiusa e presente primordialmente in tutte le lingue poiché la traduzione stessa veniva da lui considerata come “sopravvivenza” dell’originale e come espressione del rapporto più intimo tra le lingue.

Cfr. W. BENJAMIN, Il compito del traduttore, in ID.,

Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1976, pp. 37-50; (Die Aufgabe des Übersetzers, in ID., Illuminationen, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1961, pp. 56-70).

32 Theo Hermans (1948 Assent, Belgio) è uno studioso belga noto per il suo lavoro nell’ambito dei Translation Studies. Attualmente è professore di letteratura olandese e comparata all’University College di Londra. È membro corrispondente dell’Accademia famminga e ricercatore onorario presso il Centro per la traduzione e gli studi interculturali dell’Università di Manchester. Dall’ottobre 2006 ricopre la carica onoraria di Adjunct Professor presso il Dipartimento di Traduzione dell’Università Cinese di Hong Kong. È anche editore della rivista Dutch Crossing: Journal of Low Countries Studies.

33 La traduzione rappresenta la modalità più riconoscibile di riscrittura, ed [...] è potenzialmente la più infuente poiché capace di proiettare l’immagine di un autore, e/o di quelle opere, oltre i confni della loro cultura d’origine (Lefevere, Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame, 1992, p. 9).

34 Sherry Simon è una studiosa di traduzione canadese, nota soprattutto per il suo lavoro sulla traduzione e sul genere.

35 Scritti signifcativi come “The Handbook of Nonsexist Writing” di Casey Miller e Kate Swift pubblicato nel 1980 e “The A–Z of Non-Sexist Language”, scritto da Margaret Doyle e pubblicato da The Women’s Press nel 1995.

36 Schwa al singolare (ǝ, Ǝ), schwa al plurale (з, З). www.italianoinclusivo.it

37 Allo stato attuale l’utilizzo dello schwa ha i suoi limiti. Per esempio il simbolo ə non è ancora presente sulle tastiere - a differenza degli altri come *, @, x, ecc. - quindi andrebbe cercato su internet, copiato e incollato tutte le volte in cui fosse necessario; corrisponde ad un suono particolare: nel linguaggio parlato italiano sarebbe diffcile da distinguere dal plurale femminile; nel linguaggio scritto italiano potrebbe trasformare la lettura da un momento piacevole a un momento di fastidio. Da un lato rende la lingua “inclusiva” (senza caratterizzazione di genere) dall’altro l’esatto opposto perché limita l’accessibilità ad altre categorie di persone. Nel caso di persone non vedenti o ipovedenti i lettori di testo dei programmi di lettura vanno in confusione con lo schwa e altri simboli posti in fnale di parola; le diffcoltà di lettura e/o problemi di leggibilità potrebbero anche verifcarsi per chi ha problemi di dislessia. 38 Anzi, sono ancora in molte e molti coloro che esprimono disappunto riguardo a questo tipo di istanze.

Ad esempio sul fnire del 2020, i membri della RAE (Real Academia Española - Royal Spanish Academy - istituzione culturale dedicata alla regolarizzazione linguistica nel mondo di lingua spagnola) si sono riuniti per discutere i termini del linguaggio inclusivo. Non solo non hanno approvato l’uso della lettera “e” nei pronomi plurali per includere il genere femminile, maschile e non binario, ma non hanno nemmeno approvato l’uso del femminile per riferirsi a un gruppo di persone quando il numero delle donne è superiore a quello degli uomini. La RAE ha scelto di non includere la “e” nel linguaggio inclusivo perché ritenuta non necessaria.Eppure in Spagna esiste un ministero per l’uguaglianza.

19

39 Si pensi al rapporto tra Translation Studies e Gender Studies, tra Translation Studies e Post- colonial Studies e ancora tra Translation Studies e Border Studies tutti campi di ricerca dei Cultural Studies, che li contiene.

40 Susan Bassnett (1945, Inghilterra, Regno Unito) è una teorica della traduzione e studiosa di letteratura comparata. Ha lavorato come pro-vice-cancelliere presso l’Università di Warwick per dieci anni e ha insegnato nel suo Centro di traduzione e studi culturali comparati, che ha chiuso nel 2009.

41 Gayatri Chakravorty Spivak (24 febbraio 1942, Ballygunge, Calcutta, India) è una flosofa statunitense, di origine bengalese. Attiva nel campo degli studi postcoloniali, del femminismo, della teoria della letteratura e degli studi di genere.

42 In questo atto di traduzione nella lingua inglese può verifcarsi un tradimento dell’ideale democratico attraverso la legge del più forte. Questo succede quando tutta la letteratura del Terzo Mondo viene tradotta in una sorta di affascinante terza lingua (translationese), cosicché la produzione letteraria di una donna in Palestina comincia a somigliare a quella di un uomo di Taiwan. (Spivak 1993, p. 400).

La parola translationese o terza lingua - generalmente utilizzata nell’ambito dei translation studies - è un termine peggiorativo per indicare quelle traduzioni caratterizzate da un approccio troppo letterale rispetto al testo di partenza, o da un’imperfetta conoscenza della lingua d’arrivo. La traduzione, in altre parole, risulta particolarmente impenetrabile e innaturale.

43 Can the Subaltern Speak? Postkolonialität und subalterne Artikulation, 2008, Gayatri C. Spivak.

44 A questo proposito è utile menzionare il contributo di un importante movimento postcoloniale nell’ambito della traduzione che viene dal Brasile e trova espressione soprattutto attraverso gli scritti dei fratelli de Campos. Si tratta del movimento noto col termine metaforico di cannibalismo o antromorfsmo, che richiama gli antichi riti tribali del luogo. Secondo questo movimento i colonizzati “divorano” la lingua del colonizzatore per nutrirsi della sua forza vitale e rinascere in una nuova forma pura, energica e più appropriata ai bisogni dei nativi. In questo senso la traduzione è intesa come “transcreazione”, rivitalizzazione e reinvenzione testuale, che rifette un contesto culturale polifonico come quello del Brasile, che non rinnega le infuenze straniere ma le inghiotte e le trasforma.

L’esempio dei brasiliani indica chiaramente che l’uso delle lingue occidentali da parte di autori extraeuropei postcoloniali rappresenta una sorta di arma a doppio taglio: da un lato permette di affermare, comunque, la propria tradizione e cultura indigena, dall’altro di utilizzare la lingua del potere in una forma nuova per rispondere all’esigenza di autonomia.

POST-COLONIAL STUDIES

I più recenti studi di traduttologia poggiano sulla consapevolezza della mancanza di una purezza culturale assoluta e dell’inevitabile intreccio tra sistemi culturali diversi: all’interno del processo traduttivo si verifcano anche fenomeni di ibridazione ad opera della cultura post-coloniale.

La svolta culturale, che caratterizza da questo momento in poi l’approccio alla traduzione, vede la cultura non più come un’unità stabile, ma come un processo dinamico che implica differenze e incompletezza e che richiede alla fne una “negoziazione” di cui la traduzione si fa portatrice.

A partire da queste premesse appare chiaro che la dimensione culturale verso cui si apre la traduzione tocchi l’ambito di ricerca dei Cultural Studies impegnati a promuovere un dialogo fra i Translation Studies e gli altri ambiti disciplinari e di ricerca, confronto che oggi è più che mai essenziale39 Sono i Post-colonial Studies a rappresentare un altro ambito di ricerca con cui la disciplina dei Translation Studies si è trovata spesso a dialogare: quello della coesistenza in uno stesso territorio - in situazioni di differenza linguistica e culturale - di discriminazione e disagio, di perdita della propria lingua e tradizioni, di tentativi di preservare la propria memoria culturale, è certamente un fenomeno che riguarda tutte le vicende di migrazione. Ne è derivata un’evidente mescolanza di genti, di lingue, di intonazioni e infessioni diverse, che devono coesistere e coabitare negli stessi spazi, quasi sempre in situazioni confittuali e mai realmente pacifcate. L’ibridismo linguistico che caratterizza quasi sempre i paesi colonizzati, o “post” colonizzati, è spesso frutto di negoziazioni fra le due lingue - quella del colonizzatore e quella del colonizzato - ma soprattutto fra due culture molto diverse fra loro.

“La traduzione non avviene mai in un vacuum, bensì in un continuum; non è un atto isolato, ma parte di un processo dinamico di transfer interculturale. Inoltre la traduzione è un’attività altamente manipolativa che coinvolge ogni tipo di livello in quel processo di passaggio attraverso confni linguistici e culturali. La traduzione non è un’attività innocente e trasparente, ma carica di signifcato su ogni livello; raramente, o addirittura, mai, comporta una relazione di eguaglianza fra testi, autori o sistemi.” secondo Susan Bassnett40

POLITICA DELLA TRADUZIONE

Anche Gayatri C. Spivak41 poneva in strettissima relazione la dimensione postcoloniale e la questione della traduzione; nel suo saggio dal titolo The Politics of Translation del 1993 si faceva portavoce di una cultura inferiore e colonizzata come quella bengalese accusando la cultura occidentale di aver dato preminenza all’inglese e alle altre lingue egemoni tanto da rendere quasi impossibile la traduzione inversada una lingua e una cultura minoritaria ad una egemonica - traduzione che, in questo caso, è sempre più spesso caratterizzata dalla forte tendenza ad addomesticare l’estraneità e l’esoticità della lingua dell’altro culturale, per agevolare il ricettore occidentale.

Per questo, secondo la Spivak, era fondamentale che un traduttore prima di affrontare l’ardua impresa del tradurreche sempre più spesso diventa un’operazione di riscrittura - si confrontasse con la specifcità culturale della lingua di partenza. In modo particolare la Spivak attaccava anche le scrittrici femministe occidentali e la loro pretesa di tradurre nella lingua del potere - l’inglese - gli scritti di femministe appartenenti a contesti culturali non europei: in questo caso la traduzione fnisce con eliminare e appiattire l’identità di individui e culture politicamente meno infuenti42 Questo spiega l’uso, da parte della Spivak, dell’espressione politics of translation, per indicare che la politica (di genere, di razza e culturale) è implicita in ogni traduzione, un processo in cui un testo si muove dalla cornice ideologica dell’autore a quella del traduttore soprattutto quando in gioco vi sono questioni identitarie e di genere. Quella della Spivak è la reazione ad una politica della traduzione che per secoli ha appoggiato la supremazia della cultura europea egemone, basata sulla mercifcazione dei testi tradotti: la traduzione è stata un processo a senso unico; solo da qualche decennio la cultura occidentale ha cominciato a rivolgere la sua attenzione alla letteratura subalterna43

Nel passaggio, poi, dalla fase coloniale a quella postcoloniale, la traduzione ha assunto nuove valenze: in un contesto coloniale è stata strumento di sopraffazione, poiché dava espressione al potere del colonizzatore di assoggettare, innanzitutto linguisticamente, il “selvaggio” permettendo di ricondurre una realtà “aliena” all’interno dei termini imposti dalla trionfante cultura occidentale; l’idea iniziale della traduzione come copia inferiore dell’originale ben si sposava metaforicamente con l’idea della colonia come copia della madre patria, l’Originale europeo44

In un contesto post-coloniale invece, dominato dalla ri-costruzione identitaria delle colonie, la traduzione diventa condizione esistenziale del colonizzato, che vive in spazi in-betweeness: i Translation Studies necessariamente devono dialogare con un altro campo degli studi culturali conosciuti come Border Studies.

20

BORDER STUDIES

La tesi principale dei cosiddetti Border Studies consiste nel ritenere il confne/confni fenomeni sociali molto complessi superando la tradizionale convinzione secondo la quale il confne riguarda solo la demarcazione della terra, oltre a considerare la traduzione stessa come corrispondente ad un perenne tracciamento di confni, come processo di trasposizione spaziale oltre che di trasposizione linguistica. Discipline quali la Traduttologia o i Translation Studies hanno contribuito ad avvicinare - nel trattare il tema delle intersezioni delle traduzioni linguistiche - il concetto di confne spaziale con quello di confne semiotico espresso da Lotman45, laddove egli paragonava il sistema semiotico a quello biologico; utilizzando la prospettiva semiosferica, il luogo confnario funziona come una periferia semiotica in cui si elaborano i cambiamenti che si installano nel sistema di segni plurilinguistico: la cultura46

Secondo Naoki Sakai47 la traduzione e il modo di intenderla - che dipende dal modo in cui si intende la pluralità delle lingue - non è solo un valico di frontiera ma anche un preliminare tracciamento di confni. La pluralità di lingue esistenti rende impossibile eludere la traduzione: conoscere e studiare scientifcamente questa pluralità di lingue è possibile solo se si suppone la loro unità nel linguaggio48

I Border Studies sono dunque fortemente legati alla questione coloniale ma anche alla questione dell’attraversamento dei confni. Un esempio eclatante in tal senso è costituito dal popolo dei chicanos - messicano-americani che vivono nel sud-ovest degli Stati Uniti a partire dal trattato di Guadalupe Hidalgo del 1848 - che ha dovuto sopportare il fardello di una doppia colonizzazione, gli spagnoli di Cortez prima - da cui è nato il popolo messicano - e gli americani poi, che li hanno costretti ad una dimensione di estraniamento all’interno della loro stessa terra. Il loro è un vivere “attraverso” frontiere: quella fsico-geografca49 e quella linguistica50 Questa dimensione “frontaliera”, come la defnisce in un brillante e recente studio Paola Zaccaria51 - La lingua che ospita (2004)52 - ha invaso ogni ambito della cultura chicana, in cui le pratiche artistiche, letterarie, culturali in genere, si trasformano in veri e propri border texts, interlinguistici e interculturali, in cui la dimensione dell’attraversamento e della frontiera diventa condizione di un’identità ibrida e border: quella chicana.

Si capisce dunque che una lingua come quella chicana - che la stessa Paola Zaccaria defnisce un’interlingua - in continua evoluzione, frutto di calchi, variazioni, incorporazioni mette in atto sempre e comunque una performance traduttiva. Questo scontro-incontro tra culture trova risoluzione in un ibridismo culturale che non equivale ad una sottomissione allo sguardo e al potere egemone, ma ad uno strumento di resistenza, e nel caso della lingua, di terrorismo linguistico53

Le questioni che un traduttore si troverebbe ad affrontare, qualora decidesse di confrontarsi con un border-text, sono decisamente più complesse. Come è possibile tradurre testi che sono già di per sé delle opere in-traduzione e in- trasformazione, senza tra l’altro rischiare di operare una “riscrittura” o una “manipolazione” - come suggerivano i teorici del manipolation group - che comporterebbe un tradimento dell’identità ibrida/border del testo di partenza?

«Per non rischiare l’intraducibilità, e nello stesso tempo lasciare che la voce straniera affori dentro al testo, chi traduce può scegliere di lasciare qualcosa di non tradotto, evitando per quanto possibile di proiettare o sovrapporre le categorie interpretative della lingua traducente su quella tradotta. [...] Si tratta di accettare anche l’incomprensione. [...] Se si lavora entro la consapevolezza che non sempre ci sono soluzioni e risposte esaurienti, né è sempre possibile ricreare equivalenze stilistiche e semantiche, s’imparerà ad esaltare le differenze, a mantenere sempre viva l’interazione dialogica. [...]»54

Questa la scelta (si fa per dire) linguistica di Hélène Cixous56 - esempio di incontro fra gender studies e l’écriture féminine - la cui scrittura tradisce non solo un’appartenenza gender precisa, ma anche un meticciato linguistico a metà fra lo spagnolo, il francese e l’inglese, che rappresenta una sfda alla traduzione e la cui intenzione è mostrare una vera e propria politica della scrittura e della traduzione, dove l’elemento estraneo, straniero, incongruo viene continuamente inserito e non tradotto. La sua stessa struttura, è quindi un testo che mette in discussione il concetto dell’originale come unità di lingua e di stile.

In questo senso vanno anche lette le affermazioni di Boris Buden56 con le quali spiega come la sua lingua inglese - conosce e scrive anche in tedesco oltre che nella sua lingua madre - si è modifcata in itinere per cui l’inglese dei suoi primi scritti differisce da quello attuale dopo circa vent’anni di attività. Anzi esplicitamente dichiara che quando scrive in inglese - secondo lo stereotipo che la lingua inglese è la lingua dell’arte contemporanea e/o quello che un intellettuale che non parla inglese non è un intellettuale - la sua esperienza di tedesco e della sua lingua madre incidono.

L’autore conclude le sue rifessioni mettendo in atto un’ulteriore critica allo stereotipo secondo il quale ci si esprime meglio attraverso la propria madre lingua: si tratta del tentativo subdolo di ridurre la molteplicità del mondo sociale, culturale e linguistico ad una monolingua57

22
BORDER-TEXT

45 Jurij Michajlovič Lotman (28 febbraio 1922, San Pietroburgo, Russia - 28 ottobre 1993, Tartu, Estonia) è stato uno storico della letteratura, strutturalista e semiotico russo, teorizzatore della semiotica della cultura.

46 La frontiera della traduzione e i perimetri culturali: recupero di Lotman di Giampaolo Vincenzi in Diacritica A. VII, fasc. 2 (38), 28 maggio 2021.

