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PIANCAVALLO

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PIANCAVALLO magazine Periodico di informazione, approfondimento e cultura - Estate 2015


Š James Q Martin, 2015 Patagonia Inc.

Piazzale XX Settembre n° 21 Pordenone Piancavallo tel. 0434 520524


Editrice: Associazione “La Voce”, Viale Trieste, 15 33170 Pordenone Tel. 0434 240000 Fax 0434 208445 info@lacitta.pordenone.it www.lacitta.pordenone.it Direttore Responsabile: Flavio Mariuzzo HANNO SCRITTO IN QUESTO NUMERO: Sergio Bolzonello, Romina De Lorenzi, Clelia Delponte, Stefano Del Cont Bernard, Piergiorgio Grizzo, Nico Nanni, Ferdi Terrazzani, Mario Tomadini, Sabina Tomat, Luigino Zin, Michela Zin PROGETTO GRAFICO: Francesca Salvalajo FOTO: Ferdi Terrazzani, Mario Tomadini, Archivio Piancavallo Magazine Archivio fotografico Pordenone with love IMPIANTI STAMPA: Visual Studio Pordenone STAMPA: Tipografia Sartor Pordenone Si ringraziano per la collaborazione: Nicoletta Collauto Bozzer, Giancarlo Magri, Flavia Mariuzzo, Monica Padovan, Pino Rosenwirth, Mario Sandrin, Cristina Santarossa, Enzo Sima

In copertina: un piatto della tradizione locale con la cipolla rossa di Cavasso

Foto Ferdi Terrazzani

PIANCAVALLO magazine Periodico di informazione, approfondimento e cultura n.18 Supplemento n.1 al n.77 La Città (maggio 2015)

SOMMARIO SOMMARIO 5.

Editoriale

6.

“Nell’anno dell’Expo guardiamo al futuro con le nostre tradizioni”

8.

Biodiversità, il “mosaico” Friuli Venezia Giulia all’Expo Milano 2015

11.

Prealpi pordenonesi, caleidoscopio di sapori

21.

Formaggio, burro e ricotta: la rivincita della tradizione

27.

Pedemontana pordenonese, terra di grandi (e piccoli) cuochi

33.

Quindici notti in Casera Valine Alta

38.

Val Zemola, uno scrigno di tesori naturalistici

43.

Dhi a giré: le lunghe estati degli ambulanti di Erto

47.

Polcenigo, 300 anni d’intrecci nel borgo dell’acqua e del vimini

50.

Museo Tassan, un tuffo nel passato

53.

I re e le regine del Cavallo-Cansiglio

56.

Dardago abbraccia Piancavallo tra faggi, sorgenti e ciclamini

59.

Padre Marco d’Aviano, il cappuccino che salvò l’Europa dalla conquista musulmana

62.

La strada della Valcellina

66.

Policreti, il primo rifugio della montagna pordenonese

70.

Foresta del Prescudin, un corridoio wilderness tra Piancavallo e il Parco delle Dolomiti Friulane

75.

Palcoda, l’antico borgo dei cappellai

78.

Pieve di san Pietro a Travesio, la Cappella Sistina del Pordenone

83.

La meteorite di Barcis, cose dell’altro mondo!

86.

Campeggio Luna, la novità dell’estate

87.

Eventi Piancavallo Estate 2015

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EDITORIALE

Una piccola vetrina della montagna pordenonese in chiave Expo 2015 Piancavallo Magazine, l’unica rivista di promozione turistica del territorio montano e pedemontano pordenonese si ripresenta puntuale all’appuntamento con la stagione estiva. Al centro di questa edizione non poteva che esserci un omaggio all’Expo Milano 2015, l’Esposizione universale da cui ci si attende un rilancio economico e d’immagine dell’Italia a livello mondiale. Così, seguendo il filo conduttore della nutrizione del pianeta, abbiamo voluto dare ampio spazio nelle pagine che seguono alle peculiarità enogastronomiche della montagna pordenonese. Il risultato, crediamo apprezzabile, è quello di una vetrina molto ricca su produzioni, abilità e tradizioni di un’area del Nord Est che forse non eccelle per qualcosa in particolare, ma rappresenta un’eccellenza nel suo complesso quanto a varietà di esperienze. Insomma, tante piccole cose buone, produzioni di nicchia, incastonate in un contesto naturale sorprendentemente affascinante che va dai dolci declivi della pedemontana liventina agli aspri contrafforti della selvaggia Val Zemola, “palestra” di vita e di roccia del pordenonese simbolo di questo comprensorio: Mauro Corona. Un ruolo da protagonista gioca come sempre la località turistica di Piancavallo, dove si concentrano molte iniziative e opportunità. A differenza del passato, tuttavia, la stazione avianese non balla più da sola. Si muove, infatti, in un contesto integrato di offerta turistica che, forse proprio per effetto della crisi, ha acquisito oggi maggiore consapevolezza. Dolomiti Friulane, Piancavallo e Alto Livenza da soli contano poco. Insieme possono dar vita a quella massa critica necessaria per farsi notare nella giungla di una promozione che viaggia soprattutto nel web e nei social network. Anche per questo le buone offerte ora non bastano più se non vengono comunicate attraverso canali e linguaggi adeguati ai tempi. In questo quadro, Piancavallo Magazine continua a svolgere quel ruolo di riferimento e di collante di luoghi, istituzioni e situazioni con l’unico obiettivo di rendere un servizio a questo territorio. Senza scopo di lucro, mossa solo dalla volontà di realizzare una iniziativa editoriale utile e bella, la nostra Associazione La Voce porta avanti la propria missione spesso tra l’indifferenza degli enti deputati alla promozione turistica. Non perché non riconoscano la qualità del nostro giornale, che è a tutti evidente, bensì perché fatica ad imporsi una visione territoriale unica e integrata in cui diversi soggetti, con mezzi diversi, lavorano per un obiettivo comune. Speriamo che l’Expo milanese favorisca la maturazione di questa visione. Flavio Mariuzzo

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COMUNE DI AVIANO

“Nell’anno dell’Expo guardiamo al futuro con le nostre tradizioni”

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no dei risvolti più piacevoli del turismo montano è indubbiamente il piacere per la scoperta della cucina tipica. La nostra terra gode di uno straordinario patrimonio enogastronomico frutto di tradizioni secolari e di grande conoscenza dei prodotti della terra. Nell’anno dell’Expo di Milano dedicato al tema del cibo e dell’alimentazione non può quindi mancare un richiamo all’importanza, per il nostro turismo montano, della cultura del cibo inteso come strumento di lettura della storia e della tradizione della vita di montagna. Su questo piano di lettura il Piancavallo, assieme a tutta la montagna pordenonese, può essere una vera scoperta che ci riporta ai tempi in cui tra pascoli e foreste vivevano malgari, pastori, boscaioli e carbonai. Con la semplicità e l’essenzialità di chi doveva vivere con ciò che offriva la montagna sono nate tradizioni culinarie che oggi rappresentano delle vere opere d’arte del cibo. Opere d’arte culinaria sconosciute ai più ma straordinariamente apprezzate dai fortunati che oggi hanno la possibilità di riscoprirle attraverso il recupero di antiche memorie tramandate nella tradizione locale. Tra le tradizioni culinarie del Piancavallo e delle sue numerose malghe c’è lo splendido piatto “Polenta salat e cavo”. Tre componenti principali, dietro ciascuno c’è una storia.

Innanzitutto al polenta friulana, diversa da quella veneta nella sua formulazione e cottura. Polenta “dura” e anche un po’ affumicata perché veniva fatta prima dell’alba, sulla “cjaldiera” per essere poi portata, affettata, su in alto, tra i pascoli. Il salame, icona del cibo rurale, che parla di antiche storie dell’allevamento del maiale, in avianese il “porthiel”, cresciuto come un caro animale domestico fino al momento del sacrificio finale, quasi un rito sacro fondamentale per la sopravvivenza della famiglia contadina. Infine il “cavo”, termine con cui in malga si indicava l’affioramento fresco dei grassi del latte munto poche ore prima e lasciato appositamente a riposare. Il salat e il cavo venivano cotti in malga con un procedimento lento e paziente fino a fondere i sapori e le essenze. Una cottura che nel suo lento incedere rappresentava quasi un rito religioso con cui il cibo prende forma dai prodotti della natura. Oggi la riscoperta della tradizione gastronomica diventa anche scoperta delle nostre radici e della nostra storia. Piancavallo può essere uno splendido scenario per avvicinarsi a questa riscoperta. A tutti quindi un caloroso benvenuto per la nuova stagione estiva nello spirito dell’Expo 2015 vissuto come viaggio nel nostro splendido patrimonio di gusti e sapori di montagna.

Escursionismo, sport, intrattenimento, gastronomia: i mille volti con i quali la montagna pordenonese accoglie e coccola i propri ospiti (foto Terrazzani)

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Stefano Del Cont Bernard (*Sindaco di Aviano)


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Foto Ferdi Terrazzani

REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA

Biodiversità, il “mosaico” Friuli Venezia Giulia all’Expo Milano 2015

La Regione FVG sarà presente a Milano con uno spazio espositivo nella settimana compresa fra il 3 e il 9 luglio e con uno spazio istituzionale per tutta la durata di Expo. Una serie di eventi si svolgeranno in centro città, in via Tortona, in collaborazione con Confartigianato

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artecipare ad Expo Milano 2015 non è solo un’importante occasione promozionale per veicolare la conoscenza del nostro territorio, ma rappresenta anche un sentito contributo della nostra Regione ad una riflessione globale sul nostro futuro, e nello specifico su uno dei grandi temi che è rappresentato dall’alimentazione e dal valore del cibo. Il Friuli Venezia Giulia partecipa a questo evento con convinzione portando la sua esperienza e tradizione, mostrando le nostre eccellenze naturali, agroalimentari, culturali e storiche, ma al contempo evidenziando l’alto livello qualitativo che caratterizza ogni nostro aspetto. Una qualità frutto di ricerca e sviluppo, serietà e soprattutto valori. Il nostro patrimonio è anche questo, il valore della tradizione e dell’autenticità

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che riusciamo a trasferire nell’innovazione. Expo 2015 rappresenta un appuntamento globale e interculturale che, oltre ad essere una rassegna espositiva, è una straordinaria occasione di riflessione su un tema decisivo per il nostro futuro che si riflette nel titolo di questa manifestazione: nutrire il Pianeta, Energia per la vita. Come Regione saremo presenti a Milano con uno spazio espositivo nella settimana compresa fra il 3 e il 9 luglio e con uno spazio istituzionale per tutta la durata di Expo; inoltre organizzeremo una serie di eventi che si svolgeranno in centro città, in via Tortona, grazie alla collaborazione con Confartigianato. Il tema del nostro spazio espositivo è la “biodiversità”, a significare la varietà di paesaggi, risorse naturali e culturali, patrimoni artistici e peculiarità


PROVINCIA DI PORDENONE

“NON SOLO INDUSTRIA, SIAMO UN TERRITORIO TUTTO DA SCOPRIRE”

Momenti della stagione estiva a Piancavallo. A sinistra Sergio Bolzonello Foto Ferdi Terrazzani

enogastronomiche che hanno formato e compongono il territorio e la popolazione del Friuli Venezia Giulia. Un vero e proprio mosaico che ci contraddistingue e caratterizza. Lo spazio istituzionale invece, a disposizione per tutti i sei mesi, servirà per incontri business to business e delegazioni; mentre per via Tortona, sarà allestito uno spazio espositivo multifunzionale fuori salone di 1.800 metri quadrati: l’Italian Makers Village, composto da 30 stand espositivi, 10 spazi all’interno dello store delle eccellenze e un’area street food. Al primo piano della struttura Confartigianato FVG ha messo a disposizione della Regione un’area multifunzionale eventi/ conferenze. Alla parte promozionale si associa il nostro contributo alla tematica di questo Expo. L’eccezionale livello raggiunto dalle Università, dai centri di ricerca, dai parchi tecnologici presenti in Friuli Venezia Giulia hanno

consentito di trasferire al mondo delle imprese un patrimonio di conoscenze e di innovazione di altissimo livello che, attraverso i momenti di visibilità e di dibattito legati a Expo, potrà arricchirsi tramite il confronto con realtà simili dell’Europa centro-orientale. Nostra volontà è quella di dare un concreto contributo alla Carta di Milano e, più in generale la questione della nutrizione, affrontando il tema delle eccellenze regionali, europee ed internazionali. L’obiettivo generale è la creazione di una rete internazionale permanente sul tema della ricerca e innovazione nella sostenibilità, trasformazione e logistica delle produzioni agroindustriali. Il Friuli Venezia Giulia è pronto a cogliere questa opportunità. Sergio Bolzonello Vicepresidente Regione Friuli Venezia Giulia

È con grande piacere che a nome della Provincia di Pordenone saluto i lettori di Piancavallo Magazine. Lasciato alle spalle l’inverno, la montagna pordenonese non perde tempo e si avvicina ad una nuova stagione quanto mai ricca di proposte per svago e vacanze ma non solo. La nostra provincia sarà infatti ben rappresentata nella vetrina internazionale Expo 2015 di Milano con i prodotti della nostra ricca filiera agroalimentare che certamente si faranno notare per la loro particolarità e per la loro qualità. Un’occasione, quella offerta dalla Regione Friuli Venezia Giulia, che presenterà al pubblico e agli operatori internazionali i prodotti e le peculiarità delle nostre terre, in cui la nostra provincia, con i gusti e sapori tipici della fascia pedemontana e montana, con il suo artigianato e le sue tradizioni ma anche le molteplici opportunità offerte a chi volesse trascorrere il proprio tempo libero a stretto contatto con la natura, può davvero “fare la parte del leone”. L’Expo 2015 è un evento imperdibile in cui la Provincia ed il suo territorio possono anzi devono dimostrare, anche all’esterno che, nonostante la nostra identità industriale sia messa a dura prova da una crisi che sembra inarrestabile, Pordenone, la sua provincia, la sua montagna, sono anche altro: luoghi incantevoli, accoglienti, in cui la straordinarietà della natura si intreccia alla storia ed alle unicità del nostro patrimonio artistico ed architettonico. L’Expo 2015 è un’opportunità concreta: l’obiettivo è richiamare qualche migliaio di visitatori, obiettivo che potrà essere raggiunto grazie al contributo di tutti ed in particolare di quanti si “spendono” per il territorio in cui vivono e che, nonostante tutto, ancora ci credono e credono che tutta la destra Tagliamento possa ancora crescere. L’Expo 2015 può riservare per il territorio pordenonese molte occasioni. Dobbiamo essere in grado di coglierle adeguatamente. Non mi resta che augurarvi una estate di “scoperta”, alla ricerca di appuntamenti che possano soddisfare a pieno le vostre aspettative siate voi residenti oppure turisti alla ricerca di angoli d’arte e natura magari meno noti di altri ma certamente non meno affascinanti. Claudio Pedrotti Presidente della Provincia di Pordenone 9


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SPECIALE ENOGASTRONOMIA

Prealpi pordenonesi, caleidoscopio di sapori

Il tartufo delle valli pordenonesi

di MICHELA ZIN

Da ovest (Caneva) a est (Clauzetto) la fascia pedemontana e montana pordenonese offre al turista un itinerario ricco di fascino e piacevoli sorprese, ancorché fuori dai circuiti di massa. Alle bellezze naturalistiche si accompagnano una serie di produzioni tipiche alcune delle quali presidio Slow Food come la pitina e la cipolla rossa di Cavasso. A Castel d’Aviano il più grande allevamento di bufale del Nord Italia

Un

territorio tutto da scoprire. È quanto offre la provincia di Pordenone. E se si decide di attraversarla orizzontalmente lungo le pendici e le montagne stesse, addentrandosi lungo itinerari poco battuti dai turisti ma ricchi di storia, tradizioni, piatti, prodotti e vini tipici, potete star certi che in molti vorranno approfondirne la conoscenza. In queste terre, attraversate nei secoli dai popoli invasori e più recentemente da coloro che sono venuti a cercare fortuna, i sapori e le tradizioni si sono mescolati. E le genti, quelle che in queste terre hanno le loro radici, non hanno mai smesso di produrre e Si ringrazia l’azienda speciale Concentro della Camera di Commercio di Pordenone per la gentile concessione delle immagini dell’Archivio fotografico Pordenone with love

Un piatto proposto dalla Trota Blu

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GLI AUTOCTONI PICULIT NERI, SCIAGLÌN, UCELÙT VINI CON DELLE STORIE DA RACCONTARE

La provincia di Pordenone è terra di vini, anzi dell’intera filiera vitivinicola. Nota in tutto il mondo per la coltivazione delle barbatelle, sa anche offrire macchine per la lavorazione della vite e del vino ed eccezionali cavatappi (rigorosamente made in Maniago) esportati in tutto il continente. La pedemontana regala pregiati vini bianchi e rossi. É il terreno ricco di sassi che giocando con l’escursione termica del giorno e della notte, ne beneficia rendendosi perfetto per la coltivazione della vite e regalando, appunto, uve ricche di aromi e vini profumati ed eleganti. Meritano sicuramente di essere scoperti i vitigni autoctoni che proprio in questi ultimi anni si stanno ritagliando un ruolo importante nel mercato vinicolo. Conoscere questi vitigni è come tornare indietro nel passato, alle origini di questi luoghi, alla loro storia, alle vicissitudini vissute da queste genti. Recentemente soprattutto nell’area dello spilimberghese, dopo una lunga e paziente ricerca, sono stati riportati (così come ricorda il Consorzio Vini Friuli Grave) in vita ceppi di Piculit Neri (forse quello stesso vinum pucinum delle mense romane), Sciaglìn (probabilmente della famiglia delle uve “schiavoline”), Forgiarìn (che prende il nome da Forgaria, un piccolo centro dal quale nei secoli scorsi emigravano in Ungheria Romaniz ricercati potatori di viti), Cividìn (il vino è citato nei documenti del 1600-1700 tra i più apprezzati dei banchetti nuziali), Cjanòrie (originario di Gemona) e Ucelùt (appartenente alle cosiddette “uve uccelline”).

