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- anno 2 - n° 4 - dicembre 2009/gennaio 2010

pol.is Direttore Enrico Manca

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Stefania Prestigiacomo Enrico Letta Luciano Maiani Ermete Realacci Rosa Filippini Alberto Benzoni Alberto La Volpe Onofrio Romano Serge Latouche Ornella Kyra Pistilli Massimo Di Felice Massimo Andreozzi

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SENSIBILITÀ ECOLOGICA, INNOVAZIONE E SOSTENIBILITÀ DEL CAMBIAMENTO

ISBN 978-88-95923-41-3

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NUOVA SERIE

per la riforma della politica e delle istituzioni

per la riforma della politica e delle istituzioni

e Industriale dell’Ispra

VINCENZO NADDEO – Università degli Studi di Salerno ISABELLA PIERANTONI – Istat ORNELLA KYRA PISTILLI – Antropologa STEFANIA PRESTIGIACOMO – Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare ERMETE REALACCI – Direzione Nazionale del Partito Democratico ONOFRIO ROMANO – Università di Bari FRANCO SIRCANA – Vice Direttore Pol.is VINCENZO SUSCA – Ceaq, Sorbonne, Parigi SALVATORE ZUCCARELLO – Giornalista e consulente

pol.is

ANGELO ALESSANDRI – Deputato e Presidente Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici MASSIMO ANDREOZZI – Giornalista AURELIO ANGELINI – Università degli Studi di Palermo CARLO ANTONELLI – Direttore Rolling Stone NELLO BARILE – Ricercatore all’Università IULM, Milano VINCENZO BELGIORNO – Università degli Studi di Salerno ALBERTO BENZONI – Politologo DAVIDE BOCELLI – The long now foundation MARA CAMMAROTA – Istat CARLO CELLAMARE – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ANTONIO D’ALÌ – Senatore e Presidente Commissione Territorio, Ambiente, Beni Ambientali ENZO DE LUCA – Senatore e Componente Commissione Territorio, Ambiente, Beni Ambientali MASSIMO DI FELICE – Università di San Paolo SERENA FERRARA – Dottoressa in Scienze della Comunicazione ROSA FILIPPINI – Presidente Amici della Terra Italia ENRICO FONTANA – Coautore del Rapporto Ecomafia 2009 di Legambiente FABIO LA ROCCA – Ceaq, Sorbonne, Parigi ALBERTO LA VOLPE – Giornalista SERGE LATOUCHE – Economista e filosofo, Professore emerito all’Università Paris XI ENRICO LETTA – Vicesegretario del Partito Democratico RICCARDO LUNA – Direttore di Wired-Italia LUCIANO MAIANI – Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche ROBERTO MEZZANOTTE – Già Direttore del Dipartimento Nucleare, Rischio Tecnologico

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nuova serie - anno 2 - n째 4 - dicembre 2009/gennaio 2010

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pol.is per la riforma della politica e delle istituzioni

Direttore Enrico Manca Vicedirettori Luigi Covatta, Sergio Scalpelli, Franco Sircana Comitato Editoriale Alberto Abruzzese – Università IULM di Milano Roberto Aliboni – Vice Presidente Istituto Affari Internazionali Sebastiano Bagnara – Università di Sassari-Alghero Luciano Benadusi – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Alberto Benzoni – Politologo Enzo Cheli – Università degli Studi di Firenze Derrick de Kerckhove – Direttore dell'Istituto McLuhan di Cultura e Tecnologia dell'università di Toronto Alberto Gaston – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Antonio Golini – Università di Roma “La Sapienza” Antonio Landolfi – Presidente della Fondazione Giacomo Mancini Michel Maffesoli – La Sorbonne, Parigi Claudia Mancina – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Paolo Mancini – Università di Perugia Maria Luisa Maniscalco – Università di Roma Tre Mauro Maré – Università de La Tuscia Stefano Rolando – Università IULM di Milano Alberto Zuliani – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Coordinamento Editoriale Piero Pocci In Redazione Robert Castrucci Vincenzo Visco Comandini Vincenzo Susca Editor Serena Ferrara

Pol.is rivista di cultura politica edita dall’Associazione Pol.is – centro di iniziativa politico-culturale via del Boschetto, 68 – 00184 Roma tel. 06 32111680 p.iva 09319481009 www.pol-is.it Autorizzazione del tribunale di Milano n. 94/2007 del 20/02/07 Consulenza e realizzazione editoriale Francesco Bevivino Editore www.bevivinoeditore.it Progetto grafico Alessio Scordamaglia

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Via Monfalcone, 41 20092 Cinisello Balsamo (MI) Tel. +39 02 618002 www.rosaticommunication.com mail: pbc@rosaticommunication.com Stampa Finito di stampare nel mese di dicembre 2009 presso Pronto Stampa – Bergamo Distribuzione nelle librerie JOO Distribuzione – Milano


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SOMMARIO

Enrico Manca Craxi e il PSI: tra vittorie storiche e sconfitte politiche Alberto Benzoni Le candidature europee: il segno di una difficoltà

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Focus – Innovazione e sostenibilità del cambiamento a cura di F. Sircana

Enrico Manca Il riconoscimento di un problema è il primo passo per affrontarlo

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Franco Sircana Politiche ambientali, economia e principio di sovranità

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Intervista a: Stefania Prestigiacomo Un indirizzo comune in materia ambientale: un’opportunità per l’Europa

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Enrico Letta Innovazione e cambiamento, il costo del non fare

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Luciano Maiani Approfondire la ricerca, trasformare il rischio in opportunità

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Intervista a: Angelo Alessandri Strategie europee in materia ambientale

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Antonio d’Alì Obiettivi credibili per una strategia ambientale planetaria

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Enzo De Luca Politiche ambientali per il progresso del Paese e la crescita della società

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Intervista a: Ermete Realacci Una sfida per l’Europa. Una sfida per l’Italia

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Rosa Filippini Efficienza energetica. Punto di forza per l’Italia, conveniente per l’Europa, più intelligente per tutti

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Roberto Mezzanotte Energia nucleare e sicurezza

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Mara Cammarota e Isabella Pierantoni L’informazione statistica nella governance ambientale

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Vincenzo Naddeo e Vincenzo Belgiorno L’innovazione tecnologica nelle politiche di sostenibilità ambientale

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Aurelio Angelini Sostenibilità: una riforma economica che premia l’efficienza

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SOMMARIO

Carlo Cellamare Politiche e azioni di sostenibilità degli enti territoriali

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Enrico Fontana L’ecomafia, globale e locale

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Alberto La Volpe Ecomafia. Il ritardo della politica

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Serena Ferrara La globalizzazione e il mito della saggezza ecologica

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Immaginario a cura di Vincenzo Susca

Vincenzo Susca Verso le radici

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Onofrio Romano L’immaginario della decrescita. Dialogo con Serge Latouche

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Salvatore Zuccarello Ecosostenibilità: primo passo verso una nuova cultura?

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Ornella Kyra Pistilli L’ecosostenibilità è un dress code indossabile

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Fabio La Rocca Bio Food: cultura e stile nel sentire contemporaneo

137

Nello Barile La sostenibile leggerezza del brand tra comunicazione responsabile e greenwash

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Massimo Andreozzi Il lungo presente dell’uomo responsabile. Intervista a Davide Bocelli

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Massimo Andreozzi Futuro: due (pre)visioni. Intervista doppia a Riccardo Luna e Carlo Antonelli

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Massimo di Felice Reti digitali e ecosostenibilità

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Enrico Manca

Craxi e il PSI: tra vittorie storiche e sconfitte politiche

l percorso del socialismo italiano, almeno a partire dal 1945 in poi, è segnato da una sorta di “Legge del contrappasso” tra storia e politica dove i due momenti talvolta coincidono virtuosamente, mentre talaltra si scollano fra loro provocando la sconfitta della politica; anche perché nel binomio storia e politica è solo quest’ultima che può perdere. Nel 1946 il Partito Socialista raccoglie un ampio consenso elettorale e si attesta come primo Partito della sinistra. Ma già l’anno dopo, mancando all’appuntamento storico di rendere omogeneo il Partito Socialista italiano agli altri partiti socialisti e social-democratici dell’Europa occidentale, Nenni e il PSI, sedotti dal mito della rivoluzione Russa, ripiegano nella subalternità all’Unione Sovietica e, di conseguenza, al PCI. I socialisti perdono così il loro primato a sinistra, conquistato dal PCI, e inizia quel percorso senza ritorno che vedrà il socialismo italiano sempre minoritario, anche quando il PCI sarà travolto dalla caduta del Muro di Berlino e costretto a cambiare nome ed effige. Nel 1956, dopo i fatti di Ungheria, il Partito Socialista rompe con la guida dell’Unione Sovietica e avvia quel “nuovo inizio” fondato sull’autonomia che produrrà qualche anno più tardi la grande svolta, storicamente decisiva, del primo centro sinistra. Si sviluppa così un percorso riformisticamente virtuoso che ha dato molto all’Italia, anche se le forti resistenze che il nuovo corso trovò nello schieramento conservatore a guida democristiana e nella mio-

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pia dei comunisti, compresse e limitò l’azione riformatrice, determinando un serio indebolimento elettorale del PSI. Nel dibattito attorno alla figura di Craxi, molte cose sono state dette e scritte. Le più ispirate a verità sono state quelle del Presidente Giorgio Napolitano. Grazie alla sua presa di posizione è possibile, da oggi, rendere l’omaggio più importante e significativo che può essere fatto a Craxi: sviluppare una riflessione sul suo progetto culturale e politico; sulle sue decisive e lungimiranti intuizioni; su ciò che le sue azioni hanno realizzato ma anche sui limiti dei risultati raggiunti. Una riflessione che non si sottragga dal considerare le vicende giudiziarie ma che cerchi di comprendere la ragione di fondo per cui lui e non altri sia stato colpito, come ricorda Giorgio Napolitano, con una “durezza senza eguali”. Capire il perché questo sia potuto avvenire sollecita a ricercarne, innanzitutto, le ragioni politiche. Con la svolta impressa da Craxi alla cultura politica, il partito socialista approda, a pieno titolo, nell’Europa e nella famiglia dei partiti socialisti e social-democratici europei, aprendo l’orizzonte socialista ad una visione internazionale ampia e dinamica che travalica anche i confini dell’area progressista europea, per collegare il nuovo partito socialista ai movimenti progressisti dell’America latina, dell’Asia e dell’Africa. Craxi statista consolida e sviluppa una importante strategia di politica estera contribuendo a rafforzare l’equilibrio internazionale con la scelta della installazione degli euromissili. A chi scrive fu affidato proprio da Craxi, pur in presenza di valutazioni non del tutto coincidenti, l’incarico di rappresentare e sostenere in Parlamento la linea di politica internazionale dei socialisti. Momento importante dell’azione di Governo fu la ben nota iniziativa del taglio della scala mobile e la conseguente vittoria nel referendum di San Valentino. Ma vi sono anche altre questioni su cui la riflessione va approfondita. Innanzitutto la grande riforma delle istituzioni con al centro l’innovazione nella forma di Governo, il superamento del bipolarismo perfetto, un nuovo sistema elettorale nella propensione verso un assetto presidenzialista che portava con sé la ricerca di un bipolarismo simile a quello che stava, o aveva già preso piede in quasi tutta Europa. Craxi intuisce la decisività di questa riforma ben prima che

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essa fosse in campo. Ma qui emerge un primo elemento di debolezza della sua strategia: questo disegno riformatore più volte annunciato non è mai divenuto oggetto di una lotta politica condotta con determinazione sia nei confronti degli alleati di Governo che dell’opposizione. Un progetto, dunque, rimasto a mezz’aria anche perché si privilegiò la cosidetta politica della “governabilità” che ha finito, tranne che nel periodo della Presidenza del Consiglio Craxi, per imbrigliare l’iniziativa innovatrice dei socialisti. La politica degli annunci o di posizioni politicamente immaginifiche hanno contribuito ad appesantire l’azione rinnovatrice del PSI. Mi riferisco all’impostazione vincente del Congresso di Torino di una “alternativa” che era fuori dalla realtà ma anche, come poi i fatti si sono incaricati di dimostrare, dalle intenzioni dei suoi stessi sostenitori accentuando quel divario fra il “dire e il fare” destinato ad accrescere la crisi in progress del sistema politico. Una politica “corsara”, come lo stesso Craxi ebbe a definire l’iniziativa del PSI nei confronti dei due grandi partiti, che ha certamente dato dei risultati positivi però non tali da mutare in modo significativo i rapporti di forza. In realtà la DC e il PC non sono mai stati messi con le spalle al muro di fronte alle loro contraddizioni che pesavano in modo insopportabile sul Paese. Penso agli anni 78-79: dopo il rapimento di Aldo Moro, Craxi si oppone alla linea della “fermezza”, difende meritoriamente ogni possibilità di salvargli la vita, ma prima e dopo quell’evento drammatico contrasta la linea politica di Moro condivisa dalla minoranza socialista che aveva l’obiettivo di dar vita ad una grande coalizione, un compromesso politico, alternativo al compromesso storico, e alla prosecuzione della collaborazione di routine che avrebbe portato alla luce contraddizioni della DC e del PC. Il PSI non avrebbe avuto il temuto ruolo di vaso di coccio tra due vasi di ferro ma al contrario avrebbe potuto assumere il ruolo di forcipe della storia. Una linea che se fosse andata in porto avrebbe anticipato di dieci anni la caduta del Muro di Berlino. È difficile dubitare che è proprio per impedire questa eventualità scomoda, ad occidente come ad oriente, che Moro sia stato ucciso. Dieci anni dopo, con la caduta del Muro di Berlino, la riflessione sulla stretegia socialista diventa ancora più stringente. Il PSI ebbe la miope debolezza di non cogliere fino in fondo le possibili conseguenze della caduta del vecchio equilibrio bipola-

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re; non assumendo consapevolezza che non c’era più alcuna giustificazione per una collaborazione con la Democrazia Cristiana fondata su una rigida separatezza a sinistra; e che al contrario era venuto il momento di giocare fino in fondo la carta di un grande movimento riformatore-democratico e di massa che non poteva che essere a guida di chi aveva correttamente interpretato le dinamiche della storia, e cioè i socialisti. Non nascondo un certo fastidio nel vedere che oggi molti dirigenti socialisti di allora vicinissimi a Craxi, imputano solo a lui la scelta errata. Mi limito a ricordare che nella direzione del Partito che dette il via alla riedizione dell’accordo con la DC vi fu un solo voto contrario: quello di chi scrive. Il risultato di quell’errore politico, di quel mancato appuntamento con la storia testimonia che non si era compreso come il sistema italiano, anche per la mancata “grande riforma”, era giunto al collasso e che, forse, soltanto una grande e forte iniziativa politica innovativa avrebbe potuto puntellarlo, cambiandolo. Non essendo ciò avvenuto, il sistema non ha retto, è crollato colpendo innanzitutto l’anello più debole: il PSI, quello più esposto perché forza di innovazione e non di conservazione come lo erano la DC e il PC. Si dà così il via libera alle iniziative della Magistratura politicizzata, alla pressione del circolo mediatico, all’atteggiamente tartufesco delle forze finanziarie ed economiche alla ricerca di una nuova verginità che le liberasse dal loro coinvolgimento nella tangentopoli sistemica. C’è anche da chiedersi come mai quando il leader è stato abbattuto dalla persecuzione giudiziaria, il partito si sia disciolto come neve al sole. A tale proposito si intrecciano ancora una volta due verità contraddittorie: una è che Craxi aveva anticipato i processi culturali e politici che poi sono emersi nel tempo: il leaderismo e il superamento dei partiti tradizionali di massa; ma l’altro frammento di verità sta nel fatto che Craxi aveva svuotato il partito dall’essere un organo collettivo dotato di un gruppo dirigente soggettivamente autonomo. Ragionando di queste cose e in questo modo si evitano due distorsioni: una, quella giustizialista e falsificatoria, tesa a degradare il ruolo di Bettino Craxi a quello di espressione di una commistione tra politica e affari; l’altra, quella di una acritica esal-

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tazione di Craxi, che limita la possibilità di un giudizio che gli renda giustizia nel modo migliore, pieno e assolutamente rispettoso della sua personalità umana e politica. Ripeto che l’omaggio migliore che si può fare a Craxi, statista, leader politico, innovatore della sinistra, è discutere delle sue grandi intuizioni, della forza della sua azione di direzione politica, ma anche dei limiti che questa ha avuto e degli errori politici compiuti. Rimane senza discussione un fatto: ponendo le une e gli altri sul piatto della bilancia della storia, prevale senza dubbio il grande apporto politico-culturale di Craxi all’Italia e alla Sinistra italiana. In un giudizio storicamente sereno le vicende giudiziarie sono destinate ad avere un peso molto limitato anche se, in paritempo, fortemente drammatico in rapporto alla sofferenza e alle umiliazioni che hanno tragicamente contraddistinto gli ultimi anni della vita di Craxi. È, del resto, ormai accertato che le distorsioni legate al finanziamento della politica erano imputabili a tutto il sistema dei partiti. Quel tanto di più che, a torto o a ragione, si imputa al PSI è dovuto al fatto che esso ha dovuto fronteggiare partiti come la DC e il PC che potevano contare su grandi finanziamenti di ben altra consistenza e di varia origine sia interna che internazionale. Se la vicenda Craxi provoca ancora tanta divisione, al di là del giustizialismo militante, ciò sta a testimoniare che molte delle sue idee ispiratrici sono ancora pienamente in campo e indicano una strada per il rinnovamento del Paese. Di qui, la speranza e l’auspicio che maggioranza e opposizione prendano coscienza della necessità di fare ogni sforzo per intraprendere in modo condiviso un percorso riformatore anche utilizzando il significativo apporto culturale e politico del socialismo italiano.

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Le candidature europee: il segno di una difficoltà

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er Massimo D’Alema l’incarico europeo non era una sistemazione di passaggio. Al contrario era l’ultima occasione per esercitare i suoi grandi talenti; e nella dimensione giusta. Mancare l’appuntamento deve essere stato, allora, un colpo terribile. E aggiungiamo che, da uomo che odia più di ogni altra cosa i peccati contro l’intelligenza, devono averlo ulteriormente offeso le diatribe sul fallimento della sua candidatura tra governo italiano e Pse (o, se vogliamo proprio farci del male, tra Berlusconi e Schultz), quasi che questo fosse dipeso dal mancato o comunque insufficiente appoggio del primo o del secondo. Se potesse “spiegarci sino in fondo le cose come stanno”, il deputato di Gallipoli ci direbbe che Italia e socialisti europei hanno contato nella vicenda come il due di briscola; per carenze specifiche ma anche per la loro debolezza oggettiva. Di più (razionalizzare i disastri aiuta a elaborare il lutto), ci potrebbe spiegare che il destino della sua candidatura era deciso in partenza; per ragioni che attengono allo “stato dell’arte” della co-

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struzione europea ma anche, e soprattutto, alla visione che l’Europa ha di se stessa e del suo ruolo nel mondo. Per capire meglio occorre fare un piccolo passo indietro e tornare al trattato di Lisbona, veste formale del lungo lavoro per una nuova costituzione europea. Cuore del progetto (assieme alla estensione della possibilità di raggiungere decisioni con un voto di maggioranza) sono, appunto, le nuove figure del presidente e del, diciamo così, ministro degli esteri dell’Ue. Dalla costituzione materiale alla nuova costituzione europea Attenzione: nella costituzione materiale dell’Europa queste figure già esistono. C’è un Presidente, che è quello della Commissione, con un ruolo perfettamente funzionale al processo della progressiva costruzione di regole e politiche “interne” comuni. Un processo, per inciso, che ha conosciuto momenti propositivi e innovativi

D’Alema: il destino di una candidatura


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Le nuove figure del Presidente e del responsabile internazionale – vedi Delors – e altri di sostanziale stagnazione – vedi Barroso. E, naturalmente, c’è anche un responsabile, diciamo così, internazionale. E, allora, perché inventarsi dei doppioni? Con il rischio serio, tra l’altro, di alimentare conflitti e confusioni di competenze, tra le vecchie e le nuove figure o, peggio ancora, tra il nuovo presidente e il nuovo responsabile internazionale? La risposta è semplice. Gli europeisti erano, giustamente, insoddisfatti dei risultati raggiunti: ritenendo che l’Europa del futuro dovesse essere costruita non sulle regole ma su una politica ancorata a una strategia internazionale visibile e condivisa. E, allora, nella decisione presa c’erano, insieme, una strategia dell’annuncio e una logica funzionale. Si manifestava, al mondo ma in primo luogo a se stessi, l’intenzione di fare un salto di qualità verso l’“Europa politica”. E si scommetteva ancora, come si aveva sempre fatto negli ultimi cinquant’anni, sulla capacità dei nuovi organi di determinare automaticamente nuove e più complesse e avanzate funzioni. Una scommessa, forse, troppo ottimistica. Anche perché non teneva conto di due elementi fondamentali. In primo luogo, e in linea generale, gli

“effetti annuncio” funzionano in due direzioni: nel senso di mobilitare i sostenitori, ma anche di risvegliare gli scettici e gli oppositori. Nello specifico europeo, poi, la dottrina “dell’organo che crea la funzione” aveva funzionato nel caso di passaggi graduali e consentiti. Quelli, appunto, della costruzione dell’Europa economica. Ma non trovava, invece, applicazione nel passaggio dall’Europa economica a quella politica; qui si trattava di compiere un vero e proprio salto di qualità e senza disporre, al riguardo, di alcun consenso preventivo. La scelta delle persone I nodi sarebbero subito arrivati al pettine in occasione della scelta delle persone. E a partire dalla caduta rovinosa della candidatura Blair: almeno apparentemente fortissima (o, come si dice, “autorevole”) nella fase preparatoria, progressivamente evaporata quanto più si avvicinava il traguardo. Oggi, tutti si affannano a spiegarci che l’ipotesi del leader britannico non aveva alcuna possibilità di passare; anzi, che era addirittura improponibile. Perché troppo inglese: mentre Londra si era costantemente opposta all’approfondimento del processo di costruzione europea. Perché troppo socialista: mentre i partiti socialisti rappresentavano una forza di minoranza nel Parlamento di Strasburgo e nella dimensione politica degli stati. Perché, in realtà, troppo po-

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Le candidature europee: il segno di una difficoltà di Aleberto Benzoni

co socialista: vedi guerra all’Iraq e posizioni dottrinali eterodosse o, comunque, spesso volutamente provocatorie. E, infine, perché troppo assertiva e “flamboyante”: vedi interpretazione in termini personalistici di un incarico “di consenso e di rappresentanza”. Un insieme di ragioni giuste e condivisibili. Ma, come disse un premier inglese al capo dell’opposizione in un famoso dibattito alla Camera dei comuni, “troppi argomenti nuocciono alla Sua tesi. Ne usi soltanto uno”. Nel nostro caso, il vero impedimento dirimente alla nomina di Blair è l’ultimo. Anche se ad enunciarlo con la necessaria chiarezza non saranno i grandi elettori, leggi i più importanti capi di governo dell’Europa continentale, ma il capo dei conservatori inglesi. “Non abbiamo alcun bisogno di un leader” – dirà, in sintesi, Cameron – “ma del Presidente di un consiglio di amministrazione”. Come si può ben capire, si tratta di una distinzione che definisce con assoluta chiarezza due diverse, se non opposte visioni del presente e del futuro dell’Unione europea. Un presidente “leader” sarà infatti portato a proporre alla medesima nuovi percorsi e nuove e più ambiziose missioni costituendo, a tal fine, nuovi e via via più intensi rapporti con la pubblica opinione anche oltre gli schermi dei vari stati nazionali. Mentre, invece, il “chairman” sarà portato a far funzionare al meglio le strutture esisten-

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Presidente “leader” o “chairman”: due diverse visioni dell’unione europea ti, costruendo le sintesi possibili ed esercitando sino in fondo i propri poteri di mediazione. E dunque scegliendo un “chairman” nel belga Van Rompuy, noto come brillante mediatore delle controversie tra fiamminghi e valloni, i capi di governo europei (con in testa Sarkozy e la Merkel) scelgono, in tutta consapevolezza, l’Europa che c’è. Quella degli stati nazionali e dei “Governi Guida” e del minimo comune denominatore delle loro aspirazioni e dei loro progetti. Tra cui non c’è (è il caso di ricordarlo ancora?) l’Europa federale e, con essa, i passaggi politici che possono avvicinare questa prospettiva. In questo caso, dunque, il congegno “organo e quindi funzioni” ha funzionato; ma in senso inverso. Non si voleva una determinata funzione; e, perciò, si è rifiutato l’organo o, più esattamente, l’organista. Lo stesso meccanismo ha operato – e con ancor maggiore consapevolezza – nel caso di D’Alema. Chi voglia fare polemica politica contingente, può opportunamente evocare incompatibilità politiche o nazionali. Sostenere, insomma, che il nostro sia stato bocciato perché troppo (vicepresidente dell’Internazionale) o troppo poco (origini e importanti trascorsi comunisti) socialista; o magari per-


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ché italiano (i.e. concittadino e, ipoteticamente, sodale del Cavaliere). Rimane però il fatto che, anche in questo caso, l’impedimento dirimente è stato il profilo del candidato; insomma il suo forte attivismo internazionale. E, dunque, un ministro degli esteri forte. E, quindi, una scelta – come vedremo bene tra poco – del tutto contrastante con il profilo esterno che l’Ue va assumendo sempre più nel corso degli ultimi anni. Si aggiunga, a chiarire ulteriormente i termini della questione, che un ministro degli esteri attivista avrebbe potuto essere l’utile complemento di un presidente “politico”; mentre sarebbe stato del tutto impensabile avere, insieme, un presidente gestionario e un responsabile internazionale portatore di “grandi disegni”. E allora presidente “a uso interno” belga e ministro degli esteri “leggero” inglese. Uno schema logico: e definito a partire dal rifiuto iniziale di Blair. Proiezione internazionale dell’UE Rimane, prima di concludere, un interrogativo da affrontare. Rimane da capire perché l’Unione, oggi, non è in grado di reggere una politica internazionale “attiva”; sino a porre in atto un vero e proprio ripiegamento su se stessa. Il fenomeno è oramai di di-

L’impedimento dirimpente è stato il profilo del candidato

mensioni tali da non poter essere ignorato. E però la relativa e necessaria riflessione critica è tuttora pesantemente condizionata da fastidiose intrusioni moralistiche: quasi che si trattasse di uno scontro tra i buoni (aperti, generosi, solidali) e i cattivi (chiusi, egoisti, insensibili ai dolori e alle richieste del mondo esterno); naturalmente, con i socialisti a rappresentare i primi e il centro-destra gli altri. Ora, che questo scontro sia in atto è indubbio. Ma i suoi protagonisti non coincidono affatto con gli stereotipi politico-ideologici in cui sono stati collocati. Così, vedremo tra poco che i socialisti “dicono cose di sinistra” al Parlamento europeo che non coincidono affatto con le loro concrete pratiche di governo. Mentre, dal canto suo, il Ppe, lungi dall’adottare ideologie leghiste e identitarie, continua a collocarsi nella linea internazionalista (e aggiungiamo, senza il minimo intento polemico, “buonista”), consolidata nel corso di decenni. Potremmo chiamarla “linea delle buone intenzioni”. E, insieme, dei “metodi giusti”. Linee, tra l’altro, su cui l’Europa ha costruito e proclamato di fronte a se stessa e al mondo, la sua identità diversa e migliore rispetto a quella degli Stati Uniti. Diversa e migliore nel suo regime interno: regole e diritti in un regime di stato sociale. Ma anche nella sua proiezione internazionale: politica al posto della forza militare; accettazione

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piena dei metodi e dei vincoli del multilateralismo; uso appropriato del “soft power”, con i suoi incentivi e le sue mediazioni, per affrontare i problemi del “near abroad”; e, infine, dialogo senza pregiudiziali e in tutte le direzioni. Ma è proprio questa proiezione internazionale ad essere sempre più in affanno. E non perché contestata sul terreno politico o ideologico (ciò, almeno per ora, non si è verificato). Ma piuttosto perché, nel concreto, la pratica dello stesso “soft power” appare sempre meno pagante; almeno agli occhi dell’opinione. Internazionalismo come dovere Il fatto è che l’internazionalismo delle élites europee (inteso come visione ma anche capacità di intervento) si logora ogni giorno di più e per ragioni e secondo processi che sono più o meno sempre gli stessi: che si tratti di gestione della globalizzazione (con i suoi movimenti di cose e, soprattutto, di persone) o di allargamento dell’Unione; di missioni militari all’estero o di ingresso della Turchia; di interventi nelle aree di crisi (Medio Oriente, ma non solo) o di aiuti allo sviluppo e/o interventi umanitari. In linea generale, l’internazionalismo viene proposto essenzialmente come dovere: all’inizio con accenti convinti ed unanimi, dopo in modo più sciatto e ripetitivo e magari anche in ordine sparso. E però, la retorica del “dovere” rischia, con l’andare

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Agli occhi dell’opinione, la pratica del “soft power” appare sempre meno pagante del tempo, di diventare controproducente per coloro che la praticano. A partire dal fatto che sembra esimere le classi dirigenti europee dal ragionare e, soprattutto, dal comunicare con la pubblica opinione in termini di costi e benefici, di prezzi da pagare e di obiettivi da raggiungere. Il risultato è che questo spazio viene occupato, all’inizio timidamente, poi con sempre maggiore vigore e consenso, dal campo degli scettici e degli ostili: sostenuti dal fatto che i vantaggi futuri del comportamento internazionalista sono assai meno percepiti (o, per dirla tutta, “fatti percepire”) dei suoi costi attuali e visibili. Oggi, in Europa, l’internazionalismo ha perso la sua spinta propulsiva. E, ancora, che si tratti di immigrazione o di Turchia, di Afghanistan o di missioni di pace, la tendenza è al riflusso. Insomma, “non possiamo fare di più. Anzi tenere la posizione è già un grande risultato: perché i costi che sosteniamo sono sempre più alti e i rischi sempre maggiori: mentre i risultati non si vedono ancora”. In quest’ottica, la candidatura di D’Alema – e non dell’ex-comunista, ma dell’uomo dell’intervento in Kosovo e della missione in Libano – era chiaramente in controtendenza; diciamo, una missione impossibile.


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Enrico Manca

Il riconoscimento di un problema è il primo passo per affrontarlo

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uesto numero di Pol.is è dedicato alla questione ambientale come leva decisiva per ogni strategia di sviluppo economico e civile del mondo globalizzato. Si consolida così una linea editoriale che ha l’ambizione di fare della rivista uno strumento oltre che di lettura anche, nel tempo, di consultazione su temi di grande impatto e di lunga cadenza temporale; insomma anche una pubblicazione da biblioteca. Il clima e l’ambiente sono, almeno in parte, i nuovi temi su cui si radicalizza la posizione e l’azione di quelli che sono stati i primi movimenti anti-globalizzazione. Ma cresce, in pari tempo, una diffusa consapevolezza sulla necessità di una meditata riflessione sulla oggettiva difficoltà di rapide intese con i paesi emergenti. È naturale che questi ultimi tendano a sfuggire o, quanto meno, ad allontanare nel tempo quei vincoli a cui i paesi più sviluppati non dovettero assoggettarsi durante gli anni delle loro rivoluzioni industriali. La crisi economica e finanziaria mondiale rende, peraltro, anche più difficile il raggiungimento di una intesa perché molte sono le industrie in difficoltà mentre le banche sono restie a concedere crediti. La questione è quindi molto complessa: da ciò la necessità di avvicinarsi al tema con pacatezza e lungimiranza, consapevoli della sua stringente attualità ma anche della opportunità di un approccio determinato ma gradualista, non ideologico e tanto

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Introduzione al focus

meno catastrofista o millenarista. In rapporto a queste riflessioni la recente conferenza di Copenhagen va giudicata senza ottimismi di maniera ma anche senza indulgere alla pulsione di un suo fallimento. Un risultato significativo la Conferenza lo ha raggiunto: con Barack Obama, gli Stati Uniti a differenza del passato hanno dimostrato di aver ormai preso piena coscienza dell’esistenza del problema ambientale e, di conseguenza, della necessità di affrontarlo; mentre i paesi responsabili del maggior inquinamento hanno riconosciuto le loro responsabilità. È altresì significativo il fatto che a Copenhagen sia stato definito un obiettivo verificabile: evitare che il riscaldamento climatico superi i 2 gradi centigradi. Il passo avanti rispetto ai protocolli di Kyoto è evidente, anche se manca ancora l’istituzione di un’autorità sovranazionale che valuti i comportamenti concreti dei singoli stati e possa sanzionare in modo concreto e consistente quei paesi che non rispettano gli impegni assunti. Un’ultima considerazione: sono convinto che la cultura ambientalista avrà modo di affermarsi pienamente quando le tecnologie renderanno i nuovi impianti convenienti nella fisiologica dialettica di mercato della domanda e dell’offerta e, quindi, tali da essere vantaggiosi sia per i venditori che per i compratori. Una strategia lungimirante richiede che ogni paese, e quindi anche l’Italia, si prepari a questo decisivo appuntamento che è sperabile non sia troppo lontano.

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Franco Sircana

Politiche ambientali, economia e principio di sovranità

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’ambiente si connota in modo del tutto peculiare tra i grandi temi dell’agenda politica mondiale. I temi politico economici e sociali di rilievo internazionale – appropriazione e uso delle risorse, flussi migratori, misure finanziarie e fiscali, ecc. – si presentano, in genere, nella veste di contese, cercando ogni paese e ogni area di garantirsi la migliore posizione, di essere dalla parte del più e non da quella del meno in un gioco tendenzialmente a somma zero. No, non è a somma zero, si obbietta, c’è lo sviluppo. Ma, se lo sviluppo è inteso secondo il paradigma della rivoluzione industriale degli ultimi due secoli, fino a quanto e fino a quando è la domanda, divenuta assillante, che ci viene dalla terra che ci ospita.

Una condivisione necessaria Nel caso delle fondamentali problematiche ambientali e in particolare

La condivisione globale èobbligata come nel caso di una pandemia

climatiche (CO2, riscaldamento, desertificazione, innalzamento dei mari) non è comunque questione di somma zero: la contesa tra le parti, pur accesa come ci illustrano anche le cronache di queste ultime settimane, ha tuttavia senso se si svolge all’insegna del win-win. La condivisione globale è obbligata. Come nel caso di una pandemia. Inoltre, in politica i soggetti più forti e più capaci normalmente dettano l’agenda e i relativi tempi. E però, nel caso dell’ambiente, più passa il tempo meno esso potrà essere oggetto di trattativa o di imposizione di alcuni su altri: sarà invece la terra a imporre a tutti le sue scadenze. Sperabilmente, va aggiunto: accreditando le classi dirigenti del pianeta di una visione lungimirante e di razionalità nel decidere e nel gestire. Lungimiranza e razionalità che un minoritario gruppo di ottimisti ha voluto vedere anche nelle magre ma unanimi conclusioni della conferenza di Copenhagen: che il problema ambientale esiste, è serissimo e va affrontato in qualche modo, facendo per ora appello alla non vin-

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colata buona volontà di ciascun partecipante. Il prevalere dei “sacri egoismi”, con il correlato rischio di irrazionalismo che si accompagna ad ogni politica di impronta nazionalista, ha già dato i suoi frutti malati: a tale categoria va ascritto il “negazionismo” ambientale dell’amministrazione Bush, condito anche con nascondimenti e falsificazioni: un negazionismo equivalente a otto anni persi per una politica ambientale, ad un’indubbia maggiore complessità odierna dei problemi da affrontare, e anche a un indebito aumento dell’ansia collettiva. Categoria in cui rientra, per un altro verso, il gravissimo scempio ambientale di tante regioni cinesi, realizzato all’insegna di un capitalismo belluino, di stato e privato, per di più protetto dai silenzi di un regime duramente autoritario. Sta in questa categoria anche la politica italiana degli ultimi lustri, così oscillante tra velleitarismi e grida e ricadute – siamo all’oggi – in un “particulare” senza futuro, senza uno straccio di progettualità capace di reggere in modo attivo e propositivo il confronto internazionale. Il nodo delle sovranità nazionali Nel caso dell’ambiente, il carattere naturalmente globale della tematica e l’assunzione del tempo come dato anziché come variabile governabile fanno emergere problemi e opportunità di governance del tutto inediti.

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Attualmente l’argomento viene affrontato con strumenti internazionali – istituzioni politiche, normative e relative procedure di funzionamento – ormai invecchiati, che hanno radici nella II guerra mondiale e che riflettono le condizioni di allora sotto il profilo dei rapporti di forza politici ed economici e anche sotto quello demografico (di un mondo di 2 miliardi di persone, contro i 6,5 miliardi di oggi e gli eccessivi 9-10 previsti per il 2050: sono 25 anni che all’ONU non ci si pronuncia più sul problema demografico!). La non breve vicenda che si è dipanata a partire dal Rapporto Brundtland del 1987 ci dice che una politica ambientale davvero efficace può fondarsi soltanto su di un eccezionale sviluppo delle interdipendenze e quindi sull’accettazione di limiti e vincoli sul piano interno e su quello internazionale, con il relativo corredo di misurazioni, di rendiconti e di sanzioni. Una politica ambientale, in altri termini, tocca il principio della sovranità nazionale. Ma non è realistico pensare, diranno in molti all’indomani di Copenhagen, che le grandi potenze (a incominciare dagli Stati Uniti e dalla Cina) siano disponibili a formali

L’argomento viene affrontato con strumenti internazionali invecchiati


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Riconsiderare l’economia reale e quella finanziaria cessioni di sovranità in tempi brevi. D’altra parte, le stesse classi politiche dirigenti – definitivamente uscite dal negazionismo ambientale e quindi impossibilitate a rinchiudersi nell’indifferentismo – dovrebbero avvertire in misura crescente l’esigenza di incontri ed esiti internazionali utili non solo a rappresentare e a difendere l’interesse nazionale, ma anche a combattere, occorrendo, le contrastanti manifestazioni dei robusti interessi particolari toccati da eventuali provvedimenti ambientali all’interno dei diversi paesi. Un ottimismo dettato dalla paura, si dirà, che per di più fa implicito appello a un’opinione pubblica il cui peso va ancora verificato nelle democrazie mature ed è tuttora inconsistente in paesi come la Russia, la Cina e anche l’India. Nondimeno, alcuni segni di evoluzione del quadro istituzionale mondiale, anche se si sono manifestati al di fuori di una consapevole politica ambientale, potrebbero concorrere ad agevolarla: dal repentino affermarsi del G20, che implica il necessario ripensamento del ruolo del G8, alla riforma del FMI, alla crescente messa in discussione del pancontrattualismo planetario indotto dal WTO. Nella sua versione più ideologica e più prona alle grandi multi-

nazionali, il WTO è stato infatti il promotore di una tendenziale prevalenza del diritto commerciale sui diritti pubblici (dall’accordo sui diritti di proprietà intellettuale-TRIPS all’indirizzo teso a imporre la subordinazione delle regole ambientali locali alla normativa mercantile internazionale). Questo sì, a ben vedere, un duro attacco al modello sovranista che finora gli Stati hanno invece difeso con particolare vigore in materia ambientale. Crisi parallele Politica ambientale significa, nella sostanza, riconsiderare, e in modo non marginale, l’economia reale e quella finanziaria, l’imputazione dei costi e la formazione dei prezzi e, in particolare, il rientro nel calcolo economico delle esternalità. Invece, parlamenti, governi, istituzioni economiche e sistema delle imprese fanno riferimento, in modi più o meno rigorosi, a grandi opzioni di politica economica (liberismo/protezionismo, liberismo/dirigismo, politica della domanda/monetarismo, ecc.) basate su sistemi concettuali complessi, ma elaborati a prescindere dal limite ambientale. Ciò risulta evidente anche in questo periodo di concomitanza della maggior crisi economico finanziaria dal 1929 e della manifestazione planetaria dell’emergenza ambientale: le preoccupazioni sono parallele, e faticano a modificare i rispettivi

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percorsi in modo da potersi incontrare e dar vita a una piattaforma sinergica su cui edificare un futuro possibile. Non bastano, insomma, una, dieci, cento Chrysler che si rilanciano fabbricando 500 FIAT al posto di auto da 5 km al litro. La battaglia, non ancora vinta, di Barack Obama e di Gordon Brown per la drastica riduzione degli abnormi bonus che la corporazione finanziaria di Wall Street e della City (e anche di altrove) continua a devolversi è una preoccupante manifestazione della forza e della persistente dominanza di una economia iperfinanziarizzata e calibrata sulla redditività di breve periodo: un modello antitetico a qualsiasi politica ambientalista. Probabilmente dobbiamo prepararci a ripensare – ma sì, diciamolo – il modello, di convivenza prima che di sviluppo. A ciò sollecita anche un’economia-mondo in cui, ad un tempo, aumentano la domanda e i prezzi di materie prime essenziali e cresce, al ritmo di decine di milioni, una forza lavoro sempre più qualificata, offerta a prezzi che sono un sottomultiplo di quelli europei e nordamericani. La responsabilità dell’Europa Ambiente ed economia non possono più ignorarsi, lo dicono ormai tutti. Ma, persistendo gli armamentari concettuali e istituzionali del XX secolo, è purtroppo facile la profezia che ciò avverrà al prezzo di confron-

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ti e scontri planetari vecchio stile, con rigurgiti di protezionismo, di uso distorto delle monete, di politiche predatorie verso le aree più deboli. Enorme è quindi la sfida culturale e politica, senza precedenti nella storia dell’umanità, resa più complessa dall’interrogativo se la natura non soltanto meriti tutela, ma non vada anche resa quanto più possibile oggetto di calcolo, di previsione e anche di programmazione. Una comunità di 9-10 miliardi di persone (ma anche di 8, come indica Lester Brown per il 2050 a seguito di augurabili politiche demografiche) non appare nelle condizioni di ritrarsi non si sa dove per restituire alla natura ciò che un tempo era il suo libero corso: sulla sottile pellicola che copre e avvolge il pianeta, la natura siamo noi. Emergenza ambientale e crisi economica mondiale chiudono anche, secondo una diversa scansione del tempo, un più breve periodo della storia, il trentennio avviato dall’amministrazione Reagan. L’elezione di Obama ne è l’eloquente sanzione. Ma gli Stati Uniti, dopo otto anni di W. Bush, non sono ancora sufficientemente credibili come efficace guida

L’Europa è l’unica area planetaria che abbia sperimentato istituti sovranazionali


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del pianeta verso nuove direzioni: per una forza economica che ora non hanno, per nuove convinzioni politiche non ancora sufficientemente radicate, per capacità di progettazione istituzionale fortemente condizionate dal loro sovranismo. Dopo un secolo di inferno e di purgatorio potrebbe/dovrebbe essere l’ora dell’Europa, il più grande mercato del mondo e anche abbastanza in buono stato. Ma soprattutto l’unica grande area planetaria che, con la Comunità prima e l’Unione poi, ha sperimentato istituti e procedure sovranazionali, e li ha utilizzati – nei

suoi momenti migliori, di prevalenza del senso di Patria europea e non di quello di Europa delle patrie – per allargare in modo pacifico e consensuale il perimetro della democrazia. Un’Europa che ha nel suo DNA storico le grandi politiche di welfare, di ragionevole e democratica redistribuzione della ricchezza, così socialmente necessaria ed economicamente opportuna in quest’epoca di stagnazione se non di impoverimento dell’Occidente. L’obiettivo c’è, storico e a suo modo esaltante. Ma oggi, chi pon mano ad esso?