47 Naoki Sakai (1946) insegna nei dipartimenti di Letteratura Comparata e Studi Asiatici ed è membro del corso di laurea in Storia della Cornell University, New York. I suoi contributi spaziano dalla letteratura comparata agli studi sulla traduzione, dagli studi sul razzismo e sul nazionalismo alla semiotica.

48 Translation and the Figure of Border: Towards the Apprehension of Translation as a Social Action. Naoki Sakai - Cornell University, Ithaca, USA.

49 Il corso del fume Rio Grande/Rio Bravo, che separa il Sud-Ovest dagli Stati Uniti.

50 Tra lo spagnolo e l’inglese.

51 Paola Zaccaria ricercatrice attivista e attraversatrice di movimenti, docente di Culture letterarie e visuali anglo-americane presso l’Università di Bari, ideatrice e coordinatrice del progetto internazionale “S/Murare il Mediterraneo. Pratiche locali, nazionali e transfrontaliere di artivismo transculturale, per una politica e poetica dell’ospitalità e mobilità” (2009-presente. Il Blog: smuraremediterraneo.wordpress.com). Ha contribuito a introdurre in Italia il pensiero critico su frontiere e migrazioni traducendo nel 2000 Terre di confne/ La Frontera, di Gloria Anzaldúa. Si occupa di poetiche ed epistemologie decoloniali, diasporiche e frontaliere (dal volume di geocritica del 1999 Mappe senza frontiere fno ai saggi sulle pratiche artivistiche e l’elaborazione del concetto di TransMediterrAtlantico (2012, 2014, 2015, 2016).

52 La lingua che ospita: poetica, politica, traduzioni. Meltemi Editore.

53 Come lo defnisce Gloria Anzaldúa, la cui opera Borderlands/La Frontera del 1987, si fa portavoce di questa cultura di frontiera

54 P. Zaccaria 2004, p. 154.

55 Hélène Cixous (5 giugno 1937, Orano, Algeria) è una scrittrice, drammaturga e accademica francese, femminista.

56 Boris Buden (1958, Garešnica, Croazia, Jugoslavia), è flosofo, traduttore e teorico culturale. I suoi saggi e articoli coprono temi di flosofa, politica, critica culturale e d’arte.

57 Dal podcast “Language in History”. Boris Buden in conversazione con l’editor di Archive Books Paolo Caffoni riguardo la pubblicazione “Transition to Nowhere: Art in History after 1989”

23

“comunicare arte”

barbara kruger

È l’autrice dei rivoluzionari ed eterni manifesti intrisi di linguaggio verbo-visivo - quotidiano o creato ad hoc per ribaltarne il senso - divenuti icone di innumerevoli e fondamentali battaglie: dalle proteste prochoice1 a quelle per i diritti civili. Barbara Kruger2 - pilastro dell’arte contemporanea - è stata inserita dal New York Times tra i cinque personaggi più infuenti del 20203 Attualmente vive e lavora tra New York e Los Angeles, città che descrive come aventi «un’incredibile densità culturale: (…) guidate da uso e abuso di potere (…), irresistibili, ma anche paurose»4

Prima di reinventarsi artista, e dopo aver frequentato diverse importanti scuole di design e di arti visive, Barbara Kruger ha lavorato - dal 1966 per un paio d’anni - come art director da Condé Nast5: esperienza decisiva per la conseguente elaborazione di un proprio linguaggio artistico basato sulla potenza e l’immediatezza tipiche del mondo della comunicazione.

Presso altre case editrici e riviste6 è stata graphic designer e picture editor occupandosi sia della grafca che della scelta delle immagini per le rubriche d’arte. Ha pubblicato per anni la rubrica Remote Control su Artforum nella quale proponeva un’attenta analisi dei programmi televisivi attraverso dei saggi sulla cultura mediale; gli stessi sono stati pubblicati, poi, in altre autorevoli riviste come Esquire e Village Voice7

Nel 1982 la partecipazione a rinomate esposizioni internazionali come la Biennale di Venezia e Documenta VII di Kassel, ha reso il suo lavoro celebre in tutto il mondo: oggi è conosciuta internazionalmente per la sua attività in diversi ambiti, tra cui installazioni video e audio, fotografa, scultura, architettura e graphic design; si occupa anche di scrittura critica e curatela.

La produzione artistica di Barbara Kruger nasce e si sviluppa tra la fne degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta mentre nel panorama newyorkese si affermava una nuova generazione di artisti ed artiste in grado di ripensare l’utilizzo dell’immagine all’interno del nuovo paesaggio mediatico

anch’esso in via di defnizione. Gli spazi sia esterni - le strade delle città - che interni - le case degli americani - risultavano colmi di immagini e di nuovi mezzi di comunicazione: cartelloni pubblicitari, fyer distribuiti per la strada, brochure sui banconi e nelle vetrine dei negozi.

Questa generazione di artisti distrusse sistematicamente la cosiddetta aura dell’opera d’arte assimilando le stesse opere, proprie e altrui, a semplici immagini di cui fare uso8. Eppure in questa stessa nuova generazione di artisti e artiste si possono cogliere i tratti distintivi anche dei movimenti precedenti come ad esempio l’atteggiamento militante a favore di cause ritenute giuste e necessarie - la nuova ondata femminista, le proteste a favore dei diritti civili delle minoranze etniche - oltre che un approccio analitico e di stampo concettuale per quanto riguarda la critica e l’utilizzo del linguaggio dei media Si trattava di un percorso evolutivo che aveva avuto i suoi esordi nelle tante manifestazioni artistiche del dopoguerra ed era proseguito poi con l’appropriazione da parte degli artisti del tessuto urbano e pubblico adoperato come spazio per diffondere - attraverso il linguaggio dell’arte - le grandi idee del presente.

Soprattutto la fotografa - non solo d’autore ma anche che si riappropria delle immagini altrui9 - diventa il medium preferito da questi artisti che ne attuano una rilettura in chiave neoconcettuale.

Secondo Hal Foster10 “questi postmodernisti trattarono la fotografa non solo come un’immagine seriale, un multiplo senza una stampa originale, ma anche come un’immagine simulacrale, una rappresentazione senza un referente sicuro nel mondo”11

In particolare la Kruger ha usato la fotografa per realizzare le sue opere ritenendola lo strumento più adatto alla mediazione fsico-concettuale con il mondo; ha manipolato l’immagine pubblicitaria anche attraverso l’uso della parola, del linguaggio, per interrogarsi sul ruolo della civiltà postmoderna. Nelle sue

opere è evidente il forte potere degli slogan pubblicitari in grado di capovolgere e rivoluzionare completamente l’immagine. L’artista diventa così in grado di svelare le dinamiche pubblicitarie contemporanee sovvertendo il rapporto, solitamente strettissimo, tra immagine e slogan12. È possibile affermare anche che con i suoi lavori attua una sorta di campagna pubblicitaria personale; il tutto avviene in un modo ben preciso: testi bianchi in Futura Bold Italic su bande rosse sempre in primo piano; l’immagine fotografca rigorosamente in scala di grigi in background. È questa la sua frma: le sue immagini sono immediatamente riconoscibili, comunicativamente potenti, effcaci e persuasive proprio perché, paradossalmente, sfruttano gli stessi mezzi della società del consumismo contro cui si scagliano.

Emblematica in tal senso è I Shop Therefore I Am, 1987: in essa la massima cartesiana Cogito ergo sum - Penso, dunque sono - si trasforma in Compro dunque sono condensando in un semplice slogan la condizione dell’uomo medio contemporaneo, desacralizzandolo. L’opera, incorniciata di rosso, mostra una mano che regge un quasi biglietto da visita con l’iconica e ironica scritta: con essa e in essa la Kruger mostra il percorso da homo sapiens/faber a homo consumens/comfort13

La critica nei confronti dei mass media è evidente anche in Untitled (Thinking of you), realizzata tra il 1999 e il 2000. Il pronome personale you/tu replica i meccanismi messi in atto dalla rete dei media nei confronti degli spettatori per attirarli e successivamente intrappolarli - con messaggi persuasivi, convincenti e allettanti - nella rete mediatica qui impersonata dalla spilla da balia che punge un dito. Se da un lato l’espressione Ti penso rifette una conversazione intima mentre l’immagine fotografca che fa da sfondo appare minacciosa e al limite dell’inquietudine. Il monito dell’artista corrisponde all’invito rivolto allo spettatore di svegliarsi dal sonno mediatico14

La stessa Kruger dirà che con i suoi testi si rivolge alla gente in maniera breve e diretta ed è per questo che usa sempre i pronomi ma anche che vuole affrontare la complessità del potere della vita sociale evitando livelli di diffcoltà troppo alti.

Le opere verbo-visive di Barbara Kruger hanno un tono accusatorio non solo nei confronti della cultura dominate massifcata, ma anche maschilista.

Ne è esempio Untitled (Your gaze hits the side of my face), 1981: il testo a sinistra dell’immagine fotografca recita “Il tuo sguardo colpisce il lato del mio volto”; la breve ma intensa frase, scritta in caratteri tipografci tipici della grafca pubblicitaria, riesce ad infondere vitalità e forza poetica ad un viso femminile pietrifcato, silente e

24

inanimato prima, espressione di un’anima15 dopo. La frase impersonale e cupa accompagna l’altrettanto impersonale proflo femminile, stilizzato nella versione classica in cui il collo scompare andando a formare un blocco di pietra; l’artista intende far passare il messaggio di una donna resa inerme da un insistente sguardo maschile (voyerismo) situato fuori campo che fa del medesimo busto femminile un oggetto passivo pienamente conforme alle fantasie patriarcali16

In Untitled (Your Body is a Battleground), 1989 il testo breve e immediato, duro e intenso - Il tuo corpo è un campo di battaglia - domina un volto femminile diviso in due. Si tratta di un’opera/ manifesto creata in occasione della marcia pro-choice avvenuta a Washington nello stesso anno e divenuta col tempo icona delle battaglie contro la disuguaglianza di genere; con essa l’artista costringe il suo pubblico ad una rifessione critica sulla società e su ciò che le donne dovevano (e purtroppo devono a tutt’oggi) affrontare per non vedersi negati i propri diritti. L’opera è anche espressione del suo personale dissenso contro la negazione dei diritti delle donne e gli effetti del patriarcato17

Ciononostante la Kruger viene comunemente etichettata dalla critica come artista post-moderna piuttosto che come artista femminista, in quanto il suo lavoro trascende l’ambito apparentemente circoscritto del femminismo. È stata Laura Cottingham18 ad affermare che la produzione di quest’artista si inserisce comunque all’interno della pratica femminista iniziata con gli anni ‘70 poiché anche se sul piano formale la produzione non appare cruda, viscerale, emotiva proprio dell’arte femminista, la strategia deriva comunque da motivi intellettuali ed estetici propri delle artiste femministe di prima generazione.

Invece l’opera Untitled (We Don’t Need Another Hero), 1987 può avere una duplice lettura: l’affermazione Non abbiamo bisogno di un altro eroe può essere intesa sia come un commento alla condizione

delle donne durante la guerra che come una critica velata alla segregazione e disuguaglianza di genere durante gli anni della realizzazione del medesimo manifesto. Infatti le due giovani donne rappresentate si ispirano al We Can Do It! del 1943 di J. Howard Miller, manifesto di propaganda risalente alla Seconda Guerra Mondiale19: la posa assunta dalla ragazza di destra mima esattamente la posizione di Rosie The Riveter, il personaggio di Miller20

La produzione della Kruger, tuttavia, non si limita al collage e alla fotografa ma gioca anche con performance e installazioni; l’artista si è interessata all’arte installata verso la fne degli anni ‘80 poiché, come lei stessa ha affermato durante un’intervista, le piaceva l’idea di foderare uno spazio, di riceverne messaggi che ci collegano al mondo in modi che ci sembrano familiari, ma che non lo sono21 Nell’installazione multimediale Power Pleasure Desire Disgust, 1997 i messaggi/ testi/parole - un linguaggio che si fa immagine - bombardano lo spettatore riempiendo pareti e pavimento, ma soprattutto si fanno portatori di signifcati universali che non lasciano alcuno spazio di libertà visiva22. Potere, sessualità, relazioni, soldi, amore, odio23 sono i temi veicolati da questo linguaggio/immagine programmato dall’artista per cambiare ogni dieci secondi.

L’ambiente è costantemente sopraffatto da parole/immagini e voci differenti, attraverso l’uso simultaneo di fotografa, video e suono; sulla parete di fondo sono posizionati tre monitor che mostrano delle persone in primo piano mentre discutono i temi suddetti in un monologo. Tutto è ben visibile - ma non udibile - dallo spettatore/fruitore sin dall’ingresso della galleria, per cui egli viene quasi risucchiato progressivamente nel tunnel verbo/visivo.

Non ultimo Barbara Kruger artista condivide con il mondo pubblicitario non solo le tecniche ma anche i mezzi di fruizione dell’opera d’arte stessa: School Bus, 2012 utilizza un autobus per veicolare messaggi tramite manifesti e cartelloni pubblicitari. Il progetto, ideato e realizzato

per l’organizzazione flantropica Arts Matter ricopre l’intero spazio esterno del bus con numerosi testi signifcativi che parlano d’arte, educazione, insegnamento e senso civico. L’intento complessivo dell’artista è stato quello di sottolineare l’importanza dell’educazione artistica nelle scuole pubbliche di Los Angeles24. Per questa artista l’arte è indispensabile e di fondamentale importanza per un sistema educativo di successo e ciò spiega perché fa girare per le strade l’idea stessa; infatti l’espressione “art is as heavy as sorrow, as light as a breeze, as bright as an idea” - tra molte altre - predica che l’arte è pesante come il dolore, leggera come una brezza, luminosa come un’idea declamando la natura fuida dell’espressione artistica.

In tutti i suoi lavori Barbara Kruger si sforza di creare momenti di consapevolezza, di far esplodere dei sentimenti di esperienza vissuta; Lei mette in scena, a vantaggio dello spettatore, le tecniche attraverso le quali lo stereotipo produce assoggettamento25; parimenti indaga e riproduce le relazioni sociali esistenti nella nostra società, in modo da promuoverne il cambiamento in meglio. Attraverso la fotografa la sua arte tende a farsi sempre più globale e polisensoriale: lei stessa riassume la sua intera produzione nell’affermazione secondo la quale fare arte signifca oggettivare la propria esperienza del mondo, trasformare il fusso dei momenti in qualcosa di visivo, o testuale, o musicale, qualunque cosa26

25

NOTE

1 Pro choice: che si schiera a difesa della libertà di scelta della donna riguardo all’aborto.

2 Barbara Kruger (26 gennaio 1945, Newark, New Jersey, Stati Uniti) è un’artista statunitense. Ha frequentato la Syracuse University e l’anno successivo la Parsons School of Design di New York, dove ha studiato arte e design con Marvin Israel e Diane Arbus - un vero modello per lei in quanto artista-donna. Ha insegnato alla Parsons School of Design, all’Art Institute di Chicago, all’Università di San Diego e a Berkeley. Come insegnante ha incoraggiato le giovani menti dei suoi studenti, ne è stata punto di riferimento, oltre ad aver continuato il suo lavoro di artista.

3 https://www.nytimes.com/interactive/2020/10/19/t-magazine/the-greats.html

4 T. N. Goodeve, L’arte di parlare chiaro, in Contemporanee. Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, E. De Cecco, G. Romano, tr. it. (2002) di B. Casavecchia, M. Gioni, M. Robecchi, Postmedia Books, Milano, 2002, pp. 117-126, qui p. 119.

5 Condé Nast Publications è una casa editrice statunitense fondata nel 1909 da Condé Montrose Nast che pubblica alcune fra le riviste più note dell’editoria statunitense e mondiale, tra cui Vogue, Vanity Fair e The New Yorker

6 Come Mademoiselle e Aperture

7 T. N. Goodeve, L’arte di parlare chiaro, in Contemporanee. Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, E. De Cecco, G. Romano, tr. it. (2002) di B. Casavecchia, M. Gioni, M. Robecchi, Postmedia Books, Milano 2002, pp. 117-126, qui p. 117.

8 M. E. Le Donne, Neoconcettuale, in Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi (2008), F. Poli, M. Corgnati, G. Bertolino, E. Del Drago, F. Bernardelli, F. Bonami, Mondadori Electa, Milano, 2012, pp. 604-623, qui p. 605.

9 Provenienti dal mondo pubblicitario e/o commerciale.

10 Hal Foster (13 agosto 1955, Seattle, Washington, Stati Uniti) è un noto critico d’arte statunitense, è stato allievo di Rosalind Krauss. Insegna arte alla Princeton University dove dirige il dipartimento di Arte e Archeologia.

11 E. Del Drago, Panorama artistico internazionale, in Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi (2008), F. Poli, M. Corgnati, G. Bertolino, E. Del Drago, F. Bernardelli, F. Bonami, Mondadori Electa, Milano, 2012, pp. 482-497, qui p. 494.