Le rape dalle quali si ricava la caratteristica “brovada”

coltivare prodotti che solo qui, è possibile gustare. Molte altre invece, hanno riscoperto vecchi sapori, valorizzato coltivazioni e selezionato particolarità che oggi sono il fiore all’occhiello di quest’area del Friuli occidentale. Scopriamoli insieme. Immaginando di iniziare la nostra vista dall’estremo occidente, è di Caneva uno dei prodotti più curiosi: il FigoMoro, cioè il fico dalla buccia scura e dalla caratteristica forma allungata. Il particolare microclima dell’area pedemontana, collocata a ridosso delle Prealpi, la ricchezza di calcare e di vari sali minerali del sottosuolo nonché la collocazione delle piante in declivi decisi, conferiscono ai frutti della zona, caratteristiche uniche. Il locale Consorzio di tutela propone confetture, sciroppi, salse ma anche curiosi prodotti di bellezza, birra o aceto.

Il caratteristico “FigoMoro” di Caneva

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LE BIRRE MADE IN PN A TUTTA BIRRA!

Una selezione di formaggi pordenonesi con il tipico Formai tal cit

La Birra Praforte nasce a Usago di Travesio nel 2000, dapprima bionda, poi rossa e ora anche scura. Con un impianto di produzione fra i più tecnologicamente avanzati è in grado di produrre oltre 1500 ettolitri l’anno. Nel marzo 2009 la Birra Friulana Praforte ha esordito nel mercato nazionale delle birre artigianali in bottiglia con l’entusiasmo e la qualità che hanno fino qui contraddistinto l’azienda: entusiasmo che ha fruttato, al suo stesso esordio, il secondo posto assoluto (fra oltre 70 birre artigianali italiane) nella vetrina nazionale dell’Italia Beer Festival, alla Fiera di Milano. Info: www.praforte.it La vite

I pendii di Caneva sono anche ottimi per la coltivazione dell’ulivo dal quale deriva un pregiato olio, mentre le splendide acque della zona ospitano allevamenti all’avanguardia di trota che è possibile trovare anche confezionata in prodotti particolarmente apprezzati dai bambini. La zona (Aviano, Budoia, Caneva e Polcenigo) offre anche la possibilità di gustare squisiti formaggi. Le vicine montagne, infatti sono ideali zone d’alpeggio per il bestiame che produce così un latte eccellente trasformato in altrettanti caratteristici formaggi di latteria che, quando hanno il marchio Dop, assumono la denominazione di Montasio e danno spesso vita al famoso frico. La Destra Tagliamento offre anche quelli teneri di capra, che proprio in queste zone rag-

giungono livelli di eccellenza assoluta. Restando in tema di formaggi è in quest’area che esiste il più grande allevamento di bufale del Nord Italia. I prodotti fatti con il latte di questo animale, sono in vendita a Castel d’Aviano, assicurando, così bufala a km zero. Formaggio di rara particolarità è sicuramente l’Asìno, che prende il nome dal Monte d’Asio e viene prodotto a Vito d’Asio e Clauzetto. Disponibile classico o morbido. Così come lo è il Formai tal cit un formaggio spalmabile che nasce dal recupero di forme non ben amalgamate, tagliate a pezzettini, coperti di latte, panna e aromi, mescolati fino a formare una crema densa messa a riposare in un caratteristico contenitore di pietra, il cit, appunto.

Ruota tutta intorno a Domenico Francescon (detto “Meni”) la Birra Artigianale di Meni di Cavasso, che inizio i primi esperimenti intorno agli anni 80. Il frutto di tanta passione è oggi una birra tutta naturale: doppio malto, non pastorizzata, rifermentata in bottiglia e senza aggiunta di conservanti o anidride carbonica. É una birra corposa, con un grado alcolico dai 5,2 ai 7,5° a seconda del tipo. Oltre alle birre classiche, da provare le “speciali” aromatizzate alle ciliegie, zucca, mele, miele, castagne e fiori di sambuco e quella chiamata anche “vino d’orzo”. Info: www.birreriaartigianaledimeni.it È l’acqua di tre sorgenti (Gorgazzo, Santissima e Molinetto) con un contenuto di carbonato di calcio non elevato ma con una purezza e qualità organolettica ottima, ad alimentare il microbirrificio Valscura di Sarone di Caneva. Ed è qui che quest’acqua, mescolata assieme ai migliori malti d’orzo e frumento, luppoli in fiore, ceppi di lieviti selezionati nasce, la Birra Valscura. Tra le birre diciamo “classiche” hanno ottenuto molti riconoscimenti (International Beer Challenge di Londra e Premi Unionbirrai) Santa Barbara, Panera, Fich, Castegna, Valscura e Canipa. Da provare le birre speciali per le grandi occasioni Matrimoniale, Birra di Natale, Passionale (Birra di Pasqua) e Patriarcale. Info: www.valscura.com

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SOTTO LA LENTE/1

Foto Ferdi Terrazzani

PETA, PITINA, PETUCCIA LA POLPETTA DI SELVAGGINA

Un meleto delle valli pordenonesi La pitina

Viene spesso classificata tra i salumi ma non è un insaccato. È la “Pitina” caratteristico prodotto del pordenonese diventato presidio Slow Food, a base di carne di pecora, capra o selvaggina prodotta tradizionalmente proprio nelle zone montane della Destra Tagliamento. Prodotta anche nelle varianti peta (che ha dimensioni più grandi della pitina) e petuccia, (ottenuta con erbe aromatiche diverse aggiunte all’impasto) mantiene le sue caratteristiche storiche che fanno risalire l’origine fino al 1800. In quegli anni, quando si ammalava una pecora, o feriva una capra, oppure quando venivano uccisi camosci e caprioli, vi era la necessità di non sprecare nulla dell’animale appena morto e conservare la carne non utilizzata subito, per conservarla. La carne veniva così triturata finemente e lavorata con sale, aglio, erbe alpine e pepe nero, fino a formare delle piccole polpette passate poi nella farina di mais. Spettava poi al fumo del fuoco completare la magia conferendo il caratteristico sapore affumicato. La pitina poteva così essere consumata tagliata a fette e mangiata cruda oppure cotta. Oggi la pitina viene ingentilita con l›aggiunta di una parte di grasso di suino che rende meno evidente il sapore intenso della carne selvatica. È ottima mangiata a crudo tagliata finemente oppure cotta anche ad aromatizzare risotti o minestre. Viene spesso servita scottata nell’aceto e servita con la polenta oppure rosolata nel burro e cipolla.

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Proseguendo il nostro percorso è fondamentale fermarsi a scoprire la “rossa di Cavasso”, cioè la cipolla rossa recentemente diventata presidio Slow Food che la definisce “cipolla dalla tipica tunica rossa con riflessi dorati che si tinge di toni più rosati nella zona della Val Cosa. Dentro, un cuore croccante e dolce, che la rende ottima anche da mangiare cruda e mai piccante”. Soffermandosi sugli insaccati, va assaggiato il Muset (cotechino) prodotto in grandi quantità nello spilimberghese. Prende il nome da una montagna del massiccio del Cavallo il Saùc o bondiola, insaccato di carne di forma sferica con lo stesso impasto del cotechino al quale vengono però aggiunti muscoletti e pezzetti di lingua di suino. Caratteristico della zona anche il Prosciutto d’Aviano e il guanciale, che un “mastro salumiere” della zona produce ancora come un tempo, cioè nel modo più naturale possibile. Nelle valli pordenonesi (Cellina, Tramontina e Colvera) si trovano le caratteristiche strisce di carne magra (di manzo o maiale o camoscio). La Brusaula, conciata ed essiccata per essere così conservata per essere consumata dopo mesi.



SOTTO LA LENTE/2

Foto Ferdi Terrazzani

CIPOLLA ROSSA DI CAVASSO UNA DOLCEZZA CHE CONQUISTA

La cipolla rossa di Cavasso

La sua coltivazione si perde nei secoli e fino agli anni ‘60 costituiva una risorsa molto importante per le famiglie del territorio. Erano le donne del paese che, con pazienza e passione, si tramandavano i semi di madre in figlia, dedicando il loro tempo a questo ortaggio. E dopo averlo coltivato e raccolto nelle caratteristiche trecce (riesti), scendevano verso valle a venderle. Ora, grazie all’Associazione produttori Cipolla Rossa di Cavasso Nuovo e al Comune, la Cipolla di Cavasso e della Val Cosa è presidio Slow Food. Gli anziani ricordano questo ortaggio come la “Cipolla Rossa dei Maraldi” in quanto la maggior parte della produzione arrivava proprio da questa zona, l’area più a nord di Cavasso, conferendole delle caratteristiche uniche. Infatti è molto aromatica con una dolcezza particolare; la sua forma è tonda e con un caratteristico schiacciamento ai poli, l’interno bianco con venature rosse, violacee nelle tuniche giunte a maturazione. La sua “dolcezza” la rende molto più gradita al palato e quindi consumabile anche cruda, sfruttando meglio le tantissime doti delle cipolle. Va ricordato, infatti, che questo prodotto aiuta la digestione ed il metabolismo, ha azioni diuretiche e possiede una forte azione antidiabetica. In dermatologia viene usata come antibiotico e antibatterico; inoltre è un’ottima espettorante, è depurativa, diminuisce il colesterolo, i trigliceridi e i lipidi presenti nel sangue. Ma, soprattutto, sembrerebbe essere utile nella prevenzione dei tumori.

I marroni di Vito d’Asio

Regina delle valli pordenonesi è sicuramente la pitina (presidio Slow Food) una sorta di polpetta di carne macinata originariamente a base di selvaggina oggi attualizzata con pecora-capra e pancetta di suino. La pitina non viene insaccata nel budello ma passata nella farina di mais e poi affumicata. È ottima sia cruda, affettata è

Le barbatelle

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servita come un salume, che cotta servita con la polenta o in aggiunta ad altre pietanze. Le caratteristiche carni trovano un ideale contorno nella brovada che proprio in queste zone trova molti produttori. La brovada è un piatto a base di rape fate macerare nella vinaccia, affettate a striscioline sottili, cotte e servite come contorno.


Foto Ferdi Terrazzani

LE ACQUE DOLOMIA E PRADIS, SORGENTI DI PUREZZA

La provincia di Pordenone, lo abbiamo già sottolineato, è terra di acque. Pure, limpide, trasparenti. Sono le nostre montagne a regalarcele, quella porzione di meravigliose Alpi che incorniciano il nostro territorio.

Altra tipica verdura della zona sono gli asparagi verdi interi che nell’area tra la Val Cosa e la Valcellina vengono conservati in agrodolce e proposti come antipasti o stuzzichini o come ottimo contorno. A Sequals è recente la coltivazione del tartufo che si sta ritagliando una buona fetta di mercato.

Per finire, meritano di essere citati il Marrone di Vito d’Asio, caratteristica castagna della zona apprezzata sia per la forma che per le qualità organolettiche, il succo di mela prodotto in molte zone della pedemontana (ottime anche le mele di Cimolais) e i mieli che in diverse vallate assumono profumi e sapori unici.

Dalle Dolomiti Orientali, più note come Dolomiti Friulane Patrimonio Unesco, nasce in Val Cimoliana, l’acqua Dolomia, classificata oligominerale per il suo basso tenore di minerali. Il moderno stabilimento di imbottigliamento è stato costruito nel 2007 nel comune di Cimolais, località Pinedo, a soli pochi passi dal Parco Naturale delle Dolomiti Friulane, su di una ampia piana contornata da uno splendido e suggestivo scenario di montagne.

Foto Ferdi Terrazzani

A Clauzetto, invece, “lontano da tutti e da tutto” nasce l’acqua Pradis che prende il nome dall’omonima località famosa anche per la sua Grotta Verde, così chiamata per l’incantevole color smeraldo che illumina le sue pareti e che può vantare frequentazioni preistoriche di uomini e animali. Un’acqua che non contiene nemmeno un milligrammo di sodio (meno dello 0,00001) e che viene imbottigliata direttamente alla sorgente, un prodotto equilibrato e di straordinaria assimilabilità.

Miele e derivati prodotti da PIETRO VENTURA

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SPECIALE ENOGASTRONOMIA

Formaggio, burro e ricotta: la rivincita della tradizione

Pegna o zangola (Immagine tratta dal volume di Diogene Penzi TRADIZIONI ARTIGIANE COMUNITARIE NEL FRIULI, Del Bianco e Figlio, Pordenone 1972)

Mastello in legno per latte (Immagine tratta dal volume di Diogene Penzi TRADIZIONI ARTIGIANE COMUNITARIE NEL FRIULI, Del Bianco e Figlio, Pordenone 1972)

Arte, segreti e virtù delle delizie di malga. Oggi il formaggio, le ricotte e il burro sono cibi “slow-food” ricercati e ambiti. Tutto questo rappresenta la rivincita di un universo pastorale al quale finalmente viene riconosciuta la giusta importanza di MARIO TOMADINI

In

alpeggio si saliva, e ancora oggi si sale, non solo per il benessere del bestiame ma anche per produrre formaggio, burro e ricotta di ottima qualità e questo lo sapevano bene i vecchi caseranti che per cento giorni all’anno portavano in quota, e con fierezza, i gradi di “casaro”. L’abilità nella lavorazione del latte era loro trasmessa dai padri e dai nonni e ciascuno custodiva quei segreti che permettevano di rendere appetibili e gustosi i derivati del latte. Nel Medioevo si credeva che la coagulazione del latte avvenisse

per ragioni soprannaturali e quando il lavoro non andava a buon fine si gettava la colpa non già all’inesperienza dell’improbabile casaro di turno ma alla presenza, sempre malefica, di streghe e sortilegi vari. La caseina, nobile proteina del latte, era sconosciuta e nessuno sapeva che era proprio quella sostanza che in sinergia con il caglio permetteva, previa lavorazione e stagionatura, di gustare una fetta di ottimo “latteria” un termine vago solo da pochi anni sostituito dalla più accattivante definizione di “Montasio”

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Paiolo o caldiera (Immagine tratta dal volume di Diogene Penzi TRADIZIONI ARTIGIANE COMUNITARIE NEL FRIULI, Del Bianco e Figlio, Pordenone 1972)

In tempi relativamente a noi più vicini ecco quanto si legge a proposito del formaggio in un trattato cadorino vecchio di oltre centocinquanta anni: Per fabbricare il formaggio, con una morale sicurezza di riuscita, occorrono alcuni istrumenti che si rendono necessari all’intento, e certe cure che non devono essere trascurate. La caldaia (cialdjera nel Piano del Cavallo) deve avere un fondo piccolo e le sue pareti devono estendersi ad imbuto sempre crescente per cogliere tutt’intorno la fiamma. (…) Per determinare con precisione il calore da imprimere al latte, è assolutamente necessario un termometro, perché il semplice tatto è un sintomo assai fallace. Il latte andava mescolato costantemente per scaldarlo in modo omogeneo e un tempo per cagliare il latte si usava (udite!) una sostanza (presame o conajo) estratta dallo stomaco dei vitelli o dagli ovino caprini ancora lattanti: Il conajo non deve essere né troppo fresco, né troppo vecchio; e molto meno se è alterato, perché allora guasterebbe tutto il formaggio e gli darebbe cattivo sapore. La sera, prima di usarlo, lo si scioglie in acqua tiepida e lo si passa, nell’immergerlo nel latte, per una tela. Decidere qual era la giusta dose di presame non era facile e tutto era demandato all’esperienza di chi quelle faccende le aveva svolte per un’intera esistenza. Gli errori erano frequenti e i formaggi si guastavano con facilità con gran disperazione dei malgari. Il latte non doveva essere riscaldato oltre i 50 gradi e a quel punto era compito del caserante-casaro-patriarca di malga valutare se la caldaia poteva essere allontana dal fuoco. Seguivano altre operazioni che terminavano con la levata della cagliata che era posta in sacchi di tela a sua volta inseriti nelle forme circolari di sottile ed elastico faggio (i scatui costruiti dai Cimbri del Cansiglio) i quali erano lasciati a gocciolare in un tavolo inclinato, detto tabio. La pasta di formaggio era pressata con pietre calcaree

che abbondavano ovunque, specie nel nostro altopiano del Cavallo, fino a quando tutto il liquido in eccesso (scolo, siero o scotta) era raccolto in mastelli di legno per divenire il principale nutrimento per i maiali che grugnavano felici e increduli per tanta manna, attorno al laip. Ammollo in acqua salata e stagionatura completavano le sequenze di lavorazione. Nella grande caldaia di rame rimaneva il siero: … appena estratto il cacio dalla caldaia, essa viene esposta al fuoco, con il siero che contiene per estrarne la ricotta. Il fuoco, per questa operazione o deve rinforzarsi, o ridursi più lento: ma sempre eguale. Si unisce alla scotta o siero, il siero del burro, e si sorveglia l’operazione rallentando il calore interno, con ispruzzi d’acqua fresca fatta entrare nella caldaia, circondando le pareti della stessa. Quando incomincia una bava sopra il liquido, si unisce una certa quantità di scotta acidata (tempera) che deve conservarsi in un vaso di legno in un luogo caldo. (…) Venuta alla superficie del liquido la ricotta o serai, ciò che succede quando il liquido entra in bolli mento, si allontana la caldaia dal fuoco e con una cazzeruola bucherellata, la si estrae per riporla in un vaso di legno molto conico o buscherato e postovi sopra un coperchio, si assoggetta alla forte pressione dello strettolo o dal peso di un masso di pietra, per estrarne la scotta. Nelle casere del Piano del Cavallo e non solo le ricotte erano inserite in sacchi di tela e appese a gocciolare sopra il tabio. La ricotta, che non è un formaggio ma un latticino, se non è addizionata con panna o latte è considerata un prodotto magro ma ricco di proteine nobili anche se non apporta il carico di calorie che si vorrebbero ingerite nello stomaco di un rude lavoratore della montagna. Nell’avianese, infatti, una filastrocca recitava: Pa la

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Stampo per burro con incise le iniziali della famiglia (Immagine tratta dal volume di Diogene Penzi TRADIZIONI ARTIGIANE COMUNITARIE NEL FRIULI, Del Bianco e Figlio, Pordenone 1972

Madonna del Mont (8 settembre) polenta nuova e formai de mont. Pi to mangia poina e manco to ciamina. Tradotto significa: Per la festa della Madonna del Monte a Costa (8 settembre) si aveva a disposizione la polenta e il formaggio di malga che era stagionato almeno 60-70 giorni. Ma la seconda frase è più significativa: più ti nutri con ricotta e meno forze avrai per camminare e, sottinteso, per lavorare. Già allora la ricotta era considerata un alimento povero (oggi si direbbe “dietetico”) e per questo non adatto a chi era doveva impegnarsi in sforzi prolungati. Le forze sarebbero venute meno con grande disperazione del patriarca di malga che soleva comandare a bacchetta collaboratori e servidors. Le ricotte dell’altopiano del Cavallo raggiungevano le tavole della nobiltà veneziana ma questo avveniva dopo un periodo di affumicatura che garantiva la conservazione del prodotto durante un viaggio che nei primi anni del Novecento poteva durare qualche giorno.