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intervista a Stefania Prestigiacomo

Un indirizzo comune in materia ambientale: un’opportunità per l’Europa

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ol.is: Politica ambientale significa, nella sostanza, riconsiderare, e in modo non marginale, l’economia reale e quella finanziaria, l’imputazione dei costi e la formazione dei prezzi. Ciò risulta particolarmente evidente in questo periodo di concomitanza tra la più grande crisi economico-finanziaria dal 1929, da una parte, ed emergenza ambientale, dall’altra. Di fatto, le politiche economiche spesso prescindono dai limiti ambientali. Come può la politica ridurre tale distanza? Stefania Prestigiacomo: Ridurre la distanza tra le necessità delle politiche economiche e l’esigenza imprescindibile di un’accorta strategia di tutela dell’ambiente è una delle sfide più difficili che ci troviamo a dover affrontare. Difficile, ma non impossibile. Indubbiamente la crisi con la quale tutto il mondo si trova a dover fare i conti rende ancora più complessa l’opera di bilanciamento tra le varie componenti, ma ritengo che non ci sia soluzione alternativa a quella di saper tutelare la crescita economica e la salvaguardia ambien-

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tale. Per centrare l’obiettivo occorre che lo sforzo non sia demandato ai singoli Paesi, ma è irrinunciabile la comunanza di intenti tra le diverse nazioni, sia quelle più ricche che quelle in via di sviluppo. Pol.is: Le istituzioni e le procedure vigenti a livello internazionale hanno radici nella II guerra mondiale e riflettono le condizioni di allora sotto il profilo politico, economico e anche demografico. L’evoluzione in corso nell’attuale quadro istituzionale mondiale (G20, riforma del FMI, ecc.) è sufficiente a garantire decisioni e azioni nei tempi dettati dall’urgenza ambientale? Prestigiacomo: Ritengo che soprattutto in questi ultimi anni si sia andata generalmente diffondendo la convinzione che occorra adottare

Ridurre la distanza tra economia e ambiente: una sfida difficile, ma non impossibile


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Rilanciare il ruolo dell’Europa dopo i risultati deludenti di Copenhagen strategie politiche ambientali più accorte e di maggiore impatto. Il quadro istituzionale mondiale è estremamente composito ed è opportuno evitare sovrapposizioni tra le varie organizzazioni nell’adozione delle politiche ambientali. A tal riguardo torno a sottolineare l’importanza di un atteggiamento organico che consenta di parlare tutti con una sola voce. Pol.is: La definizione di una politica ambientale investe molto da vicino il tema della sovranità nazionale nel quadro di trattati e organismi sovranazionali finalizzati ad una governance globale dei problemi ambientali. Alla luce delle difficoltà che si sono accompagnate all’applicazione del Protocollo di Kyoto, è realistico pensare che le grandi potenze (a cominciare dagli Stati Uniti, ma anche la Cina ed altri paesi) siano disponibili a cessioni di sovranità in tempi brevi? Prestigiacomo: L’impegno delle grandi potenze per una governance globale dei problemi ambientali è fondamentale per un duplice motivo: per l’impatto sull’ambiente esercitato dalle nazioni più popolose e più sviluppate, ma anche per la fun-

zione di questi Paesi nello stimolare le nazioni in via di sviluppo, che proprio a fronte della loro condizione sono alle prese con difficoltà ancora maggiori nella gestione della crescita economica abbinata alla tutela dell’ambiente. Pol.is: L’Europa è l’unica grande area che, con il Trattato di Roma, la Comunità e poi l’Unione Europea ha sperimentato istituti e procedure sopranazionali. L’ambiente potrebbe essere un driver per rilanciare il percorso istituzionale europeo? Prestigiacomo: Non solo potrebbe, ma è doveroso che l’Europa sappia cogliere le opportunità derivanti dal comune sentire nei confronti dell’ambiente per dare nuovo impulso al percorso attualmente intrapreso. Pol.is: L’Unione Europea è in grado di assumere un ruolo di leadership mondiale nella governance ambientale? Quali i possibili percorsi – nella situazione data dell’Europa a 27 – per manifestare questa volontà di leadership? Prestigiacomo: Ritengo che l’Europa già ora eserciti un ruolo di primo piano a livello mondiale nella governance ambientale. A conferma di questa mia tesi voglio ricordare come l’Europa si sia sempre profusa in innumerevoli sforzi volti a sensibilizzare i Paesi membri ed i rispettivi

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Un indirizzo comune in materia ambientale: un’opportunità per l’Europa intervista a Stefania Prestigiacomo

governi rispetto all’esigenza di un’accorta politica dell’ambiente. Certo ci sono stati dei momenti di stallo, probabilmente ve ne saranno altri,

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ma sul ruolo centrale che spetta all’Europa non ho dubbi. Un ruolo da rilanciare dopo i risultati deludenti della Conferenza di Copenhagen.


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Innovazione e cambiamento, il costo del non fare

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nnovazione e sostenibilità del cambiamento: è un tema da qualche anno al centro del dibattito pubblico. Se ne discute, si propongono ricette, si argomentano soluzioni. Con la crisi che stiamo attraversando la questione assume evidentemente un rilievo ancor più attuale. Dinanzi agli effetti della recessione globale e alle sue conseguenze sull’economia, sul lavoro, sulla società, sempre più spesso si rivendica la necessità di individuare un nuovo paradigma di sviluppo. Più sostenibile, in termini di performance macroeconomiche, tenuta sociale, tutela ambientale. Più solido e resistente alle pressioni della globalizzazione in uno scenario mondiale in continua trasformazione. Innovazione, una questione di metodo Al di là delle singole analisi, la vera sfida che abbiamo di fronte è quella

Immaginare soluzioni che avranno ricadute concrete sulle generazioni successive

di tornare a progettare il futuro. La nostra società e, di riflesso, anche la politica che ha la responsabilità di assumere decisioni, sono afflitte dal virus del «presentismo». Vale a dire da una dilatazione eccessiva del presente a scapito del futuro e della sua laboriosa costruzione. Facciamo fatica a proiettare lo sguardo oltre il recinto del nostro tempo. Le politiche che vengono annunciate, proposte e a volte anche approvate e implementate, hanno spesso una caratteristica comune: mancano di una prospettiva di lungo termine. Si prefiggono come obiettivo quello di trovare soluzioni a problemi contingenti, ma senza un respiro rivolto al futuro. Coprono (come possono) le buche, ma non ricostruiscono l’intero manto stradale. Con il risultato che, a lungo andare, la strada sarà ancora più dissestata e alla comunità spetterà l’onere di pagare il conto della sua manutenzione. Innovare vuol dire, invece, escogitare soluzioni nuove, cambiare strada laddove indispensabile o anche solo apportare modifiche quando qualcosa non funziona come dovrebbe.

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Sempre, però, con la capacità di mettere in discussione dogmi acquisiti e di dimostrarsi, in definitiva, non «al passo coi tempi», ma «avanti sui tempi». È per questo che l’innovazione è soprattutto una questione di metodo. Un metodo fatto di programmazione degli interventi, monitoraggio dei processi, valutazione dei risultati. Il tutto con obiettivi ben chiari e il più possibile condivisi con la collettività. Da sempre, del resto, le società più competitive sono quelle che riescono a immaginare soluzioni che avranno ricadute concrete sulle generazioni successive. Nel mondo succede ancora così. Nel 2007, l’azienda che gestisce l’aeroporto di Shenzhen, una delle maggiori città cinesi, ha bandito un concorso (poi vinto dall’architetto italiano Fuksas) per l’ampliamento della struttura. Ebbene, le fasi di costruzione previste sono tre, di cui solo la prima prende le mosse oggi per concludersi nel 2015. Gli ulteriori ampliamenti, previsti con le fasi 2 e 3, sono programmati rispettivamente per il 2025 e per il 2035, in un’ottica di ampliamento graduale dell’aeroporto in base all’accrescimento dei bisogni della comunità che la struttura dovrà servire. Pur con tutti i limiti del suo capitalismo non democratico, la Cina si conferma, dunque, come il Paese del cambiamento e del futuro. E lo fa progettando e immaginando il mondo così come sarà tra più di vent’anni.

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L’Italia, un Paese ingessato Questo genere di approccio al futuro in Italia non c’è più. È tipico di società giovani, fiduciose, fresche, come eravamo noi nel secondo dopoguerra. Oggi il nostro Paese sembra piuttosto fermo, ingessato sotto il peso di vecchi e nuovi blocchi. Su questo aspetto dobbiamo lavorare con pazienza. Riscoprendo la volontà di predisporre interventi, in ogni campo e a ogni livello decisionale, in grado di riavviare il paese sulla strada dell’innovazione, soprattutto sotto il profilo del metodo. Sul piano dell’elaborazione delle politiche pubbliche, questo concetto ha varie declinazioni. Anzitutto occorre dare un forte impulso alla ricerca che, in quanto strumento essenziale per il progresso scientifico e tecnologico, è il vero motore dell’innovazione. Mi riferisco in particolare al tema del finanziamento della ricerca pubblica. Troppo pochi e troppo mal distribuiti sono i fondi ad essa destinata. Servono un’assoluta razionalizzazione e un’ottimizzazione del loro utilizzo anche attraverso una responsabilizzazione e un riordino delle istituzioni – università, in primis – preposte alla ricerca. È necessario poi valorizzare il ruolo di tutti coloro che a vario titolo sono impe-

Impulso alla ricerca, trasferimento di tecnologie, semplificazione normativa


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Inquadrare il cambiamento in una cornice di ricettività al nuovo gnati nell’ambito della ricerca. Una valorizzazione che, però, non deve esaurirsi solo in gratificazioni economiche – pur necessarie, visti gli attuali livelli salariali – ma che restituisca dignità sociale al ruolo che svolgono. Altro aspetto centrale è quello dell’interazione tra pubblico e privato, della creazione di un trait d’union efficace tra le istituzioni che fanno ricerca e il mondo delle imprese. Il trasferimento di tecnologie e competenze è un importante strumento per mettere a sistema i risultati della ricerca scientifica, facendone uno dei motori dello sviluppo culturale e industriale del Paese. In questo caso gli obiettivi generali, l’interesse della collettività, coincidono con quelli individuali, della singola impresa che, per tornare a crescere e a essere vincente in un mercato mondiale quanto mai competitivo, ha bisogno di innovazioni di prodotto e di processo, di una cultura manageriale orientata ai risultati e alla comprensione di quello che sarà il mondo di domani. Più nel dettaglio, al di là di un impulso al trasferimento tecnologico, ad esempio attraverso incentivi ad hoc o rivolti alle aggregazioni funzionali tra aziende, è necessario

razionalizzare e semplificare un quadro normativo che inibisce le aspirazioni a fare impresa di chi ha idee creative, ma non riesce a metterle in pratica. Penso all’opportunità di snellire tutta la burocrazia relativa alla proprietà industriale (brevetti, licensing), in maniera tale che le aziende siano stimolate a investire in innovazione e sperimentazione, o alla semplificazione delle procedure per la creazione di spin-off e imprese innovative. Interventi di questo genere potranno, comunque, avere un senso e condurre a un reale cambiamento di rotta soltanto se inquadrati in una cornice più ampia di ricettività al nuovo e di apertura mentale. Vale per l’economia, vale per la società. Vale, soprattutto, per la politica. Occorre tornare a progettare il futuro, dicevo in apertura. Insisto sul punto aggiungendo che, per farlo, dobbiamo comprendere gli errori del passato e dimostrare di aver appreso la lezione. La crisi di un modello Troppo a lungo abbiamo ritenuto che il modello di sviluppo che stavamo perseguendo era quello migliore, perché moltiplicava (apparentemente) la ricchezza. Nel frattempo, però, nascondeva sotto il tappeto i problemi. La crisi che ci ha investito in maniera così traumatica ha fatto venire alla luce quei problemi, messo alle corde quel modello e reso

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conclamata la necessità di definirne uno nuovo che tenga conto della possibilità di accrescere la ricchezza economica, ma che garantisca anche la sostenibilità ambientale e sociale di quest’ultima. Il ragionamento può applicarsi a tutte le economie avanzate. Il nuovo corso – comunque lo si giudichi – dell’Amministrazione americana, con la presidenza di Barack Obama, costituisce un segnale fortissimo di cambiamento. Lo stesso può dirsi, sia pure sul terreno più teorico della riflessione politica, per quanto riguarda il dibattito avviato in Paesi come la Francia in seguito alle istanze per una nuova concezione dello sviluppo sostenibile, da misurare sulla base di parametri di valutazione altri rispetto al PIL. Da questa angolatura il rapporto messo a punto da Jean Paul Fitoussi, Joseph Stiglitz e Amartya Sen mi sembra possa rappresentare un’autorevole bussola interpretativa su cui focalizzare l’attenzione. In un simile scenario, è evidente che anche l’Italia deve porsi, con rigore, il problema di un ripensamento del proprio modello di sviluppo. Già prima della crisi il nostro sistema produttivo – anche a causa di quella mancata tendenza alla diversificazione e all’innovazione cui accennavo in precedenza – era genericamente considerato a rischio declino. Oggi le criticità che allora ci esponevano a tale pericolo si sono ulteriormente esasperate. E mettervi mano è impe-

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rativo non più procrastinabile. Penso ai temi del welfare e a una riforma innovativa che consenta al sistema di essere sostenibile e adattarsi a una società che invecchia e che si trasforma inesorabilmente, giorno dopo giorno. Penso alla scuola, all’università, alla pubblica amministrazione. Penso, naturalmente, al grande deficit infrastrutturale che si lega a doppio filo alla questione della tutela del patrimonio ambientale, ma anche a una sua piena valorizzazione come motore di uno sviluppo pervasivo e di qualità. La questione energetica Anche la questione energetica si colloca in questo ambito. Peculiarità morfologiche e geografiche ci rendono fortemente dipendenti dall’estero per l’approvvigionamento di tipo tradizionale (petrolio, carbone, gas). Allo stesso tempo, però, queste stesse caratteristiche ci rendono potenzialmente molto competitivi sul versante delle fonti energetiche rinnovabili, in particolare sul fotovoltaico e sull’eolico. Serve, dunque, una politica energetica di lungo periodo che ci permetta di sfruttare appieno queste potenzialità e trovare alterna-

La crisi mette alle corde l’attuale modello di sviluppo e ne rende necessario uno nuovo


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Alternative valide per ridurre la nostra dipendenza energetica tive valide per ridurre la nostra dipendenza energetica. Ciò può avvenire con un maggiore coinvolgimento del settore privato, ad esempio, e con un efficiente sistema di incentivi. E questo discorso assume un rilievo ancor più strategico se riferito al Mezzogiorno. Siamo troppo indietro rispetto a gran parte dei Paesi europei. E viviamo contraddizioni quasi paradossali, come quella rappresentata dal fatto che, tra le regioni italiane, il primato nella produzione di energia solare è detenuto nientemeno che dall’Alto Adige. Quando si parla di energia, comunque, è d’obbligo ragionare non in una prospettiva nazionale, ma continentale. Per due ordini di motivi: anzitutto, perché ormai gran parte della politica energetica e le regolamentazioni correlate sono di competenza comunitaria, ma anche e soprattutto per un motivo strategico. Una politica energetica e una politica ambientale comune rafforzano le scelte che si compiono, dando a queste maggiore legittimazione e, conseguentemente, aumentano il potere contrattuale dell’Unione Europea, sia nei rapporti bilaterali con i partner strategici detentori di materie prime (Russia, in primis), sia nei consessi multilaterali.

Da questo punto di vista, al vertice di Copenhagen purtroppo l’Italia è arrivata con una posizione defilata forse perché, anche a causa di tutte le criticità che ho sommariamente passato in rassegna, nel nostro Paese non si è mai compreso che le scelte di questo tipo devono essere sottratte all’attualità e che gli obiettivi vanno perseguiti con costanza e determinazione nel lungo periodo. Un’occasione per ripensare il futuro In conclusione, specie in ambiti come questo – dai quali, ovunque nel mondo, si cerca di ripartire per concepire nuovi modelli di sviluppo sostenibile capaci di generare e alimentare il cambiamento – bisogna trovare gli strumenti giusti per far esplodere tutte le energie di cui disponiamo. Che sono tante e spesso poco valorizzate, come le donne, i giovani, gli immigrati integrati. Il vero problema è accettare la fatica e trovare il coraggio di proporre riforme che presuppongano una messa in discussione del nostro stile di vita. Nel Paese della «vetocrazia» cercare il cambiamento può significare correre il rischio di perdere il consenso. È un rischio effettivo che, tuttavia, vale la pena di correre. Perché rinunciare a innovare per non far fronte alle fisiologiche controindicazioni che questo comporta non vuol dire solo perdere i benefici del-

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Innovazione e cambiamento, il costo del non fare di Enrico Letta

le innovazioni, ma anche dover pagare il prezzo, altissimo, dell’inerzia. 14 miliardi di euro sono i costi stimati del «non fare» in Italia tra il 2005 e il 2007; 383,5 miliardi la perdita prevista per il periodo compreso tra il 2009 e il 2024. Soldi gettati al vento. Previsioni che raccontano di un Paese che non può più permettersi di dire di no al cambiamento. Un Paese che ha bisogno di soluzioni certe, maturate e assunte in modo condiviso. Di un’assunzione di responsabilità forte da parte della poli-

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Rinunciare a innovare vuol dire dover pagare il prezzo dell’inerzia tica che questo cambiamento deve avviare e veicolare verso obiettivi di crescita diffusa, equità, sostenibilità. Senza un genuino sforzo in tal senso, il vero “costo del non fare” sarà il declassamento della nostra società e delle aspirazioni delle generazioni che verranno dopo di noi.


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Approfondire la ricerca, trasformare il rischio in opportunità

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e questioni ambientali e climatiche, oggi più che in passato, sono entrate di prepotenza nell’agenda dei Governi di tutto il mondo. La discussione scientifica e politica attualmente si articola lungo due direttive, parallele ma collegate: da un lato, uno sviluppo quanto più possibile rispettoso dell’ambiente, in breve uno sviluppo sostenibile; dall’altro, la messa in campo di misure di adattamento ai cambiamenti climatici in atto i quali, al di là delle cause che li producono, sono un dato di fatto.

Il dibattito scientifico sui cambiamenti climatici Occorre dire chiaramente che il dibattito scientifico sui cambiamenti climatici globali e sulle cause che li producono non è ancora pervenuto a conclusioni rigorose e univer-

Il dibattito scientifico non è ancora pervenuto a conclusioni rigorose

salmente accettate. Dalle analisi dei dati diretti di temperatura degli ultimi centocinquanta anni, e dalle ricostruzioni degli ultimi mille anni, emerge un aumento delle temperature globali di circa 0,6-0,8 gradi centigradi nell’ultimo secolo, con un tasso di crescita in aumento. Nelle regioni polari, l’aumento di temperatura è stato anche più del doppio della media globale. Tuttavia, molti dati non sono ancora disponibili e i modelli, che sono essenziali per valutare l’impatto sul clima delle attività dell’uomo, presentano larghi margini di errore, ad esempio per quanto riguarda l’effetto delle nubi. La ricerca, dunque, deve necessariamente continuare e anzi essere potenziata. I risultati pubblicati fino al 2005 su riviste scientifiche accreditate sono riassunti nel IV Rapporto del Comitato Intergovernativo per lo Studio dei Cambiamenti Climatici (IPCC 2007). Questi risultati hanno condotto l’IPCC a concludere che, con una probabilità del 90%, la principale causa di cambiamento climatico siano le attività conse-

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guenti alla crescita economica, con l’immissione di gas serra quali biossido di carbonio (o anidride carbonica, CO2) e metano (CH4), l’immissione di aerosol e di altre sostanze inquinanti, e le estese modificazioni nell’uso del territorio. I dati, uniti alle previsioni di un aumento dei fattori di cambiamento climatico legati al nostro sistema di sviluppo economico, permettono una stima quantitativa della probabile evoluzione del clima globale del nostro pianeta, seppure ancora affetta dalle incertezze dei modelli cui abbiamo accennato. Nel 2005, l’Unione Europea ha formalizzato la proposta di limitare la quantità totale di gas serra in atmosfera a un livello per cui la temperatura media globale della superficie della Terra non aumenti più di 2 °C rispetto ai livelli precedenti l’era industriale. La scelta di un limite di 2 °C è indicativa: un aumento della temperatura maggiore di questo valore viene infatti considerato eccessivo, per i rischi e per i costi associati. Nelle regioni polari del nostro pianeta il limite di 2 °C è molto più vicino. Criticità della regione mediterranea Ciò dà una chiara indicazione della grande complessità del sistema climatico e rende evidente che, alla visione globale del problema, occor-

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re affiancare una visione regionale. In particolare, risulta da diverse osservazioni la criticità intrinseca della regione mediterranea. Le serie storiche di temperatura e precipitazioni nell’ultimo secolo indicano che il clima nel nostro Paese sta diventando più caldo e più secco, in particolare al centrosud, con la contemporanea tendenza all’aumento delle precipitazioni intense e a un maggiore rischio di eventi siccitosi. Un problema a sé è quello del livello del mar Mediterraneo: l’innalzamento del livello marino, previsto dagli scenari climatici, potrebbe essere inferiore rispetto a quello globale (fino al 50%), con massimi relativi nelle zone più settentrionali. Le proiezioni dei modelli climatici indicano infatti che il bacino del Mediterraneo sarà soggetto a un aumento della temperatura ed a una diminuzione della portata dei fiumi. I due effetti combinati potrebbero limitare i cambiamenti nella stratificazione delle acque, in quanto la diminuzione dell’apporto fluviale implica un aumento della salinità del mare che a sua volta potrebbe essere compensato dall’aumento di temperatura.

Affiancare alla visione globale del problema, una visione regionale


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L’italia non ha ancora un piano, ma può seguire l’esempio degli altri membri dell’Unione

L’invasione di specie marine non originarie di questo mare, già osservata nel Mediterraneo, e la possibilità della loro sopravvivenza sono fortemente correlate all’aumento di temperatura. Questo implica non solo una nuova composizione delle comunità biologiche presenti in una determinata zona di mare (nuove specie si sostituiscono a quelle indigene), ma anche la possibilità di impatti importanti sulle attività economiche legate alla pesca, naturalmente se il fenomeno coinvolgerà specie di interesse commerciale. Il libro bianco dell’UE Al sistema agricolo, nazionale e internazionale, si chiede di concorrere per vincere la sfida planetaria per l’alimentazione dei prossimi decenni, con nuovi prodotti geneticamente selezionati e nuovi processi anche biotecnologici, per nutrire una popolazione mondiale che prevedibilmente si stabilizzerà intorno ai 9 miliardi di persone nel 2050. La complessità del quadro così

delineato ha spinto l’Unione Europea all’emanazione di un “Libro bianco”, che definisce prioritaria l’integrazione nelle politiche europee delle misure di adattamento ai cambiamenti climatici. In particolare, si mira a realizzare un incremento della capacità degli ecosistemi e degli stessi sistemi sociali di continuare a funzionare nonostante perturbazioni di una certa entità. O di ‘autoripararsi’ dopo un danno. Questa azione è considerata, oltre che una necessità, un’opportunità per investire in un’economia low-carbon, promuovendo l’efficienza energetica e i green products. Sono considerate prioritarie le misure di adattamento capaci di generare benefici sociali ed economici indipendentemente dalla bontà e affidabilità delle previsioni sul clima generate dai modelli (no-regret measures). Naturalmente, sono anche prioritarie le misure bivalenti: cioè portatrici di benefici sia per la mitigazione, sia per l’adattamento. Secondo le informazioni della European Environment Agency, solo dieci dei trentadue Paesi aderenti all’Agenzia posseggono una Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici ufficialmente approvata dai Governi. Per altri tre Paesi, una strategia nazionale dovrebbe essere prodotta tra il 2009 e il 2012.

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L’Italia non ha ancora un Piano. Per la sua realizzazione è di fondamentale importanza l’esempio di quanto è stato fatto finora dagli altri membri dell’Unione, con una approfondita interconnessione di fabbisogni conoscitivi spiccatamente multidisciplinari. È fortemente auspicabile che il Piano italiano segua questi modelli di interfaccia tra conoscenza scientifica e politiche di adattamento sperimentati altrove in Europa. Mondo della ricerca, della formazione, decisori politici e imprese devono collaborare per creare quella rete di conoscenze in grado di fornire le risposte adeguate e tempestive al verificarsi di uno degli scenari possibili. La Strategia italiana per lo Sviluppo Sostenibile Il secondo pilastro delle politiche ambientali mondiali ed europee è costituito dalla promozione di uno sviluppo sostenibile, cioè dalla riconversione di un sistema economico verso azioni che mirino al risparmio energetico, a processi produttivi in grado di contenere le emissioni, alla definizione di cicli di vita dei prodotti che prevedano già in sé il loro smaltimento. L’Italia ha adottato già nel 2002 (Delibera CIPE n. 57, 2 agosto) un Piano Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile, elaborato dal Ministero dell’Ambiente con il sostegno

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scientifico di ENEA. Il processo di monitoraggio e valutazione del Piano del 2002, basato su un sistema di indicatori, ha avuto però problemi di attuazione. La Comunicazione della CE per il “riesame 2009” delle strategia suggerisce l’opportunità di riesaminare a breve lo stato di attuazione della “strategia” anche a livello nazionale, se non addirittura, più sostanzialmente, di rivedere la “strategia italiana” stessa alla luce dei significativi cambiamenti intervenuti dal 2002 ad oggi nel quadro internazionale ed europeo. Un’impostazione, quella della Comunità europea, assolutamente condivisibile in quanto giustificata da diversi fattori, primo tra tutti la necessità di aggiornare il sistema italiano ai numerosi elementi che negli anni sono mutati. Si tratta infatti di considerare gli sviluppi in atto della politica europea per clima-energia, che negli ultimi anni comprende: la nascita dell’EU ETS (European Union Emission Trading Scheme), nell’ambito dell’attuazione della strategia per il cambiamento climatico (rivista nel 2005), che coinvolge direttamente, e in modo discusso, il

La CE suggerisce di rivedere la “strategia italiana”


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Trasformare un pericolo potenziale in motore di sviluppo economico e sociale sistema produttivo ed energetico italiano; lo sviluppo, tra il 2007 e il 2008, della strategia “20-20-20”, accompagnata da una serie di provvedimenti, in particolare, le energie rinnovabili e il risparmio energetico; la proposta Europea per la COP15 di Copenhagen e il dopoKyoto, che prefigura importanti impegni vincolanti unilaterali della UE e multilaterali/globali coinvolgenti gli Stati Membri nella futura attuazione. La Strategia per lo Sviluppo Sostenibile italiana necessita di aggiornamenti anche alla luce della nuova e potenzialmente positiva dimensione economica riconosciuta alle politiche ambientali in tutte le più recenti strategie comunitarie, anche e in particolare di fronte alla crisi economica e finanziaria, come parte del processo verso la “low carbon economy”, o la “green economy”, o la “green growth”; tale orientamento è presente, tra gli altri, nello European Economy Recovery Plan proposto dalla CE alla fine del 2008, nelle stesse Comunicazioni in questione, nelle dichiarazioni di intenti del G20 e del G8 del 2009, e nella dichiarazione sul-

la “green growth” sottoscritta da 30 paesi OCSE nel luglio scorso. Ricerca e politica nazionale In conclusione, di fronte alla sfida del cambiamento climatico e dei suoi effetti, è necessario uno sforzo congiunto della scienza e della politica, basato su conoscenze scientifiche attuali e oggettive, per affrontare e mitigare i rischi dei cambiamenti in atto e trasformare un pericolo potenziale in motore di sviluppo economico e sociale. In ambito scientifico, gli attuali modelli climatici hanno ancora significative incertezze nel rappresentare diversi processi fisici, chimici e biologici, sui quali è necessario procedere con gli studi. Analogamente, i modelli sono ancora poco efficaci nella rappresentazione del clima di regioni geografiche di dimensioni ridotte, quali l’area mediterranea e il territorio italiano, e sono in larga parte mancanti stime quantitative dell’impatto probabile dei cambiamenti climatici sul territorio nazionale. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche, con la sua tradizione di ricerca e la sua struttura pluridisciplinare – con Istituti dediti alle Scienze della Terra e dell’Ambiente, all’Agroalimentare, alle Scienze della Vita, all’Energia e alle Scienze Economiche e Sociali – possiede le competenze idonee a contribuire in

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misura rilevante alla definizione della politica nazionale in materia di sostenibilitĂ e mitigazione dei

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cambiamenti climatici, in collaborazione con le altre strutture di ricerca del Paese.


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intervista ad Angelo Alessandri

Strategie europee in materia ambientale

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ol.is: Le istituzioni e le procedure vigenti a livello internazionale hanno radici nella II guerra mondiale e riflettono le condizioni di allora sotto il profilo politico, economico e anche demografico. L’evoluzione in corso nell’attuale quadro istituzionale mondiale (G20, riforma del FMI, ecc.) è sufficiente a garantire decisioni e azioni nei tempi dettati dall’urgenza ambientale? Angelo Alessandri: In effetti i cambiamenti di indirizzo politico e culturale che bisogna adottare a livello mondiale per rendere maggiormente attuabili e tangibili i principi della tutela ambientale richiedono decisioni governative urgenti. In questo senso, anche se sembra che tali inversioni di orientamento decisionale siano lente o addirittura ferme, nelle operazioni che si eseguono

Il Trattato di Lisbona potrà imprimere accelerazioni decisionali in tema di tutela ambientale

quotidianamente è innegabile constatare che, rispetto agli anni scorsi, siano stati effettuati notevoli passi avanti su queste fondamentali tematiche civili. Il fatto che l’Unione Europea abbia messo tra le proprie priorità la lotta ai cambiamenti climatici e stia adottando regolamenti impegnativi per rendere esecutive le strategie inerenti a tali obiettivi, ci fa essere fiduciosi sulla possibilità di effettuare azioni immediate in queste direzioni. Un motivo di ulteriore fiducia è rappresentato dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e con esso della effettiva rappresentatività del Governo dell’UE che così potrà incidere autorevolmente sugli altri Governi continentali ed imprimere accelerazioni decisionali con più evidente rigore, soprattutto sul tema della tutela ambientale, rispetto al quale l’UE è innegabilmente più avanti. Pol.is: L’Europa è l’unica grande area che, con il Trattato di Roma, la Comunità e poi l’Unione Europea ha sperimentato istituti e procedure sopranazionali. L’ambiente potrebbe

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essere un driver per rilanciare il percorso istituzionale europeo? L’UE è in grado di assumere un ruolo di leadership mondiale nella governance ambientale? E quali sono i possibili percorsi – nella situazione dell’Europa a 27 – per manifestare questa volontà di leadership? Alessandri: L’Unione Europea è pienamente impegnata nelle politiche ambientali. Soprattutto con l’approvazione del “pacchetto energia-clima” da parte del Consiglio europeo, nel dicembre 2008, l’Unione europea ha dimostrato in termini concreti la sua intenzione di assumere un ruolo guida a livello internazionale. L’impegno dell’UE non si è, infatti, limitato all’individuazione degli obiettivi da raggiungere, ma si sta già traducendo nella predisposizione di alcune proposte legislative recanti un complesso di misure puntuali dirette a ridurre le emissioni di CO2 del 20% rispetto ai livelli del 1990, entro il 2020; ad assicurare progressi, sotto il profilo dell’efficienza, del 20% e a produrre tramite fonti rinnovabili il 20% dell’energia consumata. L’UE ha inteso sollecitare gli altri paesi che condividono le maggiori responsabilità nell’emissione di sostanze inquinanti a dimostrare una attenzione analoga; addirittura, l’UE ha prospettato la possibilità di abbattere del 30%, anziché del 20%, le emissioni di CO2 qualora altri paesi dimostrassero la stessa disponibilità.

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Da ultimo, vale la pena sottolineare come la serietà dell’approccio che in materia ha ispirato l’UE possa dimostrarsi particolarmente utile allo scopo specifico di pervenire ad un accordo globale che impegni tutti i paesi, non escludendo, attraverso il sostegno internazionale, quelli in ritardo di sviluppo. Pol.is: In questo quadro, qual è il possibile ruolo dell’Italia? Alessandri: Il nostro Parlamento – in particolare la Commissione VIII Ambiente della Camera dei Deputati – ha acquisito, soprattutto nel corso dell’attuale Legislatura, numerose informazioni e suggerimenti puntuali per quanto concerne le priorità da perseguire, gli strumenti e le misure di incentivazione più utili per rendere efficace e concreto il raggiungimento di una più oggettiva politica in favore della tutela ambientale, evidenziando i punti di eccellenza del sistema produttivo italiano su cui far leva e le più gravi lacune da sanare in relazione alle indicazioni dell’UE e alle risorse che si renderanno disponibili. In questo ambito, risulta indispensa-

Con l’approvazione del “pacchetto energia-clima” l’UE dimostra di poter assumere un ruolo guida


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Occorre predisporre un piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici bile far fronte all’esigenza di predisporre, analogamente a quanto hanno fatto altri paesi europei, un piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, da definire con l’attivo coinvolgimento delle istituzioni e dei rappresentanti del sistema produttivo e un adeguato supporto scientifico. In relazione alla posizione del Governo italiano per la definizione di proposte legislative e relativamente alle deliberazioni delle competenti istituzioni comunitarie, esso può efficacemente promuovere in sede di Consiglio UE iniziative, anche di carattere normativo, nell’ambito di specifici settori. I principali si possono riassumere in: efficienza energetica nel settore industriale, immobiliare e dei trasporti; fonti energetiche rinnovabili; politiche del territorio e silvicoltura; misure per il miglioramento della raccolta, della diffusione e della valutazione dei dati in tematiche ambientali; integrazione delle politiche ambientali nelle altre politiche comunitarie settoriali (trasporto, energia, infrastrutture, ricerca, politica estera) e maggiore sinergia con la strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione, al fine di perseguire real-

mente la strada verso lo sviluppo sostenibile. Pol.is: Politica ambientale significa, nella sostanza, riconsiderare, e in modo non marginale, l’economia reale e quella finanziaria, l’imputazione dei costi e la formazione dei prezzi. Ciò risulta particolarmente evidente in questo periodo di concomitanza tra la più grande crisi economico-finanziaria dal 1929, da una parte, ed emergenza ambientale, dall’altra. Di fatto, le politiche economiche spesso prescindono dai limiti ambientali. Come può la politica ridurre tale distanza? Alessandri: La conversione dei settori economici basati esclusivamente sull’accrescimento della competitività e dei ritorni sugli investimenti finanziari, nonché quella dei sistemi produttivi meno impattanti sull’ambiente, si pone non solo in ambito politico, ma anche in relazione a motivazioni di carattere strategico. Le vicende degli ultimi decenni dimostrano, infatti, che le economie occidentali non possono continuare a subordinare le loro prospettive di crescita alle decisioni di paesi fornitori di materie prime energetiche che troppo spesso si sono dimostrati poco affidabili. La complessità e l’ampiezza delle innovazioni da introdurre implicano che si elabori una strategia complessiva per la protezione dell’ambiente e per l’adattamen-

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to ai cambiamenti climatici; ciò comporta che sia garantita la coerenza tra i diversi interventi posti in essere con riferimento ai vari comparti e lo stanziamento di risorse adeguate allo scopo, tenendo in debita considerazione che le scelte da effettuare a riguardo debbano ad ogni modo non compromettere il processo di sviluppo sostenibile, economico e sociale che ispira le società civili. Proprio la politica potrà misurasi per coniugare le due legittime aspettative dello sviluppo economico e della protezione dell’ambiente, facendo operare in sinergia le decisioni che si potranno assumere a riguardo. Già da subito si potrebbero adottare iniziative d’indirizzo volte alla riallocazione delle risorse, nell’ambito del quadro comunitario di sostegno 2007-2013, verso politiche

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Adottare iniziative d’indirizzo nell’ambito del quadro comunitario di sostegno 2007-2013 di incentivo agli interventi di risparmio energetico e/o alle iniziative che utilizzino fonti rinnovabili; all’incremento degli incentivi per gli appalti pubblici verdi (GPP), vale a dire degli appalti che promuovano il risparmio energetico o che producano un più ridotto impatto ambientale; al superamento del PIL come indicatore del benessere sociale e alla sua sostituzione con indicatori di nuova elaborazione e più sofisticati che sappiano integrare i numerosi e diversi aspetti della salute, del progresso e della protezione dell’ambiente.


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Obiettivi credibili per una strategia ambientale planetaria

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a crisi economica sta dando il colpo di grazia al regime di Kyoto, i cui costi economici sono insopportabili in questa fase di recessione mondiale. Stanno cambiando le politiche climatiche dei principali paesi: solo la Commissione Europea sembra non essersene accorta. Un’alternativa a Kyoto c’è: le stesse misure di miglioramento dell’efficienza delle industrie che sono necessarie per uscire dalla crisi economica serviranno automaticamente anche a ridurre le emissioni di anidride carbonica. Definire grandi e plateali misure sul cambiamento climatico, che comportano costi aggiuntivi per l’economia, è uno sport nel quale la politica può indulgere quando i tempi sono prosperi e il denaro circola abbondante; ma non è una posizione possibile quando sentiamo il ter-

reno tremarci minacciosamente sotto i piedi. Una vera svolta nelle politiche internazionali per la sostenibilità ambientale è possibile a condizione che si riesca a portare il confronto tra i partecipanti al di là degli angusti confini rappresentati dal leit-motiv del “salva clima”, che parte da un presupposto scientifico tuttora in discussione e che rischia di condurre soltanto ad un dibattito mono e strumentalmente orientato, oltre a prevedere azioni ed impegni di rilevanza finanziaria tale da compromettere, se assunti, equilibri e prospettive economiche di non pochi paesi. Sottrarsi a quel leit-motiv è dunque necessario per parlare di politiche ambientali globali (tanto di adattamento, quanto comportamentali) legate a specifiche emergenze e praticabili con interventi di solidarietà internazionale verso singoli territori.

Sottrarsi al leit motiv del “salva clima” per parlare di politiche ambientali globali

Aprire la strada alle singole intese di settore In questa prospettiva sarà anche possibile perseguire con credibilità il fondamentale ed irrinunciabile

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obiettivo politico del coinvolgimento del più ampio numero possibile di paesi nella volontà di aprirsi ad una strategia ambientale planetaria. Si tratta di abbandonare le asfittiche e ormai rituali posizioni di fondamentalismo ideologico, che soffocano il dibattito schiacciandolo sul solo tema degli obiettivi di riduzione delle emissioni, per giungere ad un risultato di riduzione delle emissioni stesse come conseguenza concreta di accordi di settore ed anche di intese bilaterali modellate sulle realtà delle singole economie nazionali. Questo mutamento di indirizzo è reso oggettivamente necessario anche dal fatto che gli obiettivi di riduzione delle emissioni appaiono ai più come momenti frenanti dello sviluppo o traguardi non raggiungibili e comunque penalizzanti. Il Protocollo di Kyoto partiva da nobili intenti, ma nell’applicazione pratica ha dato luogo a non poche distorsioni e furbizie e il tempo che ci separa dalla sua stipula ha visto la comunità scientifica concorde nel richiamo ad una maggiore attenzione alle politiche ambientali, ma per nulla concorde su molti e rilevanti punti, dall’entità del cd. Global Worming alle sue cause, dalla possibilità di incidere antropicamente sulle sue dinamiche alla definizione delle stesse. L’apertura della strada a singole intese appare tanto realistica quanto obbligata. Del resto, gli U.S.A. hanno già in discussione al Congres-

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so un proprio autonomo piano di interventi sulla cd. Green Economy che alle motivazioni ambientali associa esigenze industriali e strategiche e quindi difficilmente potranno sottoscrivere impegni che non collimino con la loro legge interna. Dal canto loro, Cina e India, le due superpotenze demografiche del pianeta, entrambe protagoniste di una rapida industrializzazione, hanno più volte dichiarato di voler anche loro seguire una propria strategia nazionale con la precisazione, riguardo alle emissioni, che non accetteranno restrizioni che impongano un rallentamento o costi aggiuntivi alla loro crescita economica, oltre al fatto di non voler sottoscrivere accordi che non abbiano come base di riferimento il calcolo dei quantitativi di emissione pro-capite e non in valori assoluti. Come primo passo, dunque, tutte le principali potenze economiche potrebbero fissare dei parametri settoriali per raggiungere un più alto livello di efficienza nei settori a maggiore intensità energetica, accelerando il ciclo di sostituzione dei principali impianti. I provvedimenti rivolti a ridurre i costi energetici servo-

La riduzione dei costi energetici serve a incrementare l’efficienza e la redditività delle imprese


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Il trasferimento di tecnologie può contribuire al raggiungimento di accordi con i paesi emergenti no a incrementare l’efficienza e di conseguenza anche la redditività delle imprese: sono precisamente questi i provvedimenti che bisogna prendere per garantire la solidità in questo momento di recessione. Questo ragionamento, con tutta evidenza, aveva in mente il Presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi, quando ha evocato la potente immagine del folle Don Chisciotte che si scaglia contro i mulini a vento: ha in questo modo dato il via al sostanziale ripensamento delle politiche climatiche che ha interessato le grandi imprese, gli elettorati e i governi nazionali. A preoccupare Berlusconi, infatti, era proprio il rischio di imporre alle imprese italiane oneri troppo pesanti. Il dopo Kyoto non può che essere, quindi, il tempo sia delle intese bilaterali e degli accordi di settore, sia del progresso tecnologico e della capacità della ricerca di ritrovare soluzioni di produzione energetica sempre più virtuose dal punto di vista dell’efficienza in termini di economia delle fonti e soprattutto di rispetto ambientale.

Trasferimento di tecnologie ed educazione ambientale Il trasferimento di tecnologie è fondamentale e può contribuire in maniera determinante al raggiungimento di accordi con i grandi paesi emergenti, anche perché avvicina ad una equilibrata globalizzazione del pianeta ed intercetta l’obiettivo necessario e urgente per molti singoli territori di eliminare la presenza degli inquinanti tossici e di migliorare l’efficienza energetica, obiettivo per essi, oggi, certamente più importante della riduzione di CO2. La deforestazione è uno di quei settori vitali per gli equilibri ambientali e climatici su cui si potrebbe trovare un’intesa in tempi brevi. Le relative politiche di intervento sono infatti più facilmente definibili nelle modalità e nei costi. Tutto dipende dalla disponibilità del contesto internazionale a reperirne le risorse necessarie, che non gravino comunque sulle economie dei paesi direttamente interessati, i quali notoriamente si collocano tra quelli emergenti o poveri del pianeta. Anche sull’educazione “ambientale” del cittadino, indispensabile per consolidare l’efficacia dei programmi di qualsiasi governo o degli stessi accordi internazionali, occorrerebbe stipulare una intesa “ad hoc” più determinata, nella quale potrebbe prevedersi un impegno specifico dei paesi già industrializzati nell’ambito di organismi come l’UE o l’ONU.

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Politiche di adattamento Il dopo Kyoto deve essere, quindi, anche il tempo dell’assunzione di responsabilità sul fronte delle politiche di adattamento e di attenzione a specifiche emergenze planetarie. La pressione dei fenomeni migratori di massa, ad esempio, è una di queste ed è certamente legata anche a problematiche ambientali (e non solo al cambiamento climatico), di complessa rilevanza e tragica implicazione, tali da esigere interventi di adattamento ben più adeguati di quelli sino ad oggi praticati. Per quanto riguarda specificamente la posizione italiana, il Governo ha doverosamente evidenziato in seno all’UE alcune distorsioni su quanto in particolare il 20.20.20 prevede per il nostro paese e ha ottenuto delle rettifiche a favore di alcuni comparti industriali particolarmente esposti ad eccessive sanzioni improduttive. In sede di G8, il Governo ha ribadito l’impegno per contribuire a raggiungere intese globali e ha ottenuto anche, nel vertice di Bruxelles del dicembre 2008, l’ap-

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Un approccio diverso e differenziato negli argomenti, nei tempi e negli interlocutori provazione di una clausola di revisione dei trattati in essere in ambito europeo al marzo 2010, dopo gli esiti della Cop15. L’impegno dell’Italia per le politiche globali ambientali è irrinunciabile. Il Parlamento si attende che anche il nostro paese si orienti verso una prospettiva di cambiamento, nel segno di una sostanziale praticabilità di eventuali intese, con un nuovo senso del realismo, non lasciandosi più suggestionare dal donchisciottismo anglo-UE. Sono peraltro le cose che sono state dette nel corso dell’incontro bilaterale USA-Cina e che, pur sollevando panico e sconcerto tra i fautori delle grandi intese ad ogni costo, suggeriscono un approccio sui temi dell’ambiente diverso e differenziato negli argomenti, nei tempi e negli interlocutori.