12 M. E. Le Donne, Neoconcettuale, in Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi (2008), F. Poli, M. Corgnati, G. Bertolino, E. Del Drago, F. Bernardelli, F. Bonami, Mondadori Electa, Milano, 2012, pp. 604-623, qui p. 606.

13 M. Folcio, «I shop Therefore I am», in “L’art9”, 2015; http://www.lart9.com/project/i-shop-therefore-i-am/

14 https://whitney.org/collection/works/12926

15 P. Phelan, Introduzione, in Arte e Femminismo, H. Reckitt, P. Phelan, tr. it. (2005) di M. Rotondo, Phaidon, Londra, 2005, p. 40.

16 H. Reckitt, P. Phelan, Differenze, in Arte e Femminismo, H. Reckitt, P. Phelan, tr. it. (2005) di M. Rotondo, Phaidon, Londra, 2005, pp. 110-133, qui p. 110.

17 Barbara Kruger - Your body is a battleground, in Public Delivery; https://publicdelivery.org/barbara-kruger-battleground/

18 Laura Cottingham (1959, Cincinnati, Ohio, Stati Uniti) è una critica d’arte, curatrice e artista visiva americana.

19 Ideato per incoraggiare la produzione di armi nelle fabbriche americane, quando le donne avevano occupato i posti di lavoro lasciati dagli uomini partiti per la guerra.

20 Aalia Covadia, We Don’t Need Another Hero by Barbara Kruger, 2017; https://medium.com/@ aaliacoovadia/postmodern-features-explained-through-we-dont-need-another-hero-by-barbara-kruger-b7a1668fc683

21 T. N. Goodeve, L’arte di parlare chiaro in Contemporanee. Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, E. De Cecco, G. Romano, tr. it. (2002) di B. Casavecchia, M. Gioni, M. Robecchi, Postmedia Books, Milano, 2002, pp. 117-126, qui p. 120.

22 I. Becker, “Barbara Kruger”, in Women Artists in the 20th and 21st Century, a c. di U. Grosenick, I. Becker, TASCHEN, Köln 2001, pp. 282-287, qui p. 287.

23 Scorrono frasi come “non abbastanza pazza”, non abbastanza buona”, o ancora “smettila di guardarmi”, “vattene via”, “non ci piaci”: repertorio linguistico comune ad ogni persona - alle donne in particolare - e per questo motivo ancora più effcacemente rappresentato.

24 Barbara Kruger wrapped entire buses in her iconic prints; https://publicdelivery.org/barbara-kruger-art-matters-bus/

25 T. N. Goodeve, L’arte di parlare chiaro in Contemporanee. Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, E. De Cecco, G. Romano, tr. it. (2002) di B. Casavecchia, M. Gioni, M. Robecchi, Postmedia Books, Milano, 2002, pp. 117-126, qui p. 125 - 126.

26 I. Becker, “Barbara Kruger’’, in Woman Artists in the 20th and 21st Century, a c. di U. Grosenick, I. Becker, TASCHEN, Köln 2001, pp. 282-287, qui p. 285.

27

ESTETICA

Con la parola estetica - dal greco aísthesis = sensazionesi è soliti indicare - a partire dal Settecento - la disciplina flosofca che si occupa del bello e dell’arte1. Attingendo ad autori come Omero ed Esiodo, è possibile trovare esplicito riferimento ad alcuni caratteri della bellezza rimasti immutati quali luminosità e splendore; dai pitagorici la bellezza è descritta come simmetria e proporzione; per i sofsti la bellezza è forza di persuasione e capacità di attrarre e/o ingannare. Proprio quest’ultimo carattere del bello costituisce la base di uno dei nessi espliciti tra arte e bellezza presenti sin dal pensiero arcaico: la poesia condivide con la bellezza la forza di persuadere.

La concezione classica invece oscilla fra la condanna platonica dell’arte in quanto copia sbiadita e moralmente pericolosa della realtà sensibile, e la rivalutazione aristotelica che riconosce nell’esperienza estetica una positiva funzione catartica per procedere, poi, ad un’analisi dettagliata dei prodotti letterari ed estrarre un complesso di norme che regolano il fare artistico.

Il classicismo rinascimentale, recuperando Aristotele, ha messo a fuoco il concetto di imitazione per concepire l’arte come una costruzione intellettuale fondata sul rispetto di regole precise, capace di ornare e rendere gradevoli determinate verità flosofche e/o religiose.

L’estetica flosofca in senso proprio entra in crisi con Nietzsche e la sua polemica contro l’arte delle opere d’arte2 e si svolge successivamente attraverso autori come W. Benjamin3 e Heidegger4. Sta di fatto che nel corso di tutto ‘800 e del ‘900 accanto a teorie estetiche di tipo flosofco e sistematico, si sono fatte strada posizioni più duttili e pragmatiche che collegano la rifessione estetica non solo all’arte come scienza del bello ma anche agli apporti di varie discipline scientifche (sociologia, psicologia, linguistica) e a differenti criteri metodologici (strutturalismo, fenomenologia, freudismo, marxismo).

L’estetica contemporanea ritrova vigore attraverso una serie di autori tra i quali Gadamer5 e Jauss6: il primo rivendica l’esperienza dell’arte come esperienza di verità - contro le pretese dello scientismo - e colloca questa esperienza di verità nel momento della interpretazione che mette in gioco e modifca profondamente, quando è un’esperienza autentica, il mondo e la vita dell’interprete; il secondo - per mezzo della cosiddetta estetica della ricezione - guarda con particolare interesse all’effetto dell’esperienza estetica sullo spettatore/fruitore/lettore: l’opera si confgura come risposta ad un interrogativo e si ripropone come tale anche a colui che ne è recettore.

L’ARCHITETTURA DEL LINGUAGGIO DELLA COMUNICAZIONE

28

L’ARCHITETTURA

NOTE 1 Il primo ad usare il termine estetico in tal senso è stato Baumgarten (Meditazioni flosofche concernenti la flosofa - 1735) ma è stato poi Kant nella Critica del giudizio (1790) a chiamare estetico il giudizio del gusto e - nella Prefazione della stessa opera - a defnisce in generale estetico il giudizio che riguarda il bello e il sublime nella natura e nell’arte.

2 Friedrich Nietzsche, La gaia Scienza, 89; Umano troppo umano, II 175.

3 Walter Benjiamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936.

4 Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte 1935-36.

5 Hans-Georg Gadamer (11 febbraio 1900, Marburgo, Germania - 13 marzo 2002, Heidelber, Germania) è stato un flosofo tedesco, considerato uno dei maggiori esponenti dell’ermeneutica flosofca.

6 Hans Robert Jauss (21 dicembre 1921, Göppingen, Germania - 1 marzo 1997, Costanza, Germania) è stato un accademico tedesco. È noto per il suo lavoro sulla teoria della ricezione.

7 La retorica classica è suddivisa in cinque parti: l’inventio, che consiste nella ricerca degli argomenti, la dispositio che regola la loro distribuzione nel testo, l’elocutio che riguarda la composizione vera e propria e detta le norme dello stile, la memoria che insegna a memorizzare il testo per pronunciarlo oralmente, l’actio o pronutiatio, relativa alla declamazione del testo. Le prime tre parti interessano qualsiasi testo scritto, mentre le ultime due riguardano soltanto l’oratoria.

8 La persuasione è un fenomeno emotivo di assenso psicologico, con basi epistemologiche: lo studio dei fondamenti della persuasione corrisponde allo studio degli elementi che, connettendo diverse proposizioni tra loro, portano a una conclusione condivisa, a una rivelazione della verità nello specifco campo del discorso. Sotto questo aspetto la retorica è nota anche come metalinguaggio, in quanto discorso sul discorso, Cf. Secondo Roland Barthes (Cherbourg, 12 novembre 1915 - Parigi, 26 marzo 1980) - saggista, critico letterario, linguista e semiologo francese.

9 Dallo storico francese Henri-Irénée Marrou (Marsiglia, 12 novembre 1904 - Bourg-la-Reine, 11 aprile 1977).

ESTETICA, LINGUA E RETORICA

Nell’estetica del ‘700 era già presente anche la nozione di uso estetico della lingua sebbene solo con la fondazione della linguistica ad opera di Saussure diventano possibili approcci sistematici ai problemi posti dall’estetica. Gli approcci diversi rispecchiano l’attenzione ad aspetti diversi del linguaggio e/o il riferimento a metodologie diverse. Basta ricordare l’originale teoria elaborata da Jakobson a proposito del linguaggio poetico: la funzione poetica proietta il principio della equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione, vale a dire che l’uso poetico della lingua consiste nello scegliere un elemento linguistico da combinare con un altro in base al criterio della equivalenza (fonetica, prosodica, semantica, ecc.) che presiede alla costituzione dei paradigmi (gruppi di elementi linguistici accumunati proprio dall’essere simili dal punto di vista fonico, semantico, prosodico, ecc.).

Nel trattare del rapporto dialettico tra arte e linguaggio nonché tra estetica e lingua si fa riferimento anche alla retorica7 tradizionalmente intesa come l’arte dell’eloquenza e come tale la più antica delle discipline concernenti il linguaggio. Risalente al V secolo a.C. si defnisce innanzitutto come tecnica della persuasione8 e quindi per il suo aspetto pragmatico. Introdotta a Roma - a partire dal II secolo a.C. dalla Grecia - vedrà superata la distinzione fra la retorica intesa come arte del discorso in pubblico dalla poetica come arte della poesia tanto da assistere all’avvento di quella che viene chiamata seconda retorica corrispondente ad una seconda poetica: l’obiettivo pragmatico cede il posto all’obiettivo estetico e l’antica retorica del ragionamento si evolve nella direzione della retorica classica dello stile.

La retorica, confrontandosi e confondendosi con una molteplicità di discipline, ha assunto essa stessa svariati aspetti e signifcati: intesa anche come teoria generale della comunicazione, essa è considerata denominatore comune della civiltà occidentale9

La retorica come l’arte della comunicazione mediante la parola e la scrittura, come l’arte del dire intesa sia come tecnica - sistema di regole didattiche utili a rendere effcace l’espressione orale e scritta - sia come scienza, cioè conoscenza dei principi sui quali si fonda la pratica del linguaggio artistico, è stata l’asse portante della formazione letteraria per tutto il XIX secolo.

IL LINGUAGGIO RETORICO

Considerandola scienza relativa ai principi sui quali si fonda la pratica del linguaggio artistico, la retorica è stata attaccata perché ritenuta all’opposto dell’immediatezza espressiva e della creatività, colpevole del formalismo della letteratura tradizionale.

Ciò non signifca che le fgure retoriche - nome dato in genere gli accorgimenti contemplati dall’insegnamento retorico della tradizione - abbiano cessato di essere operanti nella letteratura, ma soltanto che si è smarrito il valore precettistico che esse serbavano nella formazione letteraria del passato. Anzi sin dalla fne dell’ottocento - e parecchio oltre - si è venuta costituendo una nuova retorica, che intende studiare le fgure come fondamentali strutture del linguaggio, e indagarne i meccanismi in relazione con altre scienze che hanno avuto un particolare sviluppo recente, quali la linguistica, la sociologia, la psicolinguistica, la semiologia10 Il linguaggio retorico altro non è se non la capacità di comunicare delle immagini attraverso la parola scritta: è una disciplina provvista di regole e accorgimenti - le fgure retoriche11 appunto - che mirano proprio a suscitare particolari effetti nel lettore o nell’ascoltatore. Il linguaggio retorico è un atteggiamento dello scrivere, ma anche del parlare o dell’agire caratterizzato da un eccesso di artifciosità o da una vistosa ricerca dell’effetto. Il linguaggio retorico permette l’elaborazione artistica di un testo: è implicita dunque la convinzione che esista anche una forma semplice del testo, sulla quale l’oratore e/o lo scrittore intervengono per abbellirlo.

10 Il sistema retorico, in La letteratura nella Storia d’Italia, vol. 1, F. Tateo, N. Valerio, F. Pappalardo, Editore Il Tripode, qui p. 797.

11 Sono fgure retoriche la similitudine, la metafora, la sinestesia, l’allegoria, l’antitesi, l’ossimoro, la personifcazione ma anche l’iperbole, la litote, la dissimulazione, la sineddoche, la metonimia. Sono fgure retoriche per adiectionem (per aggiunta, ripetizione): fgura etimologica, anafora, epifora, anadiplosi, geminatio, iteratio, paronomasia, bisticcio, polyptoton, alliterazione, onomatopea, sinonimia, dittologia, gradatio, accumulazione, enumerazione, asindeto, polisindeto. Sono fgure retoriche per detractionem (per riduzione) l’ellissi e lo zeugma. Sono fgure retoriche per ordinem (per ordine): anastrofe, iperbato, parallelismo, chiasmo.

29
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

PARLARE E SCRIVERE PER IMMAGINI

La necessità di completare la lingua scritta con le fgure retoriche è tipica dell’artista che percepisce la prima come limitante anche per la mancanza di una serie di caratteristiche proprie della lingua parlata. Parlare per immagini signifca permettere a chi ascolta di creare un’immagine precisa di ciò che sta ascoltando in quel momento e questo parlare per immagini lo si può ottenere costruendo il discorso proprio intorno all’immagine che si vuole trasferire. Con il linguaggio retorico il trasferimento di queste immagini avviene attraverso la scrittura: ne sono esempio eclatante i poemi epici12, le poesie, le lettere; oggi ci sono le e-mail, i messaggi whastapp che non parlano semplicemente per immagini ma si nutrono, essi stessi, di immagini, foto, disegni, gif animate, e delle - abusate - emoji. Soprattutto queste ultime si fanno strumento di comunicazione diretta, esprimono pensieri, emozioni, idee senza l’ausilio della parola scritta.

È stato Yona Friedman13 nel suo libro L’ordine Complicato. Come costruire un’immagine, ad affermare che gli esseri umani pensano allo stesso tempo per parole e per immagini, sebbene tiene a precisare che le regolarità esprimibili a parole e quelle contenute nelle immagini non sono le stesse: con le parole si presenta un’accumulazione, con le immagini una totalità. Qualunque cosa risulta differente a seconda che la si presenti a parole o con le immagini: le parole sono perfette per analizzare un’esperienza, mentre per esprimere la totalità sono necessarie le immagini; l’immagine nasce già come unitaria. Le stesse scienze ricorrono a dei modelli matematici per rappresentare in modo pratico e univoco le proprie osservazioni scientifche e dare, di conseguenza, una immagine corretta della realtà osservata. Ne consegue che le immagini rappresentano in modo diretto la realtà, sono esse stesse realtà, mentre le parole, le espressioni verbali sono delle astrazioni, dei simboli14 Quando comunemente si parla di scrittura è implicito il riferimento alla scrittura glottica cioè ad una scrittura che traduce in segni i suoni del parlato15, di cui l’alfabeto rappresenta il culmine del processo. Eppure le scritture esistenti nel mondo prevedono usi e funzioni diversi dall’alfabeto, e non sono semplice trascrizione del parlato. Infatti la scrittura - anche quella alfabetica - è piena di segni che con il parlare non hanno nulla a che fare: basti pensare al sistema di punteggiatura; virgole, punti, punti e virgola non hanno quasi nessun rapporto con come un testo vada pronunciato. Inoltre ci sono anche una serie di segni grafci che hanno ragioni solo interne al testo scritto - il testo stesso può apparire in bold, italic, sottolineato - come i rientri di riga, i segni d’esponente per le note che non traducono alcun suono16 Non esiste un’oralità puramente sonora che prescinda da sguardi, gesti, smorfe e rumori eppure il modo in cui la scrittura solitamente viene composta, perpetua il malinteso secondo il quale la scrittura alfabetica risulta disposta su linee continue, evoca l’analogia con un flo che si svolge come un

discorso che viene pronunciato. Questo invece è solo uno dei modelli spaziali, non l’unico in uso. Anzi questo modello, quello del flo continuo - in uso nel romanzo classico - tende a nascondere il fatto che si tratta di un uso specifco dello spazio, e fnisce così per essere considerato lo spazio della scrittura tout court: i modelli di spazializzazione della scrittura sono molteplici e se ne usano diversi tutti i giorni. Nel testo scritto il rapporto tra segni e signifcati è, se non univoco, comunque limitato da accordi precisi, e questo è il requisito fondamentale perché ci sia comunicazione. Vero è, però, che anche all’interno del testo scritto ci sono possibilità e registri diversi: un testo scientifco ha priorità informativa e non dovrebbe lasciare margine a dubbi interpretativi; un testo poetico è invece programmaticamente plurivoco, e innesca meccanismi esegetici, evocativi e immaginifci. In più il registro cambia a seconda dello scrivente. Nella maggior parte delle scritture con cui l’uomo si confronta ogni giorno, la posizione dei segni ha un preciso valore semantico e non è esclusivamente lineare. In tutte le tabelle, le matrici, gli indici, le mappe, i diagrammi - a cominciare dall’orario dei treni o degli scontrini del supermercato - la posizione dei segni sulla carta veicola informazioni precise: un certo testo o un certo numero signifca cose diverse se sì trova in una colonna piuttosto che in un’altra e ciò è ancor più evidente nella scrittura matematica. Le note sul pentagramma insieme ad una equazione o ad una partitura musicale sono testo scritto a tutti gli effetti ma sono scritture differenti: segni/immagini, scritture visive, scritture visuali.