SOTTO LA LENTE

Il lungo inverno della casera Pian Mazzega di MARIO TOMADINI

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A parte il formai (formaggio) e la puina (ricotta) o scuete in friulano, nelle casere prendeva forma il prodotto in assoluto più apprezzato, vale a dire il butiro (burro), spongje in friulano. Lo si otteneva lasciando affiorare la “crema o panna” (scrematura spontanea) che si formava nelle bacinelle del latte lasciato a riposo dalle sei alle dodici ore alla temperatura che oscillava dai 10° ai 12° gradi. Nel SAGGIO DI ECONOMIA RURALE, datato 1868, l’agronomo Valentino De Lorenzo scriveva: Il latte posto nelle catinelle e lasciato a riposo, opera da sé la separazione della crema, che si porta sulla superficie del liquido: ma non si avrà giammai il burro, se non battendo la crema stessa in un vaso confacente, che si chiama zangola (pegna). (…) Il burro è una sostanza grassa, molle, specificatamente più leggera del latte, che si fonde a circa 24 gradi centigradi. La conservazione dei pani di burro non era facile e allora è lo stesso De Lorenzo che suggerisce il metodo più corretto: Prendasi alcuni chilogramma di burro fresco e ben battuto; ridotto a pezzi si ponga in un vaso che possa chiudersi ben bene; e si empia questo vaso comprimendolo. Dopo si ponga il vaso in un altro vaso d’acqua, scaldaldolo

fino alla bollitura, poi si allontani il tutto dal fuoco, e quando l’acqua è raffreddata si estragga il vaso del butiro altrettanto fresco, come nel giorno in cui fu posto. Anche il burro, già allora considerato un prodotto di nicchia, dalla montagna prendeva la via del mare accompagnando le ricotte del Piano del Cavallo dapprima nei paesi di pianura e successivamente a Venezia e in altre città, ma non va dimenticato che il trasporto di quelle che oggi sarebbero considerate delle prelibatezze gastronomiche era demandato alle donne che si caricavano le gerle sulle spalle. Le donne di malga, infatti, almeno con cadenza settimanale salivano e scendevano i disagevoli sentieri che dalla pedemontana portavano lassù in quell’altopiano che oggi stenta a mantenere anche un piccolo scampolo di storia. Oggi il formaggio di malga, le ricotte e il burro non solo appartengono a pieno titolo alla categoria dei cibi “slow-food” ma sono alimenti ricercati e ambiti. Tutto questo rappresenta la rivincita della tradizione, di un universo pastorale al quale finalmente viene riconosciuta la giusta importanza.

Normalmente i comignoli delle casere di montagna lavorano nei mesi estivi. Il respiro della malga, infatti, si nota da giugno a settembre. In taluni casi gli sbuffi di fumo si osservano fino a ottobre ma solo quando la stagione è mite e le nevi non sono scese a baciare il suolo. Quindi era strano, ma molto strano, notare le volute di fumo uscire in pieno inverno dal camino della Casera di Pian Mazzega. E non era tutto poiché nel silenzio dell’altopiano innevato sembrava un “miraggio acustico” udire il “verso” di un tacchino. La curiosità era legittima e così non rimaneva che effettuare un sopralluogo in Pian Mazzega al fine di fugare qualsiasi dubbio. Se c’era uno scampolo di vita, certamente questa si nascondeva tra le pareti della vecchia casera. Mai un controllo sul campo aveva dato così tante certezze, poiché già da lontano la casera dava evidenti segni della presenza di uomini (due) e animali (una coppia di tacchini, alcuni polli e un cane) i quali, ognuno secondo le proprie attitudini, avvisavano che un visitare era in arrivo. Per farla breve annoto che sulla porta mi accolgono Angelo Tassan e l’aiutante Tommaso che mi invitano ad entrare nella casera-latteria dove il latte sta lentamente guadagnando la giusta temperatura che gli permetta di ricevere il caglio. Nulla cambia rispetto alle tradizionali operazioni di trasformazione del latte in formaggio,

burro e ricotta, l’unica nota eccentrica è il manto nevoso che si distende a pochi passi da Angelo e dal suo bravo aiutante. Il tutto dona a questo presepe di malga un’immagine alquanto strana tanto che è difficile scindere la finzione dalla realtà, ma è solo per un attimo perché la neve è vera, Angelo e Tommaso sono proprio loro, la casera è quella di Pian Mazzega e anche il vento che spira dai quadranti orientali è lo stesso di sempre, cioè quello che di solito mi obbliga a calare il berretto fino a coprire tutta la mia abbondante cartilagine delle orecchie. Quindi non mi rimane che congedarmi da quello scampolo d’estate immerso nell’inverno. Mi saluta anche il tacchino anche se una buona parte del suo richiamo fluttua sulle ali del vento verso le cime del Cavallo. A beneficio dei simpatizzanti scrivo che ogni sera Angelo Tassan preleva dalla sua azienda di pianura circa 300 litri di latte e lo trasporta in Pian Mazzega dove il mattino seguente è lavorato e trasformato negli ottimi prodotti ben conosciuti dai frequentatori del Piancavallo. L’attività invernale della Pian Mazzega non sarà però ripetibile in futuro, giacché nella proprietà della famiglia Tassan è in fase di avanzata costruzione un locale che sarà adibito a latteria. Niente più inverni in malga dunque, ma “solo”, si fa per dire, l’antica tradizione dell’alpeggio estivo. 25


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Pedemontana pordenonese, terra di grandi (e piccoli) cuochi Intervista al direttore dello IAL di Aviano Luciano Moro con intervento di Giovanni Fabbro, presidente della Federazione Cuochi di Pordenone. “Uno chef è tale grazie alle ore che passa in cucina, non a quelle che passa in tv”

Studenti Ial durante una presentazione

di SABINA TOMAT

N

ella stanza dove stiamo intervistando il direttore della Scuola Alberghiera IAL di Aviano entra una bella ragazza dai capelli rossi. Ha appena finito uno stage presso un ristorante del luogo. Le chiedo se è contenta dell’esperienza, mi risponde: “Certamente, quando lavoro sono sempre felice!”. Non capita spesso, specialmente da qualche anno a questa parte, di trovarsi di fronte a ragazzi con tanto entusiasmo. Ed è proprio l’entusiasmo ciò che le parole del direttore Luciano Moro lasciano trapelare durante tutta la nostra piacevole chiaccherata.

A sorpresa è presente anche Giovanni Fabbro, storico cuoco nostrano che per 35 anni è stato chef dell’Harry’s Bar di Venezia e ora è presidente della Federazione Cuochi di Pordenone, nonché collaboratore attivo della Scuola. La nostra Pedemontana è da anni terra di grandi cuochi. Già partire dalla metà del 1800, grazie al boom del turismo (soprattutto dei “ricchi”) molti giovani partivano principalmente per Venezia e la Mitteleuropa per lavorare stagionalmente nei grandi alberghi come camerieri e aiuto cucina. Lì, malgrado i turni massacranti e la rigida 27


A destra Giovanni Fabbro - Presidente Federazione cuochi di Pordenone per 35 anni chef all’Harry’s Bar di Venezia, al centro Luciano Moro direttore della Scuola Alberghiera IAL di Aviano, a sinistra lo chef Giovanni Pontoni presidente regionale FVG Federazione cuochi.

Lo zafferano di Dardago, una delle eccellenze della Pedemontana

gerarchia alberghiera, avevano modo di imparare un mestiere per cui c’era molta richiesta e quindi spesso quella che inizialmente doveva essere un’esperienza stagionale diventava un vero e proprio mestiere. Direttore Moro, perchè proprio in Pedemontana si è sviluppata questa “vocazione” alla cucina? “Questione di passaparola: partiva uno e poi partivano tutti. C’era molta richiesta. Ma oltre a questo vorrei ricordare anche le parole di Arrigo Cipriani (storico patron dell’Harry’s Bar di Venezia, ndr) che, in occasione di una sua visita nel nostro territorio, ha detto che qui, e solo qui, si percepisce un perfetto equilibrio fra acqua, pietra e legno. E probabilmente proprio questo equilibrio ha ispirato le professionalità che oggi tutti ci invidiano”. Qual è il vostro modello educativo? “Applichiamo rigorosamente la cosiddetta pedagogia del compito reale: i ragazzi vivono qui dal lunedì al venerdì e, a turno, sia in cucina che in sala, si occupano della

preparazione di colazione, pranzo e cena proprio come in un vero albergo. In questo modo si misurano con la routine tipica del lavoro e acquisiscono un metodo rigoroso che li rende responsabili e professionali proprio come la tradizione di questo settore vuole”. A vedere in tv il proliferare di giovani chef superstar viene da pensare che metodo e rigore siano concetti ormai superati. Tutto appare facile, divertente e immediato. “Non è quello il nostro modello. Certo, siamo molto attenti all’evoluzione del settore e ben propensi a recepire le nuove mode alimentari, ma dal nostro punto di vista non può esistere il successo senza il sacrificio. Uno chef è tale grazie alle ore che passa in cucina, non a quelle che passa in tv. E i nostri ragazzi lo sanno bene, anche per merito degli insegnamenti di figure come Giovanni Fabbro, testimonianza vivente di sacrificio e alta professionalità”.

L’EVENTO CUCINARE, PER PIACERE E PER MESTIERE

Foto Ferdi Terrazzani

Foto Ferdi Terrazzani

Grande successo anche per l'edizione 2015 della rassegna enogastronomica più importante del Nord Est

I vertici della giunta regionale del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani e Sergio Bolzonello, insieme allo chef Fabrizio Nonis, grande mattatore di ogni edizione di Cucinare in programma nel mese di febbraio alla Fiera di Pordenone

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Sorride e un po’ arrossisce chef Fabbro, che da anni collabora con la Scuola e con altri enti e associazioni locali per promuovere la cultura della cucina. Chef Fabbro, ci dica qual è il messaggio che vuole trasmettere ai ragazzi. “Umiltà, curiosità, empatia, creatività: sono questi i valori che cerco di infondere ai giovani che vogliono fare carriera nella ristorazione. Arrigo Cipriani diceva sempre che un buon barman è quello che sa capire quanto gin versare nel cocktail solo guardando negli occhi il cliente. Quanti barman e camerieri, oggi, sanno guardare negli occhi i clienti?” Dovrebbe essere una dote innata, invece spesso i giovani sembrano sopraffatti dalla demotivazione. “Per questo è fondamentale educare i giovani al servizio, permettendo loro di fare esperienze dirette e concrete parallelamente ad un percorso di studio che

metta in risalto anche la storia e le origini di questo mestiere. A Polcenigo, ad esempio, abbiamo fondato il Museo dell’Arte Cucinaria, che raccoglie vecchi utensili del mestiere di cuoco e altre testimonianze importanti. Il termine arte cucinaria (e non culinaria) non è stato scelto a caso, rende meglio l’idea di stare in cucina a faticare e “sporcarsi le mani”. Abbiamo lavorato (e stiamo lavorando) al mantenimento della memoria con pubblicazioni che raccolgono le storie di coloro che hanno fatto la gavetta a suon di umiliazioni e sacrifici. Solo così possiamo trasmettere ai nostri giovani la giusta motivazione per intraprendere questo mestiere non certo facile, ma che nel lungo termine regala soddisfazioni indescrivibili”. E tutto lascia pensare che si tratti del metodo giusto. “Parlano in cifre”, riprende il Direttore Moro, “il 92% dei nostri camerieri diplomati lavora nel settore

RICETTE PER SFIZIOSI PIATTI ESTIVI

ZUCCHINE IN SAOR

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Ingredienti per quattro persone 4 zucchine 3 cipolle rosse (o dorate) olio extra vergine di oliva aceto di mele pinoli uvetta Procedimento Lavate e tagliate le zucchine nel senso della lunghezza, cuocetele poi in una padella con un filo di olio di oliva. In un tegame fate soffriggere la cipolla tagliata a fettine sottili, salate e pepate e aggiungete due cucchiai di aceto di mele e una manciata di pinoli. In una teglia da portata disponete le zucchine alternando la cipolla. Lasciate macerare in frigo per qualche ora. Servite con dei crostini caldi.


in modo continuativo. Per i cuochi e i pasticceri la percentuale è leggermente più bassa, causa l’altissima concorrenza dovuta anche boom mediatico di tali figure. Ma ricordo anche che ben sette fra gli attuali chef “stellati” Michelin provengono proprio dalla nostra scuola”. C’è di che andare fieri, indubbiamente. Quest’anno c’è anche l’Expo: in che modo la vostra Scuola sarà presente? “Gli studenti dello IAL parteciperanno attivamente a Expo 2015 presso lo stand di Eataly (la famosa catena di prodotti italiani di altissima qualità). Inoltre molti faranno da supporto alla manifestazione secondo il programma Volontari Pro Expo”. Un’ultima domanda: come vede il panorama della ristorazione a livello locale? Quali i punti di forza e di debolezza delle nostre realtà ricettive?

“Abbiamo la fortuna di avere prodotti tipici eccellenti e paesaggi tra i più suggestivi d’Italia. Ci sono realtà (alberghi e ristoranti) eccellenti. Quello su cui bisogna imparare a lavorare di più e meglio è la comunicazione. Albergatori e ristoratori non devono sottovalutare l’importanza di internet e dei social networks. E non dimentichiamo la nostra vicinanza con Venezia: molti la vedono come un “peso” e vogliono differenziarsi cercando magari di aderire a modelli a noi più lontani. Rimane il fatto che una grande fetta di turismo arriva proprio da lì, peccato dimenticarsene”. D’altronde è proprio così: dalle nostre cime, oltre che il Friuli, con un solo sguardo possiamo abbracciare quasi tutto il Veneto. Un ampio respiro ricco di suggestioni, il pensiero che va lontano, come quello degli studenti che da qui spiccheranno il grande volo della vita.

TROTA MARINATA Ingredienti per 4 persone trota 4 filetti con la pelle sale 150 gr zucchero 150 gr aneto 1 mazzo fresco arancia 1 brandy qb Procedimento Lavate, asciugate e tritate finemente l’aneto. Mescolate il sale e lo zucchero. Affettate l’arancia a fette sottili. Cospargete i filetti di trota con il composto di sale e zucchero e aggiungete l’aneto. Disponete su due dei filetti le fette di arancia, bagnate con qualche goccia di brandy e ricoprite con gli altri due filetti ricomponendo così due trote “intere”. Adagiate i filetti su della pellicola alimentare e chiudete accuratamente i due pacchetti. Mettete i 2 pacchetti in una terrina e lasciate marinare per 30 ore, dopodiché aprite i pacchetti ed eliminate i liquidi e i residui della marinatura. Tagliate a fette sottili, inclinando il coltello a 45°, praticando dei tagli verso il lato della testa. Servite con crostini di pane bianco tostato e riccioli di burro. 31


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IL RACCONTO

La Casera Valine Alta, quota1344. Si trova nel territorio comunale di Frisanco ed è stata ristrutturata dal Parco delle Dolomiti Friulane. (Foto Mario Tomadini)

QUINDICI NOTTI IN CASERA VALINE ALTA Quando la “buona scuola” si preparava in malga di MARIO TOMADINI

L’

energia di Benito Beltrame è contagiosa e se, dopo una vita di lavoro, uno desidera godersi la pensione in santa pace, deve star lontano almeno due leghe dal maestro di Frisanco. Lo acciuffo nel suo orto; lui, gli “orti di guerra”, quelli veri, li ha vissuti e rigirati più volte con pala e forca ma oggi il suo è un orto di pace e così, seduto sul bordo di una concimaia convertita in compostaggio domestico, la mia unica preoccupazione è di non calpestare una colonia di piante grasse.

Lo ascolto e lo incalzo con domande non sempre pertinenti, cercando di non svelare la mia origine cittadina. Le nuvole basse precludono la vista sul Raùt e sul Rodolino, permettendo solo un misero sguardo su Casasola. Di più, a questa stramba giornata che non sa decidersi se volgere al bello oppure consegnarsi al brutto, non si può chiedere. Oggi però più che il tempo m’incuriosiscono quei giorni trascorsi a Casera Valine Alta, anche perché non è che questo sia successo l’altro ieri.