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rchiviata progressivamente l’accezione di necessità, l’ambiente viene sempre più declinato in termini di riscoperta del valore di opportunità, della valorizzazione delle risorse naturalistiche e paesaggistiche in una prospettiva di sviluppo e dunque vantaggio economico. L’ambiente diventa quindi un elemento di crescita della società, in questo vera e propria risorsa per il progresso anche culturale del Paese. E veicolo per la riscoperta di valori identitari delle comunità. Questo significato riporta subito alla politica, che in generale, nel nostro Paese, inquadra le questioni ambientali nell’ottica legata all’offerta di servizi. Turistici, prima di tutto, in un Paese come il nostro che dispone di bellezze naturali e paesaggistiche senza pari al mondo, spesso con-

Nel turismo, più che in altri settori, è maturata un’attenzione ai temi della sostenibilità ambientale e della eco-compatibilità

dizione principale per una piena fruibilità delle attrattive presenti sui territori. Nel turismo, più che in altri settori, è maturata negli ultimi decenni una attenzione più forte ai temi della sostenibilità ambientale e della eco-compatibilità, attorno ai quali andrebbe centrata invece anche l’organizzazione di altri servizi. La gestione del ciclo integrato dei rifiuti, ad esempio, che si configura prima di tutto come questione ambientale. Non a caso la riduzione dei quantitativi di rifiuti è parte integrante delle previsioni formulate dall’Unione Europea in merito agli obiettivi da raggiungere entro il 2020. Cattiva gestione dei rifiuti e criminalità La cattiva, in molti casi inesistente, gestione della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti, che nel Mezzogiorno ha assunto i connotati di una ciclica e drammatica emergenza, ha avuto come conseguenza la violazione sistematica dell’ambiente. Anni e anni di indagini, emergenze, analisi e ricerche hanno svelato il peso della criminalità organizzata nello

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sfruttamento indiscriminato dell’ambiente. Traffici illeciti di rifiuti, abusivismo edilizio, appalti truccati e racket degli animali ci dicono che quello dell’ecomafia è uno dei pochi settori dell’economia nazionale che non conosce crisi. Anzi, è più fiorente che mai. Da vicepresidente nazionale della Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e le attività illecite ad esso connesse e segretario della Commissione Ambiente non ho esitato a consegnare, e qui le ribadisco, le mie preoccupazioni sulla rilevanza che il fenomeno della criminalità ambientale ha assunto negli ultimi anni. In Campania, la regione dalla quale provengo, i clan della camorra hanno messo le mani sull’emergenza rifiuti, gestendo strutture, impianti ed autorizzazioni e incassando anche i soldi pubblici del Commissariato. Le indagini della magistratura e le analisi di Legambiente hanno permesso di quantificare il business della criminalità ambientale. Si tratta di una vera e propria economia di rapina, con pochissimi rischi, profitti altissimi e l’aggravante che nel mercato illecito, come ha fatto notare il Procuratore nazionale Antimafia Pietro Grasso, aumenta sia la domanda che l’offerta. Nel più totale dispregio delle risorse ambientali e della salute pubblica. Avvelenare i terreni e le falde acquifere, contaminando i cibi che poi arrivano sulle nostre tavole vuol dire commettere degli

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omicidi differiti nel tempo. E purtroppo, in prospettiva, la disponibilità di ingenti capitali mette i clan malavitosi in una posizione di vantaggio. Se non si interviene con determinazione, la criminalità conserverà il monopolio sull’ambiente. Le ecomafie sono un cancro non solo del Sud, ma di tutto il Paese, e gestiscono una fetta rilevante dei rifiuti speciali (circa un quarto di tutti quelli prodotti). Nel 2007, per esempio, hanno gestito 26 milioni di tonnellate su un totale di 107 e il business dello smaltimento illecito dei rifiuti ha sviluppato un fatturato di oltre 4 miliardi di euro. Negli ultimi sette anni, da quando grazie all’allora ministro dell’ambiente Ronchi venne introdotto il reato di traffico illecito dei rifiuti, la magistratura ha aperto contro le ecomafie dei rifiuti quasi 100 inchieste, emesso 600 ordinanze di custodia cautelare e denunciato 2.196 persone. Solo nel 2007 ben 22 di questi procedimenti sono giunti a conclusione. Da nord a sud, le inchieste contro le ecomafie dei rifiuti sono state condotte da 56 procure: 18 del Nord, 19 del Centro e 19 del Sud (procure di tutte le Regioni italiane, con le sole eccezioni

L’ecomafia è uno dei pochi settori dell’economia nazionale che non conosce crisi


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Il primo passo per uscire dall’emergenza è una legge quadro per il ciclo integrato dei rifiuti della Valle d’Aosta e del TrentinoAlto Adige). Una legge quadro Insomma, la questione è nazionale. Per questo sono convinto che il primo passo per uscire dall’emergenza è una legge quadro – e per quanto mi riguarda sto lavorando all’elaborazione di una bozza – per il ciclo integrato dei rifiuti basata su parametri univoci per tutto il territorio nazionale. Una legge quadro sui rifiuti elaborata, nel rispetto dei dettami dell’Unione Europea, sul modello della legge Galli del 1994 per il ciclo integrato delle acque, per ridurre i gestori, recuperare un rapporto tra pubblico e privato e smetterla con il sistema dei commissari continui, che sperperano risorse, con deroghe infinite rispetto alla normativa, e disorientano ancora di più i cittadini. Bisogna archiviare la logica dei commissariamenti, che determina la deresponsabilizzazione degli Enti locali e lo svuotamento delle rappresentanze democratiche. Possiamo compiere tutti gli sforzi, sia nel settore pubblico che in quello privato, ma se manca il collegamento normativo di una legge che definisca proce-

dure e standard omogenei da nord a sud, difficilmente riusciremo ad assicurare al ciclo dei rifiuti una gestione efficiente ed efficace, con l’obiettivo di promuovere legalità, innovazione e sviluppo nel Paese. Puntando, prima di tutto, a recuperare i ritardi accumulati sul fronte della tutela dell’ambiente. Nella legge si possono prevedere incentivi per le aziende che operano nel rispetto delle risorse naturalistiche dei territori, assumendo comportamenti virtuosi. La criminalità, le cui infiltrazioni nella gestione dei rifiuti sono al centro di varie inchieste della magistratura, va combattuta con fatti precisi. Per realizzarli occorre il concorso di tutte le forze attive e sane della società, la collaborazione attiva tra Commissione di Inchiesta, Governo nazionale, Enti territoriali ed Unione Europea. Il risultato sarà una democrazia più forte, compiuta dalla partecipazione attiva prima di tutto dei cittadini, sempre più sfiduciati, lontani e allontanati da una politica e da pratiche amministrative che, più che attrarli, li respingono. Una stagione nuova della politica In questo, tutela dell’ambiente e, più complessivamente, politica ambientale significano anche ricalibrare, alla luce delle occasioni perdute e delle opportunità da cogliere, il rapporto tra le Istituzioni in un’ottica di cooperazione tra i vari livelli.

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Lavorando insieme si può inaugurare una stagione nuova della politica, delle Istituzioni, della vita civile. La politica dell’ambiente ci offre l’occasione di “rimettere la piramide sulla base”, per dirla con Durkheim. “L’unica soluzione per le generazioni future sarà nella forza della democrazia, vale a dire nella partecipazione più consapevole e più incisiva dei cittadini alle scelte che impegneranno il destino di tutti”.

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La politica dell’ambiente ci offre l’occasione di “rimettere la piramide sulla base” D’altronde il dovere sociale consiste nel giocare fino in fondo anche le partite che sembrano perse. La sfiducia e lo scoramento non sono opera da buoni politici né da buoni cittadini.


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intervista ad Ermete Realacci

Una sfida per l’Europa. Una sfida per l’Italia

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ol.is: La definizione di una politica ambientale investe molto da vicino il tema della sovranità nazionale nel quadro di trattati e organismi sovranazionali finalizzati ad una governance globale dei problemi ambientali. Alla luce delle difficoltà che si sono accompagnate all’applicazione del Protocollo di Kyoto, è realistico pensare che le grandi potenze (a cominciare dagli Stati Uniti, ma anche la Cina ed altri paesi) siano disponibili a cessioni di sovranità in tempi brevi? Ermete Realacci: Al vertice Onu sui mutamenti climatici di Copenhagen non si sono stipulati trattati effettivamente vincolanti, legati a convincenti e stringenti strumenti di verifica, ma appare probabile che questo possa avvenire nei prossimi appuntamenti in calendario nel 2010.

Favorire i mutamenti in atto nell’economia e nella società

Per la prima volta nessuno dei principali attori internazionali nega la gravità del rischio e la necessità di un deciso sforzo comune. Sono cambiati in Occidente governi che frenavano, negli Usa, in Giappone, in Australia e quindi l’Europa è meno sola, mentre impegni importanti vengono annunciati anche dai grandi paesi emergenti come Cina, India e Brasile. Del resto è oggettivamente difficile ripartire equamente gli obiettivi. Se è vero, infatti, che la Cina ha raggiunto e superato gli Stati Uniti nelle emissioni complessive è bene ricordare che i cinesi sono cinque volte più degli americani. Un cinese emette quindi un quinto di un cittadino americano e un indiano meno della metà di un cinese. Per non parlare dei paesi ancora attanagliati nella morsa del sottosviluppo, che in qualche caso pagheranno un prezzo ancora più alto ai mutamenti climatici in atto. Ma oggi la cosa più importante da fare è non assistere da spettatori, favorire e accompagnare i mutamenti in atto nell’economia e nella società.

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Una sfida per l’Europa. Una sfida per l’Italia intervista a Ermete Realacci

Pol.is: L’Europa è l’unica grande area che, con il Trattato di Roma, la Comunità e poi l’Unione Europea ha sperimentato istituti e procedure sopranazionali. L’ambiente potrebbe essere un driver per rilanciare il percorso istituzionale europeo? L’UE è in grado di assumere un ruolo di leadership mondiale nella governance ambientale? E quali sono i possibili percorsi – nella situazione data dell’Europa a 27 – per manifestare questa volontà di leadership? In questo quadro, qual è il possibile ruolo dell’Italia? Realacci: Penso che la sfida dei mutamenti climatici sia soprattutto una sfida europea. Una bellissima frase scritta nel preambolo della non altrettanto bella Costituzione Europea, dice che l’Europa è lo spazio privilegiato della speranza umana. Occuparsi dei cambiamenti climatici è proprio questo: pensare al futuro e dare speranza alle generazioni che verranno e credo che anche le leadership europee si definiranno sulla base dell’impegno in questa direzione. E qui sta la distanza fra l’Italia e gli altri grandi paesi europei. Abbiamo molta strada da fare per recuperare il tempo perso e i passi compiuti nelle manovre economiche degli ultimi anni devono diventare un pilastro degli indirizzi politici generali. L’Italia, però, può marciare in questa direzione con più ef-

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ficacia e decisione, proprio scommettendo sui propri talenti e sulla forza dei territori, sulle risorse naturali e culturali e pensare a un futuro che parta dalle straordinarie risorse che il nostro Paese possiede. Dico questo perché la sfida dei mutamenti climatici ci propone da un lato un’azione a livello europeo, a livello internazionale, a livello tecnologico, a livello scientifico, ma dall’altro anche la valorizzazione di un profilo del nostro Paese che può essere messo in movimento se sappiamo indicare una via con chiarezza. La prospettiva è quella di un’Italia orgogliosa, protagonista nelle politiche per l’ambiente, che ha per missione la qualità legata al territorio e al suo straordinario patrimonio storico-culturale, alla coesione sociale, ai saperi, alla creatività, alle bellezze naturali. Una prospettiva che già oggi è molto presente in tanti settori della nostra società, ed è convincente, ha fascino, è mobilitante. Parla all’Italia profonda e all’economia più competitiva. Pol.is: Politica ambientale significa, nella sostanza, riconsiderare, e in modo non marginale, l’economia

Pensare al futuro: sulla base di questo impegno si definiranno le leadership europee


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L’Italia potrà trasformare i vincoli ambientali in una grande occasione di rilancio economico reale e quella finanziaria, l’imputazione dei costi e la formazione dei prezzi. Ciò risulta particolarmente evidente in questo periodo di concomitanza tra la più grande crisi economico-finanziaria dal 1929, da una parte, ed emergenza ambientale, dall’altra. Di fatto, le politiche economiche spesso prescindono dai limiti ambientali. Come può la politica ridurre tale distanza? Realacci: L’ambiente è una delle chiavi per affrontare la crisi. L’Italia ha molto terreno da recuperare ma anche molte frecce al suo arco per trasformare i vincoli in materia ambientale in una grande occasione per rilanciare la nostra economia. È la via della green economy dalla

quale, è stato stimato, potranno scaturire nei prossimi cinque anni oltre un milione di posti di lavoro tra nuovi occupati e qualificazione delle imprese esistenti. Quando parliamo di green economy pensiamo ad una sfida trasversale che comprende moltissimi settori e coinvolge decine di migliaia di imprese: dal settore dell’edilizia a quello dei trasporti, dagli elettrodomestici alle fonti rinnovabili, dal turismo all’agricoltura di qualità, dall’high tech al riciclo dei rifiuti, dalla diffusione di prodotti e di processi produttivi innovativi ed efficienti, alla creazione di nuova occupazione qualificata, in una forte spinta all’esportazione di processi e prodotti eco-efficienti. La green economy in salsa italiana, inoltre, incrocia la propensione alla qualità tipica di molte produzioni del nostro paese e la riconversione in chiave ecosostenibile di comparti tradizionali legati al manifatturiero.

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lla vigilia dell’assemblea dell’Onu a Copenhagen il magazine del Corriere della Sera (sulla copertina, la foto di un orso bianco appollaiato su un pezzo di ghiaccio, strappa il cuore solo a guardarlo) pubblica la prefazione del nuovo libro “La Scelta. Come possiamo risolvere la crisi climatica” di Al Gore. La prosa si addice al rango di premio Nobel dell’ex vicepresidente USA: frasi ad effetto, antichi proverbi africani, evocazione della missione storica per la nostra generazione, solenne promessa che l’accordo internazionale porterà alla vittoria dell’umanità contro il riscaldamento globale e insieme ad essa la soluzione “una volta per tutte (…) ai flagelli della povertà estrema, delle malattie, della fame...”. Altrimenti, nel caso di un mancato accordo immediato, l’umanità è condannata ad affrontare “catastrofi inimmaginabili” compresa l’estinzione in un centinaio di anni. Ambiente e retorica, connubio rischioso Questa rappresentazione dei cambia-

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menti climatici (la stessa di molti media in tutto il mondo e delle organizzazioni ambientaliste internazionali, compresa la mia) è alla base della strada intrapresa dall’Europa per sancire a Copenhagen, anche attraverso iniziative unilaterali, la propria leadership ambientale in campo mondiale. Ma l’eccesso di retorica non riesce a nascondere i numerosi punti deboli di questa strategia e finisce, paradossalmente, per ampliarne i rischi di fallimento. A cominciare dall’analisi del problema, il sospetto è che le previsioni catastrofiche dell’IPCC, l’organismo intergovernativo che riunisce climatologi di tutto il mondo, siano state accreditate più per effetto mediatico che per consenso scientifico, finendo per alterare l’ordine di priorità delle emergenze ambientali del pianeta, alcune delle quali hanno cause certe e solu-

Le previsioni catastrofiche finiscono per alterare l’ordine di priorità delle emergenze ambientali


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Ciò che manca per un accordo mondiale è il consenso su un quadro certo di costi e opportunità zioni riconosciute ma mancano di qualsiasi sponsorizzazione politica. Ciò che manca davvero al primo grande accordo mondiale sull’ambiente non sono le emozioni che risultano, anzi, sovrabbondanti, ma il consenso su un quadro certo di opportunità e di costi che la comunità mondiale dovrebbe condividere per prevenire non solo i possibili disastri ambientali dovuti al riscaldamento globale ma, soprattutto, per risolvere quelli già in atto, causati con certezza dall’uso squilibrato e inappropriato dell’energia e delle risorse naturali e dal ritardo di innovazioni tecnologiche in grado di garantire l’evoluzione delle società con minori costi esterni a carico dell’equilibrio ambientale planetario e locale. L’approccio basato sulla paura della catastrofe climatica paventata, spinge all’obbligo di riduzioni delle emissioni di CO2 nei paesi avanzati, da implementare subito con qualsiasi mezzo e a qualsiasi prezzo. L’accordo è difficile perché richiede ingenti investimenti da parte dei paesi avanzati, già attanagliati dalla crisi economica, per l’uso immediato di tecnologie non ancora competitive

né interamente sostitutive dei combustibili fossili. Per parte loro, i paesi emergenti, che hanno una minore responsabilità storica sulle cause antropiche del riscaldamento globale, rivendicano il diritto a raggiungere più alti livelli di sviluppo economico aumentando le proprie emissioni da fonti tradizionali. Poiché il riscaldamento è un effetto globale, il rischio che la strategia risulti vanificata, è alto. Il nucleare come “effetto secondario” Inoltre, la drammatizzazione estrema del fenomeno del riscaldamento globale sta già portando ad un paradossale “effetto secondario”. Quello che, indipendentemente dall’esito degli accordi internazionali, a fronte degli alti costi e degli scarsi rendimenti delle fonti rinnovabili, gli investimenti dei paesi sviluppati e dei paesi emergenti si concentrino prevalentemente sul nucleare, l’unica tecnologia percepita come adeguata a sostituire le fonti fossili perché con pochi impianti è in grado di produrre grandi quantitativi di elettricità. Oltre alla beffa per il movimento ecologista internazionale, che ha così fornito la principale spinta al rilancio di un settore industriale decotto dopo 20 anni di sostanziale blocco di ordini di nuovi impianti, questa prospettiva non è desiderabile per molte ragioni. Oggi, nel mondo sono in funzione 440 centrali nucleari localizzate in

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31 paesi, più dell’80% in Europa, Nord America e Giappone. L’energia nucleare copre il 7% dei consumi mondiali di energia primaria ovvero il 17% di elettricità. Un conto sommario sulle previsioni al 2030 dice che per sostituire il petrolio, metà del carbone e metà del gas nella produzione termoelettrica mondiale servirebbero 1.500 centrali da 1 MW in aggiunta a quelle esistenti. Per sostituire nel settore civile, metà del gas e metà del petrolio per uso di riscaldamento occorrerebbero circa 1.000 centrali. Ne servirebbero 4.000 per sostituire, nel settore dei trasporti, metà del petrolio con idrogeno prodotto per elettrolisi. Si tratterebbe nel complesso di oltre 7.000 impianti nucleari sparsi in tutte le aree del pianeta, di cui un centinaio in Italia. L’insostenibile pesantezza del nucleare Uno scenario che inquieta sotto il profilo geopolitico e della sicurezza internazionale, basti pensare all’attuale controversia sugli impianti iraniani. Il fatto che le sue dimensioni non appaiano realistiche non toglie che la riapertura, anche parziale, dei programmi nucleari sia già ritenuta da molti governi una “condizione indispensabile” a raggiungere gli obiettivi indicati dall’IPCC a lungo termine, finendo per assorbire la quasi totalità delle risorse economiche disponibili. In Italia, ad esempio, l’avvio di un programma di “sole” 4 cen-

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trali, finirà per aggiungere un ulteriore fardello sul futuro del Paese in aggiunta a quello pesantissimo del debito pubblico accumulato negli anni settanta e ottanta, che oggi frena gli investimenti utili, come quelli in ricerca e sviluppo. Quello del nucleare è un costo ingente, non chiaramente definito, che finirebbe anch’esso a carico dei consumatori ma con la garanzia dello Stato, in aperto contrasto con la liberalizzazione del mercato dell’energia, ancora in corso di attuazione. Ed è oltremodo condizionante per il futuro: entrare nel ciclo del nucleare è costoso e relativamente facile, uscirne è costosissimo e difficilissimo, come dimostra l’esperienza tedesca. Diverse e più razionali premesse politico-culturali ai problemi ambientali dovuti alla domanda di energia dovrebbero indurre la comunità internazionale a rivolgere il massimo di attenzione alla cooperazione internazionale indirizzando gli investimenti dei paesi sviluppati là dove è possibile ottenere maggiori risultati con minori costi. Inoltre, puntare ad accordi che favoriscano l’efficienza energetica, la razionalizzazione della domanda

Entrare nel ciclo del nucleare è costoso e relativamente facile, uscirne è costosissimo e difficilissimo


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Il contributo dell’efficienza energetica sopravanza quello delle altre opzioni tecnologiche e l’innovazione tecnologica, piuttosto che sull’obbligo ad operare tagli onerosi, aiuterebbe ad ottenere il consenso e ad abbreviare l’indispensabile periodo di transizione verso fonti rinnovabili interamente sostitutive dei combustibili fossili ed economie ambientalmente sostenibili. Il rapporto della IEA Non mancano le analisi utili a prefigurare soluzioni realistiche. Una delle valutazioni più approfondite delle opzioni tecnologiche per ridurre le emissioni a lungo termine è quella realizzata dall’International Energy Agency (IEA) col rapporto periodico Energy Technology Perspectives (ETP). Il rapporto evidenzia, in un’ottica di scenario, il contributo delle diverse opzioni tecnologiche alla riduzione desiderata delle emissioni globali, basandosi su rassegne settoriali che analizzano le prospettive di sviluppo delle tecnologie e di miglioramento della loro competitività in funzione di diversi fattori. Un primo scenario del rapporto ETP, ACT Map, si contraddistingue per il raggiungimento del picco delle emissioni globali di CO2 fra il 2020 e il 2030, e per una suc-

cessiva riduzione e stabilizzazione delle emissioni al 2050. In questo scenario, emerge che il contributo delle opzioni tecnologiche basate sull’efficienza energetica è del 63% circa, sopravanzando ampiamente il contributo delle altre opzioni tecnologiche. Anche nello scenario più spinto dell’IEA, denominato BLUE Map, che simula una riduzione del 50% delle emissioni globali di CO2 entro il 2050, compatibile con l’obiettivo minimo raccomandato dall’IPCC, il contributo dell’efficienza dei processi e dei prodotti ammonta al 53%, sopravanzando il contributo derivante dalle fonti rinnovabili (21%), quello della cattura, e sequestro del carbonio (19%), e del nucleare (6%). Efficienza energetica, soluzione ragionevole Queste valutazioni provano che, nei diversi scenari, l’efficienza energetica rappresenta il potenziale di riduzione di emissioni più importante in assoluto, anche a lungo termine. Se consideriamo che le misure di efficienza energetica sono immediatamente realizzabili, convenienti sotto il profilo economico e che si rivelano le uniche utili a razionalizzare la domanda di energia evitando sacrifici drastici in termini di servizi accessibili, dobbiamo concludere che esse dovrebbero rappresentare una priorità rispetto a tutte le altre opzioni considerate, da perseguire attra-

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verso strategie appropriate, realistiche e trasparenti. Le soluzioni ragionevoli, tuttavia, fanno fatica ad affermarsi perché non hanno la forma grandiosa di una “intesa epocale”. Non soddisfano le previsioni catastrofiche dell’IPCC, non si prestano alla logica del “comando e controllo”. E non rispondono né alle suggestioni mediatiche né agli interessi costituiti. Potrebbero però affermarsi, nonostante tutto, se qualcuno decidesse di dimostrarne sul campo l’efficacia, adattandole alle condizioni generali e puntando su di esse con convinzione. Sarebbe questa, secondo gli Amici della Terra/Italia, una strada praticabile per l’Italia, anche all’interno di un quadro ristretto come quello europeo del 20-20-20. Italia: tra ritardi e primati L’indagine condotta dagli Amici della Terra sul posizionamento dell’Italia negli indicatori su energia e clima evidenzia che il nostro paese è in grave ritardo nel rispetto degli obiettivi della politica climatica europea, sia con riferimento a quelli di Kyoto per il periodo 2008-2012, sia in relazione agli obiettivi nazionali al 2020 impliciti nel pacchetto energia e clima, appena approvato dall’UE. Tuttavia, se esaminiamo i dati reali, emergono alcuni primati nel campo dell’efficienza energetica che, spesso, il paese non conosce e, dunque, non valorizza in termini politici e di siste-

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ma. Ad esempio, l’Italia registra il livello più basso di consumi energetici per unità di PIL, ponendosi al primo posto nella classifica dei paesi europei (EU15) per intensità energetica finale, aggiustata in base a parità di potere d’acquisto, condizioni climatiche e struttura del sistema industriale, sopravanzando Germania e Regno Unito che si collocano anch’essi sotto la media comunitaria, e staccando nettamente Francia, Spagna e Olanda che invece consumano più della media comunitaria in relazione al proprio PIL.1 Si tratta, in generale, della rendita di posizione che deriva dai miglioramenti di efficienza seguiti alla crisi petrolifera del 1973, che si è assottigliata nel tempo (non si registrano miglioramenti del livello di intensità energetica finale dal 1986), ma che rappresenta un patrimonio di conoscenze, di tecnologie e di tradizioni di grande valore, su cui è possibile puntare con convinzione per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni e per incrementare la competitività sui mercati globali dei nostri beni e servizi, opportunamente innovati. Lo dimostra il recente accordo strategico

Le soluzioni ragionevoli faticano ad affermarsi perché non hanno la forma grandiosa di un’“intesa epocale”


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L’Italia registra primati di efficienza energetica non valorizzati in termini politici della Fiat negli Stati Uniti, reso possibile dalla sua posizione di primato europeo in termini di emissioni di CO2/km. Una delle eccellenze in termini di efficienza raggiunte dal nostro Paese è quella relativa al settore termoelettrico: qui, in base ai dati dell’Agenzia internazionale dell’energia, l’Italia è al primo posto fra i grandi paesi a livello globale, con il 45% di efficienza e supera del 17% la Germania (38.5%) e del 25% la Polonia (36%)2. Dall’analisi dettagliata della situazione attuale, tuttavia, emergono con chiarezza anche i settori relativamente più arretrati che costituiscono la priorità d’intervento, come il riscaldamento del settore residenziale e i trasporti merci e passeggeri. In termini di potenziale di miglioramento, gli interventi di efficienza energetica economicamente convenienti con le tecnologie immediatamente utilizzabili riguardano tutti i settori di trasformazione e di uso finale dell’energia e, quindi, costituiscono un’area di investimento imprescindibile per uscire dalla crisi economica. Il risparmio energetico Fra le varie opzioni per la riduzione

delle emissioni di CO2 (come le fonti rinnovabili, la cattura e il sequestro del carbonio, l’elettricità da nucleare, etc.), gli interventi di efficienza energetica sono fra i pochi a non avere costi sociali netti per tonnellata di CO2 ridotta, anzi generalmente essi presentano un vantaggio economico netto per la collettività 3. La recente valutazione dell’ENEA dei costi di abbattimento delle emissioni in Italia al 2020 evidenzia infatti che le uniche opzioni tecnologiche con benefici sociali netti o con costi minimi sono quelle riconducibili al miglioramento dell’efficienza energetica nell’industria, nel terziario, nel trasporto, nell’edilizia residenziale e nella produzione e trasmissione di elettricità, per un potenziale complessivo di riduzione delle emissioni di circa 60 Mt CO2 nel 2020 rispetto ad uno scenario tendenziale. L’apporto dell’efficienza energetica, quindi, si conferma prioritario rispetto alle altre opzioni anche per il rispetto del nuovo impegno di riduzione delle emissioni di gas serra richiesto dall’Europa, riferito al 2020 (Italia 16,3% rispetto al 2005, equivalente al -4% rispetto al 1990). Prendendo come riferimento il potenziale di risparmio energetico al 2020 nel solo settore dell’elettricità, si potrebbero evitare 73 TWh di energia elettrica, cioè il 21,6% dei consumi finali lordi del 2008 (337,6 TWh)4. Questo enorme potenziale di risparmio energetico al 2020 cor-

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Efficienza energetica. Punto di forza per l’Italia, conveniente per l’Europa, più intelligente per tutti di Rosa Filippini

risponde alla produzione elettrica di circa 8 grandi centrali nucleari (da 1300 MW, taglia ipotizzata dal nostro governo) mentre il potenziale di risparmio realizzabile a breve termine, con le misure vigenti, ammonta a 19 TWh (potenziale al 2012 col sistema dei certificati bianchi). Questo significa che l’efficienza energetica costituisce un’alternativa credibile all’energia nucleare o, almeno, che essa consente di operare scelte strategiche, quali che esse siano, in modo più consapevole e calibrato alle esigenze effettive del nostro paese. Benefici a costi minori Anche in tema di incentivi, è significativo il confronto fra i 320 milioni di euro di costi per lo Stato (cui fanno fronte, in virtù dei risparmi annui ottenuti dagli utenti, benefici netti per 1,2 miliardi di euro) del principale meccanismo di promozione dell’efficienza energetica, i certificati bianchi, e gli oneri per gli utenti degli strumenti di incentivazione delle fonti rinnovabili, che l’Autorità per l’energia elettrica e il gas prevede crescere dagli attuali 2,5 miliardi di euro fino a 6,5 miliardi nel 2020. Un confronto più pertinente può essere

L’efficienza energetica costituisce un’alternativa credibile all’energia nucleare realizzato a parità di energia primaria: mentre i certificati bianchi comportano un beneficio netto di 555 euro/tep risparmiato, i certificati verdi dei grandi impianti alimentati con fonti rinnovabili comportano un onere stimabile sulla componente energia della bolletta di 474 euro/tep (energia elettrica incentivata, espressa in termini di energia primaria) e il conto energia per il fotovoltaico aumenta l’onere a 1925 euro/tep (ricadente in bolletta attraverso la componente A3). Come si vede occorrono misure coerenti e di buon governo. Occorre riconoscere le migliori caratteristiche del sistema Italia – tecnologiche, produttive e territoriali – facendo di un’efficienza spinta il punto di forza della strategia energetica nazionale, la proposta forte per risultati tempestivi nella lotta globale ai cambiamenti climatici, e il passaggio obbligato verso una società europea sostenibile.

Fonte: ADEME, Odissee, energy efficiency indicators in the EU15: indicators an policies (2007) Fonte: IEA (2008) 3 Cfr: ENEA (2009), Rapporto energia e ambiente 2008. 4 Il terawattora (simbolo TWh) è un multiplo del wattora (Wh) ed equivale a 1.000.000.000.000 Wh (1012 Wh). 1 2

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e preoccupazioni per i cambiamenti climatici in atto e l’innegabile pregio delle centrali nucleari di essere esenti dall’emissione di gas serra hanno contribuito a far sorgere intorno all’energia prodotta dall’atomo un nuovo interesse, dopo un periodo in cui le prospettive di ripresa e di sviluppo della fonte nucleare erano ragionevolmente apparse ai più del tutto remote, se non addirittura inesistenti. Non è infatti solo in Italia che il discorso è stato riaperto, ma anche i governi di altri paesi, quali ad esempio la Svezia e la Germania, dove, in particolare, in passato era stata presa la decisione di rinunciare alle centrali nucleari, sia pure attraverso un percorso di lungo periodo, hanno riconsiderato o stanno riconsiderando la questione. Si tratta di ri-

I ripensamenti sul nucleare sono il segnale di un mutamento del clima generale

pensamenti che, come già a suo tempo la rinuncia, non sono destinati a produrre effetti immediati, ma sono pur sempre il segnale di un qualche mutamento del clima generale. D’altra parte il mutamento non sembra ancora sufficiente a far ritenere che la concreta attuazione di programmi nucleari, almeno nel nostro paese, possa avvenire senza incontrare opposizioni e senza più suscitare quei contrasti che l’inattualità del discorso aveva forse reso negli anni recenti meno aspri, ma che non si sono mai del tutto sopiti. Limiti reali e rischi percepiti Contro la scelta nucleare continuano ad essere avanzate riserve in merito alla convenienza economica e vengono prospettate difficoltà di carattere finanziario, queste ultime legate alla necessità di forti investimenti, destinati tra l’altro a restare infruttiferi per il lungo periodo necessario a che una nuova centrale cominci a produrre energia, con rischi aggiuntivi per il capitale causati dell’ineliminabile controversia che accompagna la scelta. L’esperienza

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che si sta facendo in Finlandia, paese che ha da tempo avviato la costruzione di una nuova centrale e dove si stanno registrando notevoli ritardi rispetto ai programmi originariamente fissati, mostra la difficoltà di comprimere in modo significativo i tempi di realizzazione. Ma l’opposizione più forte, che potrebbe rendere assai ardua l’individuazione dei siti, è quella legata alla pericolosità che, vera o presunta, viene attribuita a quella fonte di energia. Sotto questo profilo si direbbe che gli oltre venti anni trascorsi da quando gli impianti nucleari italiani vennero definitivamente spenti, anziché aiutare a porre i rischi radiologici in una più equilibrata prospettiva nell’ampio contesto dei rischi di origine antropica, abbiano finito col radicare in larghi strati della popolazione la percezione di una loro indifferenziata inaccettabilità ed un’avversione che prescinde dalla loro effettiva, graduabile entità. Per avere una conferma di ciò basta pensare all’attenzione, e talvolta al vero e proprio allarme, che destano le notizie di incidenti – in realtà spesso semplici malfunzionamenti privi di conseguenze esterne – in impianti nucleari esteri. Ma, in realtà, quali sono i rischi per la salute e per l’ambiente che il nucleare comporta? Cerchiamo di vederlo, sia pure in estrema sintesi. Come primo punto, è senz’altro lecito affermare che dal normale

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funzionamento di una centrale nucleare, considerando anche i piccoli guasti e le anomalie in qualche misura inevitabili in sistemi tecnologici complessi, non deriva alcun rischio apprezzabile: le immissioni di radioattività nell’ambiente attraverso lo scarico degli effluenti liquidi ed aeriformi sono molto contenute e le dosi di radiazioni conseguenti per gli individui della popolazione maggiormente esposti sono minori delle oscillazioni delle dosi dovute al fondo ambientale preesistente. La valutazione degli effetti sanitari derivanti da tali esposizioni, effettuata secondo una correlazione dose-danno basata sul principio di precauzione, la correlazione cosiddetta lineare senza soglia, porta a valori, pur sull’arco di decenni, del tutto privi di significatività. È pur vero che vi sono teorie secondo le quali le basse dosi presentano una particolare pericolosità, ma i loro fondamenti scientifici non sembrano più solidi di quelli delle teorie ormetiche, di segno opposto. La normativa italiana Va anche detto che le leggi vigenti in Italia pongono limiti particolar-

L’esperienza della Finlandia mostra la difficoltà di comprimere i tempi di realizzazione


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Le leggi vigenti in italia pongono limiti particolarmente severi sui livelli di radioattività mente severi alle immissioni di radioattività nell’ambiente, risultando in ciò più stringenti di quelle degli altri paesi della stessa Unione Europea, pure soggetti alle medesime direttive di radioprotezione: la normativa italiana impone che tali immissioni da parte di una qualsiasi installazione – sia che si tratti di una centrale nucleare, di un deposito di rifiuti radioattivi o, ancora, di una installazione di tipo ospedaliero – siano tanto limitate da comportare alla popolazione dosi non superiori ad un determinato valore, internazionalmente individuato come livello di dose trascurabile, equivalente a meno di un centesimo del fondo naturale medio. Per gli standard fissati dall’AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, e per le direttive comunitarie tale valore costituisce la condizione per la quale un’attività con sorgenti di radiazioni ionizzanti può essere addirittura esentata dal rispetto della regolamentazione in materia. Di fronte alla severità di questa particolare disposizione, vi è chi vorrebbe oggi riallineare la normativa italiana a quella della media dei paesi europei. Al riguardo, sembrerebbe

tuttavia inopportuno che il rilancio del nucleare in Italia venisse fatto coincidere con una riduzione del livello di prudenzialità delle leggi di settore, considerato anche il fatto che esse non rappresentano comunque un impedimento a tale rilancio. Il rischio di incidenti Senz’altro più complessa è la questione dei possibili incidenti. Si è già detto che piccoli guasti o malfunzionamenti possono essere considerati parte della normalità: l’impianto deve saper rispondere ad essi senza che vi sia alcun apprezzabile effetto esterno. A caratterizzare gli incidenti ai fini della loro rilevanza per la salute e per l’ambiente vi sono due punti cruciali. Il primo è rappresentato dall’integrità del combustibile nucleare: fino a quando essa è mantenuta, la quasi totalità della radioattività rimane confinata all’interno del combustibile stesso e le conseguenze esterne di un incidente restano molto limitate, per non dire trascurabili. L’integrità del combustibile può essere minacciata, nel corso di un incidente, da un eccessivo aumento della sua temperatura o della produzione di energia. Per evitare che ciò accada è presente sull’impianto una serie di sistemi di sicurezza ridondanti, che intervengono garantendo la necessaria refrigerazione. In caso di un loro fallimento, la temperatura del combustibile può sa-

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lire fino a determinare la sua fusione ed il conseguente rilascio di quantità massicce di radioattività. Ma, per quanto disastroso sia già a questo punto l’incidente sotto il profilo impiantistico, non siamo ancora necessariamente alla catastrofe ambientale. Cruciale in tal senso – e siamo al secondo dei due punti – è la tenuta del contenimento, un robustissimo, grande involucro dotato di sistemi ausiliari, che racchiude al suo interno il reattore e che ha lo scopo di impedire che i rilasci di radioattività escano all’esterno. Se il contenitore resta integro, gli effetti dell’incidente restano ancora limitati; il suo cedimento porta invece alle conseguenze più pesanti. È chiaro che l’incidente catastrofico è quindi il risultato di una catena di eventi sfavorevoli, ciascuno dei quali è peraltro di per sé improbabile, e la sua probabilità complessiva è pertanto estremamente bassa. Per quanto riguarda il rischio individuale, si valuta, con metodi analitici che hanno ormai raggiunto una buona maturità, che la probabilità per una persona di subire danni sanitari per effetto di un incidente nucleare sia dell’ordine di una su cento milioni all’anno, valore che tiene conto non solo della probabilità dell’incidente in sé, intorno a una su un milione all’anno, ma anche dell’esistenza di piani di emergenza e della probabilità che all’esposizione faccia effettivamente

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L’incidente catastrofico è il risultato di una catena di eventi altamente improbabili seguito un danno sanitario. Il rischio è evidentemente trascurabile a fronte del complesso delle possibili diverse cause di danni simili. Il rischio ambientale Più difficile è la sintesi per quanto attiene al rischio ambientale connesso a possibili incidenti catastrofici, rischio costituito soprattutto dalla perdita di ampie aree che rimangono a lungo indisponibili. In questo caso, la stima della probabilità deve tenere conto del numero dei reattori programmati e degli anni di funzionamento per essi prevedibili, oggi circa sessanta. Il giudizio di accettabilità di un simile rischio, che comporta la valutazione di parametri eterogenei e la graduazione di interessi e di valori diversi, non può che costituire una responsabilità di carattere eminentemente politico, una responsabilità richiamata dal primo dei principi della radioprotezione codificati negli standard internazionali e fatti propri dalla legge italiana: ogni attività che comporti rischi di esposizione alle radiazioni ionizzanti deve essere giustificata dai benefici, economici o sociali o di altro tipo che da essa discendono.


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I rifiuti radioattivi Infine, la questione ambientale che forse ancor più spesso della stessa sicurezza viene sollevata contro l’energia nucleare: la produzione di rifiuti radioattivi che essa comporta. Quanto i rifiuti radioattivi siano percepiti come pericolosi lo dimostra anche il fatto che in Italia, nonostante le numerose iniziative e le discussioni che si protraggono ormai da almeno una dozzina di anni, non si è ancora riusciti a individuare una soluzione – in pratica un sito ove realizzare un deposito nazionale – per mettere definitivamente in sicurezza i rifiuti prodotti dalle passate attività nucleari e quelli che continuano ad essere prodotti dall’impiego, soprattutto in campo medico, delle sorgenti radioattive. Ciò, pur se la necessità di una simile soluzione sia unanimemente condivisa e pur se esista già una legge che prevede non simboliche misure compensative per gli enti locali nel cui territorio il sito potrà essere individuato. Quello dei rifiuti radioattivi è indubbiamente un problema di grande complessità, anche per le sue implicazioni di natura concettuale, in particolare il trasferimento di oneri

Esistono soluzioni tecnologiche per gestire in sicurezza i rifiuti radioattivi

e ipoteche sulle generazioni future, implicazioni che non caratterizzano peraltro la sola energia nucleare, pur se questa ha finito col costituirne un po’ l’emblema. In realtà, le soluzioni tecnologiche che consentono di gestire in sicurezza i rifiuti radioattivi esistono. Per i rifiuti la cui radioattività decade totalmente, o quasi, in alcune decine o alcune centinaia di anni (i rifiuti cosiddetti di seconda categoria, sulla base della classificazione dell’ente di controllo) la soluzione che appare più idonea per la realtà italiana e che è stata da tempo da più parti prospettata consiste in un deposito ingegneristico superficiale, costituito da robustissime strutture in cemento armato, dove i rifiuti vengono immagazzinati dopo essere stati condizionati, trasformati cioè a loro volta in blocchi monolitici di cemento. Rispetto alla soluzione alternativa, quella dello smaltimento in siti geologici profondi, il deposito superficiale ha il vantaggio di una più immediata verificabilità delle condizioni dei rifiuti e della possibilità di un loro recupero in caso di anomalie. Si tratta insomma di una soluzione reversibile, pur se idonea ad essere attuata come soluzione definitiva. I rifiuti di terza categoria Per i rifiuti caratterizzati da tempi di decadimento di migliaia di anni – i cosiddetti rifiuti di terza categoria,

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costituiti essenzialmente dalle scorie del riprocessamento del combustibile irraggiato o dal combustibile irraggiato stesso, nel caso in cui si scelga di non riprocessarlo – lo smaltimento in formazioni geologiche profonde costituisce oggi, in termini di soluzione definitiva, la via obbligata per assicurare l’isolamento della radioattività dall’ambiente anche quando la sorveglianza sarà cessata. Questa soluzione offre garanzie che possono essere ritenute sufficienti: attraverso gli studi geologici appropriati si è oggi in grado di individuare formazioni geologiche, ad esempio depositi salini o argillosi, che assicurano la necessaria stabilità per i periodi di tempo necessari, mentre lo studio della mobilità della radioattività naturalmente presente in formazioni simili a quelle candidabili ad ospitare il sito (i cosiddetti analoghi naturali) prova la capacità del sito medesimo a mantenere confinati i radionuclidi che vi verranno immessi, anche dopo che le barriere artificiali, costituite mediante il condizionamento e il confezionamento dei rifiuti stessi, potranno aver ceduto. Tuttavia, la sostanziale irreversibilità dello smaltimento geologico e l’assenza di un’effettiva urgenza di dare sistemazione definitiva ai rifiuti di terza categoria, considerato che la loro quantità è proporzionalmente molto limitata, suggerisce di non affrettare la decisione della sua concreta attuazione, ma di mantenere

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ancora i rifiuti, e soprattutto il combustibile irraggiato, in una condizione di recuperabilità, e ciò a prescindere dal fatto che l’individuazione del sito di smaltimento geologico richiede comunque lunghe ed approfondite verifiche delle effettive prestazioni dei singoli siti candidati. Ancor più che una questione di prudenza a fronte di eventuali anomalie, la recuperabilità del combustibile consentirebbe un domani di utilizzare per esso i risultati delle ricerche di metodi di gestione alternativi che si stanno prospettando. Si tratterebbe quindi di utilizzare per l’immediato depositi temporanei di lungo termine, costituiti da strutture ingegneristiche progettate e realizzate all’uopo, capaci di offrire per un periodo di diverse decine di anni tutte le garanzie di sicurezza, ivi inclusa, se richiesta nel progetto, la resistenza a possibili atti terroristici. Il controllo per la sicurezza In questa breve panoramica, i problemi ambientali e di sicurezza connessi all’energia nucleare sono stati discussi esclusivamente sotto il profilo tecnico. È bene tuttavia sottolineare, in conclusione, che la sicurez-

L’individuazione dei siti di smaltimento richiede lunghe e approfondite verifiche


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Massimo rilievo va dato all’ente cui sono affidate le funzioni regolatorie e di controllo za non è legata solo ad aspetti propriamente tecnologici, ma dipende, e non marginalmente, anche dal sistema delle istituzioni e delle organizzazioni che, con differenti ruoli, quelle tecnologie sono chiamate a gestire e dalla sua complessiva efficienza. Sotto questo profilo un rilievo del tutto particolare va dato all’ente cui sono affidate le funzioni regolatorie e di controllo. Con le recenti disposizioni legislative che hanno delineato il quadro per la ripresa del nucleare in Italia è stata

istituita una nuova agenzia interamente dedicata ai controlli di sicurezza e di radioprotezione sugli impianti nucleari, dopo che tali compiti per quindici anni sono stati affidati all’ente preposto alla protezione dell’ambiente, prima ANPA, poi APAT e infine ISPRA. Il nuovo soggetto non è ancora operativo; perché lo divenga è necessario che il governo emani lo statuto ed il regolamento, proceda alle nomine degli organi, gli assegni le risorse di personale, quelle tecniche e quelle finanziarie. Si tratta di passaggi fondamentali per assicurare alla nuova agenzia la competenza, l’indipendenza e l’autorevolezza essenziali affinché possa svolgere con credibilità la sua difficile funzione.