La scrittura è più cose con fnalità diverse e i suoi confni non sono netti; anche se si parla di scrittura per tutti quei segni che hanno assunto nell’uso valore convenzionale e analitico, non si può negare che questi stessi segni sono anche immagini, che le lettere sono fgure e che ogni scrittura ha sempre una forma.

È stata l’esplosione degli elementi grafci nella comunicazione di massa a consegnare alla forma un ruolo fondamentale al pari del contenuto.

12 L’esempio canonico è la descrizione di Omero dello scudo di Achille (ecfrasi - rappresentazione verbale di una rappresentazione visiva).

13 Yona Friedman (Budapest, 5 giugno 1923Parigi, 20 febbraio 2020) è stato un architetto, urbanista, teorico, designer e artista ungherese naturalizzato francese. Ha attraversato quasi un secolo nel segno della sperimentazione e dell’intreccio fra le discipline. Ha insegnato in numerose università americane e collaborato con l’Onu e l’Unesco. La sua intensa attività saggistica spazia dall’architettura alla fsica, dalla sociologia alla matematica. Negli ultimi anni l’opera di Friedman è stata scoperta dal mondo dell’arte contemporanea ed è stato invitato all’XI documenta di Kassel e a diverse edizioni della Biennale di Arti Visive di Venezia.

14 Cf. Y. Friedman, L’ordine complicato. Come costruire un’immagine, Quodlibet, 2011.

15 Saussure aveva affermato che l’unica ragion d’essere della scrittura è trascrivere la lingua parlata, e di questo sono convinti la maggior parte degli scriventi.

16 Tra questi c’è il particolare caso delle virgolette del discorso diretto e delle citazioni che da elemento prettamente tipografco, è rimbalzato nell’oralità dove viene raffgurato con le due mani alzate e con l’indice e il medio che grattano l’aria, a sottolineare un determinato signifcato ironico, traslato e/o citato. Nel momento in cui entrano a far parte del mondo orale non ci entrano come suono, ma come segno; Cf. R. Falcinelli, Guardare Pensare Progettare, Neuroscienze per il design, Stampa Alternativa & Graffti, 2011, pp. 263 - 265.

17 James Elkins storico dell’arte e delle immagini alla School of the Art Institute of Chicago.

18 R. Falcinelli, Guardare Pensare Progettare, Neuroscienze per il design, Stampa Alternativa & Graffti, 2011, pp. 262 - 267.

LEGGERE LE IMMAGINI

Considerando tutti gli usi espressivi o narrativi che non hanno analoghi con i fatti sonori, si stravolgerebbe nell’essenza un poema in endecasillabi se fosse trascritto per esteso; per molti testi le strutture retoriche e ritmiche sono anzitutto cose da vedere prima che da ascoltare: ad esempio un sonetto è prima di tutto una fgura più o meno quadrata divisa in quattro fasce. Un altro esempio è dato dalla frase che non termina col verso, ma sì protrae in quello successivo - il cosiddetto enjambement - le cui ragioni eminentemente metriche sono tutte da vedere e non da pronunciare. Ancora, nei fumetti la posizione di un elemento testuale conta quanto il testo stesso.

Questi esempi stanno ad indicare che quando si passa dallo scrivere un testo alla sua lettura, si pongono nuove questioni e nuove risultano essere anche le questioni da affrontare quando si passa dalla costruzione di una immagine alla sua lettura. Pertanto se nella lettura di un testo poetico contano i rapporti fra le strofe e le strutture ritmiche, nelle tabelle e nei diagrammi conta come si incrociano i dati e in una pagina web conta come si accede a livelli successivi o simultanei di informazione.

La lettura delle immagini/fgure invece - sia di quelle mimetiche che di quelle astratte - sembra non avere regole precise: ognuno legge come preferisce un dipinto, un’illustrazione, una fotografa poiché sono in grado di attivare un’interpretazione potenzialmente infnita.

Sia le immagini - tutti i segni possibili anche se solo pensati - che le fgure - tutti i segni più strettamente mimetici o espressivi - sono infatti rifesso della cosa reale ma anche una costruzione del cervello umano.

È stato James Elkins17 a defnire un modello tripartito dove l’insieme dei segni è costituito da tre categorie principali le scritture, le fgure e le notazioni - writing, picture, notation - ma la norma è data dall’intersezione, sovrapposizione e meticciato fra i tre gruppi18

31

LA COMUNICAZIONE VISIVA

La centralità delle immagini nella costruzione dei messaggi - sia parlati che scritti ma anche sonori, termici, dinamici e quant’altro - ha contribuito a determinare quella che oggi viene chiamata comunicazione visiva che può essere estesa a tutto ciò che gli occhi vedono: una nuvola, un fore, un disegno tecnico, un manifesto, una libellula, una bandiera19 Nella vita di tutti i giorni ci sono innumerevoli esempi di comunicazione visiva: la segnaletica stradale, i cartelli indicatori nei luoghi di ritrovo e/o ospedali, aeroporti, ecc..

Si tratta di un tema molto vasto che tocca anche il disegno, la fotografa, la plastica, il cinema; si va da forme astratte a forme reali; da immagini statiche a immagini in movimento e da semplici a complesse, fno a questioni di percezione visiva che riguardano il lato psicologico del tema medesimo: rapporti tra la fgura e lo sfondo20, mimetismo, illusioni ottiche, movimento apparente, immagini ambiente, permanenza retinica e immagini postume. Un tema che comprende tutta la grafca, tutte le espressioni grafche dalla forma del carattere all’impaginazione di un quotidiano, dai limiti di leggibilità delle parole a tutti i mezzi che facilitano la lettura di un testo.

Se infatti la comunicazione visiva è la trasmissione di un messaggio tramite un’immagine che presenta in maniera metaforica la realtà, è pur vero che la comunicazione per immagini permette di raggiungere il massimo effetto comunicativo nel più breve tempo possibile, grazie al suo forte potere di richiamo, alla sua immediatezza, comprensibilità e alla facilità di memorizzazione.

Affnché essa funzioni però, è necessaria l’oggettività; se l’immagine usata per un certo messaggio non è oggettiva, ha molte meno possibilità di comunicazione visiva; occorre invece che l’immagine usata sia leggibile a tutti e per tutti nello stesso modo altrimenti non c’è comunicazione visiva, anzi non c’è affatto comunicazione c’è confusione visiva21 Va da sé che ogni immagine esterna, una volta percepita, deve entrare in contatto con la massa delle immagini che ognuno ha dentro di sé, un magazzino che si è formato durante tutta la vita dell’individuo e che l’individuo ha accumulato: immagini consce e inconsce, immagini lontane della prima infanzia e immagini vicine e, assieme alle immagini strettamente legate ad esse, le emozioni.

Nella grande massa di informazioni visive che oggi circolano anche grazie ad un processo di perfezionamento della riproducibilità tecnica delle immagini medesime la comunicazione visiva cerca di stabilire il rapporto - più esatto possibile - tra informazione e supporto; si dicono supporti della comunicazione visiva il disegno, il colore, la luce, il movimento che vanno usati in rapporto a chi deve ricevere il messaggio. Questo perché per tutti i tipi di comunicazione e quindi anche per la comunicazione visiva si considerano l’emittente, il ricevente, il canale, il codice, il contesto e il messaggio22

Conoscere le immagini che popolano il mondo circostante, vuol dire anche allargare le possibilità di contatti con la realtà; vuol dire vedere di più e capire di più.

DALLA CULTURA VISIVA ALLA CULTURA VISUALE

La comunicazione visiva esplose nell’immediato dopoguerra per il passaggio da un’economia basata sulla produzione di beni strumentali ad un’economia orientata ai beni di consumo, come fulcro di complesse strategie sociali, culturali e di mercato. Essa non si fermò alla sola veste pubblicitaria del prodotto, ma riguardò anche il radicale ammodernamento dei valori architettonici degli edifci, delle fabbriche fno a divenire strumento per diffondere nuovi valori, sostenere progetti sociali, promuovere comportamenti generalizzati e/o conoscenze di interesse comune. Dalla metà del XX secolo in poi ha assunto anche il controllo della propaganda politica, dei sistemi informativi di orientamento, della comunicazione culturale, inculcando in ogni lettore/fruitore il senso profondo di una modernità della quale essa stessa risultava uno dei più signifcativi prodotti. Alla fne degli anni ‘50 del XX secolo si cominciò a parlare di civiltà delle immagini per indicare la crescente centralità della comunicazione visiva nella cultura di massa della società occidentale. Furono analizzati e discussi, sotto il proflo sociologico ed estetico, non solo il nascente fenomeno della televisione, ma anche campi ritenuti fno ad allora marginali rispetto a quelli dell’arte e della scienza, quali la pubblicità, i fumetti, il disegno industriale, la grafca aziendale. Si trattava di argomenti ritenuti all’epoca triviali, che con la loro pervasività nell’esistenza collettiva quotidiana stavano in realtà modifcando i modelli di pensiero e di comportamento.

Negli anni sessanta Umberto Eco23 analizzava la cultura di massa innalzando sul piano dell’analisi estetica fenomeni quali gli spettacoli televisivi e i fumetti, rilevando il valore moderno dell’industria culturale. Eco colse il mutamento atto in Europa in quegli anni e lo pose sotto il segno della comunicazione, sostenendo che ormai tutti gli appartenenti alla comunità diventano, in misure diverse, consumatori di una produzione intensiva di messaggi a getto continuo, elaborati industrialmente in serie e trasmessi secondo i canoni commerciali in un consumo retto dalle leggi della domanda e dell’offerta. In tal modo egli fece dei mass-media i protagonisti di una nuova cultura coinvolgente e contraddittoria. Porre l’accento sulla dimensione culturale delle immagini e della visione signifca fare cultura visuale a partire dai fattori che la determinano: tecnologici, mediali, sociali, politici. Dunque un campo di studi interdisciplinare il cui nome - cultura visuale, cultura ottica, cultura della visione24 - viene adoperato per riferirsi alle trasformazioni epocali prodotte dalla fotografa e dal cinema considerati media ottici capaci di ridefnire le coordinate del visibile, nonché il rapporto tra visione e lettura, tra esperienza visiva e sapere concettuale.

32

VISUAL STUDIES

L’ambito disciplinare che studia la Cultura Visuale - espressione riferita in origine alle immagini prodotte dai media di qualsiasi tipo e alle modalità culturali della visione - sono i Visual Studies25

Questi compaiono nel mondo accademico anglosassone al termine di un lungo percorso - cominciato negli anni ‘50 con la comparsa dei Cultural studies e con l’intento di porre l’accento sulla dipendenza dell’arte da altri fenomeni storico-sociali o da condizioni di tipo psicologico - per sottolineare, poi, tutti quei cambiamenti che si stavano verifcando nell’ambito di quella che viene chiamata iconosfera: la sfera costituita dalle immagini che circolano in un determinato contesto culturale, dalle tecnoclogie con cui esse vengono prodotte, elaborate, trasmesse e archiviate e dagli usi sociali di cui queste immagini sono oggetto.

I primi teorizzatori dei Visual Studies sono stati Balázs26 e László Moholy-Nagy27 che colsero immediatamente l’impatto che la fotografa e il cinema stavano avendo sulla ridefnizione delle coordinate del visibile, del rapporto tra parola e immagine, visone e lettura, esperienza visiva e sapere concettuale. Più esattamente Balázs nei suoi scritti di teoria del cinema si faceva sostenitore del primato dell’immagine sulla parola, Moholy-Nagy vi aggiunse la fotografa affermando che entrambi - cinema e fotografa - erano in grado di portare alla luce fenomeni prima inaccessibili all’occhio umano.

Negli anni ‘90 i Visual Studies si differenziano dai cultural studies diventando sempre più autonomi oltre a prendere le distanze anche dagli image studies. Rispetto a questi ultimi infatti pongono l’accento sul rapporto tra l’immagine e il suo consumatore, indagato in funzione della sua capacità di individuare le culture che danno senso e signifcato all’immagine stessa.

Questi sono anche gli anni della svolta visuale attraverso varie espressioni che si richiamavano deliberatamente alla cosiddetta svolta linguistica (linguistic turn). Si deve a W.J.T. Mitchell28 il termine di pictorial turn tradotto poi in svolta immaginale. Certo è che questa svolta, che sembrava in controtendenza con quella testuale, ha fnito col tradurre in parole e concetti tutta la produzione di immagini della società di massa.

A partire dagli inizi del XXI secolo i Visual Studies si caratterizzano ulteriormente per il loro interesse nei confronti delle forme contemporanee dell’immagine ma anche nei confronti delle modalità di lettura, di fruizione e di costruzione di un immaginario contemporaneo delle immagini stesse; si pone l’attenzione sulla centralità attuale dell’immagine nella vita quotidiana degli individui.

Pertanto più che ripercorrere la storia dell’arte e delle immagini, i Visual Studies si concentrano sulla storia delle immagini del XX e XXI secolo, nella consapevolezza che l’attuale cultura visuale si forma e si sviluppa proprio in questo periodo in stretta connessione con l’idea, poi criticata, dell’esistenza di media visuali e del loro predominio.

Il successo di questi studi ha raggiunto il suo apice nei primi anni del Duemila per poi esaurire rapidamente la propria spinta propulsiva: da allora si sono diffusi ed espansi accademicamente in tutto il mondo, ma senza produrre innovazioni teoriche signifcative.

19 B. Munari, in Design e comunicazione visiva, Contributo a una metodologia didattica, Ed. Laterza, (coll. Economica Laterza, n. 807), Bari-Roma, 2013, p. 81.

20 Il principio fgura-fondo è il rapporto che esiste spesso tra la fgura che può essere geometrica e non, e il fondo sul quale si trova. Un’idea di questo principio è messa in evidenza dalla nota illustrazione della quale il sistema percettivo umano riceve due immagini equivalenti: una è il calice bianco su fondo scuro, l’altra sono due profli scuri, uno di fronte all’altro su fondo chiaro.

21 B. Munari, in Design e comunicazione visiva, Contributo a una metodologia didattica, Ed. Laterza, (coll. Economica Laterza, n. 807), Bari-Roma, 2013, p. 13.

22 Così come teorizzato da Jakobson a proposito del linguaggio ma che possono, e di fatto lsono state riferite anche alle altre forme di comunicazione, non ultima quella visiva.

23 Apocalittici e integrati è un saggio pubblicato da Umberto Eco nel 1964. In questo testo, il semiologo italiano analizza il tema della cultura di massa e dei mezzi di comunicazione di massa.

24 Corrispondenti agli originali: Visuelle Kultur, Optische Kultur, Schaukulture

25 La Cultura Visuale può essere variamente interpretata o come costituzione culturale della visione o come costruzione visuale della cultura.

W.J.T. Mitchell, Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, a cura di M. Cometa, V. Cammarata, Raffaello Cortina Editore, 2011.

26 Béla Balázs (4 agosto 1884, Seghedino, Ungheria - 17 maggio 1949, 17 maggio 1949, Józsefváros, Budapest, Ungheria) è stato un poeta, scrittore, regista e sceneggiatore ungherese.

27 László Moholy-Nagy (20 luglio 1895, Bácsborsód, Ungheria - 24 novembre 1946, Chicago, Illinois, Stati Uniti) è stato un pittore e fotografo ungherese naturalizzato statunitense esponente del Bauhaus.

28 William J.T. Mitchell (24 marzo 1942, Anaheim, California, Stati Uniti) è un accademico americano, uno dei massimi studiosi della Visual Culture, insegna Letteratura inglese e Storia dell’arte presso la University of Chicago, dirige la rivista interdisciplinare Critical Inquiry, è tra i padri fondatori del vasto campo di studi affermatosi a livello internazionale con il nome di Cultura Visuale

33

MEDIA VISIVI O

MIXED MEDIA?