Estate 1946. Benito Beltrame seduto sulla cavalletta della teleferica che da Forcella Racli portava la legna alla località Taviela, poco sopra l’abitato di Poffabro. (Cortesia Benito Beltrame)

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Discesa dalla Forcella Racli (quota 1590). Sullo sfondo s’intravedono Poffabro e più in alto, Frisanco. (Foto Mario Tomadini)

settimane, ovvero quindici giorni. Quei fatti risalgono a settanta anni or sono quando Fermiamoci un attimo; oggi la Casera Valine, immersa Benito era all’inizio della sua carriera di maestro nel suo passato di pascoli e manze, è in buonissimo stato elementare. Dopo due mesetti di supplenza in quel di Maniago, erano tanto che costituisce uno dei punti di sosta del Parco delle Dolomiti friulane, ma allora, nel Secondo dopoguerra, arrivate le vacanze estive che allora ciascuno gestiva come era la classica povera casera con accanto un’altrettanta meglio poteva, vale a dire con cristiana rassegnazione. classica povera stalla. C’era sempre bisogno di fede, tanto Rude, spartana, possedeva tutte le più nel 1946 con la Nazione ancora caratteristiche per attorniarsi da un divisa, ridotta maluccio e con alone di antipatia. l’economia a terra. Eppure in quell’alpeggio i caseranti E così, se per un giovane insegnante salivano da sempre. al suo primo incarico era impossibile Nei primi giorni di giugno, dopo aver individuare nel vocabolario la parola rastrellato la Val Colvera in cerca di “ferie”, era stata trovata una soluzione bestiame da portare in “villeggiatura”, “autarchica”. il patriarca di malga, con il suo codazzo Quel vocabolo rischiava di riportare di parenti e servidors, raggiungeva il suo in vita un pezzettino del passato pascolo ancora ingombrato dalle ultime regime, tuttavia rimaneva valido il suo chiazze di neve e vi rimaneva fino a significato che era ancora largamente settembre. condiviso, cioè…. arrangiarsi. Era quella la casera che amava Benito Da qualche tempo il ventitreenne e per quella casera era partito da maestro si era invaghito di una bella Frisanco con il sacco sulle spalle. Aveva malga che frequentava la domenica e sbuffato salendo la Forcella Racli e nelle feste comandate. rifiatato scendendo nel pianoro dove, a Camminare, esplorare, faticare su e giù 1340 e rotti metri di quota, sorgeva la per canaloni e forcelle, costava poco costruzione stagionale. o nulla, però quell’alpeggio non era Estate 1950: Benito Beltrame (ultimo a destra) La vita in malga scorreva con una proprio a un tiro di schioppo e poi con alcuni amici e, al centro, il caserante Pellegrinuzzi da Inglagna. Sullo sfondo la Casera pacatezza sorprendente e riusciva a non si sarebbe trattato di un giorno Valine Alta con il tetto coperto di scandole di infondere una tranquillità senza eguali. o al massimo due, ma di starci due legno. (Cortesia Benito Beltrame)

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Estate 1950. Benito Beltrame (primo da sinistra) con alcuni amici. Al centro il malghese Gerarduzzi. Alle loro spalle l’abbeveratoio e la grande stalla oggi non più esistente. (Cortesia Benito Beltrame)

Le scoperte si susseguivano senza soluzione di continuità. L’estro artistico ne traeva giovamento, almeno fino a C’era la grotta che conservava la neve, modello preistorico quando le voraci capre, geneticamente dispettose e propugnatrici di una dieta straordinariamente varia, si di frigorifero senza marchio e presa di corrente, perfetto erano sforzate di apprezzare il sapore dei tubetti colorati nascondiglio per gli alimenti deperibili. e ne avevano fatto scempio. C’era il suono dei tuoni, dei campanacci che si mischiavano ai richiami urlati e al latrare dei cani. Il tutto Quasi ogni giorno, forse per vincere una nostalgia mai ammessa, Benito saliva in forcella per sincerarsi si univa alla melodia del vento che spazzolava, ora in un se Frisanco, Poffabro e Casasola fossero ancora al loro senso ora nell’altro, gli steli d’erba. posto. Rassicurato dalla presenza di quelle case che era Ogni sera prima di coricarsi per il riposo notturno, difficile distinguere tanto erano lontane, ridiscendeva il vecchio patriarca disegnava sulla cenere il simbolo nell’alpeggio appena in tempo per vedere vacche, manze del cristiano. Il rito era così antico che si era smarrito e capre che si distribuivano nel prato come soldatini sul nella notte dei tempi ma quella croce, almeno fino campo di battaglia. all’indomani, avrebbe allontanato il pericolo d’incendio. Ammirava la frugale esistenza di malgari e servidors che Nel soppalco, la notte trascorreva tranquilla. Ogni tanto facevano di necessità virtù, costretti per quasi novanta uno spiffero d’aria, carico di buio e di freddo, faceva giorni a una ripetitività di cigolare la catena che legava la parole, gesti e azioni che caldera alla mussa. lasciava loro solo la libertà del Quello stridio, destinato a pensiero. vivere un paio di secondi, Per Benito era arrivata l’ora sembrava il lamento di di tornare nel suo mondo che un’anima persa. in quegli anni non era troppo Amante della pittura, Benito dissimile da quel presepe si dilettava con pennelli e montano che lo aveva tanto tavolozza; i paesaggi non gratificato. mancavano, la corsa delle Estate 1950. Bellissima immagine della stalla dell’alpeggio Valine Alta. Era sceso a valle con il nubi anche; cirri, cumuli Si noti la concimaia ma soprattutto la copertura interamente composta sacco colmo di meraviglie nembi, quali fantasiose in scandole di legno. I bovini stanno uscendo dalla stalla per essere condotti al pascolo. Il maestro Benito Beltrame, ultimo a destra, è che avrebbe regalato ai invenzioni sagomate dal ritratto con alcuni compagni di escursione. (Cortesia Benito Beltrame) suoi alunni nel giorno di S. Padreterno, invadevano il Remigio. cielo.

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ESCURSIONISMO

Val Zemola,

uno scrigno di tesori naturalistici

Testo e foto di PIERGIORGIO GRIZZO

La

Val Zemola, a monte dell’abitato di Erto, tra le estreme propaggini della provincia di Pordenone e il Cadore, è uno scrigno di tesori naturalistici. Se gli escursionisti più esperti possono spingersi fino al massiccio del Duranno per raggiungere la forcella, la spalla o addirittura la cima, oppure salire fino ai prati verticali della Palazza o al monte Buscada con la sua cava di marmo rosso o lo spettacolare Valon, la vallata ertana offre una miriade di altri itinerari accessibili a tutti, famiglie comprese. C’è per esempio il sentiero che conduce al cosiddetto Pian de la Diesa e alle cascate note come Pisandul, un’escursione facile, senza dislivelli significativi, percorribile in un paio d’ore (pause foto comprese), ma di grandi contenuti paesaggistici e storico-etnografici. Lasciata l’automobile in prossimità di Casera Mela e si imbocca la ex strada forestale che risale il torrente Zemola sulla destra orografica. E’ la cosiddetta Strada de Sot, che conduce alle

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Il sentiero che da Casera Mela conduce al Pian de la Diesa


Un itinerario facile e suggestivo nella vallata ertana raccontata da Mauro Corona. È il sentiero che conduce al Pian de la Diesa, alle cascate del Pisandul e alle Marmitte dei Giganti, enormi catini naturali creati dall’erosione dell’acqua

Grave, ossia al ghiaioso fondovalle, dove si riuniscono tutti i rivoli d’acqua, provenienti dalle cime circostanti, che vanno poi a formare lo Zemola. Al bivio per Casera Galvana, manufatto reso celebre dalle novelle di Mauro Corona, si imbocca il sentiero di sinistra e ci si addentra in una faggeta dove, dopo qualche centinaio di metri si arriva al Pian de la Diesa. Qui si trovano i lacerti di un antico insediamento di carbonai, un grappolo di case, di cui restano alcuni muri di sasso, erette da una comunità che fin dal XV secolo era dedita alla produzione e poi al commercio del carbone. Questo veniva creato attraverso la combustione di cataste di legname disposte secondo un sapere vecchio di secoli ed utilizzato fino all’alba del Novecento. Da qui poi i carbonai partivano per andare a vendere il proprio prodotto. Attraverso il Valon di Buscada e il monte Borgà scendevano al borgo di Casso e di lì, lungo un antico sentiero raggiungevano Codissago e il

Il Pisandul

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Una bella veduta del massiccio del Duranno

Piave. Il fiume nei secoli passati era navigabile da Perarolo, dove c’era un importante porto fluviale, in giù. I prodotti della montagna scendevano lungo il Piave fino al mare e a Venezia. Nel piccolo complesso di case è facile distinguere un edificio più grande degli altri; si tratta della chiesa (diesa in dialetto ertano), da cui è nato il toponimo. Superato l’antico borgo, si arriva all’altro grande motivo d’attrazione di questo mini tour, le cascate chiamate Pisandul, due spettacolari e fragorosi salti d’acqua, posti uno sopra l’altro, alti entrambi una quindicina di metri. L’itinerario (ci sono i segnavia biancorossi del Cai, non sempre però molto visibili) prosegue aggirando la seconda cascata, quella più a monte, e porta alle Marmitte dei Giganti (enormi catini creati dall’opera di erosione dell’acqua), meno famose di quelle che si possono trovare sul torrente Cellina, lungo la vecchia strada della Valcellina, ma altrettanto suggestive. Il sentiero attraversa poi nuovamente le ghiaie del fondovalle e si riporta sulla ex pista forestale. Qui è possibile effettuare una piccola deviazione per andare a visitare la Casera Ferrera, una piccola malga che da un paio d’anni è stata rimessa in funzione dalla famiglia di Fabiano

Corona. L’itinerario del Pian de la Diesa fu pensato nei primi anni Novanta da Italo Filippin, allora sindaco di Erto e presidente del neonato Parco delle Prealpi Carniche (oggi delle Dolomiti Friulane). “Sarebbe un sentiero tematico interessantissimo e fruibile da tutti – spiega lo stesso Filippin – purtroppo il Parco al momento non si occupa della sua manutenzione. L’auspicio è che ci sia la volontà di farlo in futuro perché sarebbe ripristinabile con l’impegno di risorse davvero modeste”. Il sentiero è percorribile da maggio a novembre. Da metà settembre, nel periodo degli amori, al tramonto è

Casera Ferron

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possibile ascoltare i bramiti dei cervi, mentre qualche settimana dopo, ai primi di ottobre l’intera Val Zemola diventa una sorta di gigantesca bomboniera con le macchie di larice che si accendono di giallo, i faggi che bruniscono e gli abeti che mantengono il loro verde brillante. E’ questo forse il periodo dell’anno più interessante, fermo restando che anche negli altri mesi i motivi d’interesse sono molteplici. Non è raro incontrare camosci ed altri ungulati, mentre per gli amanti della flora non mancano particolarità ed endemismi, tra i quali le famose “Scarpette della Madonna”, ossia la cipripedium calceulus, un’orchidea piuttosto rara.


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TRADIZIONI

Dhi a giré: le lunghe estati

degli ambulanti di Erto Finito l’inverno, molte donne e famiglie intere della Valcellina scendevano nelle pianure di tutto il nord Italia per vendere prodotti d’artigianato, utensili e oggettistica. Un mestiere vero e proprio senza il quale molti non avrebbero potuto avere un futuro

di SABINA TOMAT

D’ Donna pronta a partire con gerla e oggetti artigianali

inverno chiusa nelle sue gole di fredda roccia, silenziosa e selvaggia, la Valcellina nella bella stagione sembra aprirsi al mondo, illuminata dai raggi del sole che inondano prati fioriti e svelano inaspettati scorci pittoreschi forgiati da anni di storia che si respira ma mai si afferra pienamente. Come il carattere dei suoi abitanti, a tratti aperto e solare e un momento dopo sfuggente e ombroso. Non c’è da meravigliarsi, considerato lo stile di vita a cui le genti 43


Ambulante pronto a partire

Ordine di merce di una venditrice via fermo posta

di questa valle nei secoli sono state abituate: d’inverno chiusi nelle loro case a lavorare il legno e in stalla a badare agli animali, nella bella stagione in giro a piedi (dhi a giré, come si diceva a Erto) per tutto il nord Italia come venditori ambulanti. Erano soprattutto le donne, con o senza bambini, che all’arrivo del primo sole e allo sciogliersi della neve caricavano carretti e cassettiere da portare in spalla con tutto ciò che si poteva vendere porta a porta, a partire dall’artigianato prodotto durante l’inverno per finire con calze, lamette, saponette, pizzi, merletti. Due erano i periodi delle partenze: in primavera, per poi rientrare d’estate a fare fieno, e in autunno, con rientro alle soglie dell’inverno. Che si trattasse di coppie di sole donne

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o di famiglie intere, trovavano tutti ospitalità presso case di campagna spaziose dove si poteva lasciare il carretto e c’era a disposizione un fienile dove dormire. A pranzo si mangiava per strada, come capitava. La sera i padroni di casa, con grande solidarietà e spirito collaborativo, lasciavano il fuoco agli ospiti affinché si preparassero da mangiare. Non sono poche le testimonianze di grandi amicizie nate proprio così, anche perché gli ambulanti venivano ospitati spesso dalla stessa famiglia ogni anno. “Andavo con la cesta di casa in casa e con una cintura tenevo insieme i setacci”, ricorda una donna di Erto. “Ero così carica che stentavo a passare per i portoni. I primi giorni erano i più duri, risentivo di quel peso sulle spalle, poi passava. Mentre io giravo, mio marito

rimaneva in un posto fisso a preparare i setacci o a riparare quelli rotti che mi consegnavano o che direttamente portavano a lui”. Segno che la gente accettava con benevolenza questi ospiti che venivano dalla montagna e che apprezzavano il loro lavoro e i loro prodotti. C’era ad esempio chi, a Bologna, aspettava esclusivamente “la donnina dei pizzi di Erto” perché ritenuta molto raffinata nella scelta della merce e le future spose riponevano in lei fiducia quando dovevano prepararsi la dote. “Il carico pesava dai 30 ai 40 chili”, racconta una signora, “mi caricavo la cassettiera sulle spalle, era piena di bretelle, calze, mutande, maglie, lacci per scarpe, reggiseno, reggicalze. Coprivo la cassettiera con un telo e ne lasciavo aperto un lembo per far vedere la merce mentre passavo, se pioveva chiudevo il telo”. Erano cassettiere realizzate proprio a Erto con legno di ciliegio. Nel primo cassettino si mettevano spille e collanine per attirare le donne e, più nascosti, altri piccoli oggetti di uso comune. Sopra la cassettiera prendeva posto un voluminoso pacco con dentro l’altra merce. E così, al grido di “Filo, astico, cordela. Padrona vola niente? La compri qualche cosa!”, la venditrice annunciava la sua presenza.


Giovani valcellinesi con le cassettiere piene prima della partenza

Erano gentili e sorridenti, le venditrici. Spesso lasciavano anche degli omaggi a chi comperava, soprattutto regalavano medagliette e santini raccolti nei santuari durante i viaggi. Non di rado la merce finiva prima del tempo del rientro a casa, e così le donne si facevano mandare altri prodotti via fermo posta. I carretti degli uomini erano invece carichi di prodotti artigianali principalmente in legno, intagliati durante i lunghi inverni a casa, quando nel silenzio della valle risuonavano i colpi d’accetta per dare forma agli oggetti. Abilità straordinarie e profonda conoscenza dei vari tipi di legno caratterizzavano il lavoro di queste persone. L’acero Giovani venditrici lungo il viaggio ad esempio era usato per i mestoli da cucina perché non si impregnava di odori. Tutti gli oggetti prodotti in casa erano chiamati roba sgabelli, battipanni. propria casa, lassù in mezzo alle biànscia. Qualcuno caricava il carretto anche con Gli ambulanti della Valcellina si aspre vallate, con la soddisfazione merce acquistata all’ingrosso come attaccapanni, spingevano, oltre che nel vicino di essersi guadagnati da vivere Veneto, in Emilia Romagna, dignitosamente, di aver Liguria, Lombardia, Piemonte, conosciuto ancora nuovi pezzetti Trentino e addirittura Valle di mondo, consapevoli di aver d’Aosta. compiuto anche questa volta Molti bambini nascevano in il miracolo di avercela fatta, viaggio, in mezzo ai setacci e nonostante tutto. alle altre mercanzie. Quelli già Un bambino di allora, guardando grandicelli spesso non portavano lontano al di là dei monti, verso a termine l’anno scolastico perché la pianura, ci saluta così: già in aprile dovevano partire con “La cosa più bella che ricordo è la famiglia e rientravano solo a il sorriso di mia madre quando novembre, a scuola già iniziata. riusciva a vendere un po’ di filo, Anche i bambini erano un un paio di calze o anche solo una valido aiuto durante la stagione cartina di aghi. Per questo quando delle vendite. Spesso erano loro alla mia porta suona un marochìn che, andando di casa in casa, compero sempre qualcosa. Perché chiedevano la carità e portavano in lui rivedo un pezzo della mia ai genitori farina, pasta, pane, vita”. zucchero e tutto ciò che poteva servire per riuscire a cenare Ringraziamenti: dignitosamente. Fulvia De Damiani per il E così, giorno dopo giorno, materiale fornito si avvicinava il momento di Biblioteca Civica Erto e Casso rimettersi in viaggio verso la Associazione Ecomuseo Vajont Ragazza con oggetti artigianali

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TRADIZIONI

Polcenigo, 300 anni d’intrecci nel borgo dell’acqua e del vimini

Da oltre tre secoli, il primo fine settimana di settembre, lo storico borgo tra i due fiumi ospita la “Sagra dei thest” rinnovando la tradizione dei cestai che affluivano dalle zone limitrofe. Oggi è un fiorente mercato di prodotti in vimini e giunco, ma è anche un’occasione per gustare la trota dell’Alto Livenza Testo e foto di FERDI TERRAZZANI

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L’antica tradizione della lavorazione del vimini è ancora attuale a Polcenigo

er Polcenigo il primo fine settimana di settembre, da 341 anni, ha il sapore della festa. Da oltre tre secoli la pedemontana vive l’appuntamento con i thest, nato agli albori come semplice ritrovo per il mercato di ceste realizzate per gli usi agricoli si teneva nei pressi del santuario della Santissima, alle sorgenti della Livenza. Nel secolo scorso la sagra evento si è trasferita” invadendo” con i suoi colori, sapori e mercanzie il centro storico di Polcenigo divenendone l’appuntamento più importante dell’anno. Polcenigo è popolare come il “borgo sui fiumi”, infatti sorge tra le limpide

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Una spettacolare veduta del paese di Polcenigo durante la Sagra più famosa dell’anno

acque della Livenza e del Gorgazzo, che lo scompongono in canali e ponti rendendolo così un agglomerato urbano particolarmente suggestivo. Quello che ai tempi odierni conosciamo come fiorente mercato del cesto e dei prodotti confezionati con vimini e giunco era nel passato un ritrovo spontaneo che si svolgeva alla vigilia della raccolta delle uve conosciuto in pedemontana come: “marcà del theston”, mercato dei cesti. I thestons e il vimine giustificavano l’appuntamento settembrino, acquisendone di fatto il posto d’onore nella manifestazione spontanea che faceva incontrare i contadini della zona, con i cestai e bottai provenienti anche da fuori provincia. I mercanti arrivavano alle prime luci dell’alba su traballanti carrette cariche di mercanzia, dopo aver trascorso la notte in viaggio. Il cesto veniva confezionato con il vimini a cui era sottratta la scorza, quest’ultimo passaggio lo rendeva di colore bianco decretandone l’impiego soprattutto domestico come

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il trasporto del bucato. I cesti scuri, quelli più grezzi venivano impiegati per gli utilizzi più bassi come il trasporto di pannocchie, uva, mele, patate e fagioli. Il settore del vimine produceva moltissimi altri attrezzi di uso comune oltre alla thesta che come optional poteva essere allestita anche con il coperchio. Per separare il chicco dall’involucro dei cereali si realizzava il van, termine mutuato dai paesi nordici per indicare un setaccio a forma di piramide tronca rovesciata che riempito di grano o legumi veniva ripetutamente scosso per far separare l’involucro dai chicchi dei cereali (la pula) utilizzato come foraggio. I pulcini venivano contenuti dalla “criola”, un contenitore a forma di calotta sotto cui trovavano alloggio temporaneo. Nella zona di Polcenigo le funzioni della gerla, caratteristico contenitore a forma di cono rovesciato, utilizzato per il trasporto di foraggio e foglie conosciuto nelle zone di montagna con il nome di “cos” erano svolte dalla “sbrithia” un rudimentale

cestone formato da due cerchi sovrapposti, un metro distanti fra loro con diametro quasi doppio. Ora i prodotti di vimini sono sempre più difficili da reperire, questo ha suggerito agli organizzatori della sagra l’idea di organizzare corsi per insegnare l’arte dell’intreccio che altrimenti rischiava di scomparire per sempre dalla zona. Ogni anno sono migliaia gli ospiti che affollano le vie di Polcenigo per ammirare e comperare dai cestai e artigiani presenti i manufatti tipici, frutto della loro bravura e costruiti per l’occasione anche sul posto. La sagra coinvolge tutto il borgo antico che per l’avvenimento apre le storiche dimore con i suoi eleganti giardini e cortili per visite, concerti e laboratori. La festosa atmosfera concilia l’appetito ed i tanti chioschi enogastronomici assolvono il compito nel migliore dei modi proponendo gustose pietanze della tradizione; il piatto tipico è senza dubbio la trota dell’Alto Livenza, fiore all’occhiello del palato, servita in diverse golose versioni.