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L’informazione statistica nella governance ambientale

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e strategie politiche adottate a livello internazionale in questi ultimi venti anni hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo di programmi statistici, per rappresentare e monitorare l’innovazione e la sostenibilità del cambiamento ambientale.

Strategie per l’innovazione e la sostenibilità ambientale Tra i primi fondamenti delle politiche sullo sviluppo sostenibile vi sono l’Agenda 21, la Dichiarazione di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo e l’affermazione di principi per la gestione sostenibile delle foreste adottati da più di 178 governi nella Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. La Commissione sullo sviluppo sostenibile è stata creata nel 1992 per monitorare l’attuazione degli impegni presi nella Conferenza su ambiente e sviluppo delle Nazioni Unite e gli accordi scaturiti a livello internazionale, nazionale e locale. L’incontro mondiale sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg del 2002 riconferma

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questi principi ed impegni. A livello europeo, con il Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000, l’Unione approva la cosiddetta “strategia di Lisbona”, che ha l’obiettivo strategico di realizzare nel decennio un’economia basata sulla conoscenza, più concorrenziale e dinamica, secondo un’ottica di sviluppo sostenibile, compatibile con livelli occupazionali più elevati e con maggiore coesione sociale; questa strategia è rivista e rinnovata nel giugno 2006. Si avvia in tal modo un processo che porta alla condivisione di liste di Indicatori strutturali sui temi occupazione, innovazione, riforma economica e coesione sociale, con i quali è monitorato il progresso compiuto nella strategia. Con il Consiglio di Gotheborg del giugno 2001 si approva la strate-

Con il Consiglio di Gotheborg la dimensione ambientale entra nella strategia di Lisbona


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Anche i paesi in via di sviluppo stanno raccogliendo informazioni statistiche gia europea per lo sviluppo sostenibile, aggiungendo la dimensione ambientale nella sostenibilità già prevista dalla strategia di Lisbona. Il Consiglio dà indicazioni di priorità ambientali in tema di cambiamenti climatici, trasporti, minacce alla salute pubblica, gestione responsabile delle risorse naturali e avvia un processo istituzionale nel quale gli Stati membri dovranno adottare strategie nazionali per lo sviluppo sostenibile, con processi di consultazione di tutti i soggetti interessati. L’industria è invitata a svolgere un ruolo, sviluppando le tecnologie che rispettano l’ambiente nell’energia e nei trasporti e che possano produrre il “disaccoppiamento” tra la crescita economica e lo sfruttamento delle risorse naturali. Le statistiche ambientali Nel settembre 2001, il Comitato per il Programma Statistico avvia la creazione di una task force, al fine di individuare schemi concettuali ed indicatori condivisi dai paesi membri. La lista degli indicatori di sviluppo sostenibili è individuata con la Comunicazione di Almunia ai membri della Commissione nel 2005; gli in-

dicatori sono organizzati per dieci temi,1 su tre livelli, che sono rivisti nel 2007 alla luce della revisione della strategia sullo sviluppo sostenibile adottata dal Consiglio della UE nel 2006. I temi ambientali di riferimento degli indicatori sono variazioni climatiche ed energia, trasporti, produzione e consumo, gestione delle risorse naturali, salute pubblica. A tutti gli Stati membri dell’Unione europea è chiesto un serio impegno per accrescere il patrimonio di informazioni sulle statistiche ambientali coerenti e confrontabili, per approfondire la conoscenza delle attività antropiche che modificano le condizioni e lo stato dell’ambiente, che consentono di monitorare la qualità delle risorse naturali e di verificare i progressi nel perseguimento degli impegni assunti dai vari paesi nei trattati internazionali. Questo sforzo è stato oneroso poiché il tema ambiente è “multi-domini”, il processo di conoscenza dei fenomeni in esso compresi dipende dal contributo di diverse scienze e dalla possibilità concreta di comunicazione e di interazione esistente tra diverse competenze scientifiche e tecniche. Queste strategie politiche, e la modalità di governance da esse creata, sono impulsi che hanno prodotto risultati positivi. Gli organismi internazionali (ONU ed OCSE) e l’Unione europea hanno saputo avviare comportamenti proattivi nei paesi membri, con l’aiuto degli orga-

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nismi politici e di quelli tecnici, anche con l’azione di Eurostat che ha fornito linee guida e procedure di standardizzazione per la produzione di statistiche. L’azione ha coinvolto anche i paesi in via di sviluppo, che esprimono preoccupazione per lo stato del proprio ambiente: essi hanno iniziato a dotarsi di strumenti, seppure perfettibili, per lo sviluppo delle informazioni statistiche. Alcuni paesi del bacino del Mediterraneo hanno per esempio iniziato a dotarsi di banche dati e di pubblicazioni statistiche dedicate all’ambiente, sollecitati da progetti europei. Le emissioni di gas serra: un indicatore per monitorare gli impegni internazionali Le emissioni di gas serra, che sono all’origine del riscaldamento globale, sono l’indicatore usato per definire gli impegni dei vari paesi nell’ambito del protocollo di Kyoto del 1997, allegato alla convenzione generale delle Nazioni unite sul cambiamento climatico (UNFCCC). Questo indicatore, oltre ad essere pertinente al fenomeno di riferimento e rilevante per le politiche collegate, esemplifica anche molto bene le peculiarità e le complessità dei processi di produzione di statistiche utili per ottenere un ambiente desiderabile. Elementi di riflessione derivano dalla natura e composizione, dalla misurabilità e dagli andamenti temporali dell’indicatore.

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Il protocollo di Kyoto del 1997 attribuisce le emissioni di gas serra alle emissioni di anidride carbonica (CO2), connesse principalmente all’utilizzo di combustibili fossili; al metano (CH4), la cui emissione è legata ad attività agricole, smaltimento dei rifiuti e settore energetico; al protossido d'azoto (N2O), derivante principalmente da agricoltura e settore energetico, (inclusi i trasporti), e da processi industriali. Il contributo generale all’effetto serra dei tre gas industriali fluorurati – ossia gli idrofluorocarburi (HFC), i perfluorocarburi (PFC) e l'esafluoruro di zolfo (SF6) – derivanti principalmente da attività industriali e di refrigenerazione, è minore rispetto ai precedenti. Le emissioni aggregate sono calcolate attraverso processi di stima secondo la metodologia di riferimento indicata dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e vengono espresse in equivalenti di CO2. I dati escludono le emissioni e il fissaggio dovuto alle variazioni dell'uso del suolo e foreste. Un accordo di “ripartizione degli oneri” stabilisce limiti differenziati di emissione per ciascuno Stato membro allo sco-

Il monitoraggio delle politiche rispetto agli impegni assunti dai paesi richiede serie storiche di dati


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Netto divario nell’andamento delle emissioni dell’Italia rispetto all’Europa po di assicurare che l’Ue15 consegua la riduzione totale dell’8%, rispetto ai livelli del 1990, entro il 20082012. I limiti sono espressi in punti percentuali, in base ai quali gli Stati membri devono ridurre e, in alcuni casi, mantenere o aumentare le loro emissioni rispetto al livello dell'anno di riferimento, che varia a seconda dei paesi. L’indicatore diffuso da Eurostat riporta per l’Italia e per Ue15 il 1990 come anno base, mentre per Ue27 l’anno base è precedente. L’impegno dell’Italia è di ridurre le emissioni del 6,5% nel periodo 2008-2012. Il monitoraggio dell’efficacia delle politiche e del rispetto degli impegni assunti dai paesi richiede serie storiche di dati. L’analisi dei dati per le emissioni totali di gas serra per i paesi Ue15, Ue27 e Italia evidenzia in maniera esplicita il netto divario dell’andamento delle emissioni dell’Italia rispetto a quelle dei paesi europei nel complesso. Dal 1996 al 2007 le emissioni totali dei sei gas serra diminuiscono del 5,1% per Ue27 e di 3,8% per gli Ue15. Tali riduzioni possono essere attribuite ad una sostituzione nell’uso dei combustibili a più alto impatto ambientale con combu-

stibili più “puliti” soprattutto a partire dal 2004. Il raggiungimento degli obiettivi di Kyoto (8%) sembra comunque ancora lontano, anche se alcuni paesi mostrano andamenti confortanti. Tra i 15 paesi dell’Europa, prima dell’allargamento, la Danimarca mostra una consistente riduzione percentuale dal 1996 al 2007 (-25,6%) seguita dalla Svezia (-15,3%), dal Belgio (14,6%), dalla Germania (-13,4%) e dal Regno Unito (-13,1%). Il decremento in Germania è stato determinato dal cambiamento della situazione economica nell’area della precedente Repubblica democratica. Mentre tra i nuovi paesi, ben 7 mostrano riduzioni mediamente pari al 10%; i decrementi più elevati si registrano in Bulgaria (-12,6), Polonia (-12,2%) e Romania (-18,5%). L’Italia, che rappresenta il terzo paese che maggiormente contribuisce alle emissioni di gas serra dopo la Germania e il Regno Unito, presenta un incremento dal 1996 al 2007 del 5,8%, che dal 2000 al 2007 scende allo 0,6%. La Spagna e il Lussemburgo mostrano gli incrementi superiori dal 1996 al 2007 (rispettivamente 41,8% e 23,4%); tale incremento presenta valori ridotti se analizziamo la variazione dal 2000 al 2007 per la Spagna (+14,7%), mentre in Lussemburgo continua a salire (+29,5%).2 I settori dell’economia contribuiscono in misura diversa alle emissioni di gas

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serra. Un’analisi dell’indicatore per settore che genera le emissioni, consente di individuare quelli che sono maggiormente responsabili di tali emissioni, e quali di essi dovrebbero quindi promuovere azioni per ridurle. Tale indicatore è, quindi, di estrema utilità per valutare le politiche. Le emissioni delle industrie energetiche e trasporti sono responsabili di circa il 50% del totale delle emissioni di gas serra. Nel 2007 il 32,6 % delle emissioni nei paesi Ue27 è attribuito al settore energetico. A livello Ue15, dal 1996 al 2007 per tutti i settori considerati si nota un decremento più o meno consistente (dal -9,90% di processi industriali al -34,9% dei rifiuti) ad eccezione del settore dei trasporti (che presenta un incremento dell’11,3%) ed industrie energetiche (+9,2%). L’analisi sugli ultimi anni (variazione dal 2000 al 2007) evidenzia un aumento delle emissioni non solo nei trasporti (+4,0%) e nell’industria energetica (+8,7%) ma anche un lieve incremento nei processi industriali (+0,8%). Gli orientamenti per lo sviluppo del patrimonio informativo Per lo sviluppo del patrimonio informativo si delineano due orientamenti prevalenti. Il primo è mirato a costituire per le aree di ricerca in economia ambientale e per l’ecologia, basi di dati utili per la valutazione di beni e servi-

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zi ambientali non prodotti dal mercato, ad esempio per i servizi resi dalle risorse naturali. Poiché le metodologie sono complesse e gli studi applicati che usano campioni statistici per la stima dei valori sono molto costosi, si è sviluppato un filone di ricerca che analizza il fondamento e le condizioni alle quali è possibile trasferire i risultati ottenuti in quegli studi, in situazioni relative ad altri paesi, che hanno condizioni diverse (benefit transfer). In ambito comunitario si è promosso l’avvio di questi studi, che sono pubblicati da riviste scientifiche, con risultati parzialmente positivi. Il secondo orientamento, coerente con la logica del primo, è quello che è divenuto un tema della terza Conferenza mondiale sul clima, organizzata a Ginevra “Migliore informazione sul clima per un miglior futuro” (settembre 2009). Si è riconosciuta la necessità di avvicinare i produttori di statistiche sul clima con tutti gli utenti dei servizi relativi, di accrescere le interazioni con altre iniziative di ricerca sul clima, di rafforzare gli sforzi sulla tempestività e sulla specificità delle previsioni climatiche, di migliorare le basi informative

Migliorare le basi informative per supportare le decisioni politiche


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Tutte le decisioni possono avere fondamenti informativi solidi ed i servizi a queste connesse e di rendere disponibili e accessibili banche dati, modelli climatici e previsionali e programmi applicativi: tutti sforzi utili a supportare le decisioni politiche. Su queste proposte si sono già avuti sostegni da alcuni capi di governo e da ministri. Questi orientamenti sono il risultato degli impegni dei singoli paesi, che in parte sono già consolidati ed in parte devono essere realizzati, coinvolgendo un maggior numero di paesi e di portatori di interessi. È una conferma in tal senso la strategia che la Commissione europea deve definire nel 2010 “Ue2020”, con la quale gli obiettivi della strategia di Li-

sbona e di quella dello sviluppo sostenibile, dovranno essere coniugati con l’obiettivo di consentire all’Unione europea di uscire dalla crisi. Parimenti le complesse trattative con le quali si stanno modificando le politiche sui cambiamenti climatici vanno verso il raggiungimento di accordi per un nuovo trattato globale sul clima, che coinvolga coerentemente sia i paesi sviluppati che Cina e India. I tempi entro i quali saranno ottenuti risultati sono incerti, tuttavia il percorso è individuato. Quando i paesi divengono consapevoli che quello che si misura e come lo si misura influenza quello che si fa, allora si è spianata la strada per la consapevole integrazione tra sistema delle decisioni e sistema delle informazioni che lo supportano. Ciò non implica che tutte le decisioni prese abbiano fondamenti informativi solidi, ma che certamente potrebbero averli.

NOTE I dieci temi sono sviluppo economico, povertà ed esclusione sociale, invecchiamento della società, salute pubblica, variazioni climatiche ed energia, modelli di produzione e di consumo, gestione delle risorse naturali, trasporti, buona governance, partnership globale. 2 Fonte: Eurostat 1

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uali sono le prospettive di sviluppo compatibili con l’ambiente in un pianeta caratterizzato da risorse finite, da una iniqua distribuzione della ricchezza e da un ambiente fragile sottoposto a enormi pressioni? Ogni forma di vita è continuamente alle prese con il problema di conciliare la propria innata capacità di sviluppo con le opportunità e con i vincoli che insorgono dalle sue interazioni con l’ambiente naturale. Per poter capire il reale significato di concetti quali “sviluppo sostenibile” e “sostenibilità ambientale” possono esserci di aiuto alcune analogie che spiegano il loro opposto: l’insostenibilità! La distribuzione delle luci notturne prodotte dalla nostra civiltà si configura e sviluppa non molto diversamente dalla crescita esuberante osservabile in un terreno di coltura ricco di sostanze nutritive, poco dopo che in esso siano stati introdotti dei batteri. Nel mondo limitato del terreno di coltura, questa crescita non è sostenibile. Prima o poi, via via che le popolazioni batteriche consumano le risorse disponibili e sono sommerse dai

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propri scarti (o rifiuti), al rigoglio iniziale succede una stasi e quindi l’estinzione, spesso anticipata da fenomeni di cannibalismo. L’analogia per fortuna non è perfetta, in quanto le popolazioni batteriche non hanno controllo sul loro scontro finale con un ambiente limitato, e quindi non ne hanno la piena responsabilità. Nel caso dell’uomo, invece, le stesse manifestazioni d’inventiva e di energia che tanto contribuiscono alla trasformazione della Terra permettono di conoscere con una completezza senza precedenti come funziona il Pianeta, come le attività umane attuali ne stiano minacciando il funzionamento e come sia necessario intervenire per migliorare le prospettive di uno sviluppo compatibile con l’ambiente attuale e futuro. La nostra capacità di osservarci dallo spazio esterno simboleggia il punto di vi-

La nostra capacità di osservazione comporta la responsabilità di amministrare il pianeta


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Che genere di pianeta vogliamo? Che genere di pianeta possiamo avere? sta unico che abbiamo sul nostro ambiente e sulla direzione che ha preso la nostra specie. Questa conoscenza comporta per l’uomo una responsabilità che i batteri non hanno: quella di amministrare il pianeta terra con avvedutezza. La sfida di gestire la Terra A livello individuale si è cominciato a reagire alla crescente consapevolezza delle alterazioni ambientali globali, modificando valori, convinzioni e azioni. Le modificazioni dei comportamenti individuali sono certo necessarie, ma da sole non bastano. È la nostra specie, nel suo complesso, che sta trasformando la Terra ed è solo la nostra specie nel suo complesso che, riunendo le proprie conoscenze, coordinando le proprie azioni e consumando equamente ciò che il Pianeta può realmente offrirci, ha maggiori possibilità di gestire la trasformazione della Terra secondo una prospettiva di sviluppo compatibile con le esigenze ambientali. La gestione intelligente e consapevole della Terra è una delle grandi sfide che l’umanità deve oggi affrontare seriamente. Anche se gli sforzi per gestire le interazioni fra uomo e ambiente risal-

gono agli inizi della civiltà, oggi il problema della gestione è stato trasformato da un aumento senza precedenti della velocità, dell’ampiezza e della complessità di queste interazioni. Quelli che un tempo erano casi locali d’inquinamento, oggi coinvolgono più nazioni, come dimostra il problema delle piogge acide in Europa, America Settentrionale e Cina. Quelli che un tempo erano eventi episodici responsabili di danni reversibili a breve-medio termine, oggi coinvolgono molte generazioni, come dimostrano le discussioni sullo smaltimento incontrollato di rifiuti pericolosi. Quelli che un tempo erano scontri diretti fra conservazione dell’ambiente e crescita economica oggi coinvolgono molteplici aspetti, come dimostrano le interazioni tra consumo energetico, agricoltura e cambiamenti climatici che si pensa entrino in gioco nell’accentuazione dell’effetto serra. Siamo entrati in un’era caratterizzata dalla “sindrome da cambiamento globale” che deriva dall’interdipendenza tra sviluppo umano e ambiente. Se invece di limitarci a provocare queste sindromi, vogliamo affrontarle consapevolmente, dobbiamo prendere in considerazione due domande fondamentali: che genere di Pianeta vogliamo? Che genere di Pianeta possiamo avere? Il ruolo della tecnologia La gran parte della popolazione mondiale è realmente in grado di com-

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prendere la situazione che ci troviamo a fronteggiare? Entro un periodo straordinariamente breve, questione di decenni, ci saranno da nutrire, alloggiare, educare e impiegare almeno altrettanti individui in più di quanti già vivono sulla Terra. Se si vorrà evitare il peggio, ciò potrà essere fatto solo mantenendo gravi e inique disparità, oppure adottando percorsi tecnologici e di sviluppo molto diversi da quelli attuali. Ma quanto è plausibile che tali percorsi possano essere intrapresi? Oggi si percepiscono cauti motivi d’incoraggiamento da due serie di tendenze. La prima serie riguarda cambiamenti già visibili nelle «correnti» che ci portano verso il futuro. La seconda serie concerne l’adattabilità umana che si esprime sotto forma di istituzioni, tecnologie e soprattutto idee innovative. Le pressioni sull’ambiente e i relativi effetti negativi, sono descrivibili dalla seguente equazione I=PBT. Formulata inizialmente da Paul Ehrlich della Stanford University e da John P. Holdren dell’Università della California a Berkeley, essa viene ora utilizzata per quantificare in modo semplice gli impatti ambientali negativi indotti dall’uomo. Il termine che rappresenta l’impatto (I) è funzione della popolazione (P), del livello di benessere (B) e della tecnologia disponibile (T). Pertanto questa formula rende bene ciò che sempre più viene recepito dalla coscienza comune: l’am-

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biente non è messo in pericolo solo da un’enorme crescita della popolazione, ma anche dal livello sempre più alto di benessere che essa raggiunge o dall’uso smodato e sempre crescente di energia e materie prime. Le due ragioni sono del tutto concomitanti. Il termine “tecnologia” esprime, invece, il potenziale che scienza, ricerca e società hanno per ridurre gli effetti di ogni dato livello di popolazione e di benessere sull’ambiente (risulta quindi nell’espressione un termine compreso da 0 e 1). L’economia e la tecnologia, inoltre, incoraggiano nell’industria un minor impiego di materie prime e di energia. Lo slogan è: “Fare di più con meno”. Dalla metà del XIX secolo, il carbonio usato per unità di prodotto è andato diminuendo anno dopo anno. A ciò si è contribuito usando combustibili sempre meno ricchi di carbonio e usando meno energia per unità di prodotto. Questi progressi nell’uso dell’energia non sono ancora stati, tuttavia, sufficienti a compensare la crescita mondiale dell’economia. Risulta quindi chiaro il ruolo strategico del progresso tecnologico, che potrà e dovrà garantire uno sviluppo in termini di benessere diffuso in armonia con le risorse ambientali. Pro-

Crescita della popolazione e dei livelli di benessere: due minacce per il pianeta


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Energie rinnovabili: la sfida del progresso tenologico e dell’innovazione gresso tecnologico che oggi ha come sfida principale l’innovazione, l’evoluzione e l’introduzione radicata delle energie rinnovabili. . Le energie rinnovabili Le energie rinnovabili, per esempio l’elettricità dal fotovoltaico o l’etanolo usato come combustibile, coprono attualmente meno del 7% del fabbisogno energetico degli Stati Uniti. Se escludiamo l’energia idroelettrica, la percentuale scende sotto il 4,5%. A livello mondiale, le rinnovabili forniscono solo il 3,5% circa dell’elettricità e una percentuale addirittura inferiore nel caso dei carburanti per il trasporto. Ma incrementare il loro sfruttamento, come sembra necessario per affrontare il problema dei gas serra, dei deficit commerciali e della dipendenza dalle importazioni, comporta almeno tre questioni spinose. La più ovvia è riuscire a catturare in modo economico energia dal sole, vento e coltivazioni. L’energia deve quindi essere trasferita da dove viene facilmente raccolta. A questo proposito, l’elettricità per il trasporto si deve caricare su automobili e camion usando batterie o forse sotto forma di idrogeno. Quali sono, oggi, le possibili e

perseguibili alternative che la ricerca scientifica e tecnologica ci propongono? Solare a concentrazione Uno specchio parabolico segue il moto del sole e concentra la luce su una tubatura nera, riscaldando il fluido che scorre al suo interno. Le condutture, provenienti da più specchi parabolici posti in parallelo, raggiungono uno scambiatore di calore che produce vapore per alimentare la turbina che trasforma il vapore in energia. Attualmente si usa come fluido il sodio liquido, che riesca a raggiungere alte temperature e mantenere per lungo tempo il calore immagazzinato. In futuro si potrebbe trovare un’alternativa al sodio fuso come fluido, operando a temperature più alte ma non a pressioni più elevate. Una variante è costituita dalla “centrale a torre” riempita con sodio liquido e riscaldata da specchi, alcuni a distanza anche di un chilometro. Il fluido è collegato a un serbatoio isolato e può immagazzinare abbastanza calore da funzionare per 24 ore o almeno per soddisfare le esigenze nei periodi in cui la domanda è elevata. Allo stato attuale i sistemi a profilo parabolico sono commerciali, il primo impianto a torre è entrato in funzione in Spagna; il prezzo attuale dell’energia prodotta è di 19,9-28,1 centesimi per chilowattora (in funzione del numero di specchi parabolici). Il sistema si presenta attualmente co-

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me il più adatto per accumulare energia prodotta da fonti rinnovabili, sono però necessari condizioni geografiche e morfologiche adeguate (irraggiamento solare e terreni pianeggianti). I limiti principali di questa tecnologia: le aree migliori potrebbero essere lontane da linee di trasmissione; altera il paesaggio; può richiedere elevate quantità di acqua di raffreddamento, risorsa non sempre disponibile nelle aree più soleggiate. Eolico L’energia eolica è oggi la più promettente, la più avanzata e forse anche la più problematica fonte di energia rinnovabile. Nel 2007, nei soli Stati Uniti sono stati allacciati oltre 5000 megawatt, aumentando la potenza installata del 46 per cento. Ma in termini di chilowattora il contributo è stato molto inferiore, perché anche in un buon sito il vento produce circa il 28% dell’energia che verrebbe generata da una produzione di 24 ore. Peggio ancora, il vento è generalmente più forte di notte, quando la domanda è bassa. I costi di questa tecnologia stanno diminuendo, in parte perché aumentano le dimensioni degli aerogeneratori. Gli ultimi sono da sei megawatt, in grado quindi di alimentare diversi centri commerciali, e hanno pale di 65 metri: l’apertura alare di un Boeing 747. I nuovi modelli sono efficienti: catturano circa il 50 per cento dell’energia dell’aria che li attraversa. Il prezzo dell’energia prodotta sfrut-

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tando l’energia del vento è di circa 68 centesimi per chilowattora (ma la trasmissione può far aumentare il costo). Questa tecnologia risulta oggi quella con il maggior potenziale di produzione di energia tra le rinnovabili, e non richiede acqua di raffreddamento; la produzione è, però, poco correlata al carico di lavoro. Molti criticano il loro inserimento nel paesaggio e il rumore generato dalle macchine e dalle torri di trasmissione. Ulteriori pericoli sono quelli per i volatili e i rischi di interferenza con i radar di sorveglianza aerea. Energia dalle onde dell’oceano L’energia idroelettrica è stata sviluppata al massimo del potenziale, viste anche le preoccupazioni ambientali in materia di dighe. Ma secondo il Department of Energy, la costa pacifica nord-occidentale degli Stati Uniti potrebbe generare da 40 a 70 chilowatt di potenza per metro. Lo sfruttamento dell’energia degli oceani però è molto indietro rispetto all’eolico, al solare e al geotermico, anche se ormai da due secoli gli inventori presentano brevetti per sfruttare la forza delle onde. Una tecnica consiste nel costruire una colonna in acciaio o cemento,

Il solare è, attualmente, il sistema più adatto per accumulare energia prodotta da fonti rinnovabili


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Fotovoltaico: tecnologia consolidata e competitiva in presenza di agevolazioni aperta sotto la superficie dell’acqua ma chiusa in cima. Ogni onda in salita e discesa comprime e decomprime l’aria in cima, che alimenta una turbina. La scozzese Wavegen ha messo in funzione un generatore da 100 chilowatt che opera in base a questo principio. Un altro progetto sfrutta l’energia prodotta da galleggianti nel loro movimento verticale sulle onde. La loro potenzialità risulta oggi ampiamente dimostrata, ma non è ancora pronta per essere messa in commercio; quindi non è ancora possibile fare una stima sugli effettivi costi dell’energia prodotta. Se, da un lato, i vantaggi di tale tecnologia sono le linee di trasmissione a breve raggio, risulta costoso costruire strutture durevoli in zone di forte frangente. Solare fotovoltaico Due strati di materiali semiconduttori, uno con elettroni aggiuntivi e l’altro con “lacune” aggiuntive, sono inseriti all’interno di pannelli fotovoltaici. Quando il materiale assorbe la luce solare, gli elettroni in eccesso si spostano da uno strato all’altro, generando una corrente elettrica. L’effetto fu osservato per la prima volta 170 anni fa, ma scienziati e ingegneri sono ancora al lavoro per ottimizzare il pro-

cesso. Il primo uso pratico è stato nel programma spaziale degli Stati Uniti, e ora le celle sono ampiamente usate fuori dalla rete elettrica, ma non sono ancora fortemente competitive con combustibili fossili o altre risorse rinnovabili collegate alla rete. Il fotovoltaico si può incorporare in nuove costruzioni, per rivestire tetti o facciate di edifici, a un costo inferiore ed eliminando i problemi e gli impatti delle linee di distribuzione ad alta tensione. È una tecnologia consolidata, in commercio da anni, che risulta competitiva in presenza di co-finanziamenti, agevolazioni e sussidi economici. Il costo dell’energia varia dai 46 ai 70 centesimi per chilowattora. Tra i vantaggi sicuramente c’è la possibilità di installazione in aree urbane elettricamente congestionate; inoltre, fa risparmiare sui costi di produzione e di posa delle nuove linee di distribuzione; la produzione di picco corrisponde abbastanza bene al carico di picco; non serve acqua di raffreddamento. La produzione però è molto modesta, necessita di grandi superfici e di un’adeguata manutenzione e pulizia. Geotermico A differenza di eolico e solare, la geotermia opera su richiesta. “Il calore della Terra è lì, possiamo capitalizzarlo”, afferma lo statunitense Steven Chu, Nobel per la fisica e segretario di Stato all’energia degli Stati Uniti d’America. Le centrali di

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solito operano 24 ore al giorno. Non tutti i siti hanno rocce calde, ma le Hawaii generano un quarto della propria energia in questo modo, la California il 6%. Le installazioni geotermiche usano acqua calda che affiora in modo naturale, ma vaste aree degli Stati Uniti presentano roccia calda e asciutta che ha bisogno solo di iniezioni d’acqua in un pozzo profondo. La maggior parte dei sistemi usa uno scambiatore di calore per far bollire acqua e generare vapore che fa girare una turbina. È attualmente commerciale, ma su piccola scala e il costo dell’energia prodotta è di circa 6,5 centesimi per chilowattora. L’affidabilità della risorsa permette l’uso in applicazioni a basso carico energetico. Il vapore derivante dall’acqua sotterranea può, però, contenere impurità che deteriorano gli scambiatori di calore e che, se rilasciati, potrebbero essere inquinanti. La natura decide l’ubicazione del sito, e spesso non è conveniente rispetto alle linee elettriche esistenti. Celle a combustibile L’elettricità prodotta con qualsiasi fonte, come quella solare, eolica o addirittura il carbone, si può usare per scindere molecole di acqua, grazie a un dispositivo chiamato elettrolizzatore, in idrogeno e ossigeno, per poi far passare l’idrogeno attraverso una cella a combustibile in modo da generare elettricità. Uno

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degli aspetti negativi delle celle a combustibile è che hanno un costo capitale dell’ordine di diverse migliaia di dollari per chilowatt di capacità, e l’efficienza del processo dall’elettrolizzatore alla riconversione dell’idrogeno in elettricità passando per la cella, è inferiore al 50%. Vale a dire che ogni due chilowattora investiti se ne recupera appena uno. Aria compressa Nel 1991, l’Alabama Energy Cooperative ha aperto una centrale di accumulo di energia ad aria compressa, usando centrali a carbone (che in genere sono inattive durante la notte), per pompare aria in una cupola a una pressione di oltre 68 atmosfere. Se nel corso della giornata occorre un supplemento di elettricità, allora l’aria compressa viene inserita in una turbina a combustione, alimentata da gas naturale. Generalmente una turbina comprime essa stessa l’aria, e al momento il generatore più efficiente richiede 6000 unità termiche britanniche (BTU) di gas naturale per produrre un chilowattora. L’accumulo mediante aria compressa taglia di un terzo il gas naturale necessario.

I biocarburanti potrebbero ridurre la dipendenza dal petrolio proveniente dall’estero


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Le condizioni per un futuro sostenibile: evoluzione delle istituzioni, sviluppo tecnologico e mutamento di mentalità Batterie stazionarie La VR8 Power Systems di Vancouver vende “batterie di flusso”, con serbatoi in grado di contenere centinaia di litri di elettroliti. Se fatto funzionare in una direzione, il sistema assorbe energia, mentre nell’altra la restituisce in quantità ingenti, dell’ordine dei megawattora. Accumulare un chilowattora costa 500-600 dollari, e l’efficienza andata-ritorno è pari al 6575%: vale a dire che si perde dal 25 al 35% dell’elettricità immessa. Il che, in combinazione per esempio con l’energia solare, alzerebbe il prezzo del chilowattora del 50% garantendo in cambio una continuità di erogazione. Carburanti rinnovabili per trasporti Per ottenere carburanti liquidi per il trasporto da fonti rinnovabili ci sono oggi tre metodi. Il primo consiste nel bruciare oli vegetali, quasi sempre di soia o palma, in motori diesel. Negli Stati Uniti, per essere legale, l’olio è convertito in una forma chimica detta estere. Il processo è semplice, ma la scala è limitata, e l’intera faccenda è prigioniera del dibattito “alimenti contro carburanti”. Altrettanto sem-

plice è sfruttare la digestione degli zuccheri da parte del lievito per produrre alcool, ma anche questa soluzione presenta limiti di scala e crea concorrenza tra la stazione di rifornimento sotto casa e il supermercato di fiducia. Ingenti quantità di zuccheri, però, si trovano in colture non alimentari e nella parte non commestibile di vegetali coltivati per uso alimentare. Questo materiale contiene zuccheri con cinque e sei atomi di carbonio, caratteristica non gradita al lievito comune. Per liberare questi zuccheri e usarli nel terzo metodo considerato, alcune centrali pilota usano vapore, acidi, o una loro combinazione. Un’altra opzione sono gli enzimi ricavati da batteri o funghi geneticamente modificati. Per convertire gli zuccheri in carburante liquido, si usano processi catalitici o lieviti, spesso geneticamente modificati. Oppure si scompone il materiale celluloso in monossido di carbonio e idrogeno, e lo si ricompone sotto forma di molecole come etanolo, altri alcool o liquidi. Tra i materiali con cui alimentare questo processo ci sono detriti forestali, come schegge di legno, cortecce e pigne; carta e plastica da rifiuti domestici; rifiuti agricoli. Il funzionamento di questi metodi è stato dimostrato in laboratorio o con progetti pilota, ma un loro sfruttamento commerciale sembra al momento improbabile. Incentivi e quote stanno però stimolando molte iniziative. Il prezzo non è ancora facile da

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stabilire e comunque fortemente variabile a causa della continua fluttuazione dei prezzi di benzina e diesel. È importante però segnalare come alcuni biocarburanti comportano emissioni di gas serra minime o nulle, e il loro impiego potrebbe ridurre la dipendenza dal petrolio proveniente dall’estero. Alcuni bio-carburanti, però, incidono sui prezzi delle derrate alimentari; la produzione di biocarburanti dal grano richiede ingenti quantità di combustibili fossili, tanto che l’energia totale e i vantaggi in termini di emissioni di gas serra sono ridotti; la maggior parte dei biocarburanti ha una minore densità energetica rispetto alla benzina, garantendo meno chilometri per litro. Conclusioni In quest’ultimo periodo, si stanno compiendo grandi progressi in termini di sensibilizzazione ambientale, abbattimento degli impatti ed implementazione di politiche di sostenibilità ambientale. Un recente studio delle Nazioni Unite ha sottolineato che nel 2007 a livello globale si sono investiti 149 miliardi di dollari nelle energie rinnovabili, il 60% in più rispetto all’anno precedente. Ma le nuove turbine eoliche e celle solari stanno affiancando un’infrastruttura con centrali a carbone che ogni anno aumentano in termini di numero ed ore di esercizio.

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E anche se negli ultimi anni i prezzi dell’energia solare e soprattutto quelli dell’energia eolica sono nettamente diminuiti, rimangono competitivi solo in presenza di sussidi o speciali autorizzazioni. Negli Stati Uniti, i privati in media pagano 11 centesimi di dollaro per chilowattora (kWh) per l’energia proveniente da un misto di carbone, gas naturale, nucleare e idroelettrico, mentre le fonti rinnovabili sono ancora molto più costose. Forse solo la crescita dei prezzi dei combustibili tradizionali che stiamo vivendo in questi ultimi tempi potrebbe essere d’aiuto, portando il mercato a raggiungere i costi delle nuove rinnovabili. Non è per niente chiaro l’effetto che queste nuove tecnologie, e altre analoghe, sviluppate in tutto il mondo, avranno da ultimo nel guidare le trasformazioni provocate dall’uomo sull’ambiente. Ma non c’è dubbio che, contro tutte le aspettative, questo fervore di studi rispecchia un impegno sempre maggiore nei confronti di una gestione responsabile del pianeta Terra. Le speranze di un futuro sostenibile, dal punto di vista ambientale, sono affidate quindi all’evoluzione delle istituzioni e al miglioramento della tecnologia, ma soprattutto a un mutamento generalizzato di mentalità, confidando che la creatività umana permetterà di superare gli attuali limiti.


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Sostenibilità: una riforma economica che premia l’efficienza

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e democrazie industriali nell’ultimo secolo hanno improntato lo sviluppo delle proprie società ponendo al centro (e come obbligo) la crescita esponenziale dell’economia. Da più di mezzo secolo la misura di questa crescita è indicata dal Prodotto Interno Lordo (PIL) che “deve” aumentare anno dopo anno per mantenere saldo il rapporto (e il consenso) tra economia, società e cittadini. A partire dalla seconda metà del Novecento, questo sistema economico ha distribuito un relativo maggiore benessere solamente a un quinto degli abitanti del Pianeta, al costo, però, di una drastica riduzione delle risorse disponibili e causando il global warming per tutti gli abitanti della Terra. Questo modello si basa sul continuo rilancio economico dei sistemi produttivi essenzialmente come

Il problema di fondo che minaccia la sostenibilità è la crescita esponenziale

problema di crescita di competitività, con interventi sulla struttura del lavoro e assegnando un ruolo “produttivo” alla ricerca scientifica e tecnologica. Tuttavia anche i sistemi più competitivi cominciano a conoscere difficoltà e contraddizioni profonde. I limiti del modello di crescita esponenziale Il modello di sviluppo instauratosi in seguito alla Rivoluzione industriale presenta diversi fattori di insostenibilità che colpiscono beni ambientali di interesse comune (global commons) come il clima, l’atmosfera, gli oceani, le foreste e la biodiversità. Il problema di fondo che minaccia la sostenibilità è la crescita esponenziale: la forza motrice di tutta l’attività umana, culturalmente radicata e strutturalmente insita nel sistema globale. Crescere esponenzialmente significa raddoppiare e poi raddoppiare di nuovo, e di nuovo ancora. È un processo di crescita che non si sviluppa linearmente, incrementando la stessa quantità in uguali periodi di tempo. A differenza della crescita lineare, in quella esponen-

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ziale l’entità di incremento è proporzionale alla grandezza già esistente. La crescita esponenziale può avvenire per due diverse ragioni: perché un’entità che cresce si riproduce traendo alimento da se stessa, o perché un’entità che cresce è spinta da qualcosa che si riproduce autoalimentando la propria produzione. Sul pianeta terra, due sono le entità che rientrano nel primo caso: la popolazione e il capitale industriale. Essi possiedono la capacità strutturale di crescere esponenzialmente autoalimentandosi. Popolazione e capitale sono quindi i motori di crescita del mondo industrializzato. Altre grandezze, come la produzione di alimenti, l’impiego di risorse, l’inquinamento, tendono ad aumentare esponenzialmente non perché si moltiplicano da sé, ma perché sono spinte da popolazione e capitale. È chiaro che la crescita esponenziale può avere conseguenze sorprendenti e, se combinata con ingenuità o disattenzione, può portare al superamento dei limiti. Al crescere di popolazione e capitale si accompagna, infatti, una sempre maggiore richiesta di crescita dei flussi di materiali ed energia; ne segue poi una crescita altrettanto grande di rifiuti e inquinamento. L’energia prodotta dai carbon fossili utilizzata per estrarre, lavorare e trasportare le materie, è la causa principale dell’insostenibile aumento di CO2 in atmosfera. I cambiamenti climatici mettono in perico-

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lo la stabilità termodinamica del Pianeta e l’accesso alle sue risorse, aumentando la divaricazione di opportunità tra popoli del Nord e del Sud del Mondo. Per tali ragioni il modello economico industriale, energivoro e spoliante di risorse, non può essere esteso a tutta l’umanità, in quanto le risorse naturali verrebbero ad esaurirsi nel giro di pochi decenni, ed inoltre il precario equilibrio climatico potrebbe entrare ulteriormente in crisi e, con esso, il “magazzino” alimentare e di risorse rappresentato dalla biodiversità della Terra. Minacce alla biodiversità e divario idrogeologico La diversità biologica è sottoposta a un costante processo di erosione a causa della devastazione degli habitat naturali, dall’invadenza tecnologica orientata a sostituire la diversità con l’omogeneità in agricoltura, in silvicoltura, nell’allevamento degli animali e nella pesca, causando una sequenza di reazioni a catena. La riduzione della biodiversità non riguarda, solamente, la scomparsa delle specie, che vengono trasformate dal sistema alimentare industriale, ma riguarda soprattutto i sistemi di vita su cui si basa la soprav-

Il modello industriale, energivoro, non può essere esteso a tutta l’umanità


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La diversità culturale è necessaria all’umanità quanto la diversità biologica vivenza di milioni di persone. La biodiversità, oltre ad essere una ricchezza per la natura in quanto tale, è la risorsa principale di intere popolazioni che dipendono dalle risorse biologiche per il nutrimento, la cura della salute, l’energia, i vestiti e le abitazioni. L’irruzione delle biotecnologie ha modificato profondamente il significato e l’essenza della biodiversità, da risorsa necessaria e vitale per la vita delle comunità povere, a strumento di ricchezza per le grandi multinazionali. La diversità culturale, messa in pericolo dall’omologazione invadente dell’economica globale delle multinazionali, è necessaria all’umanità come la diversità biologica lo è per la natura, ma la sua valorizzazione passa anche attraverso la difesa della biodiversità, poiché esiste un rapporto di reciprocità tra l’uomo e l’ambiente. In particolare, la vita sociale ed economica delle popolazioni indigene sono strettamente connesse agli ecosistemi in cui esse vivono e di cui fanno parte. Le popolazioni autoctone che hanno sviluppato conoscenze e saperi fondati sugli ecosistemi, utilizzano le risorse in modo compatibile.