Quella di media visivi è un’espressione colloquiale che indica cose come la televisione, i flm, la fotografa, la pittura e così via, ma inesatta e fuorviante: tutti i cosiddetti media visivi coinvolgono anche altri sensi29, di conseguenza tutti i media - dal punto di vista delle modalità sensoriali - sono sempre mixed media (visivi, tattili, uditici, ecc.). Ciononostante si continua a parlare di alcuni media come se fossero esclusivamente visivi e/o con predominanza del visivo. Da Aristotele - secondo cui la tragedia combina i tre ordini di lexis, melos e opsis (parola, musica, spettacolo) - alla divisione semiotica - immagini/musica/testo - il carattere ibrido dei media è evidente: una nozione di purezza non è contemplata nel caso di media classici ne tanto meno di quelli moderni, sia dal punto di vista degli elementi sensoriali e semiotici in questi contenuti, che dal punto di vista dei fattori esterni come - ad esempio - la composizione eterogenea del loro pubblico. Anche il cinema muto non può essere considerato un medium puramente visivo in quanto tutti i flm muti sono stati sempre accompagnati dalla musica e dalla parola che gli stessi testi flmici comprendevano come sottotitoli. Forse il caso esemplare, e allo stesso tempo scontato, di medium puramente visivo potrebbe essere la pittura: il medium canonico della storia dell’arte; la pittura si emancipa dal linguaggio, dalla narrazione, dall’allegoria, dalla fgurazione per esplorare la cosiddetta pittura pura, caratterizzata da otticità pura30. Ma anche la pittura puramente ottica, che mostra un uso puramente visivo del medium, è tutt’altro che tale: la percezione di un dipinto comprende anche la constatazione del suo essere un oggetto realizzato manualmente e come tale comprende in sé il tatto. Fra tutti l’architettura è invece il medium più impuro in assoluto e quindi il meno adatto a sostenere la tesi della otticità pura: è il medium che incorpora tutti gli altri poiché è fatto per essere vissuto e/o abitato. E se la scultura è semplicemente da ritenere un’arte in cui predomina la dimensione tattile, della fotografa - ultima arrivata nel repertorio mediale della storia dell’arte - si può dire che è super pervasa dal linguaggio: il suo ruolo specifco è l’atto di rappresentare l’invisibile, mostrare ciò che non si vede ad occhio nudo.

Sta di fatto che la storia dell’arte successiva al postmodernismo ha minato la concezione di un’arte puramente visiva: installazioni, mixed media, performance art, arte concettuale, site specifc art, minimalismo, e anche lo stesso ritorno alla rappresentazione pittorica hanno reso la nozione di otticità pura una sorta di miraggio, come se un’opera d’arte puramente visiva sia quasi stata una temporanea anomalia rispetto a una tradizione molto più durevole di mixed media. Tutti i media dunque sono mixed media, ma resta il fatto che non sono però tutti i misti allo stesso modo, con la stessa proporzione tra gli elementi di cui sono composti: I materiali e le tecnologie entrano a far parte di un medium, ma lo stesso fanno competenze, abitudini, spazi sociali, istituzioni e mercati.

Parimenti è possibile affermare che il contenuto di un medium è sempre un altro medium31 nel senso che anche la stessa visione non è un processo esclusivamente ottico ma implica un linguaggio visivo che richiede il coordinamento di impressioni ottiche e tattili per la costruzione di un campo visivo coerente e stabile; occorre coordinare le impressioni visive con il senso del tatto: la visione naturale stessa è un intreccio di ottico e tattile.

Dalla consapevolezza che Il visivo - nel suo status di senso sovrano - ha reso l’occhio e lo sguardo tanto sovrastimanti che sottovalutati e che non esistono media visivi si è dato il giusto spazio alla cultura visuale.

VISUAL DESIGN

Il design è un insieme di pratiche molto diverse, e diffcilmente lo si costringe dentro un’unica interpretazione; in particolare rientra nel visual design tutto quello che è progettato per essere visto secondo certe intenzioni quali informare, raccontare o sedurre gruppi di persone all’interno della società di massa: dall’interfaccia dell’IPad al volantino della pizzeria di quartiere. Si parla di Visual Design ogni volta che qualcuno ha serializzato e diffuso un discorso visivo: tante copie di un libro, tante scatole di pasta, tanti schermi su cui compare una pagina web, tanti cinema in cui vedere uno stesso flm.

Nel mondo contemporaneo il design è ovunque: può essere usato, abitato, fruito, maneggiato, goduto, sfruttato, sprecato, distrutto, riciclato; ma soprattutto il design può essere visto32

Un artefatto di design non esiste in originale, ma nelle sue copie; e non si tratta solo di una necessità produttiva, ma di un orizzonte estetico, funzionale e di senso. Esso comprende tutto ciò che è progettato anzitutto per lo sguardo: è possibile riconoscerlo nella grafca delle grandi aziende, nelle pubblicità, nelle interfacce del computer o del cellulare, nelle copertine dei libri o dei video musicali, e molto altro ancora. Il Visual Design non riguarda solo gli ambiti più evidenti della comunicazione. Pensando al visual design si pensa infatti alle opere più estetiche e non agli oggetti quotidiani: si pensa più ad poster di una galleria piuttosto che alla bolletta dell’Enel, più alla pubblicità d’alta moda che alle etichette della biancheria. Invece rientrano nel visual design: la scatola di un surgelato, il tabellone ferroviario, lo scontrino della farmacia, un fumetto, un libro di analisi matematica, il biglietto dell’autobus, il bollettino di conto corrente, la font33 del passaporto, il manuale d’istruzioni del mobile componibile, il piccolo adesivo sopra il pompelmo, una pagina di un romanzo, una carta geografca, l’indicazione stradale, il pattern e di una piastrella, il marchio a fuoco su una coscia di prosciutto, una foto di moda, il carta modello di una camicia e così all’infnito34. Tutti questi elementi hanno in comune l’essere un artefatto visivo, sempre calato in un determinato fusso culturale, economico, sociale, e soprattutto sempre connesso con altri artefatti e linguaggi. Oggi il termine Visual Design è molto diffuso ed anche molto usato anche come sinonimo di Graphic Design: il graphic in senso stretto è il sistema dei layout, dei marchi, delle impaginazioni, dei lettering e delle font; mentre visual indica il più generale ambito della comunicazione visiva. L’aggettivo visual dichiara che si ha a che fare prima di tutto con il vedere, tuttavia una scarpa è pensata per essere vista eppure appartiene al Product design così come anche una carta da parati è pensata per essere vista ma rientra ne l’ Interior design

Il termine visual/visivo si riferisce ai fenomeni legati alla visione; il termine visuale si riferisce alla cultura a cui appartengono questi fenomeni.

29 Soprattutto tatto e udito.

30 Questa tesi - espressa e diffusa principalmente da Clement Greenberg (16 gennaio 1909, New York, Stati Uniti - 7 maggio 1994, New York, Stati Uniti), famoso critico d’arte statunitense - fa leva sulla purezza e sulla specifcità dei media, rifutando forme ibride come i mixed media e qualunque cosa si collochi tra le arti come espressione teatrale o retorica, e condanna inoltre queste ultime all’inautenticità e a uno status estetico di second’ordine.

31 Aforisma di Marshall McLuahn.

32 R. Falcinelli, Critica portatile al Visual Design: da Gutenberg ai social network, Ed. Einaudi, Torino, p. 4.

33 Font è una parola femminile anche se è molto diffuso l’uso maschile come sinonimo di caratteri.

34 R. Falcinelli, Critica portatile al Visual Design: da Gutenberg ai social network, Ed. Einaudi, Torino, p. 8-9.

35 Ivi, p. 10-18.

Per capire il Visual Design è necessario partire dall’assunto che la comunicazione accade sempre durante un’altra comunicazione. Tanti sono i linguaggi che si basano sulla capacità di vedere: la pittura, il cinema, la lettura, la segnaletica, la danza; è davvero diffcile nel mondo moderno pensare un’interazione con le cose in cui la vista non sia coinvolta; sembrerebbe che oggi tutto il mondo sia una questione visiva. Infatti da più di quarant’anni la società viene defnita come civiltà delle immagini e non si può negare che ogni giorno in ogni momento si è circondati da artefatti visivi: la presenza di immagini, in tutte le loro forme, dalla pubblicità ai blog, dall’arte ai videogiochi, è però spesso tanto pervasiva da risultare invisibile e non ci si accorge più che queste immagini non sono né neutre né neutrale, ma possiedono un proprio linguaggio, un proprio funzionamento e una propria ideologia.

Non esiste nella società attuale un racconto, una merce o un’istituzione che possa fare a meno di un sistema visivo che gli dia forma e diffusione. Dal pane per i toast alla segnaletica dei libri di matematica, così come concetti in un’apparenza più astratti come un’università, una raccolta di benefcenza, un investimento in obbligazioni, insomma tutto ha bisogno di un’immagine con cui essere proposto e/o rappresentato35

35

“comunicare arte” ketty la rocca

Esponente dell’avanguardia femminista forentina nonché membro del gruppo 701, Ketty La Rocca2 - al secolo Gaetana La Rocca - sperimenta insieme agli altri poeti ed artisti del gruppo una nuova forma espressiva: la poesia visiva3. Una poesia incentrata sulla possibilità di instaurare rapporti tra la cultura e la comunicazione di massa attraverso una sintesi, in forma di collage, fra parola ed immagine, fra scrittura e pittura, acquisendo così nuovi signifcati simbolici, codifcando un nuovo sistema complesso ed eterogeneo sia logico-verbale che iconico.

Attraverso la poesia visiva questi artisti tentano di colmare la frattura verifcatasi fra letteratura e arte da un lato e linguaggio comune dall’altro; a tal fne si concentrano sulle potenzialità espressive di parole e immagini in relazione tra loro; creano un nuovo volgare il cui lessico è tratto dalla comunicazione di massa; fondono immagini e parole per veicolare un nuovo messaggio.

Come maestra elementare La Rocca si era già avvicinata alle questioni inerenti il linguaggio e la comunicazione sviluppando un innovativo modo di comunicare: fresco, semplice, spontaneo. In uno scritto del 1962, infatti, la stessa parla dell’insegnamento alle scuole elementari affermando che le varie possibilità del linguaggio, attraverso un’adatta esemplifcazione, possono essere intuite e diventare una conquista dell’adolescente per comprendere le ambiguità e i possibili sensi del discorso. Si trattava di superare i limiti e gli stereotipi linguistici normalmente imposti agli alunni introducendo strumenti didattici alternativi e rivoluzionari per quell’epoca4. Interessata dunque all’uso e all’analisi di un certo tipo di linguaggio e di un certo tipo di produzione, rivolge la propria attenzione anche alle conseguenze e agli effetti che questi possono avere sulla società e sulle menti di giovani studenti.

Le tematiche alle quali La Rocca si interessa durante il periodo dell’insegnamento si spostano, una volta entrata in contatto con il Gruppo 70, anche nella sua pratica artistica: uscire dagli stereotipi e conquistare autonomia attraverso la consapevolezza dei limiti del linguaggio iconico e verbale.

Già nei primi collages verbo-visivi, realizzati intorno al 1964/1965, analoghi - per tecniche e questioni trattate - alle ricerche dei compagni/colleghi del gruppo, l’artista unisce riferimenti teorici a problematiche proprie dell’epoca e a lei vicine sia come

donna che come artista: attenzione per la condizione femminile, relazione con il genere maschile, critica al mondo cattolico, denuncia contro ogni tipo di oppressione sociale.

Le sue prime opere rientrano nella pratica della poesia visiva poiché analizzano lo stereotipo del corpo femminile veicolato dai media. Con tono ironico ma intento politico, l’artista realizza collage di immagini e parole tratte da rotocalchi, manifesti pubblicitari, quotidiani e fumetti per denunciare l’abuso dell’immagine femminile e la sua mercifcazione secondo schemi consolidati di sottomissione, precorrendo le lotte femministe che di lì a poco avrebbero infammato l’Italia a partire dal Manifesto di Rivolta Femminile di Carla Lonzi5. Tuttavia l’ambito d’azione di Ketty La Rocca va oltre le questioni di genere e diventa una critica all’intero sistema politico e agli usi manipolatori della comunicazione; tramite i suoi collage mette in luce i signifcati celati e stimola lo spettatore a liberarsi da ogni sorta di condizionamento e da un eccesso di informazione omologata e superfciale6 Per questo la produzione, breve ma intesa, di quest’artista è segnata al suo esordio dall’utilizzo di materiali fotografci accuratamente selezionati e ritagliati, ai quali sono sovrapposti testi e slogan, il tutto con lo scopo di ribaltare e destrutturare il senso dato inizialmente all’immagine e costruire i suoi primi collages verbo-visivi. Le poesie visive così create sovvertono i linguaggi e i codici imposti dalla società dei consumi alla realtà contemporanea e si concentrano sulle problematiche a sfondo politico e sociale con uno spiccato senso critico. Dei suoi collage Eugenio Miccini diceva che seguivano il flo rosso dell’ideologia e provavano ad esprimere la verità sotto forma di parole; attraverso l’espressione logo-iconica offrivano la possibilità di disattivare, criticandoli, i gerghi tecnologici7

Una delle sue opere più conosciute e iconiche - Sana come il pane quotidiano, 1965 - racchiude proprio alcune delle tematiche più sentite dall’artista come la condizione della donna e la sua mercifcazione nonché la critica nei confronti della Chiesa. L’opera si compone di una sola scritta/testo in caratteri tipografci - citazione di un verso del Padre Nostro che dà il titolo all’intera composizione/collage - che accompagna l’immagine di una donna ammiccante e

seminuda a sua volta accostata all’immagine di bambini in povertà che mangiano del cibo per terra.

In questo lavoro ben si distinguono i due codici utilizzati dall’artista per dare voce al proprio pensiero: la tematica di stampo femminista, messa in risalto dall’accostamento tra fgura femminile e citazione religiosa, evidenzia in modo provocatorio come la donna giovane e sana venga messa in vendita come il pane in un periodoquale quello del secondo dopoguerra italiano - in cui la condizione stessa della donna era ancora più limitata a causa della cultura tradizionalista cattolica8. Parimenti l’artista evidenzia l’ipocrisia del messaggio cristiano giustapponendo la giovane donna alla condizione di povertà assoluta raffgurata immediatamente più in basso nonché l’ingiustizia del silenzio del mondo cattolico verso le problematiche di cui l’opera si fa portavoce: poche e incisive parole insieme alle immagini in bianco e nero dal ben studiato posizionamento, amplifcano la drammaticità dell’intera scena rappresentata.

La denuncia dell’atteggiamento remissivo della Chiesa si fa ancora più evidente in Bianco Napalm - un’altra opera/collage - di cui esistono due versioni: un collage su cartoncino datato 1966 e una stampa plastifcata su legno datata 1967. L’opera fa riferimento alla guerra in Vietnam9: l’uso del bianco e nero da parte di La Rocca in questo caso è ricco di valenze simboliche; il bianco per la pace e l’innocenza proclamate dalla Chiesa, il nero per la morte, l’evento tragico e drammatico e la composizione dell’ordigno letale.

I suoi collage verbo-visivi rappresentano dei veri e propri manifesti pubblicitari grazie agli abbinamenti inconsueti di immagini e parole, ma presto La Rocca comincia a percepire il linguaggio logo-iconico come limitante; si separa allora dal gruppo 70 per addentrarsi in sperimentazioni più ardue e innovative a livello formale e contenutistico, alla ricerca di una dialettica più complessa rivolta all’esplorazione del sé e delle questioni intersoggettive.

La Rocca si rendeva conto che la tecnica del collage verbo-visivo non permetteva una piena integrazione dei due codici - verbale e fgurativo - per cui era necessario rifettere su un diverso uso del linguaggio; era opportuno tentare una più profonda combinazione tra scrittura e immagine nel segno di una rielaborazione autonoma, iconica e materica; tutta la sua produzione successiva si caratterizza infatti per la sperimentazione di nuove tecniche come la manipolazione fotografca, il video, la scultura, la performance, l’installazione, il libro d’artista, collocandosi a metà strada tra la sperimentazione dell’avanguardia del primo ‘900 e le tecniche multimediali più moderne.

Con l’happening Approdo, 1967 - manifestazione collettiva del Gruppo 7010 con la quale fu bloccato lo sbocco dell’autostrada A1 per Firenze nord per circa 15 minuti al fne di sostituire i cartelli stradali con le opere create dagli stessi membri del gruppo - Ketty La Rocca ha una nuova idea: manipolare, in modo insolito e non convenzionale, il linguaggio delle segnaletiche stradali per rompere il legame culturale tra immagine e scrittura e rendere così vulnerabili entrambi i codici.

36

La scritta Noi 2 - una delle segnaletiche di La Rocca appartenenti al periodo 1967/1968 - unita al segnale con le frecce quasi spiega la separazione di due traiettorie di vita, spostando l’attenzione da un simbolo iconico ben consolidato a una rifessione sulla confittualità e l’inevitabile divergenza della relazione a due11. Dal confronto tra Sana come il pane quotidiano, 1965 e Noi 2 si nota che entrambe le opere trattano il motivo femminile: il collage denuncia gli effetti del dominio maschile sulla società e sull’oggettivazione del corpo della donna, lasciando integra una corrispondenza di signifcati e signifcanti nel codice verbale e fgurativo; il cartello stradale denuncia un messaggio esclusivo non direttamente decodifcatile che inverte e altera i due codici.

Nel 1969 l’artista crea grandi lettere in PVC nero che utilizza come sculture, installazioni o per i suoi scatti fotografci; queste lettere - “J” ed “I” - rispondono alla volontà dell’artista di far uscire il linguaggio, la parola - o la singola lettera alfabetica - dalla pagina del libro dove è solitamente relegata. La lettera esce dal foglio per trasformarsi in una realtà/ scultura tridimensionale, fatta di materia e quindi corpo che impone la propria presenza; le stesse lettere “J” ed “I” (che rimandano al francese je, io italiano) sono pensate dall’artista come antropomorfe: di entrambe viene enfatizzato il lungo corpo verticale sovrastato dal puntino/testa tonda.