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STORIA LOCALE

Museo Tassan, un tuffo nel passato

Aratri e erpici reperti dell’0ttocento realizzati in legno

Si trova a Marsure di Aviano ed è la più particolare delle raccolte presenti nella Pedemontana. Dai fossili preistorici alle tracce romane, dai vecchi mestieri alla ricostruzione della tipica casa avianese e di un vecchio caseificio foto e testo di FERDI TERRAZZANI

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a storia della pedemontana avianese e friulana ospitata in un museo: il “Museo Tassan”. È la più particolare fra le raccolte presenti nella pedemontana e non solo: l’esposizione è frutto del legame con il territorio marsurese, di un amore innato per il passato e di una meticolosa ricerca iniziata all’età di dieci anni e tuttora in atto. Il Museo è ubicato a Marsure, in comune di Aviano, di proprietà di Maurice Tassan Toffola e del nipote Mattia Boggian e da alcuni anni è visitabile. Partendo dalla preistoria racconta il cambiamento che il territorio avianese e friulano ha subito nella sua evoluzione. In esposizione migliaia di pezzi unici, come unica è la passione dei suoi curatori, distribuiti in più ambienti, un riassunto di storia nativa; non mancano però le curiosità alcune delle quali veramente interessanti provenienti anche da località europee. Il percorso museale parte dalla preistoria con l’esposizione dei fossili di 100 milioni di anni fa,

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Immagini sacre cucite sulle canottiere dei soldati al fronte della 1ª guerra mondiale

Visore in tre dimensioni


onorario a vita del museo è don Giovanni Tassan che tanto ha collaborato alla realizzazione del progetto. Scolaresche e semplici privati visitano in numero sempre maggiore il piccolo gioiello incastonato nella pedemontana in via Trieste n° 127 a Marsure d’Aviano. Maurice Tassan e il nipote sono ben lieti di aprire le porte del museo ed accompagnare gli interessati nell’affascinante percorso storico previo telefonata (0434 662030). Partecipazione ed interesse alla mostra dei fossili di Maurice Tassan (in foto a dx) in Piancavallo realizzata nella scorsa stagione

raccontando poi la formazione delle nostre montagne iniziata 60 milioni di anni addietro. Un tuffo nel passato che ci riporta alla comparsa dei primi organismi viventi quando il territorio pedemontano era sommerso dalle acque con un ambiente tipicamente tropicale. La transizione successiva, il Paleolitico, testimonia la prima presenza umana in zona. Riavvolgendo il nastro della storia la narrazione museale ci porta a conoscere le culture che più hanno condizionato le nostre terre: i romani con tracce del loro passato ancora presenti nelle campagne, i Templari e Medioevo per arrivare ad ambientazioni di vita contadina di fine 800 inizio 900. Una sezione molto ben esposta è dedicata alla fede, al suo culto, alle manifestazioni devozionali delle genti di questa terra. Una bacheca ospita una raccolta di firme autentiche di personaggi illustri che hanno contribuito alla storia

Raccolta di oggetti legati alla produzione casearia

d’Italia. Interessante anche la ricostruzione in scala ridotta della casa tipica avianese posta su un carretto d’epoca, conosciuto come la “beluga”. Il modello è stato realizzato con dovizia di particolari dal padre di Maurice, Jean Pierre Tassan Toffola, che da sempre ha condiviso la passione del figlio. In una seconda ala fanno bella mostra gli antichi manufatti tipici della vita quotidiana delle genti pedemontane. Il museo dedica all’ambiente familiare e lavorativo marsurese ampio spazio con sezioni che rappresentano le attività economiche basilari della zona. Una stanza, ricostruisce l’atmosfera della bottega del falegname dove sono collocati i vari attrezzi legati al taglio delle piante e alla lavorazione del legno. La ricostruzione del caseificio occupa una significativa porzione del museo con i numerosi strumenti legati all’attività della latteria e produzione dei formaggi e derivati. Nella riproposizione dell’ambiente agricolo scopriamo tra le innumerevoli curiosità: una carretta la “thesta” usata per la festa, finimenti per buoi e cavalli, aratri e erpici dell’800 realizzati con il legno. Nella raccolta non poteva mancare una piccola ma significativa biblioteca con testi e scritti che spaziano dalla fine del 1800 in poi riguardanti la vita delle piccole comunità sparse in Friuli. La collezione comprende anche documenti antichi, vecchie cartoline e foto che ritraggono la vita ai tempi dei nostri nonni e bisnonni. Presidente Ricostruzione armatura templare risalente ai primi del 1900 realizzata a Tolosa dai discendenti artigiani che producevano per i Templari

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NATURA

Parnassius apollo

I re e le regine del Cavallo-Cansiglio Un habitat unico per diverse varietà di piante e animali che si sono perfettamente adattate al territorio. Dalla regina indiscussa delle orchidee alla farfalla tra le più rare d’Europa, dal cervo alla volpe foto e testo di FERDI TERRAZZANI

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al Cavallo al Cansiglio la natura regala luoghi di straordinaria bellezza popolati da fiori piante e animali capaci di incantare l’essere umano e rapirne l’immaginazione. Habitat unico per diverse varietà, tra le più significative, che si sono perfettamente adattate nel nostro territorio. Per ricchezza di colori, per nobiltà, perfezione o peculiarità nel loro genere si presentano come re e regine, quindi particolarmente adatti a promuovere la bellezza e la fragilità del territorio montano. Prendiamo esempio da chi in altre zone ha trasformato la buona gestione del suolo in un polo d’attrazione, un bacino d’utenza che

Il bramito del cervo, uno dei re della fauna montana

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Lo sguardo attento della volpe

Cypripedium calceolus- scarpetta della Madonna o di Venere

raccoglie sempre più appassionati, importante risorsa per il turismo locale. Una ghiotta opportunità offerta, a chilometri zero, ai tantissimi sostenitori della natura per ammirare e fotografare in loco bellissime piante e animali che popolano le nostre montagne. Cypripedium calceolus. Il nome è bello come il fiore stesso. È la regina indiscussa delle orchidee, tanto suggestiva da essere riconosciuta dai nostri montanari come la pianella o la scarpetta della Madonna. Sicuramente è il fiore spontaneo più attraente e raro della penisola, ma anche una delle piante più minacciate d’estinzione. Nel territorio italiano sopravvive in sparute aree; da noi fortunatamente un regime severo di protezione l’ha preservata dalle razzie rendendola ancora ammirabile in giugno mese della sua massima fioritura. Parnassius apollo. “Vola di qua, vola di là, lei è una piccola regina tra i fiori bella, leggera, colorata è la farfalla dei prati più ammirata”. Un sonetto la racconta così in realtà è una delle farfalle più appariscenti, vistose e ricercate delle nostre pendici montuose. Il suo aspetto con ali bianco giallastre ricoperte da macchie nere tondeggianti e ocelli rossi con vistosa pelosità addominale e la sua stazza la rendono inconfondibile. Predilige per i voli le praterie di montagna gli ambienti aperti, assolati e rocciosi tra i 300 ed i 1600 metri di quota ma può elevarsi sino ai 2500 m. A causa del degrado dei suoi habitat e della cattura da parte dei collezionisti è una specie fortemente a rischio tanto da essere l’unica farfalla non tropicale protetta. Entomologi provenienti da tutta Europa salgono i nostri pendii montani per studiarle da vicino. Cervus elaphus. Sono il re della foresta e porto la corona in testa. È il mammifero più grande che vive stabilmente nel nostro territorio montano dalla rarefazione dell’Orso bruno. Per la sua figura potente e aggraziata gli è stato assegnato il titolo di leader della foresta. Già nella 54

mitologia celtica il Cervo veniva associato a Cernunno, il signore degli animali. I suoi palchi, simili ai rami di un albero allungati verso il cielo, sono un inequivocabile attestazione di dignità e “aristocrazia”. Il cervo nobile occupa nel territorio un areale vastissimo che si estende dalla pedemontana ai boschi più intricati fino ai pascoli più elevati dei monti. Quando l’estate lascia posto all’autunno la natura mette in scena una rappresentazione straordinaria: la stagione degli amori. Durante questo il periodo, metà settembre metà ottobre, solitamente i maschi si ricongiungono con le femmine dopo aver vissuto con gli altri maschi riproduttivi una lunga fase di isolamento. I bramiti, una via di mezzo tra un muggito e ruggito, riecheggiano notte e giorno nelle arene di corteggiamento. Il richiamo avvisa i rivali di stare alla larga o di prepararsi a combattere, un monito per tutti quei maschi che tentano di conquistare femmine non loro. Molto spesso la forza e la potenza del bramito del cervo non sono sufficienti a intimorire gli avversari e per stabilire le gerarchie non resta che affrontarsi in spettacolari duelli a suon di cornate. La Volpe. È il carnivoro selvatico più diffuso. La Volpe era considerata nell’antichità l’emblema della furbizia. Esopo l’ha voluta protagonista in una delle sue favole più popolari: “la volpe e l’uva”. Anche Fedro nella “volpe e il corvo” ha reso celebri le sue lusinghe. Si raccontano altre storie attorno alla proverbiale furbizia della Volpe. Presa in trappola si finge morta fuggendo poi appena liberata. Per appropriarsi di una tana di un Tasso deposita i propri escrementi all’entrata. Districandosi tra leggenda e realtà emerge il vero talento della Volpe che è la sua adattabilità. Riesce infatti a sopravvivere negli ambienti più disparati, nel caos dei centri urbani alle alte vette delle montagne dimostrando sempre una grande abilità nel procurarsi il cibo.


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ESCURSIONISMO

Dardago abbraccia Piancavallo tra faggi, sorgenti e ciclamini

Un gruppo di volontari del CAI sta lavorando attivamente al mantenimento dei sentieri permettendo così agli escursionisti di esplorare le montagne in tutta sicurezza. Significativo, in particolare, il recupero dello storico sentiero 990, percorso dei pionieri che già dal 1925 lo utilizzavano per salire in Piancavallo da San Tomè di SABINA TOMAT

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iancavallo da molti è conosciuto esclusivamente come località giovane “costruita” ad uso e consumo del turismo invernale. Ed è così che il business principale della nostra località ne ha in qualche modo oscurato la storia. Di quale storia parliamo? Non degli anni d’oro e del boom del turismo, bensì di una storia ancora più antica in cui la piana del Cavallo era dimora della pastorizia locale e dei pionieri dell’escursionismo. Il tutto è stato ben ricostruito e proposto in pubblicazioni di notevole interesse come “La montagna avianese - Storia e sentieri” di Mario Tomadini e in generale dal lodevole lavoro di recupero della memoria fatto dal CAI delle sezioni di Aviano e Pordenone. Tuttora un gruppo di volontari del CAI sta lavorando attivamente al mantenimento dei sentieri permettendo così agli escursionisti di esplorare le

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Volontari al lavoro

nostre bellissime montagne in tutta sicurezza. Una ventina di appassionati della montagna che, silenziosamente e scrupolosamente, tengono monitorate le condizioni dei percorsi del Piancavallo in modo che con la bella stagione chiunque possa avventurarvisi in tutta sicurezza. Proprio nel corso di questi lavori sono state scoperte tracce di antichi passaggi al di fuori dei tracciati più popolari e conosciuti. In particolare si sta lavorando al recupero dello storico sentiero 990, percorso dei pionieri che già dal 1935 lo utilizzavano per salire in Piancavallo da San Tomè. L’attuale tracciato del sentiero CAI 990 parte da Dardago e raggiunge il sentiero CAI 994 nei pressi della Casera Campo. Lungo diversi chilometri, a causa della difficoltà del percorso e della scarsità di volontari disponibili, presenta insormontabili difficoltà di manutenzione. Si è così pensato di recuperare, appunto, il vecchio sentiero e contemporaneamente trovare un tracciato più agevole da mantenere. Il nuovo tracciato, che richiederà molto lavoro e tanto impegno, parte da Piancavallo, incrocio via dei Rododendri via dei Ciclamini e scende lungo la Valle della Stua. Tra splendidi faggi colonnari, in gradevole discesa raggiunge le sorgenti del Cunath (che più a valle si chiamerà Artugna). Attraversa poi le sorgenti e segue per un tratto

una vecchia strada forestale. Un primo bivio permetterà o la risalita fino a Castaldia e a Casera Collat, oppure la discesa lungo una più vecchia forestale prima e poi lungo un’antica mulattiera fino ad un secondo bivio. Da qui sarà possibile, guadando il Cunath, raggiungere in breve il sentiero CAI 994 e poi San Tomè. Proseguendo, senza guadare, sarà possibile raggiungere il vecchio tracciato del sentiero 990 intorno quota 900, appena sotto la Curva della Suocera e, proseguendo, raggiungere infine San Tomè. Un affascinante itinerario che renderà omaggio alla vera storia del Piancavallo. Chi fosse interessato a contribuire al progetto di recupero e manutenzione può contattare il CAI di Pioniere dell’escursionismo pronto alla partenza Pordenone o Aviano.

Un gruppo di alpinisti pordenonesi in sosta a S. Tomè prima di salire al Pian Cavallo. In piedi da sinistra: Mario Boranga, Amilcare Endrigo, Laerte Zuliani, Gino Marchi, Antonio Marchi, Arnaldo Pipin, Carlo Alberto Maddalena. Seduti: Enrico Venier e Attilio Marchi

Giovani escursionisti lungo il sentiero 990

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IL PERSONAGGIO

Giuseppe Gatto. Il Beato Marco d’Aviano guida la Peregrinatio Mariae a Vienna nel 1697. Aviano chiesa parrocchiale

Padre Marco d’Aviano, il cappuccino che salvò l’Europa dalla conquista musulmana

Più noto nel resto d’Europa che in Italia, al frate avianese vennero attribuite guarigioni miracolose. Ma la sua “impresa storica” fu quella di accendere gli animi della coalizione che sconfisse i turchi alle porte di Vienna nel 1683 grazie alle sue prodigiose doti di oratore di MAURO FRACAS

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arlo Domenico Cristofori, meglio conosciuto come Padre Marco d’Aviano, nacque in una Europa che conosciamo solo sui libri di storia, eppure una figura come la sua, in cui la spiritualità più raffinata diviene lievito vitale delle vicende storiche più drammatiche, conserva ancora tutta la sua attualità. Carlo infatti nacque nel 1631, nel pieno della Guerra dei 30 anni, quando la geografia confessionale del Vecchio continente veniva decisa a colpi di cannone dalle principali potenze europee, e in Italia era alle strette finali lo scontro tra Galileo e le autorità ecclesiastiche. A vedere i suoi natali fu Villotta di

Aviano, piccola località alla periferia della Serenissima Repubblica di Venezia. Appena diciottenne conclude il suo noviziato nel monastero di Conegliano, professando i voti definitivi che lo portano a diventare frate cappuccino con il nome di Marco d’Aviano, in onore di suo padre (Marco Cristofoli) e della sua terra natia. L’inizio della sua carriera ecclesiastica non sembrò tra i più promettenti, così, ordinato sacerdote nel 1655, Marco rimase “simplexpater”, ossia sacerdote adibito a svolgere le attività meno impegnative della celebrazione eucaristica, come la lettura delle Scritture o la raccolta 59



delle elemosine. Fu in questa modestia di costumi che fiorì la sua spiritualità, e se ne accorse il Padre generale, Fortunato di Cadore, che lo avviò agli studi filosofici e teologici. Nel 1664 ottenne anche il diploma di predicatore, ruolo che sapeva svolgere in modo carismatico. A portare Marco alla ribalta delle cronache del tempo fu però soprattutto la sua attività di taumaturgo, tanto che pochi anni dopo a Monaco una commissione aveva raccolto 391 casi di guarigioni ritenute miracolose attribuite a Marco d’Aviano. La notorietà raggiunta a livello internazionale da Padre Marco spinse Papa Innocenzo XI ad affidargli un compito di prima grandezza: costituire tra le varie potenze europee un’alleanza capace di contrastare la minaccia Ottomana in Europa, che nel 1683 era riuscita a cingere d’assedio Vienna. Fu un momento decisivo per l’Europa, la quale, se Vienna fosse caduta, sarebbe divenuta in gran parte una provincia dell’Asia. Contro ogni aspettativa, Padre Marco riuscì a tessere le tela di una efficace alleanza, un cui protagonista, Carlo V di Lorena, era guarito in seguito all’intervento del futuro Beato. L’opera di Aviano non si esaurì a livello diplomatico, ma continuò sul campo di battaglia, dove motivò le truppe con un discorso che richiamava in modo vigoroso l’identità cristiana delle proprie origini. Le truppe alleate si batterono valorosamente e nella battaglia di Kahlenberg, che si svolse l’8 settembre 1683 nei pressi di Vienna, misero in rotta un nemico superiore in uomini e mezzi. A Padre Marco non venne concesso di godere i frutti del suo lavoro e spirò nel 1699 tra le braccia dell’imperatore Leopoldo. Scarso è, proprio nella sua terra, il tributo di memoria di cui è fatto oggetto Padre Marco d’Aviano, nonostante il debito di libertà che l’Europa ha accumulato nei suoi confronti. Ma questo è il destino dei grandi.