Eppure, da oltre mezzo secolo gli indigeni hanno assistito alla distruzione dei loro territori, all’espropriazione delle risorse necessarie alla loro sussistenza, dall’Indonesia all’America latina, in Nigeria come nelle Filippine. I processi di globalizzazione del mercato minacciano l’esistenza stessa delle comunità locali e dei saperi che sono stati tramandati di generazione in generazione, per la stragrande maggioranza dei casi, senza che ve ne sia traccia scritta. In questi Paesi, le imprese transnazionali che per la loro organizzazione e dimensione geoeconomica più facilmente sfuggono a un controllo politico, grazie anche alla complicità delle autorità locali, hanno impoverito e avvelenato il suolo, attraverso la diffusione del modello produttivo della monocultura e l’utilizzo massiccio dei pesticidi e delle risorse del territorio. L’accesso e il ciclo dell’acqua rappresentano in modo incontrovertibile il divario più evidente tra Paesi ricchi e Paesi poveri: dalla siccità che provoca carestie e malattie, alle sconvolgenti alluvioni che distruggono i territori, insomma, un cerchio crudele che unisce i mutamenti climatici al degrado ambientale e alla povertà. Il paradosso è che, nel Sud del mondo, il territorio viene disseminato di immense opere di ingegneria idraulica volute dalle grandi multinazionali dell’acqua che hanno il solo effetto di sconvolgere in modo

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irreparabile il territorio e gli equilibri ambientali. Sono opere che devastano l’assetto idrogeologico del territorio per canalizzare l’acqua e controllarla in un unico bacino. Sostenibilità: nuove sfide per la Scienza È necessario che lo sviluppo assuma sempre più il carattere appropriato a una situazione in cui appaiono tramontate le ambizioni delle rivoluzioni industriali del diciannovesimo secolo e le filosofie che teorizzavano il compito della Scienza di soggiogare la natura. La nuova sfida, infatti, è quella di una Scienza che aiuti gli uomini a inserirsi nei grandi cicli della natura, per trarne le risorse necessarie, ma senza perturbarne la stabilità. L’uso delle risorse essenziali e l’inquinamento prodotto dagli attuali sistemi industriali hanno superato i tassi fisicamente sostenibili. Se i flussi di energia e di materiali rimarranno invariati alle quantità attuali, nei prossimi decenni si potrebbe assistere a un crollo della produzione industriale, dei consumi energetici e della produzione di alimenti pro capite; questo crollo può essere evitato limitando la crescita della popolazione e dei consumi materiali e aumentando l’efficienza con cui materiali ed energia vengono utilizzati. A ciò è possibile giungere tramite una rivisitazione delle politiche e degli stili di vita su cui si basa la nostra società. L’Homo Sapiens Sapiens deve creare un

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sistema armonico e simbiotico con la natura e deve restare legato emotivamente e culturalmente alla sua terra, perché da lei trae i mezzi di sussistenza così come la distruzione o la modificazione della natura lo colpiscono direttamente. Il passaggio a uno sviluppo sostenibile comporta un accurato equilibrio tra mete a lungo e breve termine e un accrescimento degli aspetti di equità, qualità della vita, efficienza, piuttosto che l’aumento quantitativo di prodotto. Esso “vuole più che produttività o tecnologia; vuole maturità, umana partecipazione, saggezza” (Brown et al., State of the World, 2000:12). Lo sviluppo sostenibile costituisce una visione globale del concetto di sviluppo non solo economico, ma anche sociale, e in cui la crescita economica avviene entro i limiti delle possibilità ecologiche degli ecosistemi e della loro capacità. La chiave della sostenibilità è dunque rappresentata dalla possibilità di riprodurre le risorse naturali necessarie per la vita di ogni essere vivente sulla Terra. Tale riproducibilità può essere mantenuta solo attraverso un uso razionale delle risorse che tenga conto dei meccanismi di funziona-

Le popolazioni autoctone utilizzano le risorse in modo compatibile


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Sostenibilità: integrità ambientale ed efficienza economica mento degli ecosistemi, della loro struttura e in generale delle capacità di carico ambientali. La sostenibilità è un sistema di obiettivi che può essere sintetizzato in due grandi questioni: l’integrità ambientale, in cui la sostenibilità è intesa come la realizzazione del principio etico e utilitaristico della salvaguardia della complessità degli ecosistemi e dei beni comuni; l’efficienza economica, in cui la sostenibilità consiste nel presupposto che la sola crescita sia una prospettiva impraticabile. Essa, infatti, deve consistere essenzialmente nel promuovere attività economiche che utilizzino risorse rinnovabili facilmente reperibili a livello locale, nel gestire la richiesta di risorse naturali in modo tale da ridurre e riorientare la domanda, nell’intervenire al fine di conservare le risorse della Terra, potenziando il capitale naturale coltivato e, infine, nell’ampliare le attività di produzione, distribuzione e scambio economico improntate ai criteri di equità sociale. Nuovi e diversi indicatori di sviluppo Le risorse naturali sono essenziali tanto per le economie di sussistenza

quanto per le società tecnologicamente avanzate. Il consumo delle risorse nel mondo si è sviluppato rapidamente in seguito alla crescita della popolazione e della ricchezza economica. Negli ultimi cinquant’anni del XX secolo, l’umanità ha consumato una quantità di risorse naturali che non ha precedenti nella sua storia. L’aumento smisurato del consumo può essere illustrato con qualche esempio. Dal 1950 alla fine del secolo la portata dell’economia globale si è quintuplicata. Il consumo di grano, carne, acqua è triplicato; il consumo di carta è sei volte maggiore rispetto alla metà del Novecento. L’utilizzo di combustibili fossili è cresciuto di quattro volte (Brown et al, 1996). Sempre dal 1950, la parte più ricca della popolazione mondiale, che rappresenta solo un quinto della totale, ha duplicato il consumo procapite di energia, carne, legna, acciaio, rame e si è quadruplicato il numero di coloro che possiedono un’automobile. La parte più povera dell’umanità, l’altro quinto, non ha quasi aumentato il consumo pro-capite (Durning, 1996). La parte più povera dell’umanità ha potuto usufruire di un’entrata giornaliera che si aggira intorno ad un dollaro e un altro quinto della popolazione a entrate di tre dollari al giorno (World Bank, 1996). Alla fine del secolo, con meno del 5% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti sono arri-

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vati a usare circa il 30% delle risorse naturali (Dower et al., 1996). Tuttavia, lo stile di vita americano è diventato un modello per molte nazioni dell’Europa dell’Est, dell’ex Unione Sovietica e, nel nuovo secolo, della Cina e dell’India. Come abbiamo visto, però, la crescita economica intesa come accrescimento del PIL non è sostenibile. Le risorse naturali sono limitate, particolarmente per quanto riguarda le fonti di energia, e non si può immaginare un sistema votato a una crescita infinita. La ricchezza prodotta dai sistemi economici non consiste soltanto in beni e servizi: esistono altre forme di ricchezza sociale, come la salute degli ecosistemi, la qualità della giustizia, l’istruzione, la salute, la previdenza, le buone relazioni tra i componenti di una società, il grado di uguaglianza, il carattere democratico delle istituzioni. Eppure, il capitalismo tradizionale ha sempre trascurato il valore monetario delle risorse naturali e dei servizi forniti dagli ecosistemi, senza i quali non sarebbe possibile alcuna attività economica oltre che la vita stessa. Le politiche economiche della sostenibilità, invece, contabilizzano le risorse e puntano all’efficienza per riuscire a produrre di più con meno. La sostenibilità ridisegna così le logiche industriali sulla base di un modello che limita gli sprechi e la produzione di rifiuti; sposta l’econo-

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mia verso un flusso continuo di valore e servizi; investe nella protezione e nell’espansione del capitale naturale esistente. Propone una riforma economica che premia l’efficienza e il risparmio di energia e materiali. Essa si fonda su processi tecnologici che tendono a conseguire il massimo risultato produttivo con il minimo impiego di materie prime e di altre risorse (energia, acqua, territorio) e la minima produzione di residui e rifiuti, attraverso un procedimento di produzione di materiali meno inquinanti, idonei ai fini di un possibile riciclo della materia prima non trasformata durante il processo, oppure mediante una valorizzazione degli scarti da utilizzare come materie prime in produzioni secondarie. Infine, prevede l’uso di tecnologie ambientali per gli interventi di depurazione e trattamento degli scarichi (effluenti idrici o emissioni o scarti solidi) a valle dei processi produttivi che non modificano le tecniche di produzione, ma mirano, in genere ex-post, a trasformare un tipo di rifiuto in un altro meno inquinante o non nocivo o, comunque, a immetterlo nell’ambiente in forme e modi più compatibili con il mantenimento di una determinata qualità dell’ambiente stesso.

La politiche sostenibili contabilizzano le risorse e puntano all’efficienza


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Gli individui sono dipendenti da modelli di consumo insostenibili Il consumo sostenibile Negli ultimi anni si è scritto molto sull’impatto sociale e ambientale dei modelli di consumo moderni. Molti studi si sono focalizzati sul danno ambientale causato dal tipo di consumo prodotto dalle economie industriali. Altri descrivono la degradazione ambientale causata dalla povertà: l’erosione del suolo, la desertificazione, la deforestazione, la contaminazione delle acque. Gli studi sullo sviluppo hanno evidenziato la non equità dei livelli di consumo tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. La letteratura contemporanea e del recente passato che studia il fenomeno del consumo suggerisce molti e differenti ruoli del consumo nelle società moderne, che includono il suo ruolo funzionale nel soddisfare il bisogno di cibo, abitazione, trasporto, divertimento, ecc. Ma il consumo è anche coinvolto nei processi di formazione dell’identità, della distinzione e identificazione sociale e nella creazione di significati. Di conseguenza i prodotti materiali sono di centrale importanza non solo per il loro uso funzionale, ma anche perché giocano ruoli simbolici vita-

li nella nostra esistenza. Uno degli scopi principali dell’atto di consumo per un individuo è cercare di creare un mondo sociale e definire una propria collocazione credibile in esso (Douglas, M. 1976). Ma lungi dall’essere in grado di esercitare una scelta consapevole su cosa consumare e cosa non consumare, per la maggior parte della loro vita gli individui sono dipendenti da modelli di consumo insostenibili, che si consolidano per via di barriere istituzionale e sociali, difficoltà nell’accesso e nella scelta a certi prodotti e servizi, ma anche a causa delle abitudini, delle regole e aspettative sociali ampiamente condivise e dai valori culturali prevalenti. Queste osservazioni enfatizzano la difficoltà e la complessità associate al diffondersi di comportamenti di consumo ecologicamente sostenibili. Ma evidenziano anche la necessità di scelte politiche che cerchino di influenzare il contesto sociale e istituzionale del consumo e allo stesso tempo che tentino di avere un effetto sui comportamenti individuali. Le azioni che compiono le persone e le loro scelte hanno un impatto diretto e indiretto sull’ambiente e sul benessere personale e collettivo. Cambiare i comportamenti – e, in particolare, motivare comportamenti più sostenibili – non è facile perché i comportamenti umani sono profondamente radicati nel contesto sociale e istituzionale. I decisori po-

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litici sono in parte responsabili delle scelte di consumo. La politica interviene continuamente nel comportamento di consumo, in qualche caso direttamente, ma anche e con maggiore rilevanza attraverso un’influenza estensiva sul contesto sociale nel quale le persone agiscono. Un intrecciarsi ambizioso di adeguate misure politiche può permette ai consumatori di scegliere meglio ciò che si consuma e si possiede, e condurre all’uso di prodotti e servizi sostenibili. Questi compiti sono complessi da realizzare, pur tuttavia i comportamenti mutano, certe volte radicalmente, persino in periodi di tempo molto brevi. In alcuni casi, tali cambiamenti rappresentano un’evoluzione delle norme sociali e tecnologiche dominanti, al punto che i comportamenti individuali danno inizio a nuove tendenze sociali. Perciò, comportamenti individuali apparentemente statici possono essere ripensati in senso dinamico. Nello sviluppare politiche volte a incoraggiare comportamenti di consumo sensibili alla questione ambientale, si deve tenere conto e comprendere la dimensione e la possibilità del

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Il consumo consapevole si fonda su nuovi requisiti di qualità cambiamento. Il consumo consapevole accorda la preferenza ai prodotti che posseggono determinati requisiti di qualità differenti da quelli comunemente riconosciuti dal consumatore medio, tra i quali la modalità di produzione, la sostenibilità ambientale del processo produttivo, l’eticità del trattamento accordato ai lavoratori, l’adesione politica dell’azienda produttrice. L’espressione, in genere, fa riferimento solo agli acquisti di beni materiali, ma può anche riguardare le scelte inerenti al risparmio (finanza etica) e all’uso di servizi come i trasporti o le telecomunicazioni. La possibilità di utilizzare la propria posizione di consumatore per perseguire fini politici o etici, tuttavia, presuppone il diritto di poter scegliere tra diversi prodotti, nonché la conoscenza di tutte le informazioni necessarie a compiere una scelta consapevole.


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e democrazie industriali nell’ultimo secolo hanno improntato lo sviluppo delle proprie società ponendo al centro (e come obbligo) la crescita esponenziale dell’economia. Da più di mezzo secolo la misura di questa crescita è indicata dal Prodotto Interno Lordo (PIL) che “deve” aumentare anno dopo anno per mantenere saldo il rapporto (e il consenso) tra economia, società e cittadini. A partire dalla seconda metà del Novecento, questo sistema economico ha distribuito un relativo maggiore benessere solamente a un quinto degli abitanti del Pianeta, al costo, però, di una drastica riduzione delle risorse disponibili e causando il global warming per tutti gli abitanti della Terra. Questo modello si basa sul continuo rilancio economico dei sistemi produttivi essenzialmente come

Il problema di fondo che minaccia la sostenibilità è la crescita esponenziale

problema di crescita di competitività, con interventi sulla struttura del lavoro e assegnando un ruolo “produttivo” alla ricerca scientifica e tecnologica. Tuttavia anche i sistemi più competitivi cominciano a conoscere difficoltà e contraddizioni profonde. I limiti del modello di crescita esponenziale Il modello di sviluppo instauratosi in seguito alla Rivoluzione industriale presenta diversi fattori di insostenibilità che colpiscono beni ambientali di interesse comune (global commons) come il clima, l’atmosfera, gli oceani, le foreste e la biodiversità. Il problema di fondo che minaccia la sostenibilità è la crescita esponenziale: la forza motrice di tutta l’attività umana, culturalmente radicata e strutturalmente insita nel sistema globale. Crescere esponenzialmente significa raddoppiare e poi raddoppiare di nuovo, e di nuovo ancora. È un processo di crescita che non si sviluppa linearmente, incrementando la stessa quantità in uguali periodi di tempo. A differenza della crescita lineare, in quella esponen-

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ziale l’entità di incremento è proporzionale alla grandezza già esistente. La crescita esponenziale può avvenire per due diverse ragioni: perché un’entità che cresce si riproduce traendo alimento da se stessa, o perché un’entità che cresce è spinta da qualcosa che si riproduce autoalimentando la propria produzione. Sul pianeta terra, due sono le entità che rientrano nel primo caso: la popolazione e il capitale industriale. Essi possiedono la capacità strutturale di crescere esponenzialmente autoalimentandosi. Popolazione e capitale sono quindi i motori di crescita del mondo industrializzato. Altre grandezze, come la produzione di alimenti, l’impiego di risorse, l’inquinamento, tendono ad aumentare esponenzialmente non perché si moltiplicano da sé, ma perché sono spinte da popolazione e capitale. È chiaro che la crescita esponenziale può avere conseguenze sorprendenti e, se combinata con ingenuità o disattenzione, può portare al superamento dei limiti. Al crescere di popolazione e capitale si accompagna, infatti, una sempre maggiore richiesta di crescita dei flussi di materiali ed energia; ne segue poi una crescita altrettanto grande di rifiuti e inquinamento. L’energia prodotta dai carbon fossili utilizzata per estrarre, lavorare e trasportare le materie, è la causa principale dell’insostenibile aumento di CO2 in atmosfera. I cambiamenti climatici mettono in perico-

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lo la stabilità termodinamica del Pianeta e l’accesso alle sue risorse, aumentando la divaricazione di opportunità tra popoli del Nord e del Sud del Mondo. Per tali ragioni il modello economico industriale, energivoro e spoliante di risorse, non può essere esteso a tutta l’umanità, in quanto le risorse naturali verrebbero ad esaurirsi nel giro di pochi decenni, ed inoltre il precario equilibrio climatico potrebbe entrare ulteriormente in crisi e, con esso, il “magazzino” alimentare e di risorse rappresentato dalla biodiversità della Terra. Minacce alla biodiversità e divario idrogeologico La diversità biologica è sottoposta a un costante processo di erosione a causa della devastazione degli habitat naturali, dall’invadenza tecnologica orientata a sostituire la diversità con l’omogeneità in agricoltura, in silvicoltura, nell’allevamento degli animali e nella pesca, causando una sequenza di reazioni a catena. La riduzione della biodiversità non riguarda, solamente, la scomparsa delle specie, che vengono trasformate dal sistema alimentare industriale, ma riguarda soprattutto i sistemi di vita su cui si basa la soprav-

Il modello industriale, energivoro, non può essere esteso a tutta l’umanità


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La diversità culturale è necessaria all’umanità quanto la diversità biologica vivenza di milioni di persone. La biodiversità, oltre ad essere una ricchezza per la natura in quanto tale, è la risorsa principale di intere popolazioni che dipendono dalle risorse biologiche per il nutrimento, la cura della salute, l’energia, i vestiti e le abitazioni. L’irruzione delle biotecnologie ha modificato profondamente il significato e l’essenza della biodiversità, da risorsa necessaria e vitale per la vita delle comunità povere, a strumento di ricchezza per le grandi multinazionali. La diversità culturale, messa in pericolo dall’omologazione invadente dell’economica globale delle multinazionali, è necessaria all’umanità come la diversità biologica lo è per la natura, ma la sua valorizzazione passa anche attraverso la difesa della biodiversità, poiché esiste un rapporto di reciprocità tra l’uomo e l’ambiente. In particolare, la vita sociale ed economica delle popolazioni indigene sono strettamente connesse agli ecosistemi in cui esse vivono e di cui fanno parte. Le popolazioni autoctone che hanno sviluppato conoscenze e saperi fondati sugli ecosistemi, utilizzano le risorse in modo compatibile.

Eppure, da oltre mezzo secolo gli indigeni hanno assistito alla distruzione dei loro territori, all’espropriazione delle risorse necessarie alla loro sussistenza, dall’Indonesia all’America latina, in Nigeria come nelle Filippine. I processi di globalizzazione del mercato minacciano l’esistenza stessa delle comunità locali e dei saperi che sono stati tramandati di generazione in generazione, per la stragrande maggioranza dei casi, senza che ve ne sia traccia scritta. In questi Paesi, le imprese transnazionali che per la loro organizzazione e dimensione geoeconomica più facilmente sfuggono a un controllo politico, grazie anche alla complicità delle autorità locali, hanno impoverito e avvelenato il suolo, attraverso la diffusione del modello produttivo della monocultura e l’utilizzo massiccio dei pesticidi e delle risorse del territorio. L’accesso e il ciclo dell’acqua rappresentano in modo incontrovertibile il divario più evidente tra Paesi ricchi e Paesi poveri: dalla siccità che provoca carestie e malattie, alle sconvolgenti alluvioni che distruggono i territori, insomma, un cerchio crudele che unisce i mutamenti climatici al degrado ambientale e alla povertà. Il paradosso è che, nel Sud del mondo, il territorio viene disseminato di immense opere di ingegneria idraulica volute dalle grandi multinazionali dell’acqua che hanno il solo effetto di sconvolgere in modo

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irreparabile il territorio e gli equilibri ambientali. Sono opere che devastano l’assetto idrogeologico del territorio per canalizzare l’acqua e controllarla in un unico bacino. Sostenibilità: nuove sfide per la Scienza È necessario che lo sviluppo assuma sempre più il carattere appropriato a una situazione in cui appaiono tramontate le ambizioni delle rivoluzioni industriali del diciannovesimo secolo e le filosofie che teorizzavano il compito della Scienza di soggiogare la natura. La nuova sfida, infatti, è quella di una Scienza che aiuti gli uomini a inserirsi nei grandi cicli della natura, per trarne le risorse necessarie, ma senza perturbarne la stabilità. L’uso delle risorse essenziali e l’inquinamento prodotto dagli attuali sistemi industriali hanno superato i tassi fisicamente sostenibili. Se i flussi di energia e di materiali rimarranno invariati alle quantità attuali, nei prossimi decenni si potrebbe assistere a un crollo della produzione industriale, dei consumi energetici e della produzione di alimenti pro capite; questo crollo può essere evitato limitando la crescita della popolazione e dei consumi materiali e aumentando l’efficienza con cui materiali ed energia vengono utilizzati. A ciò è possibile giungere tramite una rivisitazione delle politiche e degli stili di vita su cui si basa la nostra società. L’Homo Sapiens Sapiens deve creare un

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sistema armonico e simbiotico con la natura e deve restare legato emotivamente e culturalmente alla sua terra, perché da lei trae i mezzi di sussistenza così come la distruzione o la modificazione della natura lo colpiscono direttamente. Il passaggio a uno sviluppo sostenibile comporta un accurato equilibrio tra mete a lungo e breve termine e un accrescimento degli aspetti di equità, qualità della vita, efficienza, piuttosto che l’aumento quantitativo di prodotto. Esso “vuole più che produttività o tecnologia; vuole maturità, umana partecipazione, saggezza” (Brown et al., State of the World, 2000:12). Lo sviluppo sostenibile costituisce una visione globale del concetto di sviluppo non solo economico, ma anche sociale, e in cui la crescita economica avviene entro i limiti delle possibilità ecologiche degli ecosistemi e della loro capacità. La chiave della sostenibilità è dunque rappresentata dalla possibilità di riprodurre le risorse naturali necessarie per la vita di ogni essere vivente sulla Terra. Tale riproducibilità può essere mantenuta solo attraverso un uso razionale delle risorse che tenga conto dei meccanismi di funziona-

Le popolazioni autoctone utilizzano le risorse in modo compatibile


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Sostenibilità: integrità ambientale ed efficienza economica mento degli ecosistemi, della loro struttura e in generale delle capacità di carico ambientali. La sostenibilità è un sistema di obiettivi che può essere sintetizzato in due grandi questioni: l’integrità ambientale, in cui la sostenibilità è intesa come la realizzazione del principio etico e utilitaristico della salvaguardia della complessità degli ecosistemi e dei beni comuni; l’efficienza economica, in cui la sostenibilità consiste nel presupposto che la sola crescita sia una prospettiva impraticabile. Essa, infatti, deve consistere essenzialmente nel promuovere attività economiche che utilizzino risorse rinnovabili facilmente reperibili a livello locale, nel gestire la richiesta di risorse naturali in modo tale da ridurre e riorientare la domanda, nell’intervenire al fine di conservare le risorse della Terra, potenziando il capitale naturale coltivato e, infine, nell’ampliare le attività di produzione, distribuzione e scambio economico improntate ai criteri di equità sociale. Nuovi e diversi indicatori di sviluppo Le risorse naturali sono essenziali tanto per le economie di sussistenza

quanto per le società tecnologicamente avanzate. Il consumo delle risorse nel mondo si è sviluppato rapidamente in seguito alla crescita della popolazione e della ricchezza economica. Negli ultimi cinquant’anni del XX secolo, l’umanità ha consumato una quantità di risorse naturali che non ha precedenti nella sua storia. L’aumento smisurato del consumo può essere illustrato con qualche esempio. Dal 1950 alla fine del secolo la portata dell’economia globale si è quintuplicata. Il consumo di grano, carne, acqua è triplicato; il consumo di carta è sei volte maggiore rispetto alla metà del Novecento. L’utilizzo di combustibili fossili è cresciuto di quattro volte (Brown et al, 1996). Sempre dal 1950, la parte più ricca della popolazione mondiale, che rappresenta solo un quinto della totale, ha duplicato il consumo procapite di energia, carne, legna, acciaio, rame e si è quadruplicato il numero di coloro che possiedono un’automobile. La parte più povera dell’umanità, l’altro quinto, non ha quasi aumentato il consumo pro-capite (Durning, 1996). La parte più povera dell’umanità ha potuto usufruire di un’entrata giornaliera che si aggira intorno ad un dollaro e un altro quinto della popolazione a entrate di tre dollari al giorno (World Bank, 1996). Alla fine del secolo, con meno del 5% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti sono arri-

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vati a usare circa il 30% delle risorse naturali (Dower et al., 1996). Tuttavia, lo stile di vita americano è diventato un modello per molte nazioni dell’Europa dell’Est, dell’ex Unione Sovietica e, nel nuovo secolo, della Cina e dell’India. Come abbiamo visto, però, la crescita economica intesa come accrescimento del PIL non è sostenibile. Le risorse naturali sono limitate, particolarmente per quanto riguarda le fonti di energia, e non si può immaginare un sistema votato a una crescita infinita. La ricchezza prodotta dai sistemi economici non consiste soltanto in beni e servizi: esistono altre forme di ricchezza sociale, come la salute degli ecosistemi, la qualità della giustizia, l’istruzione, la salute, la previdenza, le buone relazioni tra i componenti di una società, il grado di uguaglianza, il carattere democratico delle istituzioni. Eppure, il capitalismo tradizionale ha sempre trascurato il valore monetario delle risorse naturali e dei servizi forniti dagli ecosistemi, senza i quali non sarebbe possibile alcuna attività economica oltre che la vita stessa. Le politiche economiche della sostenibilità, invece, contabilizzano le risorse e puntano all’efficienza per riuscire a produrre di più con meno. La sostenibilità ridisegna così le logiche industriali sulla base di un modello che limita gli sprechi e la produzione di rifiuti; sposta l’econo-

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mia verso un flusso continuo di valore e servizi; investe nella protezione e nell’espansione del capitale naturale esistente. Propone una riforma economica che premia l’efficienza e il risparmio di energia e materiali. Essa si fonda su processi tecnologici che tendono a conseguire il massimo risultato produttivo con il minimo impiego di materie prime e di altre risorse (energia, acqua, territorio) e la minima produzione di residui e rifiuti, attraverso un procedimento di produzione di materiali meno inquinanti, idonei ai fini di un possibile riciclo della materia prima non trasformata durante il processo, oppure mediante una valorizzazione degli scarti da utilizzare come materie prime in produzioni secondarie. Infine, prevede l’uso di tecnologie ambientali per gli interventi di depurazione e trattamento degli scarichi (effluenti idrici o emissioni o scarti solidi) a valle dei processi produttivi che non modificano le tecniche di produzione, ma mirano, in genere ex-post, a trasformare un tipo di rifiuto in un altro meno inquinante o non nocivo o, comunque, a immetterlo nell’ambiente in forme e modi più compatibili con il mantenimento di una determinata qualità dell’ambiente stesso.

La politiche sostenibili contabilizzano le risorse e puntano all’efficienza


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Gli individui sono dipendenti da modelli di consumo insostenibili Il consumo sostenibile Negli ultimi anni si è scritto molto sull’impatto sociale e ambientale dei modelli di consumo moderni. Molti studi si sono focalizzati sul danno ambientale causato dal tipo di consumo prodotto dalle economie industriali. Altri descrivono la degradazione ambientale causata dalla povertà: l’erosione del suolo, la desertificazione, la deforestazione, la contaminazione delle acque. Gli studi sullo sviluppo hanno evidenziato la non equità dei livelli di consumo tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. La letteratura contemporanea e del recente passato che studia il fenomeno del consumo suggerisce molti e differenti ruoli del consumo nelle società moderne, che includono il suo ruolo funzionale nel soddisfare il bisogno di cibo, abitazione, trasporto, divertimento, ecc. Ma il consumo è anche coinvolto nei processi di formazione dell’identità, della distinzione e identificazione sociale e nella creazione di significati. Di conseguenza i prodotti materiali sono di centrale importanza non solo per il loro uso funzionale, ma anche perché giocano ruoli simbolici vita-

li nella nostra esistenza. Uno degli scopi principali dell’atto di consumo per un individuo è cercare di creare un mondo sociale e definire una propria collocazione credibile in esso (Douglas, M. 1976). Ma lungi dall’essere in grado di esercitare una scelta consapevole su cosa consumare e cosa non consumare, per la maggior parte della loro vita gli individui sono dipendenti da modelli di consumo insostenibili, che si consolidano per via di barriere istituzionale e sociali, difficoltà nell’accesso e nella scelta a certi prodotti e servizi, ma anche a causa delle abitudini, delle regole e aspettative sociali ampiamente condivise e dai valori culturali prevalenti. Queste osservazioni enfatizzano la difficoltà e la complessità associate al diffondersi di comportamenti di consumo ecologicamente sostenibili. Ma evidenziano anche la necessità di scelte politiche che cerchino di influenzare il contesto sociale e istituzionale del consumo e allo stesso tempo che tentino di avere un effetto sui comportamenti individuali. Le azioni che compiono le persone e le loro scelte hanno un impatto diretto e indiretto sull’ambiente e sul benessere personale e collettivo. Cambiare i comportamenti – e, in particolare, motivare comportamenti più sostenibili – non è facile perché i comportamenti umani sono profondamente radicati nel contesto sociale e istituzionale. I decisori po-

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litici sono in parte responsabili delle scelte di consumo. La politica interviene continuamente nel comportamento di consumo, in qualche caso direttamente, ma anche e con maggiore rilevanza attraverso un’influenza estensiva sul contesto sociale nel quale le persone agiscono. Un intrecciarsi ambizioso di adeguate misure politiche può permette ai consumatori di scegliere meglio ciò che si consuma e si possiede, e condurre all’uso di prodotti e servizi sostenibili. Questi compiti sono complessi da realizzare, pur tuttavia i comportamenti mutano, certe volte radicalmente, persino in periodi di tempo molto brevi. In alcuni casi, tali cambiamenti rappresentano un’evoluzione delle norme sociali e tecnologiche dominanti, al punto che i comportamenti individuali danno inizio a nuove tendenze sociali. Perciò, comportamenti individuali apparentemente statici possono essere ripensati in senso dinamico. Nello sviluppare politiche volte a incoraggiare comportamenti di consumo sensibili alla questione ambientale, si deve tenere conto e comprendere la dimensione e la possibilità del

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Il consumo consapevole si fonda su nuovi requisiti di qualità cambiamento. Il consumo consapevole accorda la preferenza ai prodotti che posseggono determinati requisiti di qualità differenti da quelli comunemente riconosciuti dal consumatore medio, tra i quali la modalità di produzione, la sostenibilità ambientale del processo produttivo, l’eticità del trattamento accordato ai lavoratori, l’adesione politica dell’azienda produttrice. L’espressione, in genere, fa riferimento solo agli acquisti di beni materiali, ma può anche riguardare le scelte inerenti al risparmio (finanza etica) e all’uso di servizi come i trasporti o le telecomunicazioni. La possibilità di utilizzare la propria posizione di consumatore per perseguire fini politici o etici, tuttavia, presuppone il diritto di poter scegliere tra diversi prodotti, nonché la conoscenza di tutte le informazioni necessarie a compiere una scelta consapevole.


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Carlo Cellamare

Politiche e azioni di sostenibilità degli enti territoriali

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pochi giorni dalla conclusione della Conferenza di Copenhagen, ci sentiamo tutti coinvolti e sollecitati dalla questione ambientale e dai limiti dello sviluppo, dai limiti dell’idea stessa di sviluppo così come si è andata configurando nelle economie occidentali, economie del capitalismo avanzato che stanno diventando il modello economico globale. Gli effetti della globalizzazione, e di questo modello di sviluppo fondato sulla crescita e che non tiene minimamente in conto i limiti ambientali e le logiche ecosistemiche con cui funziona la natura, si stanno riversando sulla vita quotidiana di tutti. Questi problemi, su cui un vasto gruppo di esperti e di scienziati hanno da anni riportato l’attenzione, anche con toni preoccupati e accalorati, richiederebbero politiche globali impegnative e decisive. Allo stesso tempo, e nonostante

Ancora non si raggiungono accordi significativi e impegnativi

queste occasioni siano sempre importanti per “portare avanti” il livello della discussione e degli accordi rispetto a problemi ineludibili, già emergono insoddisfazione, delusione, frustrazione, soprattutto perché non si raggiungono accordi significativi ed impegnativi rispetto alla gravità e alla portata dei problemi. Questo tipo di politica, infatti, sembra molto assorbita dalla gestione degli equilibri internazionali ed incapace di dare svolte decisive. Non sono sentimenti nuovi. Analoghe esperienze sono già state sperimentate dopo gli accordi di Kyoto, con il loro mancato rispetto e la loro continua rinegoziazione, o già con la Conferenza di Rio del 1992, l’Earth Summit, che non produsse significativi accordi vincolanti. Il ruolo degli enti territoriali A fronte di questa situazione globale, esiste però un “mondo” di politiche ed azioni ambientali che, con molte ambiguità, contraddizioni e conflittualità, vengono sviluppate sui territori, grazie all’azione di soggetti diversi, anche istituzionali, in primo

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luogo gli enti pubblici territoriali, sia di livello intermedio che di livello locale. Questo grazie anche alla pressione della società civile più sensibile che ha messo in tensione le istituzioni, soprattutto quelle locali, dove – nell’equilibrio delle forze – possono assumere un peso più rilevante le voci dei cittadini e del mondo associativo, mentre questo risulta decisamente più difficile ai livelli più alti del governo (non della politica). Regioni, Province e Comuni hanno spesso saputo raccogliere le sfide delle politiche ambientali più di quanto non abbiano fatto i governi centrali. E spesso anche molto di più di quanto non abbiano fatto agenzie ed enti tecnici o strumentali, come le municipalizzate o i gestori dell’acqua: la trasformazione delle risorse naturali in business ambientale ha spinto questi soggetti a seguire logiche sempre più economiciste, se non addirittura speculative, che non di gestione sostenibile. Lo sviluppo di politiche ambientali e di sostenibilità intelligenti (e, in alcuni casi, “virtuose”) a questo livello è dovuto a diversi motivi: 1) l’introduzione e il trasferimento agli enti locali di molte competenze in materia ambientale, che spesso si è trasformata in una diretta responsabilizzazione. La connessa introduzione di assessorati, uffici tecnici, strutture di supporto, obblighi istituzionali, strumenti di programmazione, pianificazione e valutazione ob-

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bligatori (soprattutto la VAS, piuttosto che la VIA, ancora legata alle logiche della compatibilità ambientale e della mitigazione degli effetti). La Provincia, ad esempio, ha assunto un ruolo nevralgico nel campo delle politiche ambientali nell’attuale organizzazione istituzionale; 2) la costituzione e lo sviluppo di agenzie ed enti tecnici pubblici con specifiche competenze di studio, pianificazione, monitoraggio e controllo in campo ambientale. Tra questi una particolare importanza hanno le ARPA (le agenzie regionali e provinciali di protezione dell’ambiente) e le Autorità di Bacino; 3) la progressiva diffusione di una cultura ambientale a livello locale, e anche una maggiore sensibilità di alcuni politici locali (dove i problemi ambientali sono maggiormente e direttamente sentiti); 4) la maggiore vicinanza degli enti locali ai cittadini e quindi alla loro maggiore pressione e all’urgenza di alcuni problemi concreti (rifiuti, mobilità, qualità della vita, ecc.); 5) la presa di coscienza di come, in molti territori, soprattutto in Italia, la qualità paesaggistica, ambientale e del patrimonio storico-cultu-

A livello locale, le pressioni della società civile assumono un peso più rilevante


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Democrazia e partecipazione favoriscono lo sviluppo delle politiche ambientali rale sia motore di sviluppo (e quindi abbia anche una valenza economica). Questo è emerso in maniera significativa soprattutto nei territori a maggiore valenza naturalistica e rurale e meno nelle aree urbane. Va crescendo, ad esempio, una politica agricola più attenta ai prodotti tipici locali e all’agricoltura biologica. O, ancora, lo sviluppo degli itinerari eno-gastronomici e dell’agriturismo, ecc. Politiche ambientali e partecipazione Lo “sviluppo sostenibile” è ormai diventato una parola d’ordine ed uno slogan in molte realtà locali. Anche con molte ambiguità. È chiaro, però, che una maggiore democrazia ed una maggiore partecipazione favoriscono lo sviluppo di politiche e sensibilità ambientali. Teoricamente, questo non ci dice niente di nuovo, anzi ci conferma alcuni presupposti noti. Ne voglio ricordare due. L’interpretazione originaria dello “sviluppo sostenibile”, così come espressa dal Rapporto Brundtland e dai molti approcci culturali che vi sono confluiti, poneva già all’epoca l’accento sul coinvolgi-

mento della cittadinanza e degli enti locali, nonché sulle nuove forme della democrazia e sull’innovazione istituzionale, come uniche possibilità per favorire una responsabilizzazione, una maturazione di sensibilità ed una diffusione delle culture e delle politiche ambientali a favore di un radicale cambiamento. Addirittura si teorizzava il favorire l’autonomia e l’autogoverno, l’empowerment, la self-reliance, la dimensione locale dello sviluppo sostenibile, la costruzione di reti dal basso (per non parlare della globalizzazione dal basso e delle reti lillipuziane). Un approccio di ampio respiro e, anche se più lento, sicuramente più profondo. Ne è un riflesso uno degli esiti più deboli ed allo stesso tempo più efficaci della Conferenza di Rio: l’introduzione dell’Agenda 21. Come noto, si tratta di uno strumento volontario e non vincolante, in generale molto debole. Esso, però, ha permesso di spostare l’attenzione sul livello locale delle politiche e sull’attivazione degli enti locali. E si pensi ad alcuni esiti importanti come la costituzione della Rete degli enti locali che sviluppano Agende 21, a livello nazionale e internazionale (così come analoghe reti ed associazioni internazionali di enti locali, anche molto importanti), o l’esperienza della Carta di Aalborg e dei suoi sottoscrittori. Il secondo presupposto, anch’esso molto noto, è il motto ambientalista “pensare globale, agire lo-

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cale”, che si rivela qui in tutte le sue potenzialità reali. D’altra parte, non bisogna ignorare le ambiguità che si nascondono spesso dietro alcune politiche ambientali degli enti locali, spesso di facciata. Roma dovrebbe essere il Comune europeo con la maggior percentuale di verde, ma data la sua inaccessibilità, scarsa manutenzione, scarsa fruibilità, esistenza solo sulla carta, i cittadini romani percepiscono viceversa una grande carenza di verde, cosa che non avviene in altre capitali europee, ufficialmente meno dotate di verde. Allo stesso modo, sempre a Roma, l’esperienza dei “punti verde qualità” si è rivelata molto ambigua, traducendosi in molti casi in operazioni economiche e commerciali, che hanno comportato una privatizzazione di alcune fette di verde. Potremmo ricordare molti altri casi. Soprattutto si sconta spesso una settorializzazione delle politiche ambientali, molto contraddittoria. Percorsi virtuosi Allo stesso modo possiamo però ricordare esperienze estremamente interessanti ed importanti, in diversi contesti italiani, al Nord come al Sud. In Emilia-Romagna, è stato introdotto uno strumento di valutazione a livello provinciale, la VALSAT (Valutazione di Sostenibilità Ambientale e Territoriale), attraverso il quale si valuta tutto il sistema di pia-

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nificazione, proprio e del livello locale, anche utilizzando un opportuno sistema di indicatori. Questo comporta, ad esempio, che le politiche e i piani urbanistici dei Comuni vengano valutati positivamente nella misura in cui incrementano il sistema dei percorsi ciclabili ed il trasporto pubblico su ferro, possibilmente in forma integrata, e in generale nella misura in cui sviluppano una politica di mobilità sostenibile. Oppure notiamo come la Provincia di Cremona si sia data l’obiettivo di raggiungere il 60% di raccolta differenziata a livello provinciale, ed è già ben incamminata su questa strada. Particolarmente interessante è la legge regionale della Puglia sull’“abitare sostenibile” (e non solo sulla bioedilizia e sulla bioarchitettura) e le conseguenti politiche non solo sulla casa, ma sull’abitare nel suo complesso. Nella Regione Lazio, tantissimo è stato fatto sulle energie alternative. Le Province di Trento e, ancor più, di Bolzano (e alcune altre realtà specifiche di quei territori) hanno assunto il tema ambientale come elemento qualificante le proprie politiche e, per molti aspetti, come motore di sviluppo, diventan-

Esistono esperienze importanti in diversi contesti italiani, al nord come al sud


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Politiche di sviluppo, coinvolgimento dei cittadini, orientamento alla sostenibilità do leader europei, ad esempio, in tema di gestione forestale sostenibile e di abitare sostenibile (attraverso l’Agenzia CasaClima ed una specifica certificazione, diventata standard di riferimento europeo). E così anche in altre realtà italiane. Sviluppo locale sostenibile e processi partecipativi Ad esempio, la Provincia di Rieti, “cenerentola” del Lazio, ha integrato politiche di sviluppo locale sostenibile con processi partecipativi. Il piano provinciale di Rieti, sviluppato attraverso un processo partecipativo, ha avuto come “punti irrinunciabili”: 1) la “costruzione” di un’identità provinciale; 2) fare sviluppo e società locale. La considerazione fondamentale è che la Provincia di Rieti sia “scampata allo sviluppo”, al modello di sviluppo prevalente fondato sulla grande industria e sulle grandi infrastrutture, che si è però poi rivelato fallimentare. Da negativo, questo fatto si è tradotto in termini positivi, proprio perché ha permesso di ridurre le forme di depauperamento territoriale, sociale e culturale, di deterritorializzazione, di spreco di risorse ambientali, salvo che in ambiti li-

mitati e circoscritti. L’esito è che paradossalmente la Provincia di Rieti si ritrova con un patrimonio culturale e ambientale abbastanza integro, con un’elevata carrying capacity, con una significativa qualità di vita. Il piano propone prospettive alternative, fondate prima di tutto sulle risorse naturali, sui prodotti e sulle culture locali, che sono in grado di dialogare positivamente con le dinamiche della globalizzazione; 3) la compatibilità ambientale; 4) creare progettualità diffusa, creatività e capacità imprenditoriale; 5) saper(e) fare il cambiamento. Al piano provinciale è stato fatto seguire un Bilancio ambientale, anch’esso sviluppato attraverso un percorso partecipativo, uno strumento di programmazione che definisce i riferimenti politici e culturali dello sviluppo provinciale (con particolare riferimento ai temi ambientali), le strategie e le linee di azione, i progetti e le priorità su cui investire, fino alla definizione delle risorse economico-finanziare da inserire nel Bilancio a sostegno dei progetti e delle azioni definiti (tra cui, ad esempio, Patto per le acque del bacino del Velino, Valorizzazione del patrimonio forestale, Autonomia energetica, Parco fluviale del Velino, Valorizzazione del Paesaggio Sabino, ecc.). Anche a livello locale vi sono esperienze interessanti in questa Provincia. Il Comune di Cittaducale, ad esempio, ha addirittura ottenuto la

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certificazione ambientale europea. O, ancora, il Comune di Borbona, nell’Alto Velino, ha approfittato di alcune importanti iniziative prese dall’Assessorato al Bilancio e alla Programmazione della Regione Lazio a sostegno dello sviluppo di processi partecipativi, sia a livello regionale che a livello locale;1 sviluppando in forma integrata le proprie politiche di sviluppo e le proprie scelte di programmazione con il coinvolgimento dei cittadini e un orientamento forte

in termini di sostenibilità: valorizzazione ambientale e fruizione turistica responsabile, sviluppo locale e sostegno alle produzioni tipiche locali, riqualificazione urbana e valorizzazione del patrimonio storico-culturale, servizi locali per la popolazione. Sono questi solo alcuni esempi di percorsi “virtuosi” che confermano il legame profondo tra sostenibilità, sviluppo locale, partecipazione, innovazione istituzionale e nuove forme della democrazia.

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Cfr. il sito www.economiapartecipata.it


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L’ecomafia, globale e locale

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n quest’era di globalizzazione, c’è un flusso illegale di merci che meriterebbe più attenzione, da parte di tutti. E’ quello dei traffici di rifiuti, che hanno come origine i paesi europei e gli Stati Uniti e come destinazione prevalente l’Africa, la Cina e il Sud-Est asiatico. Grazie a questi traffici illegali, i Paesi più ricchi si liberano delle loro scorie a basso costo, inquinando quelli più poveri e in via di sviluppo. A guadagnarci sono le organizzazioni criminali che gestiscono i flussi, assicurano la logistica, riciclano i capitali accumulati illegalmente. In Italia, queste reti criminali s’intrecciano fortemente con le organizzazioni mafiose, dando vita al fenomeno dell’ecomafia, che ha trasformato tante aree del nostro Mezzogiorno in vere e proprie discariche illegali. Altrove stringono affari con i signori della guerra. Corrompono governi. Ovun-

Il flusso illegale di rifiuti avviene verso nazioni con apparati penali più blandi

que s’infiltrano nel tessuto economico, distruggono l’ambiente e rappresentano una minaccia per la stessa salute dei cittadini. L’Europol parla di “shopping normativo”: la movimentazione illegale di rifiuti avviene verso nazioni con un apparato penale più blando e con controlli meno efficaci. E un recente studio condotto dall’Unione europea in 13 porti ha messo in rilievo che addirittura il 50% delle spedizioni di rifiuti registrano violazioni normative. L’operazione Demeter Nel luglio del 2009, sono stati resi noti i risultati della prima operazione doganale congiunta realizzata a livello mondiale contro il traffico illecito di rifiuti. Condotta dall’Organizzazione mondiale delle Dogane, l’operazione Demeter ha visto la partecipazione di amministrazioni doganali e forze di polizia di 64 stati fra Europa, Africa e Sud Est Asiatico. Sono state sequestrate 30.000 tonnellate di rifiuti, in prevalenza rottami metallici, destinati prevalentemente in Asia; materiali di

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scarto di prodotti elettronici; elettrodomestici (dai frigoriferi usati contenenti CFC a vecchi schermi televisivi, destinati soprattutto in Africa) e parti usate di veicoli. Si tratta di merci che contengono rifiuti altamente pericolosi e che, nei paesi di origine, sono soggette a normative molto severe per il loro trattamento. La maggior parte dei sequestri ha avuto luogo in paesi europei come l’Olanda, il Belgio e l’Italia, fortunatamente prima che i rifiuti venissero spediti. Questi risultati sono stati raggiunti anche grazie al lavoro pionieristico svolto in Italia dall’Ufficio antifrode dell’Agenzia delle dogane, in stretta collaborazione con il Comando dei carabinieri per la tutela ambientale. Nel triennio 2006-2008, sono state sequestrate oltre 14.000 tonnellate di rifiuti speciali e pericolosi, con un trend in costante crescita. Cina, India, Pakistan, Russia, Siria, Ghana, Liberia, Nigeria sono soltanto alcuni dei Paesi coinvolti nelle ultime indagini. I traffici illegali di rifiuti hanno radici profonde. Accompagnano, sostanzialmente, l’introduzione delle leggi con cui si è cercato di regolare, nel rispetto dell’ambiente e della salute dei cittadini, un settore economico di grande rilievo. Soltanto in Italia, per fare un esempio, sono state prodotte nel 2006 (ultimo dato disponibile) oltre 134 milioni di tonnellate di rifiuti speciali.