La fotografa Con inquietudine in bianco e nero, risalente al 1970, ne è un esempio: in essa Ketty La Rocca appare distesa sotto le lenzuola di un letto matrimoniale con lo sguardo atterrito; al suo fanco c’è la lettera J particolarmente ingombrante e grande quanto l’artista12. La lettera che diventa presenza corporea, il corpo stesso dell’artista disteso, la dedica “con inquietudine” in basso a destra della fotografa rende la stessa segno e presagio: l’artista sa già di essere malata e sembra poter raccontare le proprie inquietudini solo per ellissi. La lettera J (Je, Io) distesa sul letto accanto a lei simboleggia quasi un rispecchiamento identitario, trasforma il set fotografco in un monologo tra sé e sé nel luogo - letto matrimoniale - emblema del rapporto di coppia.

Le Lettere-Sculture di Ketty La Rocca non sono solo una delle tappe del suo intenso percorso artistico ma anche della sua dialettica parola/immagine in cui il corpo

sembra faticare a trovare un punto di equilibrio, schiacciato fra la banalità dei luoghi comuni e il silenzio13 La ricerca identitaria dell’artista non vira solo su sé stessa per autodefnirsi; la stessa artista è ben consapevole che prima di tutto si viene giudicati/defniti dagli altri, dal tu che entra in relazione con l’altro: è così che nasce la sua traccia/ sigla personale you, ripetuto quasi ossessivamente nella totalità delle sue ultime opere.

Pertanto, dopo aver messo sotto accusa il codice verbale e quello fgurativo perché distorti, snaturati e abusati dalla comunicazione mediatica e come tali non più in grado di rappresentare la realtà circostante oltre che il suo mondo interiore, La Rocca decide di concentrarsi sul signifcato primigenio del linguaggio: la gestualità. Dapprima la sua rifessione riguarda l’intero corpo e solo dopo si concentra sulle mani: parte che - secondo l’artista - risulta semiotizzata ad un livello espressivo/comunicativo più autentico - rispetto al linguaggio verbale e a quello visivo - e quindi prototipo di ogni possibile comunicazione successiva14 Le funzioni della comunicazione parlata e scritta lasciano defnitivamente il postotra il 1970 e il 1971 - all’analisi del gesto e della sua forza comunicativa; il linguaggio delle mani promuove secondo l’artista una poesia concreta in grado di superare la limitazione del linguaggio e tradurre l’indefnita ricerca dell’alterità femminile; il linguaggio delle mani consente una comunicazione istintiva ed emotiva per cui da questo momento la parola/segno tipografco sarà per l’artista l’equivalente di un nonsense e/o sparirà del tutto, lasciando libero spazio alle diverse forme di gestualità15

In principio erat - edito a Firenze nel 1971 dal Centro Di - è il titolo del libro d’artista con cui Ketty La Rocca segna una tappa fondamentale del suo percorso artistico. Dopo un iniziale saggio scritto da Gillo Dorfes16, una pagina nera divide in tre parti il libro: la prima racchiude una sequenza di fotografe in bianco e nero con protagoniste le mani dell’artista, esili e prive dei consueti monili femminili; esse compiono gesti semplici ma intensi che lasciano intravedere in background la sua fgura intera. La seconda parte invece comprende i ritratti di una serie di incontri e/o addii di più persone che, attraverso le movenze delle mani, si bloccano in contatti sfuggenti e allo stesso tempo decisi. Nell’ultima sezione del libro, infne,

le mani dell’artista si cercano e si dispongono come quasi a formare un cerchio. Ogni sequenza fotografca è abbinata a delle frasi: in italiano - prive di senso - e tradotte in un inglese approssimato - mentre la terza sezione del libro si conclude con delle famose flastrocche. L’opera risulta emblematica per un linguaggio criptico, confuso e disorientante che si contrappone all’inequivocabile messaggio del gesto semplice e diretto17 Nell’opera, tramite l’estrema sintesi del comportamento della mano e semplici e lineari sequenze fotografche, La Rocca indaga simultaneamente la sua identità, l’identità della relazione di coppia e un’identità collettiva. In un crescendo che vede l’immagine prendere il sopravvento sulla parola e il gesto prevalere sulla lingua.

Il libro d’artista fu immediatamente seguito dal video Appendice per una supplica, 1972 che fu esposto alla XXXVI Biennale di Venezia nella sezione Performance e Videotape curata da Gerry Schum; come per il lavoro precedente anche in questo caso è presente una divisione in tre parti. Le mani dell’artista nella prima parte compiono gesti quotidiani e semplici, mostrando il palmo; nella seconda parte si trasformano in mano aperta o serrata a pugno tra due mani estranee - quelle del marito Silvio Vasta - che agiscono da gabbia poiché limitano lo spazio d’azione delle mani dell’artista. Nella parte fnale del video, invece, la mano protagonista di La Rocca mima, come nei giochi per bambini, una conta di numeri mentre sullo schermo appaiono i numeri corrispondenti. Appendice per una supplica è anch’esso rigorosamente in bianco e nero, girato in camera fssa per sottolineare l’intensità dei movimenti delle mani, la loro gestualità in grado di esprimere un signifcato più diretto e spontaneo.

I titoli - In principio erat e Appendice per una supplica - di questi due lavori rimandano anche e involontariamente ad un contesto sacro sebbene si tratta di una sacralità intima, personale, non istituzionalizzata. Parimenti il video testimonia da un lato l’interesse per la sperimentazione e l’utilizzo mixed media da parte dell’artista, dall’altro è espressione pura del suo pensiero: in un serrato dialogo i movimenti delle mani raccontano il rapporto con sé stessa e con l’altro, il genere maschile rappresentato dal marito; denunciano la sopraffazione e, non in ultimo, lanciano un sentito appello alla rivalsa18

Apoteosi di questo incontro-scontro è la performance dal titolo Le mie parole e tu? realizzata nel 1975 presso la Galleria Nuovi Strumenti di Brescia e la Facoltà di Architettura di Firenze. Protagonista della performance è il linguaggio del corpo ancora una volta concentrato nella gestualità della mano alla quale si sovrappone la scritta “you” a indicare il bisogno dell’altro per qualsiasi comunicazione19. Durante la performance di Brescia - un anno prima della sua morte20 - l’artista, seduta davanti ad una cattedra, è circondata da allievi che recitavano ossessivamente un testo: da lei stessa ideato; un testo nonsense - Dal momento in cui…, 197121 - che segna la rottura defnitiva con la comunicazione scritta. Nella performance l’artista si vede poi costretta ad abbassare sempre di più il capo mentre le mani della gente intorno l’accusano, le limitano lo spazio come accadeva in

37

NOTE

1 Il Gruppo 70 nasce a Firenze nel 1963, preceduto da due importanti convegni al Forte di Belvedere - “Arte e Comunicazione” nel ‘63 e “Arte e tecnologia” nel ‘64 - che ne anticipano le linee direttive: ne sono i fondatori Eugenio Miccini, Giuseppe Chiari e Lamberto Pignotti. Lo spirito marcatamente interdisciplinare del gruppo è volto a potenziare il linguaggio artistico attraverso il sinergismo di diversi codici espressivi per raggiungere la stessa immediatezza ed effcacia comunicativa della lingua parlata e della moderna pubblicità. https://www.artonweb.it/artemoderna/artedopo60/articolo41.htm

2 Ketty La Rocca (14 luglio 1938, La Spezia, Liguria, Italia - 7 febbraio 1976, Firenze, Toscana, Italia). Dopo la morte del padre, ingegnere militare, si trasferì con la madre e la sorella prima a Roma e successivamente a Spoleto - dove conseguì il diploma magistrale nel 1956. All’inizio lavorò come assistente presso uno studio di radiologia per poi trasferirsi defnitivamente a Firenze sempre nel 1956. Qui conosce e sposa Silvio Vasta (dal quale avrà un fglio, Michelangelo, che oggi gestisce l’Archivio Ketty La Rocca). A Firenze vince un concorso per l’insegnamento alle scuole elementari.

3 La poesia visiva - termine inventato da Eugenio Miccini (1925, Firenze - 19 giugno 2007, Firenze) scrittore, poeta e artista italiano, che nel 1963 fondò insieme a poeti, musicisti e pittori, il Gruppo 70 - si caratterizzata per la preminenza dell’immagine sul testo tipografco, ottenendo composizioni in cui parole e immagini, segni e fgure, si integrano senza soluzione di continuità sul piano semantico.

4 A. De Pirro, “S.O.S” Salvate l’umanità. Ketty La Rocca e la Poesia Visiva”, in Ketty La Rocca. Nuovi studi, a c. di F. Gallo e R. Perna, Postmedia Books, Milano, 2015, pp. 11-38, qui p. 12.

5 Carla Lonzi (6 marzo 1931, Firenze - 2 agosto 1982 Milano) è stata una scrittrice e critica d’arte italiana, femminista teorica dell’autocoscienza e della differenza sessuale, fondatrice - con Carla Accardi ed Elvira Banotti - di Rivolta Femminile, uno dei primi gruppi di sole donne femministe italiane, nato a Roma nel 1970.

6 Sara Mostaccio, Nel lavoro della poetessa dimenticata Ketty Rocca la poesia diventa arte e la parola scritta si fa tangibile, 2020; https:// www.elle.com/it/magazine/storie-di-donne/ a30528377/ketty-la-rocca-poesie/

7 L. Saccà, “La vita è un’altra cosa” in Omaggio a Ketty La Rocca, a c. di L. Saccà, Pacini Editore, Roma 2011, pp. 19-26, qui p. 21.

8 L. Saccà, Omaggio a Ketty La Rocca, Pacini Editore, Roma 2011, p. 29.

9 L’invenzione del Napalm - il cui nome deriva dalla fusione di naftenico e palmitico - risale alla Seconda guerra mondiale, precisamente al 1942. Il Napalm è un derivato dell’acido naftenico e dell’acido palmitico utilizzato per costruire bombe e mine incendiarie, oltre che come combustibile per lanciafamme.

Durante la guerra del Vietnam fu messa a punto una variante, denominata Napalm-B, in cui al posto della benzina vi è una miscela di polistirene in soluzione di benzene e benzina cui si aggiunge fosforo bianco, che facilita l’accensione durante la dispersione del gel nell’aria, aumentandone anche gli effetti.

10 Il gruppo 70 si scioglie nel 1968, in coincidenza con l’acuirsi della protesta politica e sociale che sconvolge il paese e che di fatto porta ad un esaurimento delle manifestazioni artistiche controculturali, in certo senso riassorbite o modifcate dal dilagare dei movimenti giovanili. I membri del Gruppo continueranno tuttavia ad operare sia singolarmente che attraverso la costituzione di riviste, gruppi, e centri culturali. https://www.culturedeldissenso.com/gruppo-70/

11 D. Colucci, Ketty La Rocca, dal linguaggio al corpo, in “Antinomie Scritture e Immagini”, 2020; https://antinomie.it/index.php/2020/05/01/ketty-la-rocca-dal-linguaggio-al-corpo/

12 B. Casavecchia, “1966 e dintorni: ragazze squillo, riot grrrls in evoluzione, poesia e «lingua mancata». Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Giulia Niccolai”, in L’immagine della scrittura: Gruppo 70, poesia visuale e ricerche verbo-visive, B. Casavecchia, A. Salvadori, G. Zanchetti, Mousse Publishing, Milano, 2015, pp.35- 45, qui p. 42.

13 F. Gallo, “Ombre e rifessi del corpo nel lavoro di Ketty La Rocca”, in Ketty La Rocca. Nuovi studi, a c. di F. Gallo e R. Perna, Postmedia Books, Milano 2015, pp. 39-70, qui p. 45.

14 L. Saccà, Omaggio a Ketty La Rocca, Pacini Editore, Roma 2011, p. 79.

15 C. Iaquinta, Gestualità integrale nell’opera di Ketty La Rocca, in “archphoto”, 2018; https:// www.archphoto.it/archives/5206

16 Gillo Dorfes (12 aprile 1910, Trieste - 2 marzo 2018, Milano) all’anagrafe Angelo Eugenio Dorfes, è stato un critico d’arte, pittore, flosofo e accademico italiano.

17 L. Saccà, Omaggio a Ketty La Rocca, Pacini Editore, Roma 2011, p. 79.

18 C. Iaquinta, Gestualità integrale nell’opera di Ketty La Rocca, in “archphoto”, 2018; https:// www.archphoto.it/archives/5206

19 https://iperarte.net/ledonnedellarte/ketty-la-rocca/

20 Ketty La Rocca muore a Firenze il 7 febbraio 1976 a soli 38 anni a causa di un tumore al cervello.

21 Dal momento in cui… è un testo senza senso che l’artista Ketty La Rocca scrisse nel 1971. È composto da una frase troppo lunga, una tormentata proposizione analitica che evoca l’impossibilità di afferrare il mondo da un punto di vista fsso. Imita volutamente un linguaggio contaminato dall’informazione e dalla logica. Come un mantra indecifrabile ripetuto più e più volte, circola e si imprime su diverse opere dell’artista. Ritornello alienato, si pone come prodotto di una soggettività contaminata dalla società amministrata che perde il contatto con il mondo esterno. Il suo automatismo testimonia un confnamento/reclusione nel linguaggio, ma anche la funzione radicale dell’atto linguistico che, ogni volta che viene impiegato, si apre su un nuovo spazio per tutto ciò che è possibile. Dal momento in cui… pone le condizioni per una situazione ogni volta diversa, come un lancio di dadi. https://www.moussemagazine.it/magazine/ketty-la-rocca-dal-momentoin-cui-at-fri-art-fribourg-2020/

22 E. Di Raddo, «Non è tempo per le donne, di dichiarazioni». Ketty La Rocca e la questione di genere, in Ketty La Rocca. Nuovi studi, a c. di F. Gallo e R. Perna, Postmedia Books, Milano 2015, pp. 97-117, qui p. 113.

23 Ivi, p. 109.

24 R. Perna, “Da In principio erat alle Craniologie. Ketty La Rocca e la fotografa”, in Ketty La Rocca. Nuovi studi, a c. di F. Gallo e R. Perna, Postmedia Books, Milano 2015, pp. 71-96, qui p. 85.

25 R. Perna, Il corpo della parola. Ketty La Rocca, in “Flash Art”, 2018; https://fash---art.it/article/ ketty-la-rocca-raffaella-perna/

26 C. Iaquinta, Gestualità integrale nell’opera di Ketty La Rocca, in “archphoto”, 2018; https:// www.archphoto.it/archives/5206

27 Renato Barilli (18 agosto 1935, Bologna) è un critico d’arte, critico letterario e accademico italiano.

28 R. Barilli, “Rifessione su Ketty”, in Omaggio a Ketty La Rocca, a c. di L. Saccà, Pacini Editore, Roma 2011, p. 10.

Appendice per una supplica che mostrava le sue stesse mani costrette da quelle del marito. Ciò che emerge nella confusione è solo il suo “you” ripetuto all’infnito, che risuona come estrema dichiarazione di esistenza e defnizione dell’Io22 che può emergere soltanto nella relazione con il tu, come ricerca dell’alterità sempre desiderata perché equilibrio esterno alla propria integrità.

La gestualità nei lavori di Ketty La Rocca diventa supporto alla comunicazione verbale e visiva, e ne valorizza anche la ricchezza di elementi mitici, rituali e fantastici che sono patrimonio insostituibile dell’umanità23; questi stessi elementi rituali, fantastici e mitici lasciano una traccia indelebile anche in quelle che sono le ultime due serie realizzate dall’artista: le Riduzioni e le Craniologie

La serie Riduzioni, 1972-73 rifette ancora una volta sul rapporto immagine fotografca/scrittura: le sequenze fotografche si compongono di un primo elemento - foto di opere d’arte, affches cinematografche, foto di famiglia o di personaggi politici - e di un secondo elemento a sua volta composto da un contorno dell’immagine iniziale, tracciato con scritte a mano. Le opere della serie richiedono allo spettatore uno sguardo simultaneo e d’insieme, non più sequenziale e intermittente come quello proposto invece nel libro In principio erat, in cui il fruitore doveva sfogliare le pagine una per volta. L’artista ha ridotto le fotografe a forme primarie e le ha riportate sotto il domino della soggettività attraverso l’impiego della grafa manuale per riappropriarsi della fotografa stessa ed opporsi sia all’omologazione visiva sia all’irrealtà, prodotte dalla cultura dello spettacolo24

La scrittura manuale è l’unico mezzo, secondo La Rocca, atto ad esprimere il proprio mondo, la propria necessità di comunicare; allo stesso modo il fraseggio you, you, you ripetuto nei contorni delle diverse fgure, rappresenta l’unico modo per riappropriarsi della realtà esterna e della propria esistenza; nell’epoca della riproducibilità tecnica l’artista attua una riappropriazione personale delle foto tramite la grafa manuale, in opposizione alla standardizzazione visiva della cultura di massa25

Le Craniologie, invece, enfatizzano e intensifcano al massimo la dimensione gestuale della produzione dell’artista che non è più bloccata da mani estranee ma ingabbiata nel suo stesso cranio. Inserendo la sua mano nel proprio cranio reso visibile attraverso una radiografa, metaforicamente rende esplicita la convinzione secondo la quale il gesto si origina libero dentro la parte razionale di ciascuno e, come tale, in grado di sostituirsi ai sistemi dominanti e ordinari della comunicazione26. Signifcativo il pugno serrato dell’artista - in una Craniologia del 1973 - che sembra impossessarsi con forza di tutto lo spazio del cranio ma, al tempo stesso, risulta ingabbiato al suo interno. La scelta estrema e drammatica della quasi sgradevole iconografa del cranio è la simbolica manifestazione di una presa di coscienza: Ketty La Rocca soffre di un tumore al cervello degenerativo; l’artista non cerca autocommiserazione ma, come sostiene Renato Barilli27, ha percorso a ritroso la strada che porta dal signifcato al signifcante, dall’oggetto eidetico agli atti del corpo, a sua volta inserito su un’intelligenza, che ne consentono la chiamata in causa28

Il gesto dell’artista nasce da un rifuto della cultura dominante - patriarcale e controllata dai mass media - per invitare il pensiero e il corpo a liberarsi, proprio grazie a una “gestualità integrale”. Il gesto, nella sua totalità, è un mezzo di espressione puro; solo un corpo che agisce e si muove liberato dalla tensione verso un fne, è in grado di sondare tutte le possibilità e di innescare processi mentali incontaminati.