La statua raffigurante Padre Marco nella chiesa dei cappuccini a Vienna

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SOTTO LA LENTE

La strada della Valcellina Nel novembre 1906 l’ingegner Zenari a bordo di un calesse tirato da un baio ungherese poté compiere il viaggio inaugurale da Montereale a Barcis, finalmente liberata da un millenario isolamento. Era nata la strada della Valcellina, come arteria di servizio per il grandioso impianto idroelettrico che dava la luce a Venezia

di LUIGINO ZIN

C

Foto Ruggero Lorenzi

Immagini di grande fascino della vecchia strada della Valcellina ieri e oggi

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on i suoi cinque comuni (Barcis, Andreis, Claut, Cimolais ed Erto) cinti da impervie montagne, la Valcellina è stata una enclave isolata dal resto del mondo fino al 1906. L’assenza di strade impediva non solo i collegamenti carrozzabili fra comune e comune, ma anche di accedervi dalla pianura pordenonese. Lungo la forra del Cellina, segregata com’era da invalicabili spalti rocciosi era impensabile la costruzione di una rotabile. Altrettanto impossibile sembrava la realizzazione di una strada che, lungo la forra del Vajont, la

collegasse alla valle del Piave. I diecimila abitanti, che popolavano la Valcellina a fine Ottocento, potevano scendere in pianura solo attraverso l’aspro sentiero che valicava la Val de Crous; quindi, tutto quanto era necessario per vivere e che non poteva essere prodotto all’interno della valle, dal grano ai medicinali, tessuti, utensili ecc. doveva essere trasportato dalla gente, con le gerle, le slitte, o nel migliore dei casi a dorso di mulo. Intanto, la maggior parte di città e paesi d’Italia e d’Europa erano ancora illuminati dalla tenue luce delle candele o delle


Foto Marco Piladella

lampade a petrolio; e soltanto poche grandi città, come Venezia, godevano della illuminazione a gas. Ma un audace progetto, a firma dell’ingegner Aristide Zenari stava per essere realizzato dalla S.I.U.F.I.V (Società del Cellina) con capitali pordenonesi e veneziani: la costruzione di un grandioso impianto idroelettrico che, grazie all’acqua del Cellina, avrebbe prodotto energia elettrica non solo per Venezia, ma anche per altre città

venete e friulane, spodestando il vapore e il gas che ancora dominavano in campo energetico. A colpi di dinamite, le barriere rocciose che si frapponevano al progresso furono vinte e, con una incredibile serie di opere derivatorie (un canale in pietra, 57 ponti canale, arcate di sostegno, 5 gallerie, la più lunga delle quali di 1.100 metri), nel maggio 1905, l’acqua fu condotta ad alimentare le turbine della grande centrale di Malnisio. Per arrivare alla

Alcune immagini dei lavori per la realizzazione del lago di Barcis

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Foto Ruggero Lorenzi

diga di presa (oggi chiamata Diga Vecchia) occorreva una strada di servizio che, come previsto da Zenari, fu realizzata gettando al di sopra dei muri del canale una serie contigua di volte a vela in calcestruzzo, creando in questo modo un piano viabile, integrato, a lato del canale stesso, da brevi tratti di carreggiata in sede propria. Dalla diga alla borgata Molassa - e quindi fino alla preesistente carrareccia che portava a Barcis - il solo chilometro di strada mancante venne costruito da Zenari di propria iniziativa, poiché la Società del Cellina non intendeva proseguire la viabilità oltre la diga. Così, nel novembre 1906, l’ingegner Zenari a bordo di un calesse tirato da un baio ungherese poté compiere il viaggio inaugurale da Montereale a Barcis, finalmente liberata da un millenario isolamento. Negli anni successivi, fra il 1910 e il 1914, in vista del 1° conflitto mondiale, fu molto più facile per il Genio Militare realizzare le strade necessarie a dare una strategica continuità a questo primo collegamento con i restanti paesi della Valcellina, e quindi con le valli del Piave, la Val Colvera (attraverso la Pala Barzana) e la Val Silisia (attraverso la Forcella Clautana).

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Lago di Barcis, un serbatoio che dona fertilità alla pianura (L.Z.) Completato il progetto Zenari con la costruzione delle centrali di Giais (1908) e di Partidor (1919) la SADE (Società Adriatica di Elettricità), subentrata alla Società Cellina, si accordò con l’appena nato Consorzio di Bonifica Cellina-Meduna, su un progetto coordinato di sfruttamento dell’acqua del Cellina. Gran parte della pianura pordenonese, a nord della linea delle risorgive, era in quel tempo una landa siccitosa semiimproduttiva. E i 14 metri cubi al secondo d’acqua del Cellina, turbinati dalle tre centrali, finivano inutilmente dissipati nel suo greto ghiaioso presso San Leonardo. Sbarrando il Cellina con una diga, alla stretta di Ponte Antoi, a Barcis, si sarebbe potuto creare un serbatoio di

accumulo stagionale della capacità di 70 milioni di metri cubi, per integrare le portate estive del torrente, a favore della capillare rete di canaletti irrigui prevista dal Consorzio. Ciò avrebbe portato un enorme beneficio alla coltivabilità dei suoli riarsi dalla scarsa piovosità. Ma a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale questo progetto fu procrastinato alla fine delle ostilità. Poi, nei primi anni del dopoguerra, gli accordi SADEConsorzio ripresero e si decise di dare inizio ai lavori. Nel progetto originario la diga avrebbe dovuto raggiungere un’altezza maggiore di 11 metri di quella attuale; cosa che avrebbe provocato la sommersione dell’abitato di Barcis che si sarebbe dovuto evacuare, trasferendo i


BARCIS ESTATE 2015 •

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Per informazioni: Pro Loco Barcis – www.barcis.fvg.it tel 0427 76300, email: probarcisarcis.fvg.it,

Foto Michele Missinato

Foto Claudio Beltrame

Presentazione degli eventi durante la Settimana delle Dolomiti Unesco “Dolomiti Days 2015” a fine giugno e inaugurazione di uno spazio dedicato alle due mostre di Barcis presso il Museo Civico di Storia Naturale di Pordenone. Dal 1 agosto al 13 settembre - mostra “La meteorite di Barcis e sassi da altri mondi” presso la Scuola d’Ambiente di Barcis. Dal 1 agosto al 13 settembre - mostra “Minerali – cristalline trasparenze della terra” presso il Centro di Aggregazione Giovanile di Barcis. •6 agosto - Incontro con le Stelle e le Meteore organizzato dall’A.P.A., Associazione Pordenonese di Astronomia presso Palazzo Centi di Barcis 12 agosto – Lo sfruttamento elettro-irriguo del Cellina attraverso un secolo di grandi opere. La diga di Barcis e il ritrovamento della meteorite. Relatori: Luigino Zin e Umberto Repetti, presso Palazzo Centi di Barcis. Saranno organizzate delle gite intorno al Lago sul luogo del presunto ritrovamento della meteorite organizzate dalla Cooperativa S.T.A.F. e altre escursioni.

L’abitato di Barcis con il lago e la perla architettonica di Palazzo Centi

suoi abitanti in un nuovo paese da costruire di sana pianta sulle pendici della località Dint. Ma, come è noto, nel settembre del 1944, la popolazione di Barcis, patito l’incendio del paese a opera dell’occupante esercito nazista, aveva subito provveduto con grandi sacrifici a riparare o ricostruire gran parte delle case così barbaramente distrutte. Si decise perciò di non imporre ulteriori sacrifici e disagi agli abitanti, e il massimo livello del serbatoio fu riprogettato con una capacità ridotta al livello attuale, preservando il paese dalla sommersione. I lavori ebbero inizio nell’estate del 1951 e il 19 giugno 1954, riempito del tutto l’invaso alla sua massima capacità di 20 milioni di metri cubi, la prima acqua cominciò a tracimare dal ciglio sfiorante della diga. Il bacino così creato fu dedicato all’ingegner

Napoleone Aprilis, ideatore, tenace propugnatore e realizzatore del Consorzio grazie al quale l’arida pianura è stata trasformata in immense coltivazioni ordinate come giardini. La conoscenza dello sfruttamento elettro-irriguo del Cellina con oltre un secolo di grandi opere idrauliche risulta interessante non solo per gli esperti in materia ma per tutti coloro che sono interessati al territorio che ci circonda e alla sua valorizzazione. La storia della costruzione della diga di Barcis è arricchita da un ulteriore particolare ritrovamento, anche se ancor poco conosciuto. E’ infatti di quegli anni la scoperta di una meteorite. Foto: Foto storiche di Ferruzzi - Venezia, per conto SADE Venezia, archivio geom. Luigino Zin

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STORIA

Policreti, il primo rifugio della montagna pordenonese di MARIO TOMADINI*

Domenica 2 agosto 1925, nel Piano del Cavallo, la Sezione di Pordenone del Club Alpino Italiano inaugurava uno scomodo, fumoso ma indispensabile rifugio, poi distrutto dai tedeschi nel 1944. Ecco il ricordo di quella giornata piovosa

Piano del Cavallo, località Col delle Lastre (ora Collalto), domenica 2 agosto 1925. Inaugurazione del Rifugio Policreti. Al centro il sacerdote Gioacchino Muccin, a destra l’elegante “madrina” Maria Antonietta Piazza-Policreti. (Cortesia Italo Paties Montagner)

Se

botto; se si fosse trattato un gioco pirico nel cielo del Piano il destino non avesse deciso altrimenti, il 2 agosto del Cavallo sarebbero comparsi i contorni di quella che fino prossimo il Rifugio Policreti avrebbe compiuto al novembre 1924 era stata la Casera Brusada – Policreti novanta anni, un’età ragguardevole per gli e magari anche i volti dei protagonisti. Ma andiamo con umani, molto meno per un ricovero alpino. La ricorrenza ordine. coinciderebbe con i festeggiamenti per gli altri “novanta Prima la Grande Guerra, poi la crisi economica seguita alla anni”, quelli della Sezione di Pordenone del Club Alpino vittoria avevano impedito la realizzazione di un rifugio alpino Italiano. Se tutto fosse andato per il verso giusto la torta di nell’altopiano del Cavallo. Quando ormai ogni speranza compleanno sarebbe stata divisa in due porzioni di eguale sembrava persa, nel novembre importanza perché entrambi gli 1924 tutto era mutato e anniversari erano figli legittimi questo grazie alla tenacia degli di un sogno a lungo accarezzato. alpinisti pordenonesi di Rino Sta di fatto che i festeggiamenti Polon che avevano incontrato riguarderanno solo la Sezione la disponibilità dei signori giacché il Policreti ha cessato di Policreti di Ornedo i quali, esistere il 9 settembre 1944 per bontà loro, avevano concesso cause legate al secondo conflitto in simbolica locazione (una mondiale. lira all’anno per 29 anni) la Con l’apertura del Rifugio Policreti la neonata Sezione di Piano del Cavallo, località Col delle Lastre. La casera Brusada o Policreti casera di loro proprietà per prima della trasformazione in rifugio. permetterne la trasformazione Pordenone era partita con il (Archivio Club Alpino Italiano, Sezione di Pordenone) 66


COMINBLU



Piano del Cavallo, località Col delle Lastre (ora Collalto, domenica 2 agosto 1925. Don Gioacchino Muccin celebra la funzione religiosa che precede l’inaugurazione ufficiale del rifugio Policreti. (Cortesia Carla Fabris- Fabio Gramigna Policreti)

Il Rifugio Policreti in versione invernale. (Collezione Mario Tomadini)

in un ricovero. Prendeva così corpo, tra le brume autunnali e i primi fiocchi di neve, il primo rifugio della montagna pordenonese. Le cronache ricordano che domenica 2 agosto 1925, giorno deputato all’apertura ufficiale, l’altopiano del Cavallo non aveva fatto nulla per smentire il suo carattere decisamente capriccioso. Pioveva che Dio la mandava quando le trecento anime che fin dall’alba si erano sobbarcate la fatica che dal fondovalle le avrebbe portate fin al Col delle Lastre, attendevano l’ora stabilita per l’inaugurazione del manufatto. Quando tutto sembrava volgere al peggio, una tregua meteorologica aveva permesso sia la celebrazione della Santa Messa sia l’eloquenza degli oratori che avevano affidato alle nuvole i loro discorsi densi di patriottismo. D’altra parte eravamo nel 1925 e accanto alla sequenza Dio, Patria, Famiglia in rigoroso ordine, aveva trovato un posticino anche il vocabolo “montagna”. Le autorità avevano parlato con gli occhi rivolti al cielo ma forse lo avevano fatto per conoscere in anticipo dove si sarebbero diretti quegli infami cumuli carichi di pioggia e anche il celebrante, don Gioacchino Muccin, aveva lo sguardo rivolto verso l’alto ma per un altro e più nobile motivo. Colui che anni dopo avrebbe impugnato il pastorale nella Diocesi di Belluno-Feltre, aveva officiato la funzione in un altare di fortuna addossato al lato ovest del Rifugio, un luogo che offriva una parvenza di riparo dalla pioggia. Erano quindi intervenuti con robusti discorsi la madrina del rifugio signora Maria Antonietta Piazza-Policreti, l’ingegner Nagel per la Sede Centrale del CAI, Pietro Tajariol della “Famiglia Alpina” di Pordenone e naturalmente il presidente di Sezione Rino Polon. Non era mancata la tradizionale bottiglia di spumante che era stata lanciata contro le pietre del Policreti quasi fosse stato un vascello destinato a navigare tra i flutti atlantici e non tra una dozzina di povere casere sparse in un altopiano dove, ironia del destino, normalmente l’acqua scarseggiava. Il socio Raffaele Joppi dopo aver diligentemente annotato i nomi dei presenti aveva aperto il librone del rifugio imprimendovi a imperitura memoria la cronaca della giornata. Mentre la pioggia aumentava d’intensità, le autorità avevano trovato riparo all’interno della costruzione dove i gestori Elio e Cecilia Santin avevano versato due dita di vermouth in una fila di bicchieri distribuiti in una tavola lunga e larga. Il vin d’honneur aveva sancito la fine di quella giornata, pessima dal punto di vista meteorologico, esaltante per la storia del movimento alpinistico pordenonese. Il più era fatto e ai presenti non era rimasto che ridiscendere a valle. Sotto una pioggia perfida la processione aveva preso tre diverse direzioni: la Val Caltea-Pezzeda per chi doveva scendere a Barcis, la Valle della Stua-Valle di S. Tomè per Dardago e le

Il Rifugio Policreti negli Anni Trenta del secolo scorso. (Collezione Mario Tomadini)

Crode della Madonna-Bornass-Prà de Plana per Aviano. Al Policreti erano rimasti i fratelli Santin e un paio di malgari comprensibilmente stupiti perché tutta quella gente nel Piano del Cavallo non si erano mai vista. L’apertura del Policreti aveva avuto una discreta eco nei quotidiani friulani; LA PATRIA DEL FRIULI e il GIORNALE DI UDINE avevano scritto con dovizia di particolari e lo stesso aveva fatto il settimanale pordenonese, ma soprattutto cattolico, IL POPOLO. I corrispondenti erano stati concordi nell’esaltare l’apertura del nuovo rifugio alpino che avrebbe permesso un dignitoso soggiorno per gli appassionati all’andar per monti ma anche per chi non vedeva l’ora di munirsi di sci per scivolare, magari malamente, nei magnifici campi di neve. Era finita l’era delle scomode casere, se non addirittura quella delle stalle che nel passato avevano messo a dura prova le capacità d’adattamento di alpinisti e botanici del calibro di Zanichelli, Stefanelli, von Martens, Steinitzer, Patèra e molti altri. Le giovani leve non avrebbero conosciuto giacigli fangosi, parassiti e spifferi gelidi. Quelle orribili avventure appartenevano ormai a un mondo scomparso. La montagna, già per sé ostile, spartana e scomoda non avrebbe più chiesto un simile tributo. A questo punto non rimane che fare tesoro della felice intuizione proposta dal programma televisivo Il Tempo e la Storia di Rai condotto da Massimo Bernardini che alla fine di ogni argomento trattato consiglia un libro, un film e un luogo. Libro: LE PIETRE PERDUTE Nel Piano del Cavallo sulle tracce del Rifugio Policreti (1925-1944) pagg. 323, oltre 200 tra illustrazioni e foto d’epoca. Autore Mario Tomadini. Edito nel 2013 dall’Associazione La Voce di Pordenone. Film: Negli Anni Trenta del secolo scorso il fotografo pordenonese Pollini aveva prodotto un cortometraggio al Rifugio Policreti in occasione di una gita domenicale organizzata dal Club Alpino di Pordenone. Una fotografia documenta la macchina da presa sistemata nel cavalletto; purtroppo la pellicola è andata persa e questo ci ha privato di un documento che definire eccezionale sarebbe davvero riduttivo. Luogo: La chiesetta alpina in Piancavallo, località Collalto. Raggiunto il piccolo edificio sacro, lo si aggira trovando la staccionata che delimita la proprietà del vicino Condominio Policreti. Il rifugio, che sorgeva nel giardino condominiale che si nota nel lato nord dell’edificio, corrispondeva a queste coordinate: Longitudine N 46°6’40.817’’e Latitudine E 12°31’37.569’’. * Accademico G.I.S.M. (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna) 69


Foto Ferdi Terrazzani

AMBIENTE

Foresta del Prescudin, un corridoio wilderness tra Piancavallo e il Parco delle Dolomiti Friulane di PIERGIORGIO GRIZZO

A tre chilometri dall’abitato di Barcis 1.650 ettari di boschi incontaminati a cui si accede dalla strada della Valcellina. Un contesto in gran parte selvaggio e isolato, caratterizzato da una fauna ricchissima di specie

Dal Palazzo Prescudin vista sull’aerea cresta Monte Venal Crep Nudo

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Foto Ferdi Terrazzani

La

L’ideale collegamento potrebbe realizzarsi attraverso quell’ulteriore corridoio di wilderness che è rappresentato dalla foresta del Prescudin. Questa prende il nome dal torrente omonimo, piccolo affluente di destra del Cellina, il cui bacino è di proprietà dell’Azienda Regionale dei Parchi e delle Foreste. Dal 1969 questo territorio è una riserva naturale orientata a scopi prevalentemente scientifici con finalità di “bacino idrografico rappresentativo sperimentale”. I 1650 ettari di boschi, ghiaie e rocce vengono costantemente monitorati al fine di studiare i rapporti tra clima, suolo e vegetazione. Al Prescudin si accede percorrendo la S.S. 251 della Valcellina; a circa 3,5 km da Barcis, in località Arcola, svoltando a sinistra si imbocca la stretta strada che, attraversato il torrente Cellina, conduce dopo altri 3,5 km in tortuosa salita alla località Palazzo a quota 640 m s.l.m., dove si trova la cosiddetta Villa Emma, antica dimora estiva dei conti Cattaneo di Pordenone,

Foto Ferdi Terrazzani

montagna pordenonese offre grandiose opportunità di coniugare turismo e natura. In questo territorio sono infatti molteplici gli argomenti di richiamo per gli appassionati del wilderness e altrettanto numerose sono le potenzialità ancora inesplorate. Da qualche tempo si parla di un collegamento tra il Piancavallo, eccellenza turistica legata in primis agli sport della neve, ma fruibile anche nella bella stagione, e il Parco delle Dolomiti Friulane, posto a cavallo tra le provincie di Udine e Pordenone, ma insistente in particolare su quest’ultima. Il Parco è l’altro fiore all’occhiello del nostro territorio montano, un’area di 36.950 ettari, senza centri abitati e scarsamente popolata. Le Dolomiti Friulane, chiamate anche Dolomiti d’Oltre Piave, costituiscono la sezione occidentale delle Prealpi Carniche, compresa tra i fiumi Piave, Tagliamento, Meduna e Cellina e nel 2009 sono state inserite nella lista del Patrimonio mondiale naturale dell’Unesco.