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Circa il 25% sfugge ai sistemi legali di smaltimento, alimentando un giro d’affari che viene stimato da Legambiente in poco meno di 7 miliardi di euro. Sul mercato illegale, smaltire una tonnellata di rifiuti speciali costa circa il 50% in meno del prezzo pagato rispettando la legge. Si risparmia ancora di più nei Paesi più poveri, Africa in testa, dove lo smaltimento di una tonnellata di rifiuti pericolosi può costare fino a 50 volte meno del prezzo praticato negli Stati Uniti o in Europa (è facile immaginare con quali conseguenze per l’ambiente e la salute delle persone). L’introduzione del delitto ambientale in Europa L’Italia, che pure non ha nel proprio codice penale i delitti contro l’ambiente (questione su cui torneremo più avanti) è, però, l’unico paese europeo ad aver previsto finora l’introduzione di un delitto specifico: l’organizzazione di traffico illecito di rifiuti, con sanzioni particolarmente gravi (fino a 8 anni di reclusione per i rifiuti radioattivi) che consentono a forze dell’ordine e magistratura di indagare con efficacia. Si spiegano

La maggior parte dei sequestri riguarda paesi europei come l’Olanda, il Belgio e l’Italia


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La direttiva europea del 2008: strumento primario di contrasto alla criminalità ambientale così i risultati raggiunti nella repressione di queste organizzazioni criminali, con più di 800 persone arrestate dal 2002 al 2009, oltre 600 aziende implicate e ben 13 Stati esteri coinvolti. È frutto anche di questa consapevolezza (tardiva, è vero, ma importante) la direttiva per la tutela penale dell’ambiente del 19 novembre 2008: uno strumento fondamentale di contrasto alla criminalità ambientale, non solo per quanto riguarda i traffici illegali di rifiuti, che dovrà essere adottata da tutti i paesi dell’Unione europea (Italia compresa) entro il 31 dicembre 2010. L’ambiente, da terra di nessuno saccheggiabile impunemente, diventa, dal punto di vista penale, un bene comune da tutelare contro gli interessi e i comportamenti criminali di chi lo inquina. Anche il nostro Paese, entro quella data, dovrà finalmente adeguarsi a questa riforma di civiltà. Ancora oggi, infatti, chi inquina gravemente un fiume, apre una cava abusiva e devasta un’area protetta, non commette, per il nostro codice penale, un delitto. Chi ruba una mela, invece, sì.

La situazione italiana È difficile spiegare le ragioni di questa vera e propria latitanza della politica, se non ricorrendo a un’amarissima constatazione: nel nostro Paese, il dumping ambientale è un requisito strutturale del sistema economico e produttivo. Insomma, a chi fa impresa è tacitamente consentito, al di là di quanto prevedano norme e regolamenti, di scaricare sull’ambiente i costi di produzione, sia che si tratti di smaltire i rifiuti, sia che si tratti, come accade nel ciclo del cemento, dell’acquisto illecito di materie prime, dalla sabbia al pietrisco. In Italia, si parla molto di “green economy”, ma si pratica diffusamente la “dirty economy”, che mette spesso fuori mercato le imprese rispettose dell’ambiente e arricchisce i clan. Le conseguenze sono gravissime e documentate. Nel 2008, il fatturato dell’ecomafia ha superato i 20,5 miliardi di euro, con un incremento del 7,3% rispetto al 2007. Anche il numero dei clan coinvolti nei traffici illegali di rifiuti, nell’abusivismo edilizio, nel racket degli animali è cresciuto: sono stati 258 quelli censiti da Legambiente nell’ultimo “Rapporto Ecomafia”, 19 in più rispetto all’anno precedente. Nel nostro Belpaese si sono consumati lo scorso anno oltre 25mila reati contro l’ambiente e sono state costruire 28mila case abusive. In testa a tutte le classifiche dell’illegalità ambientale c’è, stabil-

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mente, la Campania, seguita dalle altre regioni a tradizionale presenza mafiosa (nell’ordine Calabria, Sicilia e Puglia), ma guai a confinare affari sporchi e traffici avvelenati nelle regioni del Sud. L’ecomafia ha aggredito il Lazio come la Lombardia, la Toscana come il Piemonte. E i clan, nella loro espansione territoriale, esportano le tecniche di smaltimento illecito di rifiuti sperimentate nei territori d’origine: in provincia di Milano, un clan della ‘ndrangheta ha utilizzato i cantieri edili che controllava per interrare

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Il dumping ambientale è un requisito strutturale del nostro sistema economico e produttivo veleni, come ha dimostrato l’operazione Star Wars. Ciclo illegale dei rifiuti e ciclo illegale del cemento trovano così nel nostro Paese una proficua sinergia. Dimostrando, se mai ce ne fosse stato bisogno, le straordinarie e pericolosissime capacità imprenditoriali dell’ecomafia.


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Ecomafia. Il ritardo della politica

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el solo 2009 il business dell’ecomafia è stato di circa 21 miliardi di euro. Gli ecoreati accertati, 25.776. Quasi 71 al giorno; 3 ogni ora. Metà dei quali si è consumata nelle 4 regioni meridionali: Campania, Calabria, Sicilia e Puglia. Il resto si spalma su tutto il territorio nazionale. Il 2008 è stato l’anno dei record per le inchieste sui trafficanti di rifiuti pericolosi: ben 25, con un fatturato che ha superato i 7 miliardi di euro. Tutti soldi sporchi accumulati avvelenando l’ambiente dei cittadini. La montagna di scorie industriali, gestite illegalmente dalla “rifiuti spa” ha raggiunto, in un solo anno, la vetta di 3.100 metri, quasi quanto l’Etna. Questi i dati forniti dal rapporto di Legambiente, presentati al Presidente della Commissione Antimafia e al Procuratore Nazionale Antimafia. Il fatturato totale dell’ecomafia, quindi, non è stato mai così alto ed

Ecomafia: livelli record nell’anno più nero per l’economia mondiale

è cresciuto a livelli record proprio nell’anno più nero per l’economia mondiale. Segno che l’ecomafia non conosce congiunture sfavorevoli e pertanto è necessario mettere in campo tutti gli strumenti possibili per combattere quest’autentica attività criminale. Il delitto ambientale L’analisi spietata sulla vastità della rete delle ecomafie mette in luce, in primo luogo, il “ritardo” della politica. Nonostante le indicazioni ribadite più volte, da oltre un decennio, in tutti i documenti prodotti dalle commissioni parlamentari d’inchiesta sui rifiuti, non si è trovato il tempo di inserire nel codice penale i reati contro l’ambiente. Se l’attuale maggioranza parlamentare discutesse, oltre che sul processo breve e su varie ipotesi di lodo, anche di come approvare nuove norme sull’ecomafia, ne trarrebbero giovamento la politica, i partiti e il Parlamento. In questo ecopanorama, la Campania ha un triste primato: 573 i reati legati alla gestione criminale

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dello smaltimento illegale di rifiuti o dell’uso del cemento per abitazioni abusive. Nei soli ultimi 3 anni, sempre in Campania, sono stati smaltiti oltre 13 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi provenienti dal nord Italia. La Guardia di Finanza ha individuato oltre 1.000 discariche abusive. Alla luce di tutto questo, emerge con nitidezza come le norme attuali siano totalmente insufficienti per combattere le ecomafie. Si continua a chiedere che Governo e Parlamento definiscano il delitto ambientale con l’introduzione di pene adeguate. Il primo disegno di legge di iniziativa governativa risale alla presidenza Prodi. Parliamo addirittura del 1997. Sono trascorsi più di 10 anni (tanti!) ma ancora oggi la legge non c’è. Ancora oggi chi inquina gravemente un fiume, apre una cava abusiva, devasta un’area protetta, smaltisce in mare scorie e veleni, non commette, per il nostro codice penale, un delitto. Chi ruba invece una mela, va in carcere, come ci ricorda Enrico Fontana, vice presidente della Commissione Agricoltura della Regione Lazio. Questa vergognosa pagina della “bella Italia” è anche, purtroppo, una vergognosa pagina della classe dirigente meridionale, e ancora di più una vergognosa pagina della “sinistra” al governo da anni negli enti locali del Mezzogiorno: regioni, province e comuni.

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Campania: le “dimissioni” della politica Nelle analisi spesso anche impietose che vengono scritte sulle “responsabilità” di chi amministra la cosa pubblica nel sud, si dovrebbe partire dalla fotografia dell’ambiente. Che vuol dire innanzitutto un impressionante divario che corre tra il nord e il sud sullo smaltimento dei rifiuti. E questo ci porta immediatamente a vedere sugli schermi della nostra memoria Napoli, Palermo e tanti altri comuni alle prese con cumuli di immondizia che non si sa come raccogliere e come eliminare. Forse ad alcuni perbenisti sarà parso anche eccessivo quel decreto che ha previsto addirittura il ricorso ai militari a presidio delle aree scelte per lo smaltimento, così come ha potuto destare indignazione il fatto che nello stesso decreto sia prevista l’estromissione dei sindaci dei comuni che non abbiano avviato in concreto piani credibili di smaltimento dei rifiuti. E bisogna riconoscere che l’attuale governo, attraverso il commissario straordinario alla Protezione Civile, Bertolaso, si è guadagnato la fiducia dei cittadini sostituendosi al “pasticciaccio brutto” della classe dirigente campana e napoletana in particolare. I responsabili degli enti

Occorre una definizione del delitto ambientale per combattere le ecomafie


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Sulla questione dell’ambiente, una nuova casta politica rapace e familista locali, soprattutto della Regione Campania, non hanno saputo organizzare lo smaltimento dei rifiuti ma hanno bruciato centinaia di milioni di euro attraverso società fantasma, talvolta con nomi illustri in combutta con imbroglioni di ogni sorta, in un perverso intreccio tra malaffare, inefficienza, camorra e burocrazia politica. La verità è che la politica, restando sempre in Campania, si era già dimessa da alcuni anni, nel momento in cui ha consentito la nomina di prefetti che avrebbero dovuto così accollarsi le gravose responsabilità della scelta dei siti indispensabili per la raccolta dei rifiuti. Il fronte di questa evidente dismissione investe tutto l’arco politico, di ieri e di oggi. Ieri, quando la carica di Presidente della Regione Campania era ricoperta da un esponente dell’allora Alleanza Nazionale, Rastrelli, e successivamente, con la vittoria del centrosinistra, da Bassolino. Sulla questione del malaffare dei rifiuti, negli ultimi tempi, è giusto parlare di centro-sinistra (il famoso trattino è importante) intendendo per centro l’Udeur di Clemente e Sandra Mastella. Intanto non sempre viene ricordato che, come ha scritto efficacemente

Mariano Maugeri nel suo libro “Tutti gli uomini del viceré”, c’è stata sulla questione dell’ambiente una nuova casta politica rapace e familista. Abbiamo assistito al paradosso delle marce di protesta contro l’inceneritore di Acerra, guidate da sindaci, vescovi e dal Ministro dell’Ambiente dell’epoca Pecoraro Scanio. Ma sempre tornando al rapporto politica-ambiente, è doveroso ricordare che quando è avvenuta la grande spartizione all’interno dell’“Unione” che consentì la costituzione del governo Prodi, ricorda sempre Maugeri, nella spartizione delle deleghe, all’Udeur toccò l’assessorato all’Ambiente. Ambiente in Campania significa la gestione politica del territorio più compromesso, antropizzato e avvelenato d’Europa. Ambiente in Campania significa Arpac, Agenzia Regionale per l’Ambiente della Campania, e i bassoliniani pare che allora avessero così commentato, dice sempre Maugeri, la delega dell’Ambiente all’Udeur: “potevamo affidare a loro la delega al bilancio?” Ci sembra superfluo soffermarci su come sia stata gestita questa delega e quale sia stato il suo bilancio. Tutto il mondo ha visto, purtroppo. Bassolino e Mastella hanno così accumulato, quasi in egual misura, per azioni e omissioni, enormi responsabilità. L’Udeur si è dissolta confluendo con il suo leader nel Partito della Libertà. Ma Bassolino? Nessuno finora è riuscito a scal-

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zarlo. La sua sorte politica segnerà la credibilità del Partito Democratico non solo a Napoli, ma nel Mezzogiorno e in Italia. Si vedrà se vince ancora il pacchetto delle tessere o se si muove qualcosa di davvero nuovo. Ma viste le posizioni congressuali del PD, con l’appoggio soffocante di Bassolino a D’Alema e Bersani, le prospettive non appaiono incoraggianti. D’altra parte anche nel centrodestra la situazione non risulta granché migliore. Ne è testimonianza il caso dell’onorevole Cosentino, candidato in una prima fase alla Presidenza della Regione Campania, ma tirato in ballo dalla magistratura per i suoi rapporti non sempre apparsi limpidi con una società per la gestione dei rifiuti proprio in una zona dei Casalesi. Al di là del fatto che il Parlamento non abbia consentito l’arresto dell’onorevole Cosentino, resta però l’indicazione iniziale del PDL di Cosentino come candidato per la Presidenza della Regione Campania. La vicenda della “nave dei veleni” in Calabria Le cose non vanno meglio in Calabria. Ci sono state inchieste su tutto lo spettro ambientale, dai depuratori allo smaltimento dei rifiuti. Esponenti della ex giunta di centrodestra, fra cui guarda caso l’Assessore all’Ambiente, sono stati inquisiti dall’autorità giudiziaria. In questa cornice va visto l’ultimo incredibile episodio. Da tempo esponenti del-

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l’ambientalismo calabrese e alcuni magistrati hanno sostenuto che nelle acque della regione siano state affondate delle navi che trasportavano rifiuti tossici. Il tutto avveniva d’intesa con la ‘ndrangheta. Di qui documenti, denunce, incidenti automobilistici che, secondo alcuni, erano invece degli autentici omicidi, avvelenamento del mare e così via. A un certo punto, spunta uno dei pochi ‘ndranghetisti disposti a parlare. L’aspirante pentito indica con precisione il luogo dove una delle navi fantasma, con il suo carico di rifiuti tossici, si sarebbe inabissata. L’indicazione è troppo precisa rispetto al passato per non essere presa in seria considerazione, a suggello di tutte le piste indicate negli anni dagli ambientalisti. La Regione Calabria ha un sussulto. L’Assessore all’Ambiente, indicato come persona perbene e seriamente attento ai problemi del settore, riesce a racimolare, dal magro bilancio regionale, dei fondi per scandagliare il mare nel luogo indicato sempre dall’aspirante pentito. Grande esultanza, i palombari con la nave-appoggio, muniti di sofisticate tecnologie, individuano un relitto. Ma da un esame più attento risulta che sono necessari altri ingenti fondi per “entrare”

Campania: il territorio più compromesso, antropizzato e avvelenato d’Europa


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Gran parte dei veleni vengono dal nord e sono smaltiti nel sud nella nave e scoprire così il suo carico. Riunioni, polemiche, alla fine il Ministero dell’Ambiente trova, nonostante le difficoltà di bilancio, le risorse per l’immersione decisiva. Sono stati così investiti centinaia di migliaia di euro per il buon fine dell’operazione. Il “tesoro” sembrava lì a portata di mano. I palombari scendono, penetrano nella nave, ma ahimè dei fusti con materiale velenoso non c’è traccia. Il relitto in fondo al mare risaliva addirittura al 1917. Si trattava di una nave inglese silurata nella prima guerra mondiale da un sottomarino tedesco. Tutto falso! Tutto inventato! Dell’aspirante pentito non si hanno più tracce. Non sappiamo quali provvedimenti siano stati presi nei suoi confronti. E questo episodio conferma come i pentiti vadano trattati con grande accortezza. Maneggiarli è molto pericoloso. Al di là di questo incredibile episodio la verità è che in Calabria ci sono zone inquinate, falde acquifere inquinate, addirittura edifici scolastici costruiti con materiale inquinante. Basti pensare a Vibo Valentia. Nel mitico nord Questa, per grandi linee, è la situazione nel Mezzogiorno per quel che

riguarda l’ambiente. Il traffico dei rifiuti, purtroppo, riguarda tutta l’Italia. Gran parte dei veleni vengono dal nord e sono smaltiti nel sud, attraverso una perversa catena di Sant’Antonio con appalti, subappalti, sotto gli occhi degli amministratori distratti e spesso complici del malaffare. Ma nel mitico nord avvengono altre cose gravi per quel che riguarda lo smaltimento dei rifiuti. In Lombardia è stata aperta una grossa inchiesta giudiziaria che coinvolge la più importante azienda del settore. Un’indagine che ha portato la Guardia di Finanza a scoprire bilanci fasulli della società, evasioni fiscali enormi, conti all’estero. Il titolare dell’azienda è stato arrestato (viene ritenuto molto vicino alla Compagnia delle Opere). L’Assessore Regionale all’Ambiente della Lombardia è stato interrogato per 10 ore. L’inchiesta prosegue e non sappiamo se toccherà anche la “politica”, ipotesi che non sarebbe da escludere sapendo come vanno le cose in questo campo. La scommessa sul domani: tra incertezze e illusioni Per concludere. 1. Manca, come abbiamo detto all’inizio, una legislazione adeguata per combattere l’ecomafia. 2. Gli amministratori locali, i partiti, dovrebbero fare un sincero outing, anche se alcune isole felici fortunatamente esistono nel deserto meridionale e sarebbe ingiusto

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Ecomafia. Il ritardo della politica Alberto La Volpe

ignorarle. Anzi, questo conferma che quando c’è la volontà politica di affrontare correttamente anche problemi così complessi come il trattamento dei rifiuti, si può operare dignitosamente. Sempre per quel che riguarda i partiti, nel Mezzogiorno e in particolare in Campania, è sintomatico il fatto che essi abbiano dimostrato una completa afasia rispetto ai problemi come si dice “della gente”, tacendo sullo scandalo dei rifiuti. Nei partiti, quando si riesce a riunire un organismo dirigente, non si trova il tempo di occuparsi nel modo giusto di problemi così gravi. E sembra sorprendente la “sorpresa” con cui hanno assistito inerti all’esplosione del-

Nel deserto meridionale fortunatamente esistono alcune isole felici la tempesta dei rifiuti a Napoli. La scommessa sul domani è davvero incerta. Vorremmo quasi in termini augurali ricordare una delle più belle sequenze del film Gomorra. Proprio nel “capitolo” dei rifiuti c’è un ragazzo, un giovane, che non accetta più di lavorare per il suo capo, una specie di colletto bianco ma un autentico mascalzone. Il ragazzo va via, non vuole più essere complice del reato di ecomafia. Ci dobbiamo solo contentare di una sequenza cinematografica?

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Cfr. il sito www.economiapartecipata.it


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Serena Ferrara

La globalizzazione e il mito della saggezza ecologica

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alla fine degli anni Ottanta, l’ecologia è diventata un ambito culturale di interesse collettivo, imponendosi nell’agenda politica internazionale. Contemporaneamente, il trasferimento sul palcoscenico mediatico dei dati relativi al riscaldamento globale e all’innalzamento del livello del mare raccolti da scienziati, climatologi, ambientalisti ha fatto sì che l’ambiente entrasse di prepotenza nell’immaginario collettivo come una priorità, un’urgenza. Retoriche dell’ambiente La carica ideologica implicita nella retorica ambientale e il potere di creare consenso intorno a questo tema non sono sfuggiti ai soggetti che si confrontano nell’arena politica e, soprattutto, in quella culturale, al punto che l’attenzione all’ambiente ha finito per diventare un vero e

“Innovazione” e “sostenibilità” i due binari paralleli su cui viaggia la società del cambiamento

proprio habitus, capace di connotare positivamente tanto i discorsi della politica, quanto le presunte mission di grandi operatori del mercato. In questo senso, i concetti di «Innovazione» e di «Sostenibilità » sono stati spesso utilizzati come slogan che rappresentano, in estrema sintesi, i due binari paralleli su cui viaggia la società del cambiamento, sempre più interconnessa e globalizzata. Nella cultura derivata dalla globalizzazione, l’ambiente è venuto configurandosi come summa di questioni e conflitti ancora irrisolti che trovano una catarsi nella spettacolarizzazione e, talvolta, nella banalizzazione delle minacce ambientali. Ne sono un esempio le colossali costruzioni cinematografiche nelle quali il genere umano – ormai ridotto a una sparuta rappresentanza – sopravvive a grandi catastrofi naturali di cui, non sempre, è il diretto responsabile. Nello spazio della rappresentazione, la tecnologia, lungi dall’essere la causa diretta del disastro, diventa piuttosto lo strumento attraverso cui solo quella parte di umanità che è stata in grado di impossessarsene

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riesce a fronteggiare le minacce di una Natura nemica. Attraverso questo semplice meccanismo narrativo, è possibile rinviare all’infinito i conti con la storia e, soprattutto, con il futuro annunciato dagli ambientalisti. Tuttavia, in questi tentativi di esorcizzare un’ansia collettiva – più o meno fondata – per il destino del pianeta, riaffiorano alcune delle grandi rimozione storiche dell’Occidente: dalla consapevolezza di aver perso per sempre la capacità di un contatto autentico con la Natura, alle responsabilità storiche nei confronti dei paesi del Terzo Mondo. In questo quadro, si può ipotizzare che l’ossimoro dello «sviluppo sostenibile» costituisca l’artificio linguistico che rende ancora possibile affrontare il tema di un’emergenza globale, senza dover rinunciare alla concezione moderna di sviluppo, intesa prevalentemente come crescita economica, rispetto alla quale innovazione tecnologica e progresso scientifico sono chiamati a essere funzionali. Nel momento in cui la «società della conoscenza» si trova a dover fare i conti con l’idea ancestrale di «habitat», il concetto di «sostenibilità» diventa il luogo di senso nel quale si ripropone il rapporto dialettico tra Natura e Cultura, tra innovazione e conservazione, secondo quel meccanismo di ripresa/mantenimento/distorsione usato da Gianni Vattimo per descrivere la logica socio-culturale della post-mo-

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dernità. Secondo questa logica, nella cultura post-moderna si combinano il mantenimento di tratti culturali tipici della modernità (in questo caso il concetto di innovazione) e la ripresa di elementi pre-moderni (il rapporto con la Natura) per condurre a forme culturali inedite come, nel nostro caso, l’idea che solo mediante la tecnologia potrà ricomporsi la profonda frattura tra la società e gli ecosistemi naturali entro cui essa si sviluppa. Globalizzazione e questione ambientale Da un punto di vista storico, la problematica ambientale è verosimilmente un portato della globalizzazione. In altri termini, solo negli ultimi vent’anni si è cominciato a riflettere sulle conseguenze dello sviluppo. Probabilmente, perché ha cominciato a farsi strada la consapevolezza che il processo di sviluppo appena avviato dai paesi poveri non avrebbe fatto che aggravare le conseguenze negative dell’industrializzazione – sintetizzate nell’immagine dell’«effetto serra» – minacciando ulteriormente un equilibrio ambientale, a detta degli scienziati, già fin troppo precario. Il nesso tra globalizzazione e questio-

La “sostenibilità” è il luogo di senso nel quale si ripropone il rapporto dialettico tra natura e cultura


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L’ambiente gioca un ruolo centrale nelle dinamiche della geopolitica ne ambientale è reso particolarmente evidente dal ruolo centrale che questa gioca nelle dinamiche della geopolitica. Qui la riflessione sull’ambiente si intreccia inevitabilmente con la questione, ancora irrisolta, del divario economico tra paesi ricchi e paesi poveri. Volendo ripercorrere le tappe che hanno portato la tematica ambientale al centro della riflessione internazionale, non si può non ricordare il Club di Roma, fondato nel 1968 dall’imprenditore italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King, insieme a premi Nobel, leader politici e intellettuali. Il nome del gruppo nasceva dal fatto che la prima riunione si svolse a Roma, presso la sede dell’Accademia dei Lincei alla Farnesina. Il Club conquistò l’attenzione dell’opinione pubblica con il “Rapporto sui limiti dello sviluppo” commissionato al MIT (Massachusetts Institute of Technology) e pubblicato nel 1972. Donella Meadows ne fu l’autrice principale. Il Rapporto prediceva un declino improvviso e incontrollabile della popolazione e della capacità industriale entro cento anni, a fronte di un andamento costante dei ritmi di crescita della popolazione, dell’in-

dustrializzazione, dell’inquinamento e dello sfruttamento delle risorse. La crisi petrolifera del 1973 parve confermare tali previsioni, ma il suo superamento contribuì a screditare definitivamente il Rapporto. La tesi secondo cui, dopo il 2000, l’umanità avrebbe dovuto fare i conti con la scarsità delle risorse naturali fu sostanzialmente rigettata dalla cultura economica internazionale – incontrando il sostegno di illustri premi Nobel, come l’economista Amartya Sen – nella convinzione che lo sviluppo tecnologico avrebbe comunque sopperito alla crisi. Da allora, sono stati pubblicati due aggiornamenti del Rapporto. Nel primo, intitolato “Beyond the Limits” (1992), si sosteneva la tesi di un sostanziale superamento della “capacità di carico” del pianeta; nel secondo, dal titolo “Limits to Growth: The 30-Year Update” (2004), gli autori spostavano l’accento dall’esaurimento delle risorse alla degradazione dell’ambiente. Mettendo a confronto i dati degli ultimi 30 anni con le previsioni effettuate nel 1972, Graham Turner è giunto a concludere che vi è una coerenza tra i mutamenti nella produzione industriale e agricola, nella popolazione e nell’inquinamento effettivamente avvenuti e la previsione di un collasso economico nel XXI secolo (G. Turner, “A comparison of The Limits to Growth with 30 years of reality”, 2008).

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I summit mondiali sull’ambiente Il contenuto del primo rapporto del Club di Roma può considerarsi anticipatorio del concetto di “sviluppo sostenibile”, introdotto nel 1998 da un Rapporto della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite, pubblicato in Italia con il titolo “Il futuro di noi tutti”. In generale, esso affermava l’importanza di un’integrazione tra economia e ambiente nei processi decisionali, proponendo una definizione di sviluppo economico compatibile con la scarsità delle risorse naturali: «lo sviluppo sostenibile è quello che consente di soddisfare i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di soddisfare i propri». Con questa definizione si intende tutelare, da una parte, il diritto dei paesi in via di sviluppo a utilizzare le risorse naturali per soddisfare i propri bisogni di crescita economica; dall’altra, quello delle generazioni future all’utilizzo delle risorse naturali per la propria sopravvivenza. Nel 1992, anno della prima Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro (Earth Summit), 154 nazioni giunsero a ratificare per la prima volta un trattato internazionale che obbligava i governi a perseguire un obiettivo non vincolante di riduzione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera; nel 1997, nell’ambito della terza Conferenza delle Parti

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(COP-3) tenutasi a Kyoto con l’obiettivo di monitorare i progressi fatti dopo la ratifica dell’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), 184 nazioni hanno ratificato un protocollo che impegnava tutti i paesi ricchi del mondo a ridurre le emissioni di gas serra del 6%-8% rispetto ai livelli del 1990. Tali obiettivi, relativi al periodo compreso tra il 2008 e il 2012, erano stavolta legalmente vincolanti. Nel 2001, però, l’amministrazione Bush ha rigettato il protocollo e la delegazione statunitense ha partecipato solo come osservatrice alla sesta Conferenza delle Parti (COP-6), svoltasi a Bonn, rifiutandosi di prendere parte ai negoziati relativi al protocollo. A distanza di 12 anni dalla ratifica di quel protocollo, i diplomatici si sono ritrovati a Copenhagen per la quindicesima Conferenza delle Parti (COP15). Ideologi(e) dell’ambiente Ma quali sono stati, in questi anni, gli interessi in gioco? Quali risultati si sono contesi i delegati dei Paesi partecipanti agli estenuanti – e quasi sempre blindati – negoziati che hanno preceduto la ratifica dei trattati internazionali? E quali volontà

Lo sviluppo sostenibile implica un’integrazione tra economia e ambiente nei processi decisionali


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Nella politica verde di Barack Obama si sostanzia la speranza di un nuovo assetto politico mondiale politiche si sono concretizzate nell’emanazione di tali trattati, spesso rigettati all’indomani della loro entrata in vigore? Da un lato, i tentativi di rimettere in discussione il Protocollo di Kyoto ripropongono una visione storico-politica che non tiene conto delle istanze di quella parte della popolazione mondiale che ancora vive in condizioni di povertà e sulla quale incombono più minacciose le conseguenze del riscaldamento globale. Dall’altro, le proteste contro la pretesa di estendere alla Cina e all’India l’obbligo di ridurre le emissioni di gas serra, hanno più il carattere di una resistenza ideologica nei confronti dell’egemonia occidentale, essendo ragionevolmente incompatibili con la definizione di sviluppo sostenibile. Il legittimo diritto allo sfruttamento delle risorse naturali, riconosciuto a quei paesi che hanno avviato in ritardo il proprio processo di industrializzazione, infatti, non può giustificare livelli d’inquinamento che rischiano di compromettere in modo irreparabile l’equilibrio ambientale. Nel dibattito internazionale sulle politiche ambientali, quindi, non fanno che riproporsi quelle costruzio-

ni discorsive che vedono il Nord e il Sud del mondo – o, in termini più attuali, l’Occidente e l’Oriente – come blocchi economicamente e culturalmente divisi da ragioni storiche, purtroppo, difficilmente superabili. Nelle difficoltà che caratterizzano il confronto internazionale emergono concezioni economiche, politiche e culturali radicalmente diverse. Vi è, in altri termini, un nesso implicito tra il mito della «saggezza ecologica» e la speranza che sia possibile ristabilire una giustizia sociale a livello planetario, nonché un patto sociale con le generazioni che verranno. Ne è un esempio l’ascesa politica di Barack Obama, sul quale sono confluite grandi speranze collettive di cambiamento. Non è un caso che la prima grande promessa del neo-presidente sia stata quella di una nuova Politica Verde, e cioè di un brusco cambio di marcia rispetto alle posizioni del suo predecessore. Su questa promessa egli ha potuto costruire un patto comunicativo con il proprio elettorato che, a livello più profondo, si sostanzia probabilmente nella speranza di giungere progressivamente a un nuovo assetto politico mondiale. Ambiente e identità politiche Passando dal contesto globale a quello europeo, si può constatare come la questione ambientale, qui, sia rimasta a lungo intrappolata nelle trame dei discorsi ideologici finaliz-

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zati a ri-definire costantemente l’identità della Destra e della Sinistra. L’attenzione all’emergenza ambientale è stata per lungo tempo appannaggio della Sinistra, finendo per caricarsi di una presunta intransigenza. Recentemente, è avvenuto per la politica ambientale, come per altre istanze considerate tradizionalmente di sinistra, ciò che Stuart Hall ha definito «il grande spettacolo dello spostamento a destra». In altre parole, l’attenzione all’emergenza ambientale, depurata delle sue pretese più “estreme”, viene ricondotta strategicamente (dalla destra) e prudentemente (dalla sinistra) entro i confini della retorica del «capitalismo» e del «libero mercato». In questa prospettiva va letto, probabilmente, l’atteggiamento dei delegati europei che a Bangkok, per la prima volta, hanno messo in discussione il protocollo di Kyoto auspicandone la sostituzione con nuovi trattati che possano essere sottoscritti anche dagli Stati Uniti. Localismi e nuova cittadinanza digitale Nel nostro Paese, ha contribuito in modo rilevante alla progressiva delegittimazione delle istanze ambientali il costante ricorso alla formula “Not In My Back Yard” (“non nel mio cortile”). Con l’acronimo Nimby si suole indicare un atteggiamento tipico delle proteste contro opere di interesse pubblico che si teme possa-

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no avere effetti negativi sui territori in cui queste verranno costruite. In questo modo sono state etichettate, ad esempio, le proteste contro il progetto di realizzare un ponte sullo Stretto di Messina o quelle contro la costruzione di discariche e termovalorizzatori. Più recentemente, rischia di subire lo stesso destino la polemica delle regioni rispetto all’individuazione dei siti su cui costruire nuove centrali nucleari. Tuttavia, la scelta di negare a priori la validità delle argomentazioni delle comunità locali appare irresponsabile di fronte a due aspetti che caratterizzano il contesto italiano. Il primo, di carattere puramente ambientale, ha a che fare con le calamità naturali che, durante l’anno appena trascorso, ci hanno messo di fronte alla fragilità del nostro territorio. Il terremoto dell’Aquila e le frane di Messina hanno rivelato come, nel nostro Paese, le ragioni dello sviluppo e dell’innovazione debbano misurarsi inevitabilmente con le sfide di un territorio a rischio. Il grave incidente ferroviario di Viareggio, poi, ha mostrato in modo cruento come le istanze dei cittadini spesso siano talmente fondate da sembrare, col senno di poi, addirittura premonitrici. Il secondo aspet-

Nord e Sud del mondo divisi da ragioni storiche difficilmente superabili


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Negare a priori le argomentazioni delle comunità locali è una scelta irresponsabile to, di carattere più propriamente culturale, ha a che fare con la presenza endemica della criminalità organizzata nella società italiana: un fenomeno che non riguarda più soltanto le regioni del meridione, ma investe l’intero Paese. È ormai un dato acquisito, infatti, che l’edilizia, lo smaltimento e il traffico dei rifiuti siano tra i business più redditizi per le mafie. Il problema della sicurezza nella gestione delle risorse energetiche, così come nella gestione dei rifiuti, costituisce quindi una priorità assoluta. In una fase in cui le grandi economie puntano sulle nuove energie rinnovabili con progetti che vanno dalle “case attive” alla costruzione di vere e proprie città “solari”, la scelta di ricorrere al nucleare appare anacronistica. Allo stesso modo, le forze politiche di entrambi gli schieramenti non potranno continuare a ignorare a lungo l’importanza che il dibattito su questi temi ha raggiunto sul web, dove la questione ambientale torna a intrecciarsi con i grandi principi dell’uguaglianza e della giustizia sociale, definendo uno degli ambiti su cui maggiormente si esercita la nuova cittadinanza digitale.

Negli ultimi vent’anni, la partecipazione dal basso è cresciuta come conseguenza di una società civile globale che contesta la progressiva sovrapposizione del potere economico-finanziario su quello politico e gli organismi internazionali che sono la manifestazione più concreta di tale ribaltamento: il G8, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio. In questo contesto, i temi della “sostenibilità” e del “consumo critico” hanno assunto una rilevanza inedita nella storia della società civile. Basti pensare che i movimenti operai degli anni ’70-’80 erano totalmente estranei alle lotte ambientaliste e pacifiste. Più in generale – fatta eccezione per il referendum sul nucleare – i temi dello sviluppo scientifico, tecnologico ed economico, hanno faticato ad imporsi nel dibattito democratico. Ambientalismo e democrazia partecipativa appaiono invece come facce della stessa medaglia nel documento “Agenda 21” che, già nel 1992, invitava le autorità a dialogare con le comunità locali e le imprese presenti sul territorio per giungere, attraverso la consultazione e la costruzione di consenso, alla formulazione di strategie condivise. La Rete ha avuto un ruolo fondamentale nel favorire l’incontro, il dialogo e la compenetrazione di istanze democratiche diverse, dando vita a nuove forme di attivismo ca-

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paci di mobilitare cittadini di ogni parte del mondo. Il motto “think global, act local” testimonia l’emergere di una nuova cittadinanza globale che, attraverso gli strumenti del networking, ha la possibilità di trasferire i processi globali nella dimensione ristretta dei localismi e, allo stesso tempo, di imporre le istanze locali all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. La raccolta e la diffusione di notizie attraverso il web, la promozione di campagne di informazione – o, più spesso, di controinformazione – attraverso Internet, le pratiche di hacking e netstrike, sono tutte forme di azione politica, complessivamente note come hacktivism, che hanno contribuito notevolmente al radicamento dell’ecologia nella coscienza collettiva. Al di là di queste manifestazioni più

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Un tema pregnante che raccoglie in sé i grandi valori dell’uguaglianza, della giustizia e dei diritti “organizzate” di azione collettiva, vi è poi una forte presenza di blog dedicati all’ambiente e di gruppi che utilizzano gli strumenti offerti dai social network per promuovere la riflessione e la discussione sui temi dello sviluppo e della sostenibilità. Tutto questo testimonia la forte pregnanza di un tema che raccoglie in sé i grandi valori dell’uguaglianza, della giustizia e dei diritti: valori su cui l’umanità ha costruito la propria storia e dai quali non può prescindere la costruzione di una società che sia eticamente, oltre che ecologicamente, sostenibile.


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Vincenzo Susca vincenzo.susca@ceaq-sorbonne.org

Verso le radici Chissà se questi che vagheggio fiori nuovi nel greto alluvionato e scosceso non trovino il mistico alimento da cui trarre vigore? Charles Baudelaire, Il nemico, in I fiori del male, 1861

’ecologia è sulla bocca di tutti. Dopo essere stato a lungo un tema di nicchia, riservato alle fiere rivendicazioni di avanguardie culturali e di altre tribù tra il radical e lo chic, marginalizzato dalle correnti egemoniche del potere e del sapere, il rispetto dell’ambiente è divenuta la formula magica su cui oggi si imperniano le retoriche politiche e le strategie economiche più roboanti e alla moda. Sbandierando i vessilli di uno “sviluppo sostenibile”, esse costituiscono la linfa tramite cui rinverdire il paradigma culturale e produttivo sinora dominante, apportando le correzioni opportune per rallentare la catastrofe ambientale e per attirare un’adesione simbolica – una sorta di mobilitazione di massa – alla loro missione. Operazione di facciata, pura chirurgia estetica, oppure primo sintomo di un rivolgimento più generale dello scenario politico e culturale, una svolta di cui l’esordio consisterebbe nell’alterazione progressiva di logiche ed istituzioni ben consolidate?

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I fumi incensati del marketing Uno sguardo lucido consente agevolmente di scorgere nelle parole di quanti si fanno portatori del nuovo verbo i fumi incensati del marketing, laddove l’esigenza principale non è la salvaguardia della natura, ma vendere meglio e in quantità maggiore instau-

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Verso le radici di Vincenzo Susca

rando un patto emotivo con l’acquirente. La sola stringente necessità materiale, il reale là dell’ideologia ecosostenibile, è di far fronte al graduale esaurimento delle risorse primarie, al deteriorarsi delle fonti naturali indispensabili alla produzione, sfida affiancata dal non meno delicato compito di arginare il crescente malumore collettivo nei confronti dell’onda del progresso mossa dagli imperativi del lavoro e del profitto, i quali non rivestono più il ruolo di miti fondativi per le culture contemporanee, soppiantati da pratiche e da figure simboliche in cui risplendono le icone del dono, della ricreazione e del sogno. Nell’ambito del modello economico in gestazione, diviene fondamentale sfruttare l’ambiente in modo più fine, il che non significa interrompere la devastazione della natura a fini economici, ma continuarla in modo sottile, lento e tendenzialmente invisibile (per il consumatore, per i movimenti ambientalisti, per la coscienza del capitale). Nuda e cruda, spogliata del proprio manto cristallino, la new economy verde si riduce sostanzialmente a proseguire in modo più dolce e meglio decorato la dinamica economica basata sull’accumulazione, sul profitto e sul consumo. Così stando i fatti, risulta chiaro che appare azzardato e ingenuo brandire a tal proposito il vocabolario della “rivoluzione economica” con tutti i suoi magnifici corollari. Può esserci rinnovamento radicale senza alterare le fondamenta di un sistema? La ricongiunzione mistica con la natura I testi presentati in Immaginario illustrano le dinamiche culturali e le sensibilità che fanno da sfondo al passaggio in atto, manifestando le sue basi immateriali con quanto in esse si staglia in termini di sentimenti, passioni, emozioni e simboli. La prospettiva sviluppata dagli autori delle seguenti pagine permette di cogliere lo spirito che bolle nelle vene del corpo sociale orientando la vita collettiva verso un rapporto con la natura di tipo organico, ristabilendo la congiunzione originaria tra l’uomo e l’ambiente, ovvero tra la cultura e la natura. In questa sede la postura tipica dell’uomo moderno nei confronti del mondo che lo circonda muta radicalmente, giacché non fa più leva su un rapporto di dominio nei confronti della terra, ma su una reciproca interpenetrazione che evoca la mistica selvaggia di stampo animistico dei culti ancestrali.

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IMMAGINARIO

Una sensibilità, d’altra parte, ben incarnata nel paradigma “tecnomagico” che orienta il rapporto tra il sé e l’altro esperito nelle piattaforme tecnologiche reticolari e negli scenari metropolitani ad alta densità emotiva. In essi, la tecnologia smette di essere l’arte del logos, lo strumento della logica, per farsi tecnomagia, totem attorno al quale le tribù postmoderne esperiscono l’estasi mistica, che è al tempo stesso pura vibrazione attorno al proprio corpo comunitario e fuga dall’io verso qualcosa di più grande di sé e del sé. Il legame che scaturisce dalla congiunzione tecnomagica non si poggia più su un contratto razionale e astratto – il “contratto sociale” – ma su un patto in cui l’emozione, gli affetti e i simboli condivisi si pongono come le nuove matrici dell’essere-insieme, come i nuovi presupposti di ogni fusione collettiva, di cui la madre natura e il sistema degli oggetti sono altrettanti organi e al tempo stesso gli ambienti vitali. Un salto verso le origini Non potremmo comprendere con sufficiente pertinenza le chiacchiere insensate delle chat line, i fiumi di emoticon e di battute che scorrono tra un telefonino e l’altro, le identificazioni multiple nei confronti dei nuovi miti della cultura spettacolare, senza intravedere alle loro spalle la pulsione erotica che muove il fondo della vita sociale, il desiderio ardente di congiungersi in modo olistico all’altro da sé. Come non rinvenire la stessa vocazione nell’ambito della crescente sensibilità sociale nei confronti dell’ambiente? La parola connessione, d’altra parte, non è altro che il culto e la formula magica tramite cui si manifesta la vocazione di ogni comunità nascente a saldarsi in uno stato di comunione con ciò che la circonda e su cui poggia i propri piedi. Qui il contenuto – luogo o racconto che sia – passa in secondo piano rispetto all’effervescenza sociale, la quale, come accade nel web 2.0, si pone come il cuore stesso del medium. Per questa ragione i new media tendono a caratterizzarsi non come vettori di contenuto, ma come agili ambienti connettivi intimamente legati al tessuto territoriale tanto da attribuirgli un ulteriore spessore, in cui lo strato terreste e quello sociale entrano in simbiosi con i flussi elettronici sino a costituirsi insieme in uno stesso paesaggio geoculturale. Siamo così al cospetto, contemporaneamente, di un ritorno

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Verso le radici di Vincenzo Susca

alle origini – naturali e mistiche, come testimonia meravigliosamente il film di James Cameron Avatar – e di un salto verso il futuro, nella misura in cui il processo di radicamento in atto ha luogo nell’ambito di un paesaggio dove la tecnica, le mode, il sistema degli oggetti e le matrici naturali si ritrovano intersecati sullo stesso piano. Per quanto paradossale possa sembrare, i media e le protesi tecnologiche, metafore dell’artificialità di cui Avatar è solo una strabiliante amplificazione, ci gettano, carichi e tuttavia leggeri della nostra pelle elettronica, nelle viscere primordiali del nostro statuto antropologico, iniziandoci nuovamente a forme di vita comunitarie bagnate nella sacralità selvaggia, implicate in profondità nella terra, ammantate di tracce animali e sedotte dal sex appeal dell’inorganico. Le pagine seguenti abbozzano i primi esempi dell’inedita sensibilità ecologica, filtrandone l’ideologia, identificandone pratiche e protagonisti, svelandone il nocciolo duro e smascherandone i possibili sabotatori.

Vincenzo Susca è docente di sociologia dell’immaginario all’Università Paris Descartes Sorbonne. Collabora con l’Università IULM di Milano. Direttore editoriale dei “Cahiers européens de l’imaginaire”.

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Onofrio Romano o.romano@scienzepolitiche.uniba.it

L’immaginario della decrescita Dialogo con Serge Latouche

erge Latouche è ormai una vera star. Soprattutto dopo aver imboccato la via della “decrescita”, ossia l’orizzonte di una società conviviale e gioiosa, liberata dal mito ossessivo della crescita economica. Da parte mia, non ho mai digerito questa svolta. Come ogni buon allievo di lungo corso, ho cominciato mio malgrado a immedesimarmi nel ruolo di “guardiano del tempio”, che per difendere la parola del profeta da ogni manipolazione indebita pretende di buttar fuori (dal tempio) tutti i mercanti e persino lo stesso profeta. Poiché la decrescita rappresenta, a mio avviso, una straordinaria riduzione rispetto al Latouche di qualche anno fa, quello de “L’occidentalizzazione del mondo” (Bollati Boringhieri, 1992), per intenderci. Per fortuna, ho attinto proprio da lui, durante gli anni del mio dottorato a Parigi, l’insegnamento di far valere sempre le mie ragioni, senza timori reverenziali. E oggi queste ragioni vorrei farle valere anche nei confronti del mio Maestro.