Il percorso poetico e artistico di Ketty La Rocca - spesso appellata come la poetessa dimenticata - parte dalle parole, passa a concentrarsi sulle singole lettere e poi annulla la comunicazione verbale per focalizzarsi sul gesto, ma alle parole, infne, torna isolando la più signifcativa “you” in una ricerca estrema dell’identità e del senso della vita prima quella stessa identità si dissolva nella morte.

38

NOTE

1 S. A. Barillà, M. A. Marchesoni, Le donne sottovalutate della Poesia Visiva, in “Il Sole 24 Ore”, 2017; https://www.ilsole24ore.com/art/le-donne-sottovalutate-poesia-visiva-AERpw2QC?refresh_ce=1

Report

Le rifessioni raccolte in questo lavoro hanno cercato di dare un senso all’oceano delle parole che affollano la mente di ognuno e/o che scorrono spesso davanti agli occhi di tutti - sui ledwall lungo le strade delle grandi città o di un centro commerciale - partendo da considerazioni, vecchie e nuove, circa il binomio lingua/linguaggio tradizionalmente inteso e la nuova frontiera della cultura visuale. Per questo è stato necessario fare appello - sebbene in forma essenziale - ad alcune teorie in grado di esplicitare l’intreccio inscindibile di linguaggio-lingua-comunicazione ed approdare alla consapevolezza che l’umanità ha la prerogativa di comunicare nei modi più disparati, adoperando gli strumenti più bizzarri, ma soprattutto di essere in grado di modifcare creativamente gli uni e gli altri per continuare a rispondere ad una esigenza perenne: condividere (comunicare) le proprie emozioni, le proprie convinzioni, le proprie aspirazioni.

Nel perseguire tale obiettivo è stato doveroso anche un breve excursus che ha trattato dell’antico connubio tra parola e immagine, per approdare alle innovazioni che il rapido evolversi delle tecnologie e l’avvento del digitale hanno determinato in quel tradizionale connubio, tanto da trasformare ogni singola parola - ma anche ogni singola lettera dell’alfabeto - in immagine e ogni genere di immagine in un costrutto linguistico. Il tutto alla luce di quanto sostenuto da W.J.T. Mitchell - tra i padri fondatori del vasto campo di studi affermatosi a livello internazionale con il nome di cultura visuale - che, coniando il termine pictorial turn, ha dato voce alla svolta epistemologica secondo la quale lo studio delle immagini è altrettanto valido ed utile quanto lo studio del linguaggio: un approccio flosofco che riconosce all’immagine la stessa capacità di interpretazione della realtà attribuita al linguaggio.

La scrittura visuale, la poesia visiva, la poesia totale, la poesia tecnologica, quella sonora, sono tutte da considerare tappe-sperimentazioni artistiche determinanti per quella svolta; dalle nuove tecnologie all’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa; dalle lotte femministe alle contestazioni sociali di capitalismo e consumismo, dalle neoavanguardie all’arte pop, all’arte concettuale, l’arte e gli artisti in genere si sono fatti interpreti del cambiamento, della contestazione proprio attraverso un linguaggio artistico alternativo; attraverso un’arte nuova, democratica e di massa, alla portata di tutti hanno negato all’arte stessa e alla poesia l’etichetta elitaria da sempre conditio sine qua non

Il grande rivolgimento teorico che ne è derivato, ha portato ad una “scienza delle immagini” in dialogo con la storia dell’arte, la semiotica visiva e l’estetica, all’interno della quale il visuale diventa nesso imprescindibile tra ricerca umanistica e scienze empiriche.

Nell’analisi del ruolo dell’immagine è stato possibile anche - partendo dalla loro agency cioè dalla capacità di agire di un’immagine - fare riferimento a chi ne fruisce, considerarne la potenza sociale e cognitiva, e rendersi conto dell’enorme signifcato che le immagini assumono nella società e nella cultura contemporanea.

A fronte di un panorama iconico e mediale in continua trasformazione, la dimensione culturale tecnicamente, socialmente e storicamente determinata dalle immagini e dallo sguardo, consente un coinvolgimento simultaneo di più ambiti percettivi e un’interazione fra l’opera d’arte e il suo fruitore, in un accordo perfetto tra parola e immagine.

L’analisi della produzione di Jenny Holzer, Barbara Kruger e Ketty La Rocca - oggetto della trattazione - ha permesso di evidenziare come si è fatta strada un’arte in cui gli elementi caratterizzanti dei due codici - verbale e visivo - si sono trasformati e contaminati con altre discipline, con il preciso intento di diffondere il più possibile il messaggio contenuto adoperando gli stessi mezzi (pubblicità, fumetto, media tecnologici e di massa) che si intendevano combattere.

Tutte loro sono state in grado di decostruire e ribaltare il senso dell’informazione veicolata per risvegliare il pubblico dal suo generale assopimento. Con associazioni contrastanti e inedite di parole e immagini - all’interno di un’unica opera/manifesto - le artiste considerate, hanno generato nei fruitori delle loro opere uno shock visivo-percettivo catturandone immediatamente l’attenzione.

Come artiste donne, all’interno di un eterogeneo e vasto gruppo di artisti, si sono rivelate essere le personalità più interessanti, la componente più radicale: le loro opere - dalla poesia sperimentale al collage, dalla performance al video d’artista - hanno realizzato scritture del disagio, della coscienza traumatizzata dell’essere donne, smascherando la lingua come potere costituito ed esercizio di arroganza1

41

Hanno mostrato come rifutare il linguaggio storicamente e culturalmente imposto da una società mascolinizzata, mediante uno scontro-confronto con i mass media e - prendendone in prestito i mezzi - hanno coniato codici espressivi nuovi. Unendo, combinando e fondendo insieme segni linguistici e immagini hanno dato vita a un codice visuale inaspettato e in grado di raggiungere ogni mente, anche le più ostili. L’eredità che hanno consegnato all’arte a venire è l’indagine della relazione - ambigua e a tratti accattivante, ironica e provocatoria ma sempre effcace e costante - tra parola e immagine nonché la forza spiazzante della somma dei due codici.

Jenny Holzer crea opere esclusivamente incentrate sul linguaggio; la sua ricerca artistica - in relazione con il codice visivo - risulta singolare e coinvolgente. Nella maggior parte dei casi i suoi lavori non contengono un’immagine vera e propria ma, grazie ai media utilizzati, e soprattutto all’intensità con cui il linguaggio è sfruttato dall’artista, si fanno immagine loro stessi. L’innovativo codice visivo di un’arte pubblica ingloba componente letteraria e visuale: testi scontati e confdenziali, violenti e speranzosi si alternano per esprimere le più recondite verità. I versi della Holzer - espressione creativa e mezzo di rifessione critica sulla società - declinano in svariate interpretazioni soggettive e individuali il rapporto tra linguaggio verbale e forma visiva, tra immagine e signifcato.

Barbara Kruger rende l’intera sua produzione artistica un manifesto ideologico contraddistinto da precisi elementi grafci: bande rosse, stesso font per i testi, immagini fotografche in bianco e nero, diventano la frma personale dell’artista; il suo brand ha una spiccata impronta pubblicitaria. Messaggi politici, sociali e femministi si susseguono sfdando i modi stereotipati con cui i mass media affrontano e manipolano le stesse questioni; tuttavia se scopo della pubblicità resta portare il consumatore all’acquisto, scopo delle opere della Kruger è spingere il fruitore al cambiamento e alla rifessione etica.

Ketty La Rocca - descritta come solitaria, indipendente e poco incline all’omologazione2 - ha decostruito e manipolato l’immaginario di massa degli anni ‘60 con i suoi provocatori manifesti; la sua ricerca di un linguaggio puro, autentico e quasi primitivo culmina nella comunicazione corporea e nella gestualità delle mani in quanto appendici comunicative primarie. La sua produzione3 si rivela tuttora estremamente attuale: mescolando linguaggi, codici e media differenti attraverso riferimenti colti e popolari, esprime una

sensibilità condivisa, focalizzando l’attenzione su questioni urgenti come l’identità e la critica al linguaggio.

Tre creatività e contesti diversi ma complementari che hanno esplorato e continuano ad esplorare liberamente la realtà interconnessa tra comunicazione verbale e visiva; la sinergia e la cooperazione tra immagine e parola ricercata da queste artiste interessa tutto il repertorio artistico, mediale e sperimentale tipico del contemporaneo quali collage, grafca, fotografa, scultura, libro, video, installazione, performance.

Le loro opere - tra attivismo politico e ironia, tra drammatica provocazione e ilarità - simboleggiano ed esprimono le diffcoltà e i sogni di due generazioni - quella degli anni ‘60 e quella degli anni ‘80 - attraverso forme inedite e mai superfciali: il rapporto tra linguaggio e arte genera un sistema alternativo e di controinformazione rispetto all’universo massmediatico; decostruisce e scardina le fondamenta degli stereotipi propagandati; mostra allo spettatore/fruitore l’ambiguità e le contraddizioni dei messaggi pubblicitari.

Jenny Holzer, Barbara Kruger e Ketty la Rocca sono donne in una società di uomini, sono poetesse visive entrate nel sistema dell’arte contemporanea con l’urgenza di un protagonismo negato loro per lungo tempo. Contrapposti al modo tradizionale di vedere e agire sul mondo, i loro lavori - dall’approccio critico e acuto, duro e veritiero - restano espressione artistica di una manifestazione sociale in grado di unire codice visivo e verbale per comunicare la propria visione del mondo.

L’interaricerca si è nutrita degli approdi radicali, innovativi ed originali delle artiste Holzer/Kruger/la Rocca circa la relazione tra parola e immagine per disvelare una concezione di arte contemporanea interessante ma certamente non esaustiva: quella che la vede arricchirsi del dialogo inedito e sconcertante tra codice visivo e codice verbale; di un’arte contemporanea in cui la parola si fa immagine e l’immagine si fa parola; di un’arte sempre più veicolo critico di informazione al servizio della società.

43
2 R. Moratto, Ketty La Rocca, in “Flash Art”, 2015; https://fash---art.it/article/ketty-la-rocca/ 3 Recentemente riscoperta dopo un lungo oblio critico.

DESCRIZIONE DEL PROGETTO

BLAH BLAH BLAH * le parole valgono si propone di portare le parole oltre il loro uso abituale, di inglobare in esse - sulla scia della civiltà del neo-ideogramma di Lamberto Pignotti1 - arte e cultura e creare così una nuova esperienza artistica, più completa e totale. Si tratta di un intero giornale che non racconta semplicemente del progetto ma è esso stesso progetto: una collezione di poesia visiva che potenzia la capacità espressiva del linguaggio. Per questo i testi raccolgono teorie, fatti storici e ricerche verbo-visuali che si accompagnano ad immagini, manifesti e illustrazioni costruite ad hoc.

Il nome della testata - BLAH BLAH BLAH - è un chiaro riferimento al suono onomatopeico del blaterare, dallo straparlare irrefrenabile di chi interviene su tutto a dir la sua, rimandando al mondo del fumetto e al Blah blah blah dei suoi personaggi: ciò spiega anche il motivo del caps lock in quanto nella maggior parte dei casi il testo nei balloon dei fumetti è in maiuscolo.

Il nome della testata è affancato inoltre da un * - *le parole valgonoche di fatto crea un ossimoro2, scritto in minuscolo.

Il cliché del blahblahblah è a tutti gli effetti l’espressione onomatopeica internazionale per il chiacchiericcio vano e futile, un’espressione che simula senza alcun dubbio un discorso di poca importanza al quale però fa da contraccolpo l’espressione *le parole valgono - quasi come monito - a sottolineare che la parola è lo strumento con il quale gli esseri umani si ricreano ontologicamente.

Anche la scelta della forma del giornale vuole essere un chiaro riferimento al linguaggio giornaliero: il quotidiano di massa è una pubblicazione periodica informativa che esce almeno con cinque numeri alla settimana. La stragrande maggioranza dei quotidiani sono solitamente stampati su carta di bassa qualità, spesso in bianco e nero e in grande formato; solo a partire dalla fne degli anni ‘90 la maggior parte dei quotidiani ha assunto l’abitudine di stampare almeno una parte - a volte un inserto - della pubblicazione a colori. Dal punto di vista grafco il quotidiano è la tipologia grafca più complessa poiché richiede soluzioni sempre diverse, e in tempi brevi, rispetto all’organizzazione della pagina.

L’obiettivo del progetto di un giornale è la razionalizzazione dell’insieme dei casi, la tipizzazione dei layout possibili, la defnizione delle gerarchie nella comunicazione dei messaggi. E nel giornalismo, la sublimazione di questi concetti sta nella matura capacità di infrazione ed espansione formale, oltre questi limiti. Questo giornale - d’arte - è pensato con un’unica e sola uscita.

Il giornale - in tutte le sue parti - trova la propria ragion d’essere nell’editoriale/introduzione al progetto stesso ed il proprio completamento nel report conclusivo; il tutto corredato da un’attenta descrizione tecnica del progetto e, non in ultimo, dalla bibliografa e dalla sitografa che elencano tutto il materiale consultato come supporto indispensabile per una ricerca degna di tale nome.

Dal punto di vista visivo/estetico si può dire che il progetto futtuaoltre che nel discorso - anche nel colore; proprio il colore rappresenta “un fltro” con cui si pensa, si guarda, si legge, si vive3: acuisce e racchiude la similitudine che paragona il linguaggio e le sue molteplici forme all’acqua.

I due elementi - acqua e linguaggio - non hanno confni precisi e ben defniti, sono spazi continui che non presentano interruzioni, pur nella loro diversità.

Ecco dunque che la palette colori selezionata per il progetto4 - mettendo insieme diverse tonalità di blu/azzurro - defnisce il colore della lingua.

I due codici - verbale e visivo - si contaminano anche in diversi poster realizzati: il linguaggio visivo, nell’epoca della riproducibilità tecnica, è senza dubbio un facilitatore in grado di amplifcare i contenuti rendendoli più leggeri/fruibili.

BLAH BLAH BLAH * le parole valgono ha scelto il proprio mezzo per comunicare - il giornale - ma non ha scelto il proprio linguaggio visuale: risulta infatti un accumulo di disparate tecniche - quelle selezionate - di composizione grafca/artistica; in questa varietà è l’elemento del colore e la sua scelta, a fornire uniformità stilistica, istituire continuità fra i diversi poster e renderli parte dello stesso prodotto5

La copertina inscena un dialogo - o tanti dialoghi - invisibile tra diversi balloon dei fumetti: questi sono infatti vuoti6, di colori diversi e con un leggero effetto noise: si sovrappongono fra loro come si sovrappone il chiacchiericcio, il blablabla

Languages Waving - i linguaggi ondeggiano - è il primo poster presente, che affanca la pagina dell’editoriale. Un rettangolo, che riprende i cromatismi della palette colore dell’intero giornale, sovrasta un background fatto di onde e schiuma. La metafora acqua/lingua/linguaggio si è già imposta.

1. Lingua e linguaggio andata e ritorno;

Il lavoro di ricerca - che costituisce di fatto i diversi testi del giornaleconsta di tre parti/capitoli che affrontano la intrigata e intrigante questione della lingua/linguaggio:

Le iniziali pagine del primo capitolo scompongono e ricompongono un planisfero segnato da potenti migrazioni linguistiche; il capitolo termina con il mockup di un muro su cui è stato affsso un manifesto nelle sue tre versioni. Il visual calza a pennello con il paragrafo - il potere delle parole - che accompagna e, anche nella ripetizione, intende far trionfare la propria forza: la parola potere compone il celebre e conosciuto pugno alzato della lotta.