La Val Prescudin

Cascata in Val Prescudin

Un capriolo curioso

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Piana di Pinedo in comune di Cimolais

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l’ombelico del Parco stesso. A Pinedo potrebbe sorgere un’area didattica (all’interno di un perimetro già in parte recintato) per la caccia fotografica e l’osservazione della fauna e della flora del Parco. Da qui potrebbero articolarsi una serie di itinerari percorribili in tutte le stagioni, inverno compreso con sci di fondo e ciaspole. Insomma, una vasta area naturalistica, raggiungibile in auto attraverso la ex statale 251 e a piedi, attraverso sentieri, sia dal Piancavallo che dalle altre vallate contermini che diventerebbe il cuore del Parco, aumentando così l’appeal turistico della stessa Piancavallo.

Foto Ferdi Terrazzani

gli ultimi proprietari della foresta. L’accesso è vietato alle auto mediante la sbarra posta poco prima del ponte sul Cellina. La foresta regionale del Prescudin è stata quasi completamente (90 per cento) dichiarata area wilderness con la denominazione “Alto Prescudin”, con esclusione della zona di fondovalle interessata da strada e fabbricati. Si tratta quindi di un contesto in gran parte selvaggio e isolato, con scorci suggestivi. La fauna comprende il capriolo, piuttosto comune, il camoscio oltre il limite della vegetazione arborea, la volpe, il tasso, la faina, la martora, la donnola, la puzzola e l’ermellino. Tra i piccoli mammiferi ricordiamo lo scoiattolo e il ghiro, che ha abitudini di vita notturna, la lepre alpina, specie che nella stagione invernale diviene completamente bianca, eccetto la punta delle orecchie, che resta nera. Infine l’avifauna del Prescudin è interessantissima e ricca di specie: dai rapaci quali l’aquila reale, la poiana, lo sparviero, il gheppio, l’astore, il gufo reale, il gallo cedrone e il forcello, il francolino di monte e la pernice bianca. Attraverso il “corridoio” del Prescudin l’area del Piancavallo potrebbe agganciarsi dunque al Parco ed in particolare alla zona di Pinedo, nella piana di Cimolais (per capirsi quella dove sorge anche la zona industriale della Valcellina), un luogo baricentrico perché continguo alla Val Cimoliana e alla Val Settimana, che sono di fatto



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CURIOSITÀ

Palcoda,

l’antico borgo dei cappellai Il borgo, oggi abbandonato, si trova a un’ora di cammino da Campone, nel comune di Tramonti di Sotto. Nelle vicinanze c’è la spettacolare cascata del torrente Chiarzò

I resti della chiesa e dell’abitato di Palcoda, adagiato al terminale della valle del torrente Chiarzò

Testo e foto di PIERGIORGIO GRIZZO

N

ascosto tra i boschi della Val Tramontina, nel comune di Tramonti di Sotto, c’è il borgo abbandonato di Palcoda. Questa parte della montagna pordenonese è puntinata di grappoli di case e di insediamenti più o meno estesi, oggi ridotti a ruderi, che testimoniano la vitalità del territorio nei secoli andati. Un tempo infatti non c’era ragione per privilegiare la pianura alla montagna. Qui c’erano pascoli, legna, acqua in abbondanza e la vita non era mediamente più dura che altrove. Lo spopolamento delle “terre alte” è iniziato solo in epoche molto recenti a partire dalla

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rivoluzione industriale. Palcoda, però, è qualcosa di diverso. Qui non si parla di un grappolo di case, ma di un piccolo paese, formato da una quarantina di abitazioni, con una chiesa ed un campanile. Oggi è un villaggio fantasma, di grande suggestione, soprattutto per il paesaggio naturale nel quale è incastonato. Questo luogo fu un iniziale punto di appoggio di pastori che si spostavano con il gregge da una zona all’altra della provincia di Pordenone e solo a partire dal 1600 cominciò ad essere abitata stabilmente. La popolazione si aggirava intorno alle cento unità, raggiungendo le centocinquanta nei periodi di maggior splendore. Le attività economiche erano l’agricoltura e l’allevamento, ma anche un’importante e consistente produzione di cappelli di paglia, che gli abitanti ebbero la capacità di esportare anche all’estero. Due furono le famiglie che si distinsero: i Moruzzi e i Masutti. Infatti, furono loro a promuovere nel 1780 la costruzione della chiesa e furono sempre loro gli ultimi ad abbandonare il paese dopo la Prima Grande Guerra. 76

Partendo dal vecchio mulino di Campone (frazione nel comune di Tramonti di Sotto) si risale la gola del torrente Chiarzò. L’itinerario non presenta particolari difficoltà, né dislivelli significativi. L’unico accorgimento da seguire assolutamente, se si effettua la gita nei mesi estivi, è quello di tenere calzoni e maniche lunghe e di controllarsi, una volta rientrati a casa, con cura, dal momento che nella zona vi è il concreto rischio di venire punti da qualche zecca. Per raggiungere le rovine di Palcoda serve comunque un’ora e mezza di cammino. Seguendo i classici segnavia bianchi e rossi del Club Alpino Italiano, ad un certo punto si arriva ad un bivio. Tenendo la destra, si imbocca un altro sentiero che in circa un quarto d’ora conduce alla spettacolare cascata del torrente Chiarzò, un salto d’acqua di circa dieci metri che merita una sosta e qualche bella fotografia. Riprendendo il sentiero principale si arriva in un’altra mezz’ora a Palcoda, un tempo quasi completamente sepolta dalla vegetazione, oggi in parte restaurata, ma comunque ancora depositaria di un fascino antico.


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ARTE

Il Pordenone - DECORAZIONE DELLA VOLTA E DELLE LUNETTE DEL CORO, 1516 ca. Travesio, Chiesa parrocchiale di San Pietro

Il Pordenone - NATIVITÀ (particolare), 1527 ca. Valeriano, Chiesa di Santa Maria dei Battuti

Pieve di san Pietro a Travesio, la Cappella Sistina del Pordenone Itinerario dei luoghi pordenoniani nella Pedemontana. Nella parrocchiale di Santo Stefano a Valeriano la prima opera certa di Giovanni Antonio de’ Sacchis (1506). Dolcissima la Madonna di Pinzano al Tagliamento. Ma è a Travesio che il Pordenone ha regalato al territorio il suo capolavoro

testo di NICO NANNI foto di FERDI TERRAZZANI

A

rte e territorio: un binomio da sempre vincente per conoscere luoghi e beni culturali. Anche nel Friuli Occidentale, ovvero nella zona che si estende alla destra del fiume

SOTTO LA LENTE

Il Pordenone Giovanni Antonio de’ Sacchis nacque a Pordenone (città dalla quale prese poi il nome divenendo “il Pordenone”) nel 1483/84. Si formò localmente sotto l’influenza dei “Maestri Tolmezzini” e di Pellegrino da San Daniele. Ma già nelle opere del primo decennio del ‘500 – secondo Caterina Furlan

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– il giovane Pordenone manifestò di essere pervenuto «dalla maniera “grafica” e ancora quattrocentesca delle prime vele, a una concezione più moderna del fare pittorico, probabilmente desunta da un primo, diretto contatto con il mondo lagunare». Sintesi dei vari influssi e l’avvio di un linguaggio


Il Pordenone - SAN MICHELE ARC. TRA I SANTI VALERIANO E GIOVANNI BATTISTA, 1506 Valeriano, Chiesa parrocchiale di Santo Stefano

Tagliamento, possiamo abbinare la presenza di opere del maggior pittore friulano del ‘500, Giovanni Antonio de’ Sacchis detto “il Pordenone”, al territorio in cui visse e operò, lasciando opere notevoli del suo percorso artistico. Già soffermandoci nella città natale di Giovanni Antonio troviamo sue opere nel Museo Civico, nel Duomo-Concattedrale di San Marco, in diverse altre chiese pordenonesi (Torre, Vallenoncello, Roraigrande, Villanova), nello “Studiolo” dove si suppone che lui lavorasse. Ma volendo allargare la visuale, possiamo salire verso la Pedemontana: in questo giro ci facciamo accompagnare da Giancarlo Magri, autorevole restauratore e artista lui stesso, che del “Pordenone” si occupa da anni. «Passando per il bellissimo borgo di Valvasone, nel Duomo possiamo ammirare le portelle dell’organo, opera del genero ed epigono del Pordenone, Pomponio Amalteo; strada facendo, nella chiesa di Provesano troviamo un ciclo di affreschi di Gianfrancesco da

Tolmezzo, in qualche misura “maestro” di Giovanni Antonio. Arrivati a Spilimbergo, città ricca d’arte e patria del mosaico, nel Duomo ci attendono le portelle dell’organo cinquecentesco, opera di un “Pordenone” artisticamente maturo». Qui converrebbe fare una piccola digressione fino a Vacile. «Siamo in presenza di un artista nella sua fase ancora giovanile, ma gli affreschi della volta e delle pareti del coro della chiesa di San Lorenzo denotano già la sua maturazione cinquecentesca». Ma arriviamo a Valeriano. «Nella parrocchiale di Santo Stefano troviamo quella che viene ritenuta la prima opera certa del “Pordenone” (1506), mentre nella vicina Chiesa dei Battuti sono conservate alcune sue opere della maturità. Nel Trittico di Santo Stefano l’artista denota di avere conoscenza delle innovazioni artistiche che fervevano a Venezia, delineando la sua personalità formativa ormai distaccata dall’ambiente friulano. Ai Battuti, invece, perduti quasi completamente gli affreschi

Si ringrazia in modo particolare il restauratore Giancarlo Magri per la collaborazione nella realizzazione del servizio fotografico

personale si trova nella pala della Misericordia (151516) nel Duomo di Pordenone. Nelle opere successive il linguaggio dell’artista si fa sempre più «espanso nella forma, avvolgente nel moto, dilatato nella stesura delle campiture di colore» assumendo quelle connotazioni magniloquenti che porteranno gli studiosi a ipotizzare la conoscenza da parte di Giovanni Antonio delle opere di Raffaello e Michelangelo. Dopo il 1520 (ciclo di Cremona) “il Pordenone” fu denominato “pictor modernus”. La sua attività si fa sempre più frenetica: molte le commissioni in Friuli e sul far del 1530 a Venezia, Piacenza, Cortemaggiore, Genova (a Palazzo Doria) e in altre città del Nord Italia. Dal 1535 risiede

stabilmente a Venezia (rivaleggiando col Tiziano) e nel 1539 si sposta a Ferrara richiesto dalla corte Estense, ma qui muore improvvisamente. Oltre che affreschi e pale, “il Pordenone” ha lasciato un significativo corpus di disegni (importanti perché spesso unica testimonianza di opere andate perdute) ospitati nelle maggiori collezioni internazionali (fra cui quella Reale di Windsor). Opere del Pordenone, oltre che in Friuli, a Venezia e in diverse altre città del Veneto, si trovano in numerose località italiane (oltre a quelle citate, a Milano, Roma, Napoli, Bergamo, Alviano, Gallipoli e Terlizzi) e all’estero (Vienna, Budapest, Londra, Stati Uniti).

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Il Pordenone - INGRESSO DI PIETRO ALLA GLORIA CELESTE, 1516, 1525-1526 - Travesio, Chiesa parrocchiale di San Pietro Ap.

della facciata, ecco la celebre Natività e la Fuga in Egitto, opere coeve (1527 circa) della dolcissima Madonna di Pinzano al Tagliamento, della quale Elio Bartolini scrisse: “Riesce a scrutarci fin dentro i più tenebrosi meandri del cuore: ma prima d’intercedere per noi, attende le lacrime, tutte, del nostro pentimento”. Circa la Natività possiamo dire che la narrazione sacra è raffigurata con espressività realistica dei volti, con sfondi paesaggistici ed episodi di vita quotidiana». Ma il nostro giro non può concludersi senza esserci fermati a Travesio, la cui pieve di San Pietro conserva un ciclo importantissimo del Pordenone, che Magri – al pari 80

di altri studiosi – non esita a definire «la nostra piccola Cappella Sistina». Ecco, Magri, ci spieghi perché gli affreschi di Travesio sono così importanti: «È un complesso di affreschi che copre l’intero coro della pieve. A sinistra troviamo l’Adorazione dei Magi e le Nozze di Cana; a destra la Conversione di Saulo; sulla parete obliqua la Decollazione del Santo, su quella frontale la Deposizione; nell’Arco Santo i santi Sebastiano e Rocco, nel sott’Arco le Virtù: sulla volta l’Ingresso di Pietro alla Gloria Celeste; sulle lunette le Storie di San Pietro; sugli spicchi decorazioni a grottesche; sugli ovali episodi dell’Antico Testamento; nella


Il Pordenone - Particolare, DECORAZIONI DELLE PARETI DEL CORO, 1525-1526 - Travesio, Chiesa parrocchiale di San Pietro Ap.

Il Pordenone - MADONNA CON IL BAMBINO E OFFERENTI, 1525 Pinzano, Chiesa parrocchiale di San Martino

strombatura della monofora Angioletti reggi gonfaloni, satiri con cornucopia e grappoli di putti giocosi alternati da cinque specchiature a disco con le raffigurazioni a mezzo busto delle Sante Veronica, Agata, Lucia, Apollonia e Caterina d’Alessandria. Si tratta di affreschi eseguiti Il Pordenone - NATIVITÀ, 1527 ca. tra il 1516 e il Valeriano, Chiesa di Santa Maria dei Battuti 1524. Lo sfondo illusionistico della volta con resa plastica delle figure in movimento attestano un linguaggio protomanieristico che per primo introduce nell’ambiente veneziano». Il nostro viaggio artistico finisce qui, ma molte altre sarebbero le cose belle da vedere: magari, a questo punto, ci starebbe bene un ristoro con i prodotti enogastronomici tipici del territorio. 81