S

Onofrio Romano: La possibilità che la “società di decrescita” possa davvero rappresentare un’alternativa allo “sviluppo”, al modello di società fin qui realizzato in Occidente, è alquanto dubbia. Lo schema critico impiegato contro la società di crescita contiene già in sé la via da seguire. E non mi sembra una via “alternativa”. Mi spiego. Se, come affermi, “la decrescita è necessaria per evitare la catastrofe”, allora l’obiettivo che ne discende è la preservazione della vita in sé (la “vita per la vita”). E a questo proposito non posso evitare di ricordarti quello che scrivevi, quasi venticinque anni fa, ne “L’occidentalizzazione del mondo”: “Il progetto dell’etica borghese [è] eliminare la morte in tutte le sue forme e imporre come valore la vita senz’altra qualità… L’esaltazione della vita biologica come valore supremo è inumana e distrugge il senso stesso dell’esistenza nel suo spessore qualitativo. L’Occidente rendendo disincantato il mondo, fa della vita terrestre il valore per eccellenza” (p. 69). Ebbene, a mio avvi-

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so, il progetto della decrescita segue la stessa direzione di marcia occidentale che è qui oggetto della tua critica. Sei d’accordo? Serge Latouche: Il rischio esiste, ma la decrescita è prima di tutto uno slogan. Un movimento e un progetto politico che utilizzano una determinata retorica. L’obiettivo principale è fuoriuscire dalla società di crescita. Fuoriuscire dal software della società borghese e capitalista. Partire da questo per riaprire lo spazio all’immaginario radicale (secondo l’espressione di Castoriadis). Ma per arrivarci, occorre sensibilizzare le persone, solleticando le dimensioni a cui sono più sensibili. La gente pensa che il più grande successo dell’Occidente sia l’allungamento della speranza di vita. Considerano questo un valore. Come afferma Castoriadis, se si sostiene che bisogna liberarsi dal mito della crescita, non perché sia “necessario”, ma perché è “preferibile”, la gente mostrerà scarsa sensibilità. Al contrario, se gli si dice: “nel 2030 l’umanità scomparirà”, allora si produrrà uno choc. Romano: Dunque, si tratta solo di una strategia di marketing? Latouche: È una strategia di sensibilizzazione, una pedagogia: come condurre le persone a reagire, ad assumere consapevolezza? Il nuovo

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software è ancora tutto da immaginare, da discutere. Si tratta di fuoriuscire dall’economia. Non costruire un’altra economia, ma affrancarsi dalla logica del bisogno, della produzione, del consumo ecc. Questo implica un complesso lavoro. Certo, la logica della “vita per la vita” non mi interessa, ma dal momento che siamo immersi in questo sistema, è in questo modo che possiamo parlare alla gente e convincerla a uscirne. Romano: Il Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali (MAUSS), del quale sei un esponente di punta, ha sempre snobbato il pensiero di Georges Bataille. Io credo, invece, che una vera decrescita non possa fare a meno di ispirarsi alla batagliana dépense (il dispendio), poiché in essa vi è un’idea forte di distruzione dello statuto utilitario-funzionale delle cose. Al contrario, ho l’impressione che la decrescita rischi di tradursi in una riaffermazione pressoché assoluta, totalizzante ed esclusiva dello spirito utilitario. Mi riferisco,

Bisogna fuoriuscire dall’economia. Non costruire un’altra economia. Affrancarsi dalla logica del bisogno, della produzione e del consumo


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La società di decrescita non è un’alternativa, ma una matrice di alternative. Essa riapre lo spazio all’inventiva, al pluralismo, alla diversità in particolare, al tuo programma delle “otto R”, in cui viene declinato il progetto della decrescita: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Ebbene, in queste parole d’ordine io non riesco a vedere altro che una santificazione a oltranza della sostanza utilitaria delle cose. Latouche: C’è un malinteso circa lo statuto delle “otto R”. La società di decrescita non è un’alternativa, ma una matrice di alternative. Essa riapre lo spazio all’inventiva, al pluralismo, alla diversità. La società di decrescita non potrà declinarsi alla stessa maniera nell’Africa sub-sahariana, in America Latina o altrove. È l’economia ad aver uniformato la sfera sociale sulla base di un progetto unico. Vi saranno, invece, dei progetti totalmente diversificati. Tutte queste società, se vogliono esistere, avere un futuro, devono obbedire semplicemente a una condizione minima, ovverosia la sostenibilità. Si può scomporre la sostenibilità in un certo numero di punti fonda-

mentali. È questo che ho cercato di tratteggiare con le otto R: un denominatore comune. Io non entro nel merito circa il senso della morte, della vita ecc. Quel che si farà nelle diverse società è tutto da immaginare, da costruire. A partire dalla società in cui siamo, la messa in cantiere di una società di decrescita segue un programma politico in otto punti (dieci nell’ultima versione). Lavorare meno per lavorare tutti, ma soprattutto lavorare meno per vivere meglio. Cambiare il nostro rapporto con il tempo. Così ci si oppone all’impero della necessità. Per ritornare alla tua domanda, io ho sempre avuto qualche problema con Bataille. Quando l’ho letto, molto tempo fa, mi ha molto segnato, impressionato. Il suo è un pensiero che scuote, interpella le coscienze, ma non offre delle risposte. Lascia insoddisfatti. È quello che mi capita anche con Maffesoli: ci sono delle cose che mi stimolano, che apprezzo, ma allo stesso tempo rimango perplesso e continuo a interrogarmi. Ed è un po’ la stessa cosa con i tuoi scritti. Ho ereditato una tradizione politica secondo la quale, per cambiare il mondo, occorre convincere le masse grazie ad un progetto credibile. È questo che cerco di ottenere. Romano: Tu sostieni che senza un reincanto del mondo l’alternativa di decrescita non sarebbe percorribile.

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D’accordo, ma trovo che la risposta che offri a questa necessità sia a dir poco debole. Fai appello ai poeti, agli artisti e a tutti i professionisti dell’inutile, ma non ti sembra eccessivo credere che si possa affidare a questi soggetti un’opera così ardita? Insomma, si tratta di una questione cruciale, ma la riflessione su di essa è del tutto insufficiente. Latouche: Noi continuiamo a riflettere su questo punto. È un lavoro collettivo. Jean-Claude BessonGirard è più sensibile di me sul tema. Ma ci scontriamo con una difficoltà. Il mondo contemporaneo ha completamente sterilizzato questa parte maledetta. La poesia non produce più “senso”, mentre altrove è diverso. Ad esempio, di recente sono stato in un paese basco dove i giovani coltivano la tradizione d’improvvisare in versi. Si riuniscono, organizzano dei giochi, dei concorsi, delle feste. La poesia ha ancora un’importanza nella vita dei villaggi e dei contadini. Nella Soule, piccola provincia dei paesi baschi francesi di circa quindicimila abitanti, ci sono grandi feste durante tutta l’estate. Un villaggio s’incarica di realizzare uno spettacolo in versi, un dramma che dura quattro ore. Ci lavorano tutti gli abitanti nel corso dell’intero anno. Persino quelli che risiedono a Parigi ritornano tutti i fine settimana per partecipare alla preparazione. La

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La poesia è una dimensione importante della vita e penso che una società di decrescita potrebbe e dovrebbe riscoprirla poesia è una dimensione importante della vita e penso che una società di decrescita potrebbe e dovrebbe riscoprirla. Molti pensano che solo la dimensione religiosa possa reincantare il mondo. Ma non è così. Certo non esistono soluzioni chiavi in mano. Non possiamo reincantare il mondo con una bacchetta magica. Romano: La nostra è una realtà forgiata da poteri forti. Chiunque pretenda di “cambiare il mondo” deve porsi la questione del “potere politico”: come conquistarlo e come impiegarlo per contrastare le potenze avverse sul terreno. Al contrario, la questione è stata rapidamente liquidata da tutti i fronti critici della società contemporanea. È diffusa l’idea che ci si debba concentrare piuttosto sulla costruzione di “alternative” dentro un orizzonte molecolare e immanente (dal basso, come s’usa dire). Ebbene, io penso che quest’attitudine – tipica anche del movimento per la decrescita – permetta di fatto ai grandi poteri di continuare indisturbati a modellare le nostre società.


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Latouche: Innanzitutto, bisogna evitare di sbagliare avversario. Il potere, oggi, non coincide con il potere politico ufficiale. Duemila multinazionali governano il mondo. Rispetto a questo siamo disarmati. L’assalto al Palazzo d’Inverno non funziona più, dunque occorre mettere a punto un altro tipo di strategia. Quello che fa il Subcomandante Marcos nel Chiapas è un esempio interessante: egli vive in dissidenza creando già qui ed ora una forma di società di decrescita. Hanno fondato a San Cristobal de Chiapas l’Università della Terra “Ivan Illich”. Le comunità indigene si riconoscono completamente nel progetto della decrescita. In Brasile e in Canada, i rappresentanti del movimento indiano hanno immediatamente aderito al progetto. La stessa cosa accade in Bolivia con Evo Morales. Il problema, da noi, è come distruggere la Monsanto. Europe Ecologie ha totalizzato il 16% alle ultime elezioni europee in Francia: è un risultato molto buono, incoraggiante, ma largamente insufficiente. Si può fare tanto a livello locale. Ci so-

Il potere, oggi, non coincide con il potere politico ufficiale. Duemila multinazionali governano il mondo. Rispetto a questo siamo disarmati

no comuni, come Barjac in Francia, dove il sindaco ha deciso di riconvertire al biologico le cantine e così ha dato una scossa a tutta la città. Si assiste laggiù a un momento di grande effervescenza democratica. I viticoltori, produttivisti da sempre, si rimettono in discussione (a partire dagli incidenti che hanno subito a causa dei pesticidi). Majid Ranema e Jean Robert ne “La puissance des pauvres” (Actes Sud, 2008) riprendono la categoria di Spinoza della potentia. La “potenza” dei poveri in opposizione al “potere” istituito. Il sistema è riuscito a renderci impotenti. Piuttosto che per la conquista delle istituzioni, io sono per la distruzione di certe istituzioni. Per questo la crisi è una buona cosa. Il fallimento della General Motors è la più bella notizia degli ultimi anni. Quando la Monsanto fallirà, offrirò champagne a tutti. Per me, è più importante far fallire la Monsanto che rovesciare Sarkozy. Ben inteso, occorre pur sempre rovesciare Sarkozy, ma probabilmente per far questo bisognerà far fallire la Monsanto. Romano: Trovo molto interessante la pista che hai aperto nel tuo ultimo saggio (“Pour une société autonome”) sulla rivista Entropia (n°5/2008). Evochi la necessità di ristabilire in qualche maniera una società di statuto. Di che cosa si tratta esattamente?

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Latouche: Da molto tempo sono stimolato da questo tema e probabilmente la mia esperienza africana non vi è estranea. L’aspirazione democratica traduce un’aspirazione generale alla giustizia: il dominio, la sottomissione ad un qualunque potere è insopportabile. Ma la democrazia vive un paradosso: una società di uguali (che siano davvero tali) non può funzionare. Siamo sempre diversi l’uno dall’altro. Per uscire da questo paradosso, che preoccupava personaggi come Tocqueville, Dewey ecc., occorre combinare l’homo aequalis con l’homo hierarchicus, la società del contratto e la società di statuto, l’individualismo e l’olismo, da sempre in opposizione reciproca. Credo, infatti, che occorra concepire una sorta di democratizzazione degli status. Ho visto funzionare qualcosa del genere abbastanza bene nelle società africane, delle società senza Stato dove ciascuno ha l’ossessione della differenziazione. Noi, al contrario, cerchiamo l’omologazione. Nessuno vuole distinguersi dagli altri. Bisogna fare come gli altri. In Africa, tutti si sforzano di conquistare uno status. Se ciascuno accede ad uno status, si realizza qualcosa che parrebbe impossibile: una democrazia di Re. L’ho vista funzionare a livelli sorprendenti: ad esempio, nel mondo universitario, quando si fonda un centro di ricerche, ancora prima di conquistare crediti per affermare il

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centro, il primo atto è eleggere un presidente, un vice-presidente, un tesoriere, un vice-tesoriere ecc. Tutti devono poter avere uno status. Ciascuno rispetta l’altro in quanto portatore di uno status. Questo si sposa con le preoccupazioni del mio amico Alain Caillé [presidente del MAUSS, n.d.a.], studioso della sociologia del riconoscimento. La società va concepita non come un villaggio mondiale ma come una pluralità di reti di migliaia di villaggi. La storia dell’Italia medievale, così come raccontata da Jean-Charles Léonard Sismonde de Sismondi, è, a tal proposito, molto interessante: vi figuravano migliaia di piccole repubbliche ed in ciascuna era un fiorire di artisti, di filosofi, d’identità politiche ecc. C’erano più grandi uomini nella più piccola repubblica italiana del Medioevo che oggi nel villaggio globale. A volte, ovviamente, ci si faceva la guerra, ma è forse possibile stabilire dei rapporti meno antagonistici… Romano: Sebbene la dimensione antagonistica sia importante…

La democrazia vive un paradosso: una società di uguali (che siano davvero tali) non può funzionare


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Occorre de-globalizzare il mondo: il passaggio dal movimento no-global al movimento alter-mondialista è stato del tutto controproducente Latouche: Sì, ma non siamo obbligati a massacrarci tra di noi o a picchiare le donne, come in certe società. Ci sono altre modalità: una partita di calcio può bastare. Questo è il contrario della globalizzazione. Occorre de-globalizzare il mondo. È in questo senso che mi piace riprendere il progetto del municipalismo di Murray Bookchin. Da lì si può partire per ripensare la costruzione europea: ogni piccola democrazia locale (bretone, basca, pugliese ecc.) invia dei delegati (che non sono rappresentanti professionisti ma dei mandatari revocabili) ad

un’assemblea di coordinamento a livello europeo (poiché vi sono questioni da gestire in comune). Questo è tutt’altro rispetto al modello dello Stato-nazione, che mira alla costruzione di un super-Stato, impone le sue regolamentazioni e omologa ogni cosa. Romano: Volendo parafrasarti, non si tratta di costruire una mondializzazione alternativa ma una “alternativa alla mondializzazione”… Latouche: Sì, il passaggio dal movimento no-global al movimento alter-mondialista mi ha fatto molto arrabbiare. A mio parere, è stato del tutto controproducente. Persino nel movimento per la decrescita sono in molti a sostenere un progetto mondialista, universalista, ma io resto fedele alla critica dell’universalismo e dell’umanesimo dei miei “maestri” Ivan Illich, Jacques Ellul, Raimon Panikkar e Cornelius Castoriadis.

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Ecosostenibilità: primo passo verso una nuova cultura? a produzione culturale è lo specchio della società da cui si origina: se questo assunto sociologico è valido, gli ultimi anni della cultura cosiddetta occidentale si stanno caratterizzando per un nuovo aspetto, quello dell’attenzione alla ecosostenibilità nei rapporti fra essere umano e ambiente. I motivi di questo nuovo tema sono da rintracciarsi nelle varie correnti di pensiero, scientifiche ma non solo, che puntano innanzitutto il dito sulla rarefazione dei materiali necessari alle industrie che muovono il mondo. A questo aspetto di mancanza va sommata la presa di coscienza di una serie di dinamiche che riguardano il funzionamento del nostro pianeta, e che vengono alterate nei casi in cui la produzione industriale “vecchio modello” si dimostri priva di una progettualità a lungo termine. Di qui nasce la necessità di un fattore “tempo futuro”.

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L’irruzione nell’agenda dei media Negli anni addietro, la produzione

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culturale che ha fatto riferimento all’ecosostenibilità è stata limitata dalla quasi totale mancanza di adesione scientifica e dei mezzi di comunicazione, oltre che dalla normale indifferenza dei soggetti produttori di beni di consumo, industrie, governi; quindi l’idea di una società che cresce valutando e preservando l’ambiente in cui prolifera non poteva che avere una diffusione orizzontale, fra soggetti e gruppi direttamente interessati. Questo accade quando, anche in una società di massa che ha un certo accesso a differenti fonti di informazione, manca un momento o un evento di rottura che dia credibilità al tema. Le cose cominciano a cambiare in maniera sensibile quando alcuni soggetti con un certo potere ed influenza sociale scelgono chiaramen-

Ecosotenibilità: nuova icona mediatica e marchio sociale desiderabile


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È in atto una piccola rivoluzione nel pensiero sociale, accompagnata dalla presa di coscienza che è necessaria una partecipazione civica al cambiamento te la strada della pubblicizzazione dell’ecosostenibilità e ne fanno un’icona mediatica ed un marchio sociale attendibile e desiderabile. Un esempio chiaro, in tale ambito, è il documentario del 2006 “An unconvenient truth”, con il candidato alla Casa Bianca Al Gore come protagonista. Si può osservare, in questo caso, come la tematica ambientalista si possa legare ad una campagna politica. Il pregio di questa operazione mediatica è quello di avere, per la prima volta ad un livello così alto, lanciato un messaggio universale che travalica con forza le frontiere di una elezione politica nazionale. Un prodotto culturale di questo genere (che viene tradotto, diffuso, scambiato) può molto facilmente, nell’era di Internet, arrivare a soggetti sparsi in tutto il mondo, contribuendo a diffondere e a imporre un nuovo elemento nell’agenda setting dei media mondiali: l’attenzione all’ambiente. Da qui all’esplosione sociale del tema passa ben poco: i movimenti

e gruppi di cittadini che si attivano cominciano a diventare una realtà sia a livello locale che nazionale. L’appercezione che i vecchi modelli di sviluppo non possono più essere compatibili con la realtà guida una piccola rivoluzione nel pensiero sociale, accompagnata dalla presa di coscienza della necessità di una partecipazione civica al cambiamento dello status quo. Ecco in Italia i movimenti contro la TAV, quelli contro i rigassificatori o le centrali nucleari. Ecco la produzione culturale che si sveglia anche per questi soggetti: simboli, slogan, manifestazioni diventano l’evidenza di una nuova tematica sociale alla ribalta, che non può essere ignorata da media e politici. Il passaggio di queste nuove istanze dal livello “basso” a quello dei media e della politica si verifica per il semplice fatto che l’attenzione all’ambiente rappresenta un potenziale nuovo mezzo di coinvolgimento della massa di consumatori o di aventi diritto al voto. Zero: l’impatto che non ci aspettavamo Se, a livello ufficiale e politico non sembra prendere forma una strategia ambientalista vera e propria, emerge dal basso una realtà nuova e dinamica che sta già facendo parlare di sé. Si tratta del progetto “Impatto Zero”, tutto italiano (nasce dallo stesso creatore della piattafor-

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ma Lifegate, l’ex bio-imprenditore milanese Marco Roveda) e tutto incentrato sui concetti di riduzione e compensazione delle emissioni di gas serra. Il sito web del progetto permette di calcolare in pochi minuti l’apporto di CO2 che ogni soggetto o impresa fornisce al nostro ambiente, quantificandolo in chilogrammi e convertendolo in metri quadri di foresta necessari a riequilibrare l’emissione nociva. Se, per esempio, si abita da soli, con un consumo medio di energia elettrica (20 €/ bimestre) e per il riscaldamento (25 € al mese), si usa il treno e i mezzi pubblici (percorrendo circa 300 km al mese), l’impatto medio è pari a 1732 kg di anidride carbonica. I metri quadri di foresta necessari per la compensazione sono 2234 ed il costo per rimboschirli con Impatto Zero è di 89 € iva compresa. C’è anche la possibilità di chiedere gratuitamente un calcolo personalizzato, che ha simbolicamente il valore di “pesare” il singolo individuo e metterlo di fronte all’effetto (globale) delle sue azioni. Questo è un discorso che fa leva sulle generazioni più giovani, sensibili al tema e disposte a mettere in gioco i valori “necessariamente” imperanti della cultura attuale: ecco il target di Impatto Zero, i primi protagonisti di una possibile rivoluzione a lungo termine. Comincia così a prender piede l’idea che una condotta di vita

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compatibile con l’ambiente sia possibile, e che non sia necessariamente collegata al concetto di privazione immediata di tutto ciò che è basato sulla tecnologia del petrolio o del carbone. Questa filosofia è una nuova finestra che guarda il sole, in una casa con poche aperture e tutte sui lati bui: si passa dalla negazione della modernità, per manifesta incompatibilità con l’ambiente, ad una modernità consapevole e che guarda ad un futuro in cui l’uomo non distruggerà più le foreste per trarre energia o spazio produttivo. Al contrario, l’uomo pianta nuovamente, ri-diventando attivo, e si gode la tecnologia rinnovabile che nel frattempo si va sviluppando. Simbolicamente, è il cambiamento dei poli; praticamente, è una boccata d’ossigeno, perché l’individuo sente che la sua evoluzione torna ad andare di pari passo con quella della natura. Le nuove prospettive di Impatto Zero In Italia e in altri Paesi, come il Costa Rica, con Impatto Zero, sono stati creati fino a questo momento

L’uomo può contemporaneamente piantare alberi e orti e godersi la tecnologia rinnovabile


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Un pensiero globale in cui le sorti del sistemamondo sono collegate all’iniziativa responsabile dei singoli cittadini più di quattordici milioni di metri quadri di foresta, compensando l’emissione di quasi sei miliardi e mezzo di tonnellate di anidride carbonica: come è possibile questo processo? Grazie ad una serie di convenzioni e partnership con enti di tutela ambientali, associazioni e istituzioni nazionali, ai cittadini viene venduto il corrispettivo, in alberi di foresta, dell’anidride carbonica da loro prodotta. Gli alberi saranno poi piantati in aree controllate, protette e sottoposte a vincoli speciali di tutela. Proprio in Costa Rica, e con il partner “Asepaleco”, sono due le riserve naturali tutelate e arricchite: quella di Karen Mogensen, sita nella penisola di Nicoya, e quella della Riserva Naturale Indigena di Bribri Cabecar, per un totale di più di dieci milioni di chilometri quadri di foresta rigenerata. Semplicemente, Impatto Zero offre una nuova prospettiva: quella di un rapporto più comprensibile fra la vita quotidiana, fatta di simboli e abitudini ormai non più sotto la lente dell’analisi critica, e la dimensione sociale per intero, oltre i con-

fini nazionali o continentali. È un pensiero globale in cui, però, la visione e l’impegno di un soggetto calato in una comunità chiamano in causa le sorti del sistema-mondo collegandolo all’iniziativa responsabile dei singoli cittadini. Un altro punto è da considerarsi indicativo: per la prima volta, con un sistema che ricorda più l’open-source di Linux che non un progetto di legge o un’iniziativa di business, il soggetto non è più singolo, ma vengono coinvolte anche le aziende. E pare che la “chiamata” stia arrivando alle orecchie di molti soggetti. Diverse società stanno infatti decidendo di avvicinarsi alla filosofia di Impatto Zero, per una responsabilità sociale “all’avanguardia” e per un effettivo risparmio energetico. Una conferma del fatto che Impatto Zero sia al passo con i tempi ci è data dalla uscita recente di un disaster movie, “2012”, del regista Roland Emmerich: lo scenario descritto dal film è quello di una ipotetica fine del mondo conosciuto, a seguito di una serie di sconvolgimenti che hanno inizio nella crosta terrestre e che sconvolgono l’intero pianeta. L’uomo moderno non ha molta responsabilità, in questo frangente: la catastrofe è già prevista dalle antiche popolazioni del Centro e del Sud America e solo poche centinaia di migliaia di uomini riescono a salvarsi. Impatto Zero è intervenuto nella distribu-

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zione italiana del film, quando la Sony Pictures Releasing Italia ha deciso di compensare la grande massa di CO2 necessaria all’operazione (45.000 chilogrammi) con la creazione e la tutela di circa 21.000 metri quadri di foreste in Costa Rica. Singolare: un film sulla distruzione del mondo, distribuito con un meccanismo che permette la preservazione e il miglioramento dello stesso habitat umano. Un caso isolato, o forse sintomo dei tempi che cambiano. Monaco di Baviera: il progetto di una città verde A Monaco di Baviera si potrebbe, in tale prospettiva, aprire una finestra molto interessante che riguarda proprio lo sviluppo ecosostenibile. Qui lo spunto, però, arriva direttamente dal mondo della politica, locale e nazionale. Locale, perché è lo stesso sindaco della città che supporta un certo tipo di idea. A livello locale, perché l’idea è promossa dal primo ministro Angela Merkel in persona. Qual è l’idea? Quella di trasformare l’industriosa città, la “Seconda capitale della Germania” (come amano chiamarla i suoi stessi abitanti), in una metropoli alimentata esclusivamente da fonti rinnovabili di energia. Niente carbone, niente petrolio, niente nucleare. L’idea è ambiziosa. L’adesione al progetto è percepibile dai tempi che sono sta-

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In Baviera, è affidata a una società pubblica la scommessa di fornire energia elettrica pulita entro il 2015 ti promessi per la sua realizzazione: 2025. Questo è l’anno della possibile svolta di una città moderna che conta un milione e mezzo di abitanti nel solo comune. Si tratta di un conto alla rovescia di sedici anni che costa mezzo miliardo di euro l’anno di soldi pubblici e che passerà per diversi step fino alla copertura dell’intera rete di utenze civili e anche dell’approvvigionamento energetico delle aziende. L’innovazione del progetto in questione sta nel voler fare in modo che la sostenibilità dello sviluppo delle energie rinnovabili passi per un utilizzo funzionale – l’unico intelligente – delle vecchie tecnologie di produzione energetica. In breve, fare in modo che la morte delle vecchie fonti energetiche non solo sia un semplice segno del passaggio alle nuove, ma che contribuisca in maniera attiva a tale cambiamento: anche se sprovvisti di bacchetta magica, a Monaco possono “devolvere” cinquecento milioni di euro l’anno per la costruzione dell’impianto idroelettrico Prater sul fiume Isar, e per spegnere gradualmente l’altra centrale, quella nucleare, che sorge


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sempre sul fiume. Il Prater, una volta a regime, dovrebbe poter servire circa quattromila famiglie. Mentre, quindi, a sud delle Alpi si profetizza un ritorno al nucleare come inevitabile, in Baviera si parla di società pubbliche, quali la SWM, e a loro si affida la parte pratica della scommessa per fornire energia elettrica pulita alle 750.000 famiglie di Monaco entro il 2015. Questa società, che è quella che rifornisce attualmente il 90% degli abitanti della città, promette un aumento costante della produzione di energia verde, fino al valore del 160% a pieno regime, cioè a 950 milioni di chilowattora all’anno. Il tutto grazie a vari interventi, anche di medie dimensioni come quelli per gli impianti di Sempt e di Moosburg fuori Monaco, che contribuiranno ad aumentare il capitale energetico della zona. Aspettative ecosostenibili Se il punto di partenza del “discorso ecosostenibilità” è stata una torcia puntata su un angolo prima

Lo sviluppo delle fonti rinnovabili e di un approccio ecosostenibile all’energia richiede una riconfigurazione delle tecnologie

buio, è vero che adesso la parte illuminata rivela tutto un mondo nuovo. Si è innescato un processo che potrebbe essere latore di cambiamenti significativi nello stile di vita e nella cultura in cui si manifesterà appieno. Attualmente, possiamo considerarci nella fase dello stupore, del primo passo, e la riflessione sulle aspettative può permettersi anche note positive: grandi soggetti industriali come Eon, RWE, Vattenfall e EnBW, per esempio, sembrano interessati a potenziare i mezzi e ad aumentare i capitali per muovere la ruota ecosostenibile. Ciò garantisce comunque uno sviluppo sensibile dell’economia del settore, a piccoli e grandi livelli. Lo sviluppo delle fonti rinnovabili e dell’approccio ecosostenibile all’energia, però, richiede imprescindibilmente una riconfigurazione delle tecnologie, ed è esattamente in questo comparto che si concentrerà la sfida fra le grandi industrie nei prossimi decenni. Sicuramente, la comunicazione, in tutte le sue forme (dall’advertising alla produzione letteraria, fino all’informazione e alla politica) avrà un potere sensibilizzante e sarà, allo stesso tempo, cartina di tornasole dell’umore sociale. I governi avranno una grande responsabilità, in tale processo, in quanto è chiaro – e l’esempio della Germania, che continua a lasciare pubbliche le grandi società di gestione energetica, ci pare illuminante – che solo una parti-

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colare gestione delle prime fasi potrà portare ai risultati positivi su scala globale che auspicano i fautori dell’ecosostenibilità. Diversamente,

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cambierà solo il titolo e qualche battuta, nel copione: attori, trama e conclusioni saranno le medesime dell’ultimo secolo e mezzo.


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L’ecosostenibilità è un dress code indossabile Chaos is the future / And beyond it is freedom / Confusion is next and next after that is the truth / You gotta cultivate what you need to need (Sonic Youth, Confusion is Next, in Confusion is Sex, 1983)

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ccelerazione dinamica di segnali di caos. Equilibri ambientali e sociali al collasso. Allarme rosso continuo. La nostra stessa sopravvivenza come specie minacciata. Il clima sta cambiando e con lui la terra, il mare e quella fonte di energia delicatissima e potente che chiamiamo natura. Gli scienziati lo chiamano tippingpoint, il punto critico, la soglia di non ritorno superata la quale un sistema si autodistrugge. È il momento di trovare nuovi equilibri dinamici, reinventando l’umano e le sue relazioni con il vivente. È il momento di chiudere gli occhi, non per far finta di niente, ma per iniziare a sognare! Sì, sogna-

re, perché è visionaria la sfida che ci attende. L’ecosostenibilità, questa nuova forma di intelligenza sistemica, ha bisogno di tutta la potenza del pensiero visionario: empatia, immaginazione, creatività, sperimentazione. Tutto questo prefigura un’erotica sociale inquieta e disordinata, un’effervescenza sociale connettiva, un’impollinazione culturale imprevedibile e briosa. Siamo sull’orlo del caos, dove i confini del cambiamento ondeggiano tra stagnazione e anarchia, dove la confusione è sexy e le potenzialità di morfogenesi al massimo. Lusso arcaico. Forse. Eros che torna ad incantare la vita – e la filosofia e le scienze. Di qualunque nome essa si fregi, questa erotica è già qui.

È il momento di trovare nuovi equilibri dinamici, reinventando l’umano e le sue relazioni con il vivente

Una prova a Manhattan La vecchia ferrovia cargo sopraelevata di Manhattan West Side a New York, costruita negli anni Trenta del secolo scorso per il trasporto veloce

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di merci nell’area industriale e portuale lungo il fiume Hudson, è un possente nastro d’acciaio e cemento che si snoda per due chilometri e mezzo attraversando 22 isolati urbani, dal Meatpacking District all’Hudson Rail Yards. Per me che ho vissuto nel West Village, è un’ossessione, un misto di fascinazione estetica e turbamento filosofico, un frammento di codice culturale della Modernità. Abbandonata nel 1980, quando le ultime fabbriche stavano lasciando per sempre Manhattan, è stata riconquistata dalla vegetazione spontanea che l’ha trasformata in una selvaggia prateria urbana, con erbe selvatiche, piante, arbusti e alberi venuti su tra la ghiaia, il cemento e i binari in disuso. Riconvertita in chiave sociale ed ecosostenibile, nel rispetto della biodiversità della zona e secondo i principi della agritecture, parte agricoltura e parte architettura – opera di Field Operations e Diller Scofidio & Renfro – è oggi un parco urbano pubblico capace di ospitare il selvaggio, il coltivato, l’intimo e il sociale. La vegetazione genera un paesaggio dalla trama indefinita all’interno della quale è possibile vagare ed invaghirsi. Boschetti per la frutta, orti segreti, giardini. Spazi assolati, ombreggiati, umidi, asciutti, ventilati, riparati, si alternano generando variazioni sensoriali che incantano e stupiscono. Certo, qui siamo a Manhattan e il parco urbano è espressione di resi-

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denti upper class. Ma ciò che il progetto suggerisce è che l’immissione di un codice culturale ecosostenibile non implica necessariamente una rottura con il paradigma economico dominante ma un’apertura del modello a nuove variabili e ordini di complessità. La saggezza sistemica L’ecosostenibilità non è una negazione, né una contrapposizione ad un modello dato, ma l’accesso ad una visione più ampia, con una scala più grande capace di individuare nuovi rapporti di scala tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Non è competizione ma cooperazione. Non è un disciplinamento. Nessuna pretesa totalitaria e definitiva, ma un accrescimento sperimentale basato su una continua riclassificazione su basi logiche dei dati forniti dall’esperienza, dalla ricerca, dai saperi. Non è sintetica ma incredibilmente ibrida. Non è una limitazione delle potenzialità umane. Non è un dogma. Nessun riduzionismo. Non è una formula. È critica attiva, creativa, dissolvente: un atto di devalorizzazione della crescita, dell’accumulo infinito, dello sfruttamento brutale delle risorse naturali. Una decostruzione creativa dei nostri mi-

L’ecosostenibilità non è competizione ma cooperazione


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Il nuovo paradigma è l’uscita laterale dall’immaginario tecno-scientifico. È puro pensiero visionario ti di fondazione. È saggezza sistemica. È sentire la “struttura che connette” (Bateson). È globale, transnazionale, transpolitica, transuculturale. È post-antropocentrica e post-sviluppista. È l’uscita laterale dall’immaginario tecno-scientifico. È puro pensiero visionario. È empatia, immaginazione, invenzione, sperimentazione. Tipping point significa che siamo di fronte ad una scelta. Possiamo continuare a far finta di niente, oppure lasciarci investire dalla consapevolezza della complessità e dalla responsabilità che ne consegue. L’ecosostenibilità ha a che fare con il cambiamento e con l’immaginazione. Nei sistemi olistici la biforcazione è una sorta di scelta che il sistema si trova a fare in un determinato momento della sua dinamica. In quel punto, il sistema sceglie se ripercorrere un percorso già esplorato o prendere una deviazione che lo porterà verso altri stati fino a quel momento non esplorati. Questa scelta avviene sulla base di differenze estremamente piccole ed imprescindibili. È l’orlo del caos, il momento in cui il numero di queste biforcazioni esplode ed il sistema diventa, in

modo apparentemente inspiegabile, fortemente decisionista e creativo. Questo è vero per tutti i sistemi viventi, compresi quelli umani. La potenzialità creativa si esprime in particolar modo nelle zone di transizione tra ordine e disordine, dove emergono biforcazioni e nuovi caratteri che danno luogo a nuove forme. È in queste zone che si formano comportamenti complessi che riescono ad interagire, sostenersi e diventare struttura. Ho negli occhi la leggerezza della Biosfera L’immaginazione apre nuovi orizzonti cognitivi. L’intelligenza ecologica, la saggezza sistemica, l’ecologia comunicativa, fanno sconfinare la mente. La fanno aprire, eccedere, transitare attraverso nuovi ordini di complessità. Visioni, visori, ambienti e scenari, dove diventa possibile re-inventare noi stessi e le relazioni che intratteniamo con il mondo. Abbiamo la conoscenza di 14 miliardi di anni di evoluzione cosmologica, uno straordinario bagaglio di dati che conferisce certezza empirica a saperi vecchi di secoli. Questa conoscenza ci dona una consapevolezza e una responsabilità mai sperimentata prima. Non siamo esseri separati. Non siamo il centro dell’universo. Non siamo il fine ultimo della vita. Siamo organismi immanenti, interconnessi a complessi e molteplici ecosistemi viventi. L’animismo aveva esteso la

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mente dell’essere umano alle montagne, ai fiumi, alle stelle. L’individualismo frigidomoderno l’ha compressa entro confini angusti e fittizi: quelli dell’io. Scollegato dagli altri anelli della struttura vivente è diventato un essere disconnesso ed estraniato. Senza empatia. Puro egoismo. Quando si separa la mente dalla trama vivente che la contiene si commette un errore. L’ecosostenibilità dissolve ontologie ed epistemologie arroganti e violente che hanno visto l’essere umano dominante al centro dell’universo e sperimenta nuovi significati di essere umano, un reinventare noi stessi a livello di specie in una modalità che ci permetta di vivere relazioni di scambio migliori non solo con gli altri essere umani ma con tutti gli esseri viventi e, soprattutto, in modo non distruttivo. «Una foglia d’erba non è da meno del ruotare delle stelle», ha scritto Walt Whitman. Ecosostenibilità implica il risvegliarsi della creatività personale, del senso di responsabilità sociale e collettiva. È inventare nuovi processi, linguaggi, forme e modi della progettazione, della produzione, dello scambio e del consumo. Erotiche, effervescenze Nel cuore stesso del modello economico globale fioriscono idee, filosofie, visioni del mondo attorno alle quali si coagulano gruppi, reti sociali e comunità di persone che sperimentano stili di vita innovativi le-

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Eco sostenibilità implica il risvegliarsi della creatività personale, del senso di responsabilità sociale e collettiva gati a nuove modalità di produzione, scambio e consumo. Agricoltura biologica, bio-archietettura, eco fashion, energie rinnovabili, finanza etica e alternativa, sistemi di scambio non monetario, consumo critico, movimenti per la decrescita, gruppi di acquisto solidale, commercio equo e solidale, vita comunitaria, eco villaggi, distretti di economia solidale, co-housing. Forme spontanee e autorganizzate si intrecciano a progetti di ingegneria sociale avviati da agenzie istituzionali internazionali. Tasselli, enclavi, frammenti. Punti nodali di una vera e propria economia alternativa dove acquistano una importanza sempre maggiore la ricerca, la condivisione di sapere, un certo nomadismo psicosensoriale, l’erranza erotica. Condizioni che innalzano l’individuo a una forma di pienezza non consentita dalla razionalità, dalla logica e dal sentire della funzionalità economica dominante. Vi è un misterioso legame tra l’erranza e la comunità. Il nomadismo polisensoriale genera forme di solidarietà concreta. Un nuovo senso comunitario che ignora la macchina economico-politico isti-


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tuzionale, una trama disordinata e vitale in cui le persone immaginano, inventano, innovano, e agiscono logiche, filosofie, visioni del mondo. Il successo di questi modelli a geometria variabile dipende dalla capacità di relazionarsi, di connettersi, di fare social network. Una comunità globale di persone vive, sperimenta e comunica in ambienti connettivi elettronici. Si informa e diffonde informazione attraverso libri, ricerche, rapporti, video, film, conferenze. Affinità elettive che attraversano oceani di spazio-tempo. La loro prospettiva è transnazionale; il territorio che abitano integra le trame urbane e le connessioni elettroniche, disarticolando i limiti, le identità e i poteri costituiti. L’immaginario stesso diventa indossabile. Non un dress code rappresentativo ma una interfaccia relazionale, un display, fisico ed elettronico insieme, che si connette ecologicamente a panorami di senso, ordini di problemi, scenari. È finito il tempo dell’ecologismo triste, povero, auto mutilante. Ciò che si esprimeva in termini di resistenza e antagonismo oggi si traduce in creazione, inventiva radicale.

È finito il tempo dell’ecologismo triste. L’antagonismo si traduce in creazione

Cultural code design: progettare il cambiamento. Conosciamo il potere del design nel modellare l’esperienza umana. Nelle dimensioni più sottili dell’ecosostenibilità, l’attenzione si sposta dal design come pratica rappresentativa a quella progettuale, performativa. Perché il design non è solo progettazione ma processo, esperienza, luogo di interazione, dispositivo privilegiato per la costruzione del senso, interfaccia relazionale. Non è solo legato alla produzione meccanizzata ma anche un mezzo per esprimere idee, convinzioni, atteggiamenti e valori su come le cose potrebbero essere. Il design incorpora logiche, filosofie, comportamenti, attitudini, sistemi simbolici, immaginari, rapporti di potere, conflitto, mutamento. Il design innova codici culturali. Il design è in grado di creare ibridazioni, rimodellamenti identitari e di genere, ridefinire pubblico e privato, tempi e spazi del lavoro, quotidianità, ma anche modi di pensare e di interagire con i dati e le idee. Mi riferisco qui al design della conoscenza che avviene nel processo scientifico. Non c’è separazione tra processo, esperienza, interazione, costruzione del senso, interfaccia relazionale. Non c’è separazione tra una visione del mondo e la sua dimensione estetica nel corpo-carne, che è anche mente. L’ecosostenibilità è un dress code indossabile. Un dress code che incarna e visualizza le interazioni

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avanzate che intratteniamo con i sistemi viventi, gli ambienti e le scene di senso che popolano lo spazio urbano, il cyberspazio elettronico, l’infosfera. Una riflessione sull’ecosostenibilità e i suoi immaginari visionari non può avere una conclusione argomentativa ma, forse, solo un’ultima suggestione: in Cina ho imparato che evitare uno spreco è un piacere che nasce dal sentimento prima che dal pensiero e dal dovere. L’intelligenza ecologica, l’empatia e l’immaginazione visionaria smuovono trame

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Evitare uno spreco è un piacere che nasce dal sentimento prima che dal pensiero e dal dovere sottili ed evanescenti: è il momento di imparare a credere in quello che facciamo, a dare importanza anche ai più piccoli gesti quotidiani. Ed è il momento, per le scienze sociali, di rivolgere lo sguardo anche ai più effimeri segni che questa effervescenza sociale sta generando.