2. L’etnia e la forma di una lingua;

3. L’architettura del linguaggio e della comunicazione. A loro volta ciascuno di questi capitoli si compone di diversi sotto paragraf articolati secondo tre chiavi interpretative: teorico/formale, storico-sociale, individuale/artistico.

Ogni ultimo paragrafo - quello individuale/artistico - ha la veste, o quasi, di una rubrica a sé dal titolo “comunicare arte” poiché descrive e analizza il lavoro di tre artiste (Truism/Jenny Holzer, Untitled/Barbara Kruger, Poesia Visiva/Ketty La Rocca) che con le loro opere verbo-visuali hanno dato voce e visibilità contemporaneamente: a tematiche sociali, femministe e collettive oltre che alle immagini realizzando una simbiosi - ogni volta originale - tra parole e immagini.

Per correttezza di informazioni - e non certo per completezza - la rubrica prevede una breve introduzione biografca e una successiva analisi del percorso artistico realizzato attraverso le opere più conosciute e/o signifcative delle singole artiste; la stessa analisi costituisce, poi, l’occasione per sottolineare l’evoluzione del percorso artistico - tra differenze e analogie - di ciascuna.

Le artiste selezionate con la loro arte consentono un’ulteriore analisi critica della realtà contemporanea, come azione concreta sul piano della cultura che intreccia arte e vita, ma soprattutto arte e lingua.

Il panorama così tracciato fn qui con la ricerca/progetto BLAH BLAH BLAH * le parole valgono ha inteso far luce sulla questione, argomentare la tesi secondo la quale linguaggio verbale e visivo vivono - oggi come già in passato - in stretta correlazione e sintonia, si integrano l’uno con l’altro costantemente sia in campo artistico/visuale che letterario.

A sostegno di tale tesi, il progetto si propone di farsi apprezzare non solo per i testi contenuti ma anche e soprattutto per le immagini che li accompagnano; i due codici vanno fruiti in un connubio originale ed eloquente.

Il secondo capitolo introduce attraverso delle illustrazioni - in stile neo traditional tattoo - alcuni simboli dei geroglifci egizi tra cui lo scarabeo e l’ankh. Nelle pagine successive sono invece trascritte alcune lettere dall’alfabeto lineare fenicio. Il capitolo prosegue con lo ə e la @ - ripetute - del linguaggio inclusivo: ad entrambe è stato applicato un fnto effetto glitch. Il poster a tutta pagina - translation - trasforma la i della parola inglese traduzione in tanti personaggi impegnati in una scalata sociale verso l’alto/altro: rappresentano i tanti colonizzati che si “occidentalizzano” nel tentativo di opporsi/sopravvivere ai colonizzatori. La traduzione per lungo tempo è stata considerata una copia - e come tale di meno valore - dell’originale, come la colonia soltanto una copia della madre patria. Il capitolo si chiude con delle polaroid che accompagnano i paragraf border studies e border-text. I soggetti delle cinque fotografe ben inquadrano l’acqua e le sue inverosimili linee/confni, proprio come quelli indefniti della lingua/linguaggio.

Un pattern di * - che riprende l’asterisco della testata del giornaleintroduce e ritorna nelle pagine del terzo capitolo mentre il poster a tutta pagina che segue, pone al centro dell’attenzione punti, virgole, punti e virgola, due punti, tutti tra virgolette: sono tutti segni della lingua scritta che non hanno alcun suono corrispondente nella lingua parlata; questi segni indicano chiaramente che l’essere umano scrive anche immagini per dare un senso al testo scritto. Un ultimo poster chiude il capitolo: in esso si moltiplica il medium che ha portato all’omologazione e alla uniformazione linguistica: la televisione. Si tratta di schermi vintage e per questo le vecchie immagini visualizzate sono disturbate - effetto vhs.

Anche la parte conclusiva del report si accompagna a ben due poster a tutta pagina: un’Italia super collegata da continui e frenetici nessi/ fussi linguistici ed un type poster la cui scritta parole* è ripetuta per tutta la sua altezza, e in alcuni casi modifcata dalle più grandi lettere s-i-a-m-o che compongono la parola siamo.

46

La parte dedicata alla stessa descrizione del progetto è introdotta da una doppia pagina in cui le scritte blah blah blah * - titolo del progetto e del giornale - si moltiplicano sovrapponendosi le une alle altre, prima della fnale scritta, presente una sola volta, *********************le parole valgono.

Gli ultimi due poster a tutta pagina ricostruiscono le tessere vuote e nere/piene di un cruciverba: le uniche parole che vi si compongono all’interno sono BIBLIOGRAFIA* e *SITOGRAFIA.

La sezione “comunicare arte” appare grafcamente impaginata sempre allo stesso modo, proprio come un approfondimento/ricerca che si ripete e quindi come tale deve essere perfettamente riconoscibile nel giornale.

Per Truism, Untitled e Poesia Visiva i poster realizzati rielaborano titoli/frasi/opere citate delle stesse artiste prese in esame.

Per Jenny Holzer il type poster raccoglie e ricrea grafcamente un elenco di truism, uno per ogni lettera dell’alfabeto, separati l’uno dall’altro per mezzo dello /: la trasformazione è tale da rendere le frasi non completamente leggibili.

Per Barbara Kruger invece il poster - dalle dimensioni sui generis, rispetto agli altri del giornale, proprio come i suoi untitled - si compone come un collage: assembla, mescola, disfa, posiziona sotto sopra ritagli del famoso We Can Do It! di Howard Miller e frammenti del suo Untitled (We Don’t Need Another Hero) del 1987.

Anche per Ketty La Rocca è stato ideato un type poster, con una sola lettera - una j con il pallino superiore: un esplicito richiamo alle grandi lettere/sculture in PVC realizzate dall’artista nel 1969.

La stampa di BLAH BLAH BLAH * le parole valgono è affdata a Newspaperclub.com, la cui storia inizia a Londra nel 2009 quando tre amici decidono di trasformare i loro articoli online preferiti in un giornale, senza far caso a come i giornali siano davvero un mezzo effcace per la piccola editoria fai da te. Nato quasi per gioco, Newspaper Club ha vinto il premio Designs of the Year; ha reinventato la carta da giornale per renderla più eccitante e versatile. Realizza giornali straordinari adatti a tutti gli scopi, spedendoli in tutto il mondo, e supporta una nuova comunità di editori.

Il Newspaper Club è gestito da un team di 12 persone, principalmente a Glasgow (Scozia); stampa più di 20 milioni di giornali per aziende e privati creativi in tutto il mondo.

Tutti i giornali sono stampati con macchine da stampa per giornali digitali e web-offset; a settembre 2018 l’investimento in una nuova stampante digitale per giornali, ha prodotto una stampa di qualità superba ad alta velocità con scarti minimi; l’intero impianto di stampa è alimentato in parte da pannelli solari. Tutti i tipi di carta utilizzati sono riciclati al 100% o provengono da foreste coltivate in modo sostenibile e la macchina da stampa digitale utilizza toner senza solventi prodotti con energia verde certifcata.

Soprattutto - ai fni della realizzazione materiale del progetto - Newspaper Club offre tre diverse tipologie di formato - mini, tabloid e broadsheet7 - che sono state analizzate personalmente grazie al free sample pack ricevuto a maggio via posta. La scelta è ricaduta sul Digital Tabloid: 289mm x 380mm, nella versione dalla carta 55gsm improved. Il most popular product del sito, di cui è possibile stampare da 1 a 100 copie e le cui pagine vanno da un minimo di 4 a un massimo di 64 e proprio come un giornale quotidiano presenta le sue doppie pagine esclusivamente piegate e non pinzate. Ma ancor più importante è che la stampa di Newspaper Club non è mai al vivo: caratteristica perfetta per rendere davvero Blah Blah Blah* un giornale/scatola che contiene testi scritti e visivi.

Per il layout interno, invece, sono state scelte due griglie: quattro colonne e sei righe, tre colonne e sei righe. Per la tipografa, sono stati utilizzati: Austin e Roboto

L’Austin - designed by Paul Barnes - è utilizzato esclusivamente per i titoli nelle pagine di editoriale e report, per la citazione iniziale che da il via all’intero progetto, e per i numeri di pagina.

Originariamente progettato da Paul Barnes come titolo per la rivista britannica di moda Harper’s & Queen, di Hearst Magazines UK, Austin è un revival dei caratteri tipografci realizzati da Richard Austin alla fne del XVIII secolo. Nella rivisitazione Paul Barnes ha alzato il contrasto, ha stretto lo spazio per creare un look fresco e audace, descrivendo il nuovo Austin come un British Modern con lo stile e la lucentezza della New York anni ‘70.

Per i suoi testi/articoli del giornale è stato utilizzato il Roboto nelle sue varianti regular, italic, bold e il Roboto Condensed, in bold e in italic. La Roboto family8 - designed by Christian Robertson - possiede

una doppia natura: uno scheletro meccanico dalle forme in gran parte geometriche, ma dalle curve amichevoli e aperte. Se alcuni grotesks distorcono le loro forme delle lettere per forzare un ritmo rigido, il Roboto consente alle proprie lettere di poter essere sistemate nella loro larghezza naturale e ciò rende il ritmo di lettura più naturale, come comunemente avviene con i serif.

BLAH BLAH BLAH * le parole valgono risulta un prodotto originale per la capacità evocativa e accattivante delle immagini contenute, per la forza appassionante delle parole che danno nuovo vigore a temi ancora caldi: insieme consentono al fruitore di fare spazio a sé stesso e assorbire l’energia necessaria per un nuovo inizio.

NOTE

1 Lamberto Pignotti (1926, Firenze) è un artista e poeta italiano, tra i fondatori del Gruppo ‘70 di Firenze e padre della poesia visiva.

2 L’ossimoro è una fgura retorica consistente nell’accostare, nella medesima locuzione, parole che esprimono concetti contrari: lucida pazzia, ghiaccio bollente, convergenze parallele

3 “Il colore informa, come nelle mappe. Seduce, come in pubblicità. Narra, come al cinema. Gerarchizza, come nelle previsioni del tempo. Organizza, come nell’infografca. Valorizza, come nei cosmetici. Distingue, come negli alimenti. Oppone, come nella segnaletica stradale. Si mostra, come nei campionari. Nasconde, come nelle tute mimetiche. Si ammira, come nelle opere d’arte. Infne nell’esperienza di ciascuno, piace.” Cf. R. Falcinelli, Cromorama: come il colore ha cambiato il nostro sguardo, Ed. Einaudi, Torino, 2018.

4 #033460 C98% M84% Y30% K24%; #00648f C89% M55% Y23% K4%; #009de0 C100% M0% Y0% K0%; #25b6e5 C70% M4% Y0% K0%; #73c6d4 C56% M0% Y16% K0%.

5 Due opzioni: poster che utilizzassero la stessa tecnica e ampia palette colori; poster dalle diverse tecniche e palette b/n o monocromatica. Entrambe non sinonimo di una vasta cultura visuale, come quella odierna, e controcorrente rispetto al progetto. Più naturale la scelta di tecniche disparate abbinate ad una palette non monocromatica ma con gradazioni dello stesso colore.

6 Tranne quello che possiede le informazioni di copertina della tesi stessa.

7 Digital Broadsheet (4-40 pagine, copie da 1 a 1000) 350mm x 500mm, endorse folded, not stapled, 55gsm newsprint. Traditional Broadsheet (2-20 pagine, copie da 300 a 10000) 380mm x 578 mm, endorse folded, not stapled, disponibile in 45gsm salmon, 52gsm recycled, 55gsm improved, 70gsm bright, 70gsm improved. Digital Tabloid (4-64 pagine, copie da 1 a 1000) 289mm x 380mm, not folded or stapled, disponibile in 45gsm salmon, 55gsm improved, 80gsm bright recycled. Traditional Tabloid (4-64 pagine, copie da 300 a 10000) 289mm x 380mm, not folded or stapled, disponibile in 45gsm salmon, 52gsm recycled, 55gsm improved, 70gsm bright, 70gsm improved.

Digital Mini (16-64 pagine, copie da 1 a 1000) 170mm x 250mm, stapled & trimmed, disponibile in 45gsm salmon, 55gsm improved, 80gsm bright recycled. Traditional Mini (16-64 pagine, copie da 300 a 10000) 170mm x 250mm, stitched and trimmed, 45gsm salmon, 55gsm improved, 70gsm bright, 70gsm improved.

8 Christian Robertson ha progettato “diverse famiglie” di Roboto: oltre la famiglia Regular, esiste il Roboto Condensed, il Roboto Slab e il Roboto Mono.

47
B
I B L I 0 G R A F I A

• G. Marrone, Introduzione alla semiotica del testo, Editori Laterza, Collana Universale Laterza, 2011, 192 p.

• R. Marchese, A. Grillini, Dizionario di letteratura, arte, cinema e scienze umane, La Nuova Italia Editrice, 1990, 239 p.

• B. Hooks, Teaching to transgress. Education as the Practice of Freedom, Routledge, Taylor & Francis Group, London, 1994, 224 p.

• H. Reckitt, P. Phelan, Arte e Femminismo, tr. it. di M. Rotondo, Phaidon, Londra, 2005, 203 p.

• U. Grosenick, I. Becker, Women Artists in the 20th and 21st Century, TASCHEN, Köln 2001, 576 p.

• F. Poli, M. Corgnati, G. Bertolino, E. Del Drago, F. Bernardelli, F. Bonami, Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi (2008), Mondadori Electa, Milano, 2012, 935 p.

• E. De Cecco, G. Romano, tr. it. di B. Casavecchia, M. Gioni, M. Robecchi, Contemporanee. Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, Postmedia Books, Milano, 2002, 376 p.

• D. Baroni, Il Manuale del Design Grafco, Longanesi, 2015, 361 p.

• G. R. Cardona, Culture dell’oralità e culture della scrittura, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1983, 15 voll., vol. 2° (Produzione e consumo).

• H. Meschonnic, Poétique de la traduction, in ID., Pour la poétique, II, Gallimard, Paris 1973; (trad. it. di M. Corenna e D. D’Oria, in Per la traduzione, num. mon. di «Il lettore di provincia», n. 44, 1981).

• W. Benjamin, Il compito del traduttore, in ID., Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1976.

• A. Lefevere, Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame, Routledge Translation Classics, Taylor & Francis Group, London, 2016, 134 p.

• C. Miller, K. Swift, The Handbook of Nonsexist Writing, iUniverse, 2001, 196 p.

• M. Doyle, The A–Z of Non-Sexist Language, The Women’s Press, 1995, 176 p.

• G. C. Spivak, Can the Subaltern Speak? Postkolonialität und subalterne Artikulation, Turia Kant Verlag, 2008, 158 p.

• G. Vincenzi, La frontiera della traduzione e i perimetri culturali: recupero di Lotman, in Diacritica A. VII, fasc. 2 (38), 28 maggio 2021.

• N. Sakai, Translation and the Figure of Border: Towards the Apprehension of Translation as a Social Action, Cornell University, Ithaca, USA, 2015.

• P. Zaccaria, La lingua che ospita: poetica, politica, traduzioni, Meltemi Editore, Collana Le Melusine, 2004, 236 p.

• G. Anzaldúa, Borderlands/La Frontera, Capitan Swing, 2016, 304 p.

• B. Buden, Transition to Nowhere: Art in History after 1989, Archive Books, 2020, 400 p.

• W. Benjiamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, [Berlin 1936 - Trad. E. Filippini] con saggio di M. Cacciari, a cura di: F. Valagussa, Ed. Einaudi, Torino 2014, LIV-104 p.

• F. Tateo, N. Valerio, F. Pappalardo, La letteratura nella Storia d’Italia, vol. 1, Editore Il Tripode.

• Y. Friedman, L’ordine complicato. Come costruire un’immagine, Quodlibet, 2011, 176 p.

• R. Falcinelli, Guardare Pensare Progettare, Neuroscienze per il design, Stampa Alternativa & Graffti, 2011, 288 p.

• B. Munari, Design e comunicazione visiva, Contributo a una metodologia didattica, Ed. Laterza, (coll. Economica Laterza, n. 807), Bari-Roma, 2013, 384 p.

• D. Baroni, M. Vitta, Storia del desing grafco, Longanesi, 2003, 335 p.

• W.J.T. Mitchell, Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, a cura di M. Cometa, V. Cammarata, Raffaello Cortina Editore, 2011, 242 p.

• R. Falcinelli, Critica portatile al Visual Design: da Gutenberg ai social network, Ed. Einaudi, Torino, 2014, 321 p.

• F. Gallo e R. Perna, Ketty La Rocca. Nuovi studi, Postmedia Books, Milano, 2015, 160 p.

• L. Saccà, Omaggio a Ketty La Rocca, Pacini Editore, Roma 2011, 200 p.

• B. Casavecchia, A. Salvadori, G. Zanchetti, L’immagine della scrittura: Gruppo 70, poesia visuale e ricerche verbo-visive, Mousse Publishing, Milano, 2015, 80 p.

• R. Falcinelli, Cromorama: come il colore ha cambiato il nostro sguardo, Ed. Einaudi, Torino, 2018, 480 p.

49

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.