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CURIOSITÀ

La meteorite di Barcis, cose dell’altro mondo! Non tutti sanno che negli anni ’50 del 1900, durante la costruzione della diga di Ponte Antoi, venne trovata una meteorite. Quest’estate a Barcis una mostra racconterà il segreto

di ROMINA DE LORENZI

B

arcis, piccolo paese della Valcellina, circondato dalle montagne e famoso per il suo lago intitolato a Napoleone Aprilis primo presidente del Consorzio di Bonifica Cellina-Meduna. Personaggio di elevate capacità imprenditoriali che aveva visto lontano nella realizzazione di un complesso di dighe e centrali che avrebbero cambiato la storia del territorio pordenonese. Barcis, piccolo paese della Valcellina, ricco di bellezze naturali e luoghi unici: la forra, la Vecchia Strada, le cavità. Situato all’interno del territorio delle Dolomiti Friulane patrimonio mondiale dell’UNESCO, tra i luoghi che lo circondano vi è anche l’importante faglia BarcisStaro Selo visibile in parte lungo il sentiero del Dint guardando verso Andreis. Opere dell’uomo e opere della natura che si mescolano

rendendo il Paese e la valle centro di interesse anche per molti gruppi e associazioni della provincia di Pordenone. Un territorio che racchiude bellezze inestimabili e merita di essere conosciuto e valorizzato. Un luogo che racchiude un piccolo segreto proveniente da altri mondi. Non tutti sanno, infatti, che negli anni ’50 del 1900 durante la costruzione della diga di Ponte Antoi venne trovata una meteorite. Quest’estate a Barcis verrà raccontato questo segreto. Il Comune e la Pro Loco di Barcis in collaborazione con l’Associazione Meteoriti Italia di Feltre, il Parco Naturale Dolomiti Friulane, il Museo Civico di Storia Naturale di Pordenone, l’Associazione Pordenonese di Astronomia, l’Istituto Minerario di Agordo, il Circolo culturale Menocchio, la Cooperativa S.T.A.F., l’Associazione 83


per l’Insegnamento della Fisica sezione di Pordenone, organizzeranno una serie di eventi con lo scopo di far conoscere un altro importante tassello di storia e allo stesso tempo di attualità che caratterizza il nostro territorio. Lo spazio e le sue particolarità diventeranno protagonisti quest’estate, facendo capire come anche l’apparentemente lontano può essere in realtà molto vicino a noi. Tutte le associazioni coinvolte dimostrano anche in questo caso come la Valcellina continui a destare interesse e riesca a coinvolgere gruppi di persone apparentemente così diverse fra di loro, ma accumunati dall’amore per ciò che ci circonda. La meteorite di Barcis In Italia sono state scoperte 37 meteoriti, 31 delle quali sono state recuperate dopo essere state osservate nell’attraversamento dell’atmosfera o nell’impatto sulla superficie terrestre. La meteorite di Barcis è invece una delle 6 meteoriti trovate in un momento successivo al suo impatto sulla Terra. Il suo ritrovamento è dovuto ad un giovane operaio di Agordo, Umberto Brancaleone, e soprattutto al suo spirito di osservazione. Umberto lavorava per una delle imprese coinvolte nella costruzione della diga di Ponte Antoi. Quando vide i sassi pesanti, scuri e lucidi che erano stati trovati, intuì subito che non poteva trattarsi di sassi qualsiasi. Qualche settimana dopo il ritrovamento, dopo aver parlato con un amico dell’Istituto Minerario di Agordo decise di prendere il sasso di medie dimensioni e di portarlo a casa per farlo analizzare. Il tragitto? Barcis – Taibon Agordino. Il mezzo di trasporto? Una bicicletta. E un sasso di circa 6 kg da trasportare. Questo racconto fa sorridere, si immagina questo giovane ragazzo che con fatica si fa più di 80 km in bicicletta con un sasso molto pesante per portarlo ad analizzare. Ringraziamo questo ragazzo, la sua curiosità e determinazione perché è grazie a lui, se oggi, anche Barcis ha la sua meteorite! La mostra “La meteorite di Barcis e sassi da altri mondi” è una mostra scientifico-divulgativa che non metterà in evidenza solo la meteorite di Barcis e la sua storia ma permetterà di conoscere meglio un argomento tanto attuale: le meteoriti! Dopo una doverosa ricostruzione storica dell’avvenimento, contestualizzato all’interno dei lavori di costruzione della diga grazie alla collaborazione del geom. Luigino Zin (memoria storica dell’industria idroelettrica del territorio pordenonese), la mostra tratterà di argomenti quali: il sistema solare, l’importanza delle meteoriti, come distinguerle, perché sono così importanti. Pensiamo solo che esse sono le rocce più antiche sulla Terra e che alcune di esse racchiudono granuli di polvere stellare precedenti alla formazione del Sistema Solare. Esse possono fornirci inoltre informazioni importanti sulle caratteristiche interne della Terra.

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I minerali Scopriremo così cosa ci dona lo spazio, ma non dimentichiamo che cosa ci offre la natura. La seconda mostra “Minerali – cristalline trasparenze della Terra” ha l’obiettivo di svelare quali incantevoli meraviglie ci nasconde il nostro pianeta. I più belli minerali della collezione di Luigi Gaspardo e i minerali regionali del Museo Civico di Storia Naturale di Pordenone ci faranno entrare in questo mondo spettacolare. Cosa sono i minerali? Quanti sono? Quali sono quelli che tutti dovrebbero conoscere? A queste domande e a molte altre ancora la mostra darà una risposta. Nelle nostre zone i minerali non appaiono così spettacolari come in altri luoghi ma anche in questo caso la Valcellina si fa riconoscere per le sue peculiarità. Tutti sappiamo che fino a quando non venne costruita la Vecchia Strada della Valcellina agli inizi del secolo scorso, questa valle era isolata, difficilmente raggiungibile e scarsamente antropizzata a causa della complessa morfologia del territorio. Ma non tutti sanno, forse, che una delle più antiche testimonianze di ricerche mineralogiche effettuate in Valcellina risale al 1741 da parte di […] un vetraio di Murano che aveva portato a Venezia per farlo saggiare, una certa terra nera proveniente da Barcis (Maniago) […] (fonte: Bollettino della Società Naturalisti “Silvia Zenari” n. 22, Dicembre 1998). Dopo questa testimonianza, l’area non fu più luogo di ricerche e di studio per secoli. Poche erano le persone interessate allo studio della mineralogia e ancora meno erano quelle interessate al suo studio in queste zone impervie. L’area divenne di nuovo luogo di interesse nel 1995 grazie all’allora direttore del Museo delle Scienze di Pordenone Marco Tonon che fece acquistare dal Comune la Collezione di Minerali Giorgio Rimoli (oltre 9000 campioni provenienti da tutto il Friuli Venezia Giulia che rappresenta la più importante collezione di minerali della regione) e riprese la ricerca mineralogica nella zona della Valcellina e della Val Colvera grazie al sostegno del Museo e della Società Naturalisti Silvia Zenari. Territorio già ricco non solo per le caratteristiche ambientali e naturali che lo caratterizzano ma anche di architetture e opere dell’uomo di notevole importanza, la Valcellina sembra non smetta mai di sorprenderci e di farci scoprire qualcosa di sé, piano piano, anno dopo anno, mantenendo viva l’attenzione del visitatore che vuole per un po’ staccarsi dalla frenesia degli impegni quotidiani per immergersi in questa Valle ancora ricca di misteri! Per la foto relativa alla meteorite di Barcis si ringrazia l’ing. Tomaso Avoscan – tratta dalla rivista Coleum n. 126, marzo 2009, www.coelum.com


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NOVITÀ

Campeggio Luna, la novità dell’estate di SABINA TOMAT

Un’area attrezzata per gli amanti dei soggiorni in mezzo alla natura ai piedi del Collalto. Tende riscaldate, escursioni guidate, grigliate e osservatori sul cielo stellato

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U

na bella novità attende i camperisti (e non solo): dal mese di giugno sarà attivo il nuovo campeggio di Piancavallo. Ai piedi della zona Collalto, là dove il verde si estende baciato dal sole per finire nel fresco del bosco di abeti e larici, 15.000 mq a disposizione degli amanti dei soggiorni in natura aggiungeranno alla località una ulteriore nota di pregio nonché una nuova attrattiva per il turismo sia estivo che invernale. Nato da un’idea di Marcello Grassi, eclettico camperista appassionato delle nostre montagne, il campeggio offrirà comode piazzole per la sosta, affitto caravan e tende riscaldate, servizi igienici con acqua calda gratuita, lavanderia, impianti elettrici a norma CEE con potenza di 6 Ampere (a richiesta colonnina a 16 Ampere) e servizi per disabili. A corollario dei servizi di base verranno offerte svariate attività di

intrattenimento anche grazie alla collaborazione con le altre attività ricettive e commerciali della località. Sarà così possibile partecipare ad escursioni guidate, organizzare feste e grigliate, osservare le stelle e la natura con telescopi e binocoli, praticare attività sportive all’aria aperta. Senza dimenticare i più piccini, per i quali verranno organizzate attività di animazione ed escursioni ludicoeducative. Un’offerta il più possibile completa per poter soddisfare ogni esigenza e ogni fascia d’età. Il Campeggio Luna è attivo anche su internet, dove è possibile effettuare prenotazioni e interagire con i titolari per qualsiasi richiesta. www.campeggioluna.it info@campeggioluna.it Tel. +39 393 6404802 Facebook: Piancavallo Campeggio Luna


EVENTI PIANCAVALLO ESTATE 2015

U

na grande estate ci aspetta a Piancavallo: non solo sport, ma anche iniziative culturali, enogastronomiche e ludiche per ogni gusto e per ogni età. Grazie alla sinergia tra Cooperativa Piancavallo 1265 e le altre realtà del territorio pedemontano sarà possibile trascorrere la bella stagione in quota assistendo e partecipando ad attività e manifestazioni sia inedite che consolidate, sempre e comunque a stretto contatto con la DATA

natura e nel pieno spirito delle nostre tradizioni. Presentiamo di seguito una panoramica degli eventi, invitando comunque a visitare i siti delle varie organizzazioni per i programmi dettagliati e per eventuali comunicazioni su modifiche o cambiamenti. Buona estate a Piancavallo! Per tutto luglio e agosto è possibile prenotare la merenda con l’asino. Per info: Claudio 333 9660477 o rivolgersi alla Genzianella al 339 6944231.

MANIFESTAZIONE

LUOGO

ORGANIZZAZIONE

Sabato 13

Torneo di rugby dalle 9.00 alle 18.00 MEMORIAL PELOIA

CAMPO CENTRALE

PIANCAVALLO 1265

Domenica 14

Torneo di rugby dalle 9.00 alle 18.00 MEMORIAL PELOIA

CAMPO CENTRALE

PIANCAVALLO 1265

Sabato 20

10.30 “Presentazione calendario eventi estate 2015” 12.00 inaugurazione mostra “Sorge il Piancavallo” attraverso l’eco di Aviano Intermezzi musicali”

INFO-POINT

ISTITUTO DI MUSICA DELLA PEDEMANTANA

Sabato 27

RASSEGNA D’ARTE ITINERANTE VERNICE intervento critico a cura di Cinzia Francesca Botteon

INFO POINT

PIANCAVALLO 1265

Domenica 28

MEMORIAL “GIGI RIZZO”/SALAT E CAVO/ MERCATINO ARTIGIANATO

PIAZZALE DELLA PUPPA

PRO LOCO AVIANO ASS. SOMPRADESE

Domenica 28

4^ 10 Miglia Internazionale Aviano-Piancavallo RONCJADE Partenza Casa Via di Natale (Aviano)Premiazioni ore 13.00

A.S.D. ATLETICA AVIANO

Venerdì 3

FITOTERAPIA CON LE PIANTE DEL NOSTRO TERRITORIO a cura della Dott.ssa Lorenza Liguori

SPORT HOTEL

PIANCAVALLO 1265

Domenica 5

NORDIC WALKING/MTB AVIANO PIANCAVALLO

PIAZZALE DELLA PUPPA

SCUOLA SCI AVIANOPIANCAVALLO/ PIANCAVALLO 1265

Venerdì 10

FITOTERAPIA CON LE PIANTE DEL NOSTRO TERRITORIO a cura della Dott.ssa Lorenza Liguori

SPORT HOTEL

PIANCAVALLO 1265

Domenica 12

16° TROFEO LIVENZA BIKE

RONCJADE

MONTANAIA RACING

Domenica 12

MTB: PIANKABIKE CHALLENGE JUNIORES

RONCJADE

SCUOLA SCI AVIANOPIANCAVALLO/PIANCAVALLO 1265/MONTANAIA RACING

Sabato 18

Speleo-laboratori - “Prova l’esperienza di progressione in corda con gli Speleologi”

PIAZZALE DELLA PUPPA

CAI-UNIONE SPELEOLOGICA PORDENONESE

Domenica 19

ESPOSIZIONE CANINA

PALAGHIACCIO/ PALASPORT PIANCAVALLO

Associazione cinofila Pordenonese/PIANCAVALLO 1265

Domenica 19

PASSEGGIATA DELLE MALGHE & MARCIA A 4+2 ZAMPE (percorso di 6/12/20 Km)

SENTIERO PASSEGGIATA DELLE MALGHE

PIANCAVALLO 1265

Domenica 19

MTB: BIKE-BIATHLON

PIAZZALE DELLA PUPPA

SCUOLA SCI AVIANOPIANCAVALLO/PIANCAVALLO 1265

Sabato 25

20.45 - Presentazione corso fotografico a cura del giornalista fotografo Ferdi Terrazzani Proiezione immagini in multivisione con la partecipazione del fotografo paesaggista PAOLO TOFFOLI

INFO POINT

Domenica 26

MTB: GIRO DELLE MALGHE

PIAZZALE DELLA PUPPA

SCUOLA SCI AVIANOPIANCAVALLO/PIANCAVALLO 1265

Venerdì 31

“LA PAELLA”-PRESSO RISTORANTE EDELWEISS

RISTORANTE EDELWEISS

PIANCAVALLO 1265

GIUGNO

LUGLIO

87



DATA

MANIFESTAZIONE

LUOGO

ORGANIZZAZIONE

Sabato 1

64° RADUNO PROVINCIALE DELLE PENNE NERE IN PIANCAVALLO Cori sotto la tenda

COLLALTO

ANA AVIANO

Domenica 2

64° RADUNO PROVINCIALE DELLE PENNE NERE IN COLLALTO PIANCAVALLO 49° TROFEO MADONNA DELLE NEVI-XIV EDIZIONE

ANA AVIANO

Domenica 2

RASSEGNA D’ARTE ITINERANTE aperitivo con gli artisti a cura di Cinzia Francesca Botteon

INFO POINT

PIANCAVALLO 1265

Domenica 2

GIOCHI PER BAMBINI IN PIAZZA

PIAZZALE DELLA PUPPA

SCUOLA SCI AVIANOPIANCAVALLO/PIANCAVALLO 1265

Giovedì 6

GNOCCOLATA

RISTORANTE TAVERNA ALL’UROGALLO

PIANCAVALLO 1265

Venerdì 7

“LO SPIEDO”-PRESSO RISTORANTE EDELWEISS

RISTORANTE EDELWEISS

PIANCAVALLO 1265

Sabato 8

9.30 - CORSO FOTOGRAFICO a cura del giornalista fotografo FERDI TERRAZZANI - I° uscita

INFO POINT

COMUNE DI AVIANO

Domenica 9

MTB: GIRO BUS DEL GIAS

Domenica 9

47° FESTIVAL DEL FOLKLORE “AVIANO-PIANCAVALLO” Sfilata ed esibizione

AGOSTO

SCUOLA SCI AVIANOPIANCAVALLO/PIANCAVALLO 1265 PIAZZALE DELLA PUPPA (in caso di maltempo PalaPredieri)

PRO LOCO AVIANO GRUPPO “F. ANGELICA”

PALAZZETTO POLIFUNZIONALE (PALA 2)

COMUNE DI AVIANO

TORNEO DI MINIGOLF

PIAZZALE DELLA PUPPA

PIANCAVALLO 1265

Venerdì 14

09.30 CORSO FOTOGRAFICO a cura del giornalista fotografo FERDI TERRAZZANI III° uscita dedicata alle riprese dell’ambiente

INFO POINT

COMUNE DI AVIANO

Venerdì 14

FESTA PARROCCHIALE-SANTA MESSA E PROCESSIONE

PIAZZALE DELLA PUPPA

PARROCCHIA PIANCAVALLO

Sabato 15

TOMBOLA IN PIAZZA

PIAZZALE DELLA PUPPA

PIANCAVALLO 1265

Domenica 16

MTB: BIKE-BIATHLON

Giovedì 20

GNOCCOLATA

RISTORANTE TAVERNA ALL’UROGALLO

PIANCAVALLO 1265

Sabato 22

OLIMPIADI DEI BAMBINI giochi d’altri tempi

LA GENZIANELLA

PIANCAVALLO 1265

Domenica 23

SPECIALE ANTICAMENTE-SARDELLATA IN PIAZZA

PIAZZALE DELLA PUPPA

PRO LOCO AVIANO

Venerdì 28

“LA PAELLA”-PRESSO RISTORANTE EDELWEISS

RISTORANTE EDELWEISS

PIANCAVALLO 1265

Domenica 30

9° TROFEO CHRISTIAN TASSAN

RONCJADE

PIANCAVALLO 1265

13.45 - CORSO FOTOGRAFICO a cura del giornalista

Lunedì 10

fotografo FERDI TERRAZZANI - II° uscita

Mercoledì 12

SCUOLA SCI AVIANO-PIANCAVALLO/ PIANCAVALLO 1265

CONTATTI UTILI

Cooperativa Piancavallo 1265 www.piancavallo1265.com | Pro Loco Aviano www.prolocoaviano.it | ASD Atletica Aviano atleticaaviano.myblog.it | Scuola Sci Aviano Piancavallo www.scuolasciavianopiancavallo.it | Unione Speleologica Pordenonese www.uspcaipordenone.org | ANA Aviano www.anaaviano.it | Parrocchia S.Maria Ausiliatrice Piancavallo Tel. 0434 655059 | Montanaia Racing www.montanaiaracing.it Le foto di questa pagina sono di Ferdi Terrazzani

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Le foto di questa pagina sono di Ferdi Terrazzani

DATA

MANIFESTAZIONE

LUOGO

ORGANIZZAZIONE

Domenica 6

NORDIC WALKING

PIAZZALE DELLA PUPPA

SCUOLA SCI AVIANOPIANCAVALLO PIANCAVALLO 1265

Sabato 12

TOP OF THE MOUNTAIN (breaking dance e Hip-Hop)

PALAGHIACCIO

PIANCAVALLO 1265

8^ edizione Skyrace Monte Cavallo-Il sentiero degli orizzonti breafing tecnico con ospite d’onore

SALA CONVEGNIUFFICIO TURISTICO

MONTANAIA RACING

Domenica 13

TOP OF THE MOUNTAIN (breaking dance e Hip-Hop)

PALAGHIACCIO

PIANCAVALLO 1265

Domenica 13

8^ edizione Skyrace Monte Cavallo-Il sentiero degli orizzonti

RONCJADE

MONTANAIA RACING

Domenica 13

CIAO ESTATE musica dal vivo e degustazione eno-gastronomica

PALAGHIACCIO

MMT 100 MILE 5^ edizione Gara internazionale di ultratrail attraverso i territori della montagna pordenonese

VARI

SETTEMBRE

Sabato 12

PIANCAVALLO 1265

OTTOBRE Da venerdì 2 a Domenica 4

90

ASD MAGREDI MOUNTAIN TRAIL


47° Festival Internazionale del folklore Aviano - Piancavallo 7-15 agosto 2015 • Russia • Kenya • Serbia • Grecia • Aviano • Italia

PIANCAVALLO - PIAZZALE DELLA PUPPA LUNEDÌ 10 AGOSTO 2015 - ORE 14.00

SFILATA CON SPETTACOLO IN COLLABORAZIONE CON: •

Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia

Provincia di Pordenone

Comune di Aviano

Comune di Pordenone

Comune di Barcis

Città di Codroipo

Comune di Spilimbergo


Ph. U.Da Pozzo (POR FESR 2007-2013)

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