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Fabio La Rocca fabio.larocca@ceaq-sorbonne.org

Bio Food: cultura e stile nel sentire contemporaneo el groviglio di elementi caratteristici dell’imponente sensibilità eco-sostenibile che si manifesta nella nostra quotidianità, il cibo rappresenta una delle peculiarità maggiori. Il cibo è da intendere come una categoria di grande interesse per un’analisi sociale in quanto in essa affiorano comportamenti e stili che determinano delle vere e proprie mode e attitudini tribali. Legandoci agli effetti dell’immaginario eco-sostenibile, che da un certo punto di vista diventa come una nuova “dittatura dell’Essere”, possiamo osservare in che modo nelle varie città, luoghi e spazi, sia diffusa la moda del bio-food; un imperativo categorico che influenza, in chiave culturale, comportamenti, usi e costumi. Il proliferare del cibo biologico va anche letto nell’ottica di un ritorno sempre più evidente ai valori della terra: una co-

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Il legame con il cibo è ormai un credo

scienza di radicamento e di attaccamento alla terra che si manifesta con vigore nella nostra società, sia da un lato prettamente ideologico, sia da uno pratico e cosciente. Partendo dal senso pratico e cosciente, possiamo osservare che l’attitudine al bio-food non è certo una scoperta degli ultimi tempi ma, invece, è qualcosa di ben consolidato in una coscienza banale e fondatrice di un vivere in stretto legame con i prodotti terrieri e simbolo dell’autosussistenza, o meglio, di un’economia della sussistenza. Una visione, questa, ovviamente reperibile in diverse comunità che di generazione in generazione hanno fondato il loro modo di essere sulla coltivazione, produzione e consumo quotidiano di prodotti della propria terra; frutto dunque di una vera sensibilità (naturale potremmo aggiungere) del mangiare buono e sano e che, in una maniera incoscia, si lega a quello che oggi è comunemente denominato cibo bio. Dall’altro lato, invece, il legame con il cibo è ormai un credo, un’ideologia:

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non tanto un “sistema di idee”, quanto piuttosto una corrente culturale che contamina una larga fetta della società. La moda del bobo: il bourgeois bohème Seguendo le forme culturali che si fanno spazio nella vita quotidiana, rinveniamo l’esplosione di una moda: l’attitudine bobo. Questo termine, introdotto dal saggio del giornalista americano “David Brooks Bobos in Paradise: The New Upper Class and How They Got There” (2002), è una contrazione dei termini bourgeois-bohème per indicare, secondo l’autore, una “nuova classe superiore”. Si tratta in fondo, dell’emergere di una nuova élite che si incarna in questa ibrida figura contemporanea del bobo derivante dalle contraddizioni culturali del capitalismo. Uno stile di vita, in effetti, con nuove norme estetiche e valori che ha tendenza a diffondersi nel corpo sociale attualizzando, seguendo un’idea di Raphaël Josset, un cambiamento di paradigma civilizzatore fondato sul “riciclaggio ecosistemico delle singolarità dissidenti” (R. Josset, 2009: 190). La figura del bobo ci sembra essere una delle dirette conseguenze delle mutazioni di gusto, dei codici culturali ed estetici che predominano nella cultura contemporanea formando, di conseguenza, una delle attitudini chiave di quello che po-

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tremmo definire l’homo ecologicus postmoderno. Figura che è impregnata di quelle caratteristiche dell’ecologismo riscontrabili in un modo di vita diffuso, in tempi non sospetti, nella contro-cultura americana che ha di gran lunga influenzato gli stili di vita attuali. L’immaginario ecologico è dunque in relazione con le mutazioni del capitalismo, e in tal senso si potrebbe anche parlare di un “capitalismo ecologico” che diventa la norma standard dell’attitudine bobo in cui, il valore del bio-food, rappresenta una delle chiavi di interpretazione di questo modello culturale e sociale che si erige, sovente, come “alternativo”. La bio attitude Se la tendenza contemporanea è quella ormai evidente dell’intuizione maffesoliana del tribalismo (Maffesoli, 1988), possiamo riscontrare che la tendenza ecologica e del mangiare bio costituisce una delle norme che lega insieme gli individui in funzione delle caratteristiche della condivisione di un sentimento e di un modo d’essere che sostanzia lo stare-insieme. In questo sen-

Il bobo è una delle declinazioni dell’homo ecologicus postmoderno


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La moda del Bio Food è un corollario dell’immaginario ecologico so, allora, potremmo dire che nell’attuale tempo delle tribù, il bobo rappresenta la tipologia che più si addice al sentire contemporaneo e a questa predominante cultura bioecologica che, tra altri elementi, la contraddistingue. In questo discorso possiamo anche evidenziare, in riferimento all’analisi di Manuel Castells (2000), che ricostruire la Natura come forma culturale ideale è il senso profondo del movimento ecologico. Sebbene il movimento ecologico sia qualcosa di ben preciso, le varie attitudini che scaturiscono dall’immaginario ecologico ci permettono di guardare al fattore della moda del bio-food come un corollario di questo stesso immaginario. Ed è proprio in relazione al fattore “moda” che si inserisce il nostro discorso in cui, appunto, la figura del bobo costituisce il cardine o la parola chiave per indicare questa tendenza al bio. In questo senso, per avere un riscontro della diffusione di un sentimento “naturalista” che si ramifica nella società, basta gettare uno sguardo sulla proliferazione di supermercati, negozi e ristoranti nelle varie città, come risposta a questa

logica del vivere “sano” il cui prototipo sembra diventare “l’uomo con il sacchetto biodegradabile”. I rendez-vous bio sono dunque all’ordine del giorno e ci mostrano la maniera in cui la sensibilità ecologica sia diventata un vero e proprio business culturale ed economico. Forma del capitalismo di nuova generazione che segue i corsi del tempo influenzando, in maniera evidente, le abitudini degli individui. Tutto questo si evolve, naturalmente, in una questione di stile in cui la pratica alimentare diventa un simbolo di identificazione. Il terreno su cui prende corpo e sostanza una delle faccette della nostra identità: la bio attitude. L’uomo bio Questa attitudine identitaria si affianca alla generazione, in larga parte adolescenziale, legata alla “religione” del fast food che vede predominare il Mac World oppure la “kebabizzazione” diffusa e il gusto per il cibo etnico. In effetti, nelle metropoli contemporanee è sintomatico osservare un patchwork carnevalesco in cui si sprigionano le influenze al consumo culinario di junk food e dei derivati etnici, conseguenza logica di un melting pot diffuso che ci conduce ad una visione di bande, tribù o stili di sottocultura gastronomica. In sostanza, siamo di fronte ad un crescente crogiuolo di stili e mode che ci danno informazioni su gu-

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sti ed eccessi legati non solo alla cultura del cibo, ma anche ad un modo di essere e di “presentarsi”. In questo universo emerge allora la figura dell’ “uomo-bio”, simbolo di un mutamento di sensibilità sul cibo e (anche) di una crescente responsabilità per la natura e, in larga parte, per la cura del proprio corpo. Si tratta allora di un rinnovamento antropologico contemporaneo del principio Mens sana in corpore sano? Questo processo ci porta ad accogliere un’attitudine di scelta di elementi eco-compatibili che, probabilmente, ci fanno sentire in pace con il mondo e ci inducono a comportamenti che diventano, per una fetta della nostra società, un vero e proprio status. Una logica, questa, che non può non prescindere dall’analisi dell’emergere della figura del nuovo consumatore eco-sostenibile di cui, appunto, il cibo biologico ci sembra essere il riferimento cardinale. Ma non solo cibo: cosmetici, detersivi e quanto altro rientrano nella lista del “perfetto” consumatore ecologico che, in ogni modo, risponde al panorama economico e alla logica del “Dio denaro”. Una tendenza, una moda del verde e del bio che diventa, per certi aspetti, qualcosa di chic o, ancora, una vera e propria mania. Un sentire comunitario La sensibilità ecologica si riscontra condensata nelle attitudini dei

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L’uomo-bio è simbolo di un mutamento di sensibilità sul cibo, di una crescente responsabilità verso la natura e la cura del proprio corpo neo-hippies e ex-punk incarnate nell’attuale figura del bobo a ogni costo. Ed è questo che alimenta il consumo di bio food, che detta le regole del mercato eco-sostenibile e diffonde la comparsa di orti e coltivazioni, ad esempio, sulle cime dello skyline newyorkese. Suggestivo fenomeno di moda, quest’ultimo, che produce una nuova enfasi di comunità di consumo legata alla produzione e allo scambio di verdure e altre cibarie auto-prodotte. Una sorta di “bio-condominialità” riscontrabile anche in un altro interessante fenomeno, quello dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) che vede la larga circolazione casalinga di cibo in cassette di prodotti locali di derivazione bio che genera, di conseguenza, un nuovo tipo di comunità e socializzazione. È quindi facile riscontrare come questa tendenza sia largamente estesa nelle grandi metropoli, segno di una scelta di vita e di una forte pregnanza dell’immaginario eco-sostenibilie che influenza le esperienze di vita quotidiana. Al cospetto del-


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le grandi città, inoltre, va rilevato come questa attitudine al consumo bio si manifesta anche come una sorta di ricerca di un microcosmo esistenziale comunitario, ovvero, in un certo senso, di una riproduzione delle dinamiche di una logica tipica del villaggio basata sul consumo e lo scambio comunitario di beni alimentari. Questa presenza di cassette di pomodori, zucchine, mele e prodotti di ogni tipo, che ruotano nei grattacieli di New York, nelle abitazioni del bobo parigino o in alcune nicchie di quartieri londinesi, berlinesi e milanesi (giusto per indicare alcuni esempi sintomatici) è un effetto particolarmente singolare per suggerirci una linea guida di come questo immaginario eco-sostenibile produca degli effetti di moda e di stile. La saggezza mediterranea Certo, pensando alla generazione di alcuni nonni o padri – soprattutto nell’area del sud mediterraneo – verrebbe da sorridere al pensiero di come oggi il ricorso al consumo di prodotti terrieri di campagna, denomi-

L’attitudine al consumo bio riproduce la logica tipica del villaggio basata sul consumo e lo scambio comunitario di beni alimentari

nati nel linguaggio comune appunto come bio, sia diventato una smania, una voglia frenetica di pezzi di società sempre più massicci, quando invece per chi abituato o cresciuto in un contesto di produzione e consumo di cibo auto-prodotto, questo è un effetto “normale” e abitudinario; tra l’altro il termine bio nell’immaginario delle nostre nonne e mamme richiama in mente soltanto la marca di un detersivo! Se ad esempio si pensa all’ambiente meridionale, è giusto ricordare la ricchezza del territorio del Cilento, di cui il ricercatore americano della Minnesota University, Ancel B. Keys*, ha percepito in pieno le qualità promuovendo e dando vita alla concezione degli effetti benefici della nota “Dieta Mediterranea”, ovvero un’armonia tra cibo e territorio, frutto di un mangiar sano. Le ricerche dello studioso americano sono anche il simbolo di un viaggio tra le tradizioni e i comportamenti alimentari e gli stili di vita che ne derivano, di una simbiosi tra “mondo naturale” e uomo che si lega, in questo specifico territorio, ai saperi della Magna Grecia e al pensiero eleatico di Parmenide e Zenone. In sostanza, si trattava di rivalutare un modo di vita, una riconsiderazione antropica del comportamento umano con il cibo e il territorio e, potremmo anche aggiungere, di una sacralità del cibo basata sulle caratteristiche dei “piatti poveri”.

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Questi ultimi, oggigiorno, stanno invece diventando una costante del consumo dettata dal diktat della tendenza bobo in una logica di masslucivity, termine che indica una nuova tendenza del comportamento esclusivo del consumatore che diventa sempre più mass class oppure si orienta in un masstige, ovvero prestigio per le masse. * Ancel B. Keys, dietologo, visse per circa 40 anni a Pioppi nel comune di Pollica in Cilento, conducendo importanti studi sugli aspetti salutistici della dieta mediterranea. Si veda ad esempio il suo saggio “How to eat well and stay well with the Mediterrane way” del 1975. Il consumo, il cibo e l’identità Ecco un pastiche di termini tanto cari al marketing contemporaneo! In questa ottica possiamo dunque considerare il bio food come il comune denominatore di un trendwatching che per l’appunto orienta e genera gli stili, o di un biomarketing in voga nell’attualità del nostro quotidiano la cui esca preferita è proprio il bobo che risponde a pieno alle seduzioni del mercato. La tendenza ai prodotti bio ci informa sullo stato delle cose della nostra contemporaneità in cui il fattore cibo orienta e definisce un epifenomeno di moda. Ricordiamoci che, nel suo classico “The Theory of the Leisure Class” (1889), Thorstein

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Il fattore cibo orienta e definisce un epifenomeno di moda Veblen ipotizzò la funzione simbolica dei beni indicandone l’importanza dell’atto di consumo come un gesto di affermazione di uno status sociale. Ipotesi, questa, che ci sembra in congruenza con il nostro discorso sull’attuale scena sociale in cui, ricorrendo al pensiero di Jean Baudrillard (1976), possiamo evidenziare che ciascuno diviene ciò che consuma al fine di costruire un’identità precisa. L’attitudine bio insomma è un fatto culturale. Sappiamo bene che, banalmente, una cultura riguarda sempre quello che facciamo, la cultura è sempre il corrispettivo dei diversi processi quotidiani attraverso i quali costruiamo il senso delle esperienze e delle pratiche. Queste ultime, a loro volta, si definiscono per mezzo di modelli culturali e spaziali, nell’ottica della ritualità quotidiana su cui ha posto l’accento Michel de Certeau (1980), per definire le diverse “tattiche” degli individui – riscontrabili, per esempio, nell’azione del mangiare e fare la spesa – come produzione di senso attraverso le quali determiniamo una parte del nostro mondo sociale. In definitiva, nel complesso dell’immaginario sostenibile, la bio attitude è un riscontro di una partico-


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lare esistenza “modale” – relativa alla moda nel nostro senso – che si inserisce nell’universo globale di una cultura da intendere, alla ma-

niera di Williams (1976), come modo di vita, culture as way of life, e come qualcosa di ordinario: culture is ordinary.

Riferimenti bibliografici Baudrillard J., (1976), Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 1979. Brooks D., Les Bobos, Florent Masson, 2000. Castells M., (2001), La società in rete, Egea, 2002. Certeau de M., L’invention du quotidien 1. Arts de faire, Paris, Union générale d’éditions, 1980. Josset R., “Ordo Ab Chao”, Penser la mutation socio-anthropologique, tesi di dottorato, Università Paris Descartes Sorbonne, giugno 2009. Maffesoli M., (1988) Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Guerini, 2004.

Veblen T., (1889), The Theory of the Leisure Class, Kessinger Publishing Co., riedizione 2004. Williams R., Keywords. A Vocabulary of Culture and Society, London Fontana Press, 1976

Fabio La Rocca è sociologo ricercatore al Centre d’Etude sur l’Actuel et le Quotidien (CEAQ) all’Università Paris Descartes Sorbonne dove ha fondato e dirige il GRIS (Groupe de Recherche sur l’Image en Sociologie). Insegna Sociologia della vita quotidiana, Immaginario e Postmodernità alla Sorbonne e Sociologia delle pratiche culturali all’Università d’Evry Val d’Essone.

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La sostenibile leggerezza del brand tra comunicazione responsabile e greenwash molto interessante notare come autori, modelli, concetti che erano stati elaborati in una fase espansiva del sistema dei consumi, potrebbero oggi risultare molto quotati per la comprensione del presente, ma ciò non accade dato che su questi è calata una sorta di coltre che li ha resi vacui e superflui. Così i ragionamenti che in passato si sono svolti sul ripensamento degli eccessi del modello di sviluppo occidentale, ipercapitalista e consumista oggi si ritrovano sotto forma di operazioni di marketing e/o branding tanto varie quanto numerose, che interessano tanto le imprese quanto i colossi multinazionali. In altri termini è successo che i ragionamenti sulla crisi del sistema industriale avanzato sono stati recuperati e “messi in lavorazione” dagli stessi operatori del business e tra questi spicca il tema principale della sostenibilità, della ecocompatibilità, del cosiddetto filone green. Rispetto alle visioni degli anni Ottanta c’è da registrare un grande cambiamento. Gran parte dei ragionamenti sul-

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l’ecologia contemporanea derivano dalla cosiddetta prospettiva sistemica. Un modello di analisi proveniente dalla fisica quantistica, dalla teoria dell’informazione e dalla cibernetica che pone enfasi sulle dinamiche del tutto, piuttosto che della parte, sulle interazioni tra gli elementi che compongono il sistema, sui processi omeostatici (detti anche di retroazione negativa) che consentono l’equilibrio del sistema al variare delle condizioni ambientali, in altre parole su una concezione ecologica piuttosto che “egologica” (Capra, 1984). Paradossalmente tali ragionamenti hanno ben poco influito sulle scelte di politica nazionale, sovranazionale e sulle strategie degli operatori economici. Essi si sono piuttosto consolidati in altri settori co-

Gran parte dei ragionamenti sull’ecologia contemporanea derivano dalla prospettiva sistemica


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Le aziende che operano in alcuni Paesi possono acquisire competitività sfruttando l’assenza di normative sul rispetto dell’ambiente e dei diritti me quello dell’hi-tech, in cui la dinamica sistemica non danneggia interessi concreti, anzi li soddisfa con maggiore velocità. Sebbene le due discipline siano profondamente imbricate, la valorizzazione economica dell’ecologia è un fenomeno piuttosto recente che si pone l’obiettivo di trasformare più i nostri stili di vita che la nostra visione del mondo. Critica dell’economia classica L’economia classica è accusata dagli studiosi sistemici di fondarsi su uno schematismo meccanicista e cartesiano (Capra, 1984) che giunge al punto di scomporre e occupare la totalità degli “spazi” disponibili nell’ambiente e dunque il suo progetto è esattamente quello di valorizzare l’ambiente come risorsa in tutte le sue manifestazioni. Tanto che “lo schema concettuale rilevante (nella teoria classica) presenta l’ambiente come un insieme di beni, risorse ambientali, il cui uso viene valutato come qualsiasi altro bene, dai componenti della società; come tutti gli altri beni la valutazione è fatta in relazione alla capacità di contribuire

al soddisfacimento dell’utilità dei consumatori” (ivi, p. 250). Se confrontiamo certe valutazioni teoriche con la palese crescita esponenziale dei consumi nei paesi “emergenti”, risulta evidente il contrasto con alcune retoriche postindustrialiste che avevano intravisto, negli anni Novanta, la possibilità che il sistema industriale si autoregolasse in funzione di esigenze specifiche. Ciò non è avvenuto in Occidente ma ancor di più in quei paesi il cui sviluppo economico è determinato – tra altre concause – anche da quello che si suole definire come dumping economico: il modo in cui le aziende che operano in alcuni Paesi possono acquisire competitività sfruttando l’assenza di normative sul rispetto dell’ambiente, dei diritti sindacali/umani, di quelli dei consumatori e di ogni sistema di tutela del pubblico. Qualche tempo fa Habermas (1992) sosteneva che il peso politico dell’ecologia si sarebbe accresciuto nel momento in cui la percezione degli sconvolgimenti ambientali determinati dalle istituzioni moderne sarebbe giunto a diretto contatto con l’esperienza quotidiana delle persone. Il vento nuovo dall’America Il grande cambiamento nella concezione distopica dello sfruttamento ambientale è qualcosa che riguarda gli ultimi anni e che coincide con l’ingresso del tema ecologico nel-

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l’agenda politica dei Paesi occidentali e con la questione dello sviluppo dei cosiddetti paesi emergenti. Il vento nuovo proviene probabilmente dall’America liberal umiliata da una sconfitta elettorale non troppo limpida che ha visto soccombere, per uno scarto modesto, la proposta di J. W. Bush quella di Al Gore. Proprio quest’ultimo, al di là della scelta politica che constrastava il rinomato ostracismo della destra americana nei confronti delle politiche ambientali e del Trattato di Kyoto, si è fatto interprete del nuovo filone. Un ambasciatore del nuovo ecologismo globale che anche grazie a lui si è trasformato in fenomeno dilagante con il lancio del film intitolato Una scomoda verità (2007), fino al riconoscimento del premio Nobel per la pace nel medesimo anno. Altro contributo importante alla causa è stato offerto da Jeremy Rifkin che aveva già affrontato il problema sul finire degli anni Ottanta ma che recentemente ha assunto un atteggiamento molto più propositivo, che passa per la promozione della nuova Economia all’Idrogeno (2002). Punto chiave del libro è il ribaltamento di paradigma che il modello del World Wide Web dovrebbe suggerire. Da un assetto industrialista e centralista si passa al modello di una erogazione, gestione e produzione decentrata dell’energia attraverso la messa in sistema di microunità produttive.

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Alla fine, la capacità di generazione complessiva della rete energetica degli utenti finali potrebbe superare quella delle centrali delle società elettriche. Quando ciò accadrà, si sarà compiuta una rivoluzione nel modo di produrre e distribuire elettricità. Nel momento in cui il cliente, l’utente finale, diventa produttore e fornitore di energia, le società energetiche di tutto il mondo, se vorranno sopravvivere, saranno costrette a ridefinire il proprio ruolo (Rifkin 2002: 246-247). Tra le istituzioni e la controcultura Il processo di affermazione di una nuova tendenza culturale è il frutto di una retroazione complessa tra molteplici eventi, iniziative private e pubbliche, individuali o collettive. Se il progetto di Al Gore parte da una sfera di legittimazione istituzionale, altri hanno dovuto invece affermarsi dal basso o ancora lavorano nell’intercapedine tra l’istituzionale e il controculturale. Alcune ricerche di studiosi del consumo “verde” hanno messo in evidenza il legame tra l’evoluzione dell’ambientalismo come forma controculturale e la sua le-

Il modello del world wide web, per Rifkin, suggerisce un ribaltamento del paradigma energetico


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Nelle metropoli occidentali spopola il trend di coltivare giardini sui terrazzi dei grattacieli gittimazione nella maglie istituzionali con particolare riferimento al lavoro di alcuni ricercatori sull’ambientalismo in Irlanda e, per estensione, sulle culture nordiche. La relazione costante tra tendenze culturali “dal basso” e processi di istituzionalizzazione da parte di attori pubblici o del mercato si ritrova con particolare evidenza nella diffusione del filone green. Ancor prima dell’ecologismo militante delle varie Ong globali, nel corso degli anni Settanta, sono nate varie forme disorganizzate di azione e di rivendicazione del “diritto al verde”. Tra queste il Guerrilla Gardening è uno dei più suggestivi. Nasce agli inizi degli anni Settanta a New York come pratica controculturale e antagonista che si sviluppa a partire dall’area di Bowery Street per poi diffondersi anche in Europa, a Londra, sino a raggiungere recentemente Milano. Il suo successo e la sua efficacia “politica” deve essere ancora testata ma si concilia in maniera ottimale con i nuovi assunti della filosofia verde. Dall’ecoterrorismo che, ancora sorprendentemente, popolava l’immaginario degli anni Novanta, si è passati così alla rivendicazione del di-

ritto a ciò che è stato definito come “giardinaggio abusivo”. Specialmente in città munite di una modesta concentrazione di aree verdi, questi gruppi agiscono volontariamente, autofinanziandosi, per disseminare il loro verbo attraverso azioni dimostrative più o meno esplicite, modificando l’arredo urbano. Esempi emblematici di una nuova tendenza È di recente pubblicazione la notizia che a New York (come anche a Londra) spopola il trend di coltivare giardini sui terrazzi dei grattacieli per autoprodurre ortaggi biologici senza l’uso di pesticidi. Sempre a New York, presso il New Museum – sorto anche questo su Bowery Street – nel 2008 si è inaugurata la mostra intitolata After Nature: su diversi piani si proponevano opere dedicate al rapporto tra arte, vita quotidiana e natura, dal documentario catastrofista di Herzog sui pozzi iracheni nel 1991, al formidabile cavallo di Cattelan, il cui corpo pende dal muro su uno spazio chiuso e domestico mentre la testa è impiantata nel muro come fosse una lampada o un pensile d’arredo. Il rapporto tra gruppi alternativi e d’avanguardia, istituzioni culturali (anche se al limite tra mainstream e controcultura) e la comunicazione dei grandi gruppi, è una catena di connessioni importante per capire come si sviluppano solitamente le tendenze culturali.

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A Milano ha fatto notizia il caso del “Muro verde” Enel, realizzato in Corso di Porta Ticinese 93, una sorta di giardino pensile verticale, costruito su una struttura di 18 metri in cui vivono 180 piante di specie diversa. Una serie di pannelli solari fotovoltaici posti alla base del muro converte l’energia solare in elettricità producendo una ridotta emissione dei CO2. Ritorna il tema del legame tra energia, contesto urbano e rigenerazione della vita, in un progetto che rinnova l’immagine di Enel da mero fornitore di servizi a promotore di un’estetica filoambientale e sostenibile. Quando l’ecofilone intreccia la problematica dello sviluppo e della responsabilità sociale dell’impresa, i brand “duri”, cioè quelli che operano in settori particolarmente a rischio su tali tematiche, si cimentano spesso con progetti molto avanzati. È il caso del settore energetico e in particolare di quello che gestisce l’estrazione e la produzione di idrocarburi. In un ciclo di seminari intitolato “La comunicazione delle grandi imprese”, che ho organizzato insieme ad Alberto Abruzzese presso l’Università IULM di Milano, abbiamo avuto modo di confrontarci con due realtà particolarmente rappresentative di quel settore. Il caso Petrobras La prima è stata la Petrobras – uno dei primi poli mondiali tra le impre-

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se del settore energetico – impegnata nella delicata attività di riposizionamento strategico del gruppo da impresa produttrice di petrolio a impresa leader del settore energetico. Il gruppo brasiliano è impegnato in un’articolata strategia di comunicazione e di gestione delle risorse umane che s’incentra sul valore della sostenibilità. La Consulenza del Prof. Misturu Yanaze ha consentito di elaborare una metodologia di misurazione dell’efficacia comunicativa, che sfrutta molteplici variabili di cui quelle sull’impatto ambientale rappresentano una sezione molto limitata. Nella fattispecie questa nuova metodologia mira a integrare le variabili classiche di misurazione con quelle di carattere culturale legate alla pianificazione di eventi, alle sponsorship di manifestazioni sportive, ai programmi di sostegno all’ambiente sociale come anche alle campagne di advertising, di relazioni pubbliche, di promozione d’immagine, ecc. Oltre a questo, l’intervento approfondirà le modalità di sviluppo del cosiddetto bilancio sociale quantitativo in cui si tende a comparare il social asset con la “social liability”. Si tratta quindi di un’operazione che con-

I brand “duri” si cimentano spesso con progetti molto avanzati


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L’essenza della visione green contemporanea non è sottrattiva ma moltiplicativa sente alle aziende di monitorare costantemente la propria social equity. Il caso Eni Nel secondo appuntamento del medesimo ciclo, il responsabile della comunicazione esterna dell’Eni Gianni di Giovanni, ha invece delineato le linee guida della comunicazione di questo grande gruppo industriale italiano che, alla stregua di Petrobras, tende a riposizionarsi in chiave immateriale e postindustriale. Una realtà complessa sia per l’imponenza delle sue dimensioni sia per le caratteristiche dei settori in cui opera. È elevata la diversificazione delle attività dell’azienda, cui corrisponde un’articolata offerta di iniziative di comunicazione che coinvolge in modo capillare tutti i canali media e gli stakeholder. Uno dei temi chiave, affrontati nel corso del dibattito, è stato quello dell’etica che si esprime nella comunicazione attraverso il valore della trasparenza: dalla comunicazione finanziaria, ai sistemi di monitoraggio e di prevenzione del rischio; dal tema dell’efficienza energetica, alla ricerca di una relazione più autentica con la massa dei consumatori finali che ha avuto l’obiettivo di sen-

sibilizzare il pubblico verso una nuova cultura energetica. I valori che indirizzano e ispirano le attività comunicative del gruppo sono: la diversità e il recupero delle identità culturali; il rispetto; il coraggio di immaginare. Questi si declinano attraverso tre temi fondamentali che a partire dal 2006 hanno caratterizzato le attività di comunicazione esterna e che sono: la cultura dell’energia; la sostenibilità; l’innovazione. Tra le campagne che meglio sintetizzano il rapporto tra valori e temi c’è la recente campagna 30PERCENTO - Consumare meglio, guadagnarci tutti, che potrei definire un’iniziativa di comunicazione paradossale, se paragonata ai criteri tradizionali di comunicazione del prodotto/servizio. Si tratta di una lista di ventiquattro buoni consigli in fatto di risparmio energetico che riguardano la maggior parte dei consumi quotidiani e che si propongono di far guadagnare al consumatore finale di energia l’equivalente di una tredicesima ogni anno. Attraverso un approccio neopedagogico si educa il consumatore al risparmio per il suo stesso interesse e per quello collettivo. È qui concentrata l’essenza della visione green contemporanea che non è sottrattiva ma moltiplicativa. Un nuovo patto tra azienda e consumatore L’efficienza del sistema, che deriverebbe da tale comportamento consa-

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pevole del consumatore, pareggia gli svantaggi dovuti alla riduzione dei consumi. Così, nella logica dell’efficienza s’incontrano e si riconciliano armonicamente i diversi player ma ciò che più conta è, da un lato, la ricaduta sul piano dell’immagine del brand, dall’altro, il nuovo rapporto col consumatore. Il primo aspetto consente di rigenerare la corporate image che passa da quel freddo e burocratico blocco monolitico di sapor pienamente industrialista a un’azienda dinamica e “giovane” che sa affrontare la sfida del cambiamento. Con il secondo punto si realizza ciò che difficilmente un’azienda energetica potrebbe ottenere. Mi riferisco alla creazione di un legame stabile, paritario e autentico con il consumatore all’insegna di un nuovo patto di credibilità che si basa su un doppio interesse complementare: il risparmio economico e la sua ricaduta sulla conservazione dell’ambiente. La più esemplare dimostrazione di come il filone Green sia definitivamente istituzionalizzato dagli operatori del mercato è certamente quello del LVMH, che nella figura del suo Presidente Bernard Arnault, ha intrapreso con netto anticipo sui gruppi omologhi, un’attenta strategia di monitoraggio e controllo della sostenibilità nelle sue aziende. Il gruppo, che opera nei settori della moda, dei vini e della gioielleria, comprende circa cinquanta marchi di elevato prestigio (da Louis Vuit-

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ton a Dior, da Fendi a Givenchy). A partire dal 1992, ma con maggiore enfasi negli ultimi anni, le direttive provenienti dal top management sarebbero state ispirate ai criteri della più rispettosa ecoresponsabilità. Nel 2001, ad esempio, le sue aziende hanno “(…) firmato lo Statuto dell’ambiente, un protocollo che richiede a ogni ramo aziendale di costruire un sistema gestionale dedicato all’ambiente e di considerare l’impatto delle proprie attività” (De Bartolomeis, 2008: 85), mentre nel 2004 ha attuato il Carbon Inventory, uno strumento per misurare l’impatto del ciclo produttivo del Gruppo sulla Terra. Dall’abolizione dei sacchetti di plastica per le consegne a quella degli imballaggi intermedi sino alla riduzione del consumo di energia elettrica (anche in questo caso la cifra è del 30%), i risparmi sugli sprechi produrrebbero un circolo virtuoso che, attraverso gli investimenti in formazione del personale, alimenterebbero una nuova coscienza ecologista. In ultimo, anche i prodotti sarebbero suscettibili di tale innovazione: come gli abiti in tessuto biologico o

Il caso di LVMH dimostra come il filone green sia ormai istituzionalizzato presso gli operatori del mercato


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addirittura riciclato. Come ha efficacemente sostenuto Lipovetsky (2006) nel suo ultimo libro dedicato

alle tendenze del consumo contamporaneo, tutto questo rientra nella categoria di Iperconsumo.

Riferimenti bibliografici R. Amato, Eni, I 24 consigli per consumare meno e risparmiare fino a 1600 euro l’anno, “La Repubblica”, 15/05/2007 F. Capra, Il punto di svolta, Feltrinelli, Milano 1984 J. Connolly, D. Prothero, Green Consumption. Life-politics, risk and contradictions, “Journal of consumer culture”, Sage, Londra 2008 De Bartolomeis, I Re dell’ecolusso, in “Gentleman”, MF, Numero 92, Ottobre 2008 A. Gore, Una scomoda verità, Feltrinelli, Milano 2007 J. Habermas, Testi filosofici e contesti storici, Laterza, Roma-Bari 1993 G. Lipovetsky, Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo, Raffaello Cortina, Milano 2006 S. Pignatti, B. Trezza, Assalto al pianeta. Attività produttiva e crollo della biosfera, Bollati Boringhieri, Torino 2000 J. Rifkin, Economia all’idrogeno, Mondadori, Milano 2002

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Massimo Andreozzi massimo@lasituazione.com

Che futuro ci aspetta fra dieci anni?

È

questa la domanda che si sono posti i ricercatori dell’Institute for the Future di Palo Alto in California. Ben settemila visionari di ogni nazionalità sono stati coinvolti nel dibattito e l’Istituto dei “Futuriani” ha potuto così elaborare una sintesi che vede diversi scenari possibili in cinque flashpoints: società, economia, ambiente, infrastrutture, politica. La rivista Wired, nel numero di settembre, ha voluto reinterpretare i risultati di questa ricerca graficamente disegnando una mappa, chiamata Mappa del Futuro. «Il prossimo decennio si presenta con molte sfide: un’economia al collasso, un’ecologia sofferente, una richiesta incontenibile del Sud del mondo di entrare nel primo e la necessità di nuove abilità per comprendere l’evoluzione della specie», scrive il giornalista Salvo Mizzi sul magazine. Le strategie da attuare condurranno ad un futuro superstrutturato e user generated: per dirla con un neologismo, un wikifuturo. Il confronto sui giorni che verranno è sempre aperto e, dai più ottimisti che vedono la salvezza nella rete ai peggiori catastrofisti che non vedono soluzioni al disastro ambientale, almeno su una cosa sembrano tutti d’accordo: entro dieci anni l’umanità si troverà ad affrontare cambiamenti importanti che rivoluzioneranno i nostri stili di vita (nel bene o, il destino non volesse, nel male). All’interno di questo dibattito senza fine ci è sembrato doveroso evidenziare la voce di Davide Bocelli, referente italiano della Long Now Foundation, realtà nata in California più di dieci anni fa per sensibilizzare sulle responsabilità per il futuro. L’articolo si chiude con una doppia intervista a specchio Riccardo Luna (direttore di Wired) versus Carlo Antonelli (direttore del Rolling Stone), i quali, durante un meeting all’Opificio Telecom di Roma organizzato da Wired Italia e incentrato proprio sulla Mappa del Futuro, hanno proposto due visioni del futuro tra di loro antipodiche in più punti.

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Il lungo presente dell’uomo responsabile Intervista a Davide Bocelli

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avide Bocelli, oltre ad essere referente italiano della fondazione Long Now, è docente presso l’Istituto Europeo di Design, scrittore e musicista. Ha tradotto in italiano “Il lungo presente”, testo che illustra la filosofia di fondo della Long Now, scritto dal suo co-presidente Stewart Brand e pubblicato l’anno scorso anche in Italia. Gli abbiamo chiesto di descriverci la fondazione di cui fa parte. Massimo Andreozzi: The Long Now Foundation: cosa c’è dietro un nome così intrigante? Davide Bocelli: È una fondazione americana no profit creata nel 1996 con uno scopo ben preciso: promuo-

L’oggi fa parte di una dimensione del tempo molto più ampia: il lungo presente è composto da diecimila anni di passato e diecimila di futuro

vere il pensiero e la responsabilità a lungo termine. Questo significa cercare di far comprendere alle persone che oltre alle conseguenze immediate delle nostre azioni ce ne sono soprattutto altre che riguardano le generazioni successive. Ci siamo resi conto della lungo fase da noi sperimentata a livello globale. Tutti abbiamo pensato a svilupparci velocemente. Questa crescita non è però stata accompagnata da una riflessione sui problemi della sostenibilità. Se da una parte ci sono stati profitti estremamente rapidi, dall’altra siamo entrati in un’impasse ecologica e sociale non trascurabile. Per The Long Now l’oggi fa parte di una dimensione del tempo molto più grande di come siamo stati abituati a definirla: il lungo presente è composto da diecimila anni di passato e diecimila di futuro. In questa visione, scelte del passato, comportamenti attuali e prospettive del futuro compongono un unicum con il quale raffrontarsi. Come dice Stewart Brand: “diecimila anni non sono poi una così grande quantità di tempo”.

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Il lungo presente dell’uomo responsabile di Massimo Andreozzi

Andreozzi: Da chi è stata fondata? E come è nata?

network di cui disponiamo fare community è sempre più facile e rapido.

Bocelli: La Long Now Foundation è nata da una serie di conversazioni online tra esponenti dell’intellighentia evoluzionista americana e non solo. Tra i fondatori troviamo i due co-presidenti Stewart Brand, e Daniel Hillis, Kevin Kelly, Brian Eno, Paul Saffo. Per capire il calibro di queste persone basti sapere che l’inventore e scrittore Stewart Brand nel 1966, chiese alla NASA di pubblicare le foto della Terra vista dallo spazio, immagini che rivoluzionarono il modo di autopercepirsi dell’umanità. Tra queste persone è sorta la preoccupazione che quello che loro vedevano, ovvero il mondo degli anni Novanta, stesse puntando tutto sul concentrare nel più breve periodo di tempo il maggior valore economico e il massimo potere produttivo possibili. Questo a scapito di una serie di questioni sociali, biologiche ed ecologiche.

Andreozzi: Lei è il referente in Italia per la Fondazione. Che attività svolge The Long Now sul territorio italiano?

Andreozzi: Quindi c’è da sempre un forte legame tra The Long Now e il web, soprattutto quello “sociale”? Bocelli: È un legame profondo perché Brand è il creatore di una delle prime comunità web della storia, The Well (www.well.com, ndr). Stiamo parlando di persone che il web sociale lo hanno fatto a partire dagli anni Ottanta. Oggi con tutti i social

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Bocelli: In questo momento la Long Now è al suo debutto in Italia, inizio che è durato sette anni, nel tipico stile graduale della Fondazione. Collaboro con essa dal 1999 e, dal 2002, ho iniziato a tradurre il libro fondamentale di Brand. Ho atteso, prima di pubblicarlo, che ci fossero dei segnali di avvicinamento a quello che era il contesto culturale californiano degli anni Novanta. Escludendo i pochi studiosi e geni perfettamente sincronizzati, la grande audience italiana ha un gap di dieci anni rispetto alla California. Fino a dieci anni fa Internet era considerato con distacco, le questioni ambientali esistevano ma erano più legate al contesto locale che a una visione globale, anche se iniziavano ad esserci dei sentori di quello che era la grande anomalia italiana. Sto

Il long player è un pezzo musicale che dura mille anni e che si basa sul concetto di musica generativa sviluppato da Brian Eno


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La parola chiave per il futuro, e per il presente, è la responsabilità iniziando ora a contattare persone per strutturare sempre meglio e sempre più attività legate alla Long Now. Spero che questo possa essere un buon ponte per far dialogare persone, italiane e non, che si occupano di problemi tecnologici, mediatici, sociali, politici ed ecologici legati al lungo termine. Mi sembra che ciò possa essere benefico per noi: oggi come oggi stimoli alla ricerca e all’innovazione sono indispensabili nel nostro Paese. Andreozzi: L’attività della Long Now è densa di “provocazioni artistiche” e tra i membri più attivi della fondazione vi è anche il musicista e produttore Brian Eno. Avete da poco lanciato un Long Player… Che cos’è? Bocelli: Il Long Player è un pezzo

musicale che dura mille anni e che si basa sul concetto di musica generativa (usato da Brian Eno per descrivere musica cangiante e sempre differente creata da un sistema, ndr). Da un punto di vista tecnico è uno spartito per computer che con un processo lungo da descrivere genera una musica per mille anni. Poco tempo fa, da questo score generale è stato estratto un brano di mille minuti, quindi di sedici ore ininterrotte, che è stato suonato da una serie di musicisti con delle campane tibetane al Roudhouse di Londra. Andreozzi: Qual è la sua parola chiave per il futuro? Bocelli: La parola chiave per il futuro, e per il presente, è responsabilità: in una dimensione sia individuale che collettiva. Non vorrei sembrar banale: tutto quello che accade nel breve periodo è generato dai rapporti che abbiamo tra di noi, e nel cambiare questi rapporti, nel comprenderli e farli funzionare meglio probabilmente c’è la chiave di un futuro migliore.

Stewart Brand ha recentemente pubblicato il suo nuovo libro “Whole Earth Discipline. An Ecopragmatist Manifesto”, un testo che agli occhi di molti è risultato essere, per le sue posizioni, una provocazione rispetto ai canoni più diffusi dell’ambientalismo. Per saperne di più: http://web.me.com/stewartbrand.

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Massimo Andreozzi massimo@lasituazione.com

Futuro: due (pre)visioni Il futuro secondo Riccardo Luna (direttore di Wired) e Carlo Antonelli (direttore di Rolling Stone) in una doppia intervista a specchio.

assimo Andreozzi: La mappa del futuro fa previsioni sui prossimi dieci anni. Nella società nella quale viviamo dieci anni sono pochi o tanti?

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Riccardo Luna: Dieci anni sono pochi se si pensa che oggi la vita media nel mondo occidentale supera gli 80 anni. Ma sono tanti se invece crediamo che nei prossimi anni assisteremo a una rivoluzione che cambierà tutto. Carlo Antonelli: Il problema è che dalla fine del secolo scorso, per convenzione, ragioniamo con l’idea di fondo che il tempo della società possa essere diviso per decadi. Ciò è comodo, ma poco utile. Per esempio la divisione tra gli anni ’80 e i ’90, osservata con attenzione, non mette in luce cambiamenti significativi, e quel ventennio, a mio avviso, può essere inteso come unico periodo. Quindi, ovviamente, pochi. Andreozzi: È ottimista sul futuro? Luna: Molto. Per indole ma anche

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per una serie di ragionamenti. Razionalmente ottimista. Antonelli: Né ottimista, né pessimista. Realista. E poi la catastrofe non necessariamente è negativa! Andreozzi: La parola chiave per il futuro. Luna: Condivisione. Antonelli: Bricolage, intenso come evoluzione della capacità, nata nel contemporaneo, di costruzione della propria identità personale. Andreozzi: Politica e qualità della vita miglioreranno? Luna: Ne sono convinto, ma non avverrà gratis. Tocca a noi tutti fare delle scelte non più rinviabili.

Due parole chiave per il futuro: “condivisione e bricolage”


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Il mondo oggi sta molto meglio di cinquanta anni fa in tutti i settori, tranne pace e ambiente Antonelli: La politica è di per sé legata ad uno spazio pubblico, quello della polis appunto, che è stato quasi totalmente abbandonato a partire dagli anni ’80. Migliorerà solo se si riapproprierà della capacità di percepirsi realmente in uno spazio collettivo, ma penso che questo sia improbabile. La qualità della vita, se la si vede dal punto di vista occidentale e secondo i nostri standard, peggiorerà senza dubbio. Invece, da un punto di vista globale, disastri climatici permettendo, è migliorata e continuerà a migliorare. È sotto questo aspetto che critico la Mappa del Futuro: il suo limite è proprio nel suo punto di vista strettamente occidentale. Andreozzi: Bisogni primari, bisogni secondari e bisogni superflui nel futuro. Luna: Tutte le statistiche indicano che il mondo, compreso il terzo mondo, oggi sta molto meglio di cinquanta anni fa in tutti i settori, tranne pace e ambiente. Il resto viene dopo. Antonelli: Il bisogno primario sarà la necessità di muoversi e cambiare condizione sia dal punto di vista del-

la mobilità fisica, che dal punto di vista della mobilità sociale e culturale. I bisogni secondari, e soprattutto quelli superflui, sono stati molto sollecitati nel cosiddetto mondo occidentale durante gli ultimi trenta anni: ciò a cui dovevamo assistere lo abbiamo già visto. La novità però è l’ingresso di numerosi milioni di persone provenienti dai paesi di recente sviluppo dentro all’ingranaggio di percezione e ricerca di questi bisogni. Andreozzi: Nel settore ambientale prevede disastri o soluzioni? Luna: Abbiamo il dovere di imporre adesso delle soluzioni. Altrimenti dopo sarà troppo tardi. Antonelli: Entrambe le cose. Andreozzi: Quali saranno i principali cambiamenti nel settore delle comunicazioni e delle nuove tecnologie? Luna: La diffusione di una rete superbroadband per internet porterà alla cosiddetta internet of things, non un’evoluzione ma una rivoluzione della società della conoscenza. Andreozzi: Quali invece quelli nel mercato musicale? Antonelli: Nel mercato musicale i cambiamenti principali saranno due.

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Futuro: due (pre)visioni. Intervista doppia a Riccardo Luna e Carlo Antonelli di Massimo Andreozzi

Il primo sarà l’ingresso di ciò che, dal punto di vista geografico, non è ancora realmente entrato nel mercato. Già si è avuta una preview con la colonna sonora del film “The Millionaire”, per fare un esempio. Assisteremo con buone probabilità all’ingresso tra le cinquanta music stars planetarie di personaggi provenienti da altri territori o dall’incrocio di culture. Il secondo sarà la fuoriuscita dagli standard industriali che erano stati imposti nel novecento: ciò darà la possibilità di fare e distribuire musica che non sia definibile nel formato commerciale della canzone, ovvero di aprirsi a tutto ciò che non rientra nei classici tre minuti e cinquanta secondi. Già abituati alle suonerie per cellulari, ci troveremo di fronte a grandi hit da trenta secondi. Ma anche a splendide canzoni da quindici minuti e ad esperimenti di ogni genere di musicisti che, non avendo più limite di tempo, potranno finalmente liberare le loro capacità compositive.

Andreozzi: Provi ad immaginarsi fra dieci anni. Descriva dove si trova, cosa fa e cosa vede attorno a sé.

Andreozzi: E nel modo di fare musica?

Andreozzi: Quanto è cambiata la sua vita con l’uso del web sociale?

Antonelli: Non credo che ci saranno cambiamenti di notevole entità e, soprattutto, non cambieranno i linguaggi. Si creerà ancora più confusione tra amatorialità e professionalità. La musica perderà importanza sul piano sociale e già da tempo stiamo vivendo un notevole calo della ricerca estetica.

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Luna: Spero di esserci e soprattutto di aver contribuito, nel mio piccolissimo, a rendere il pianeta un posto migliore. Antonelli: Fra dieci anni, se me la potrò ancora permettere, sarò nella mia casa in Liguria sopra Camogli a guardare uno dei più bei panorami del mondo. Sarò connesso un’ora al giorno e guadagnerò abbastanza in quell’ora per potermi permettere il dolce far niente nelle ore successive e precedenti. Andreozzi: Che cos’è per lei Internet? Luna: Il più potente strumento che l’umanità abbia mai avuto per cambiare le cose. In meglio. Antonelli: Uno strumento.

Assisteremo all’ingresso tra le cinquanta music stars planetarie di personaggi provenienti da altri territori o dall’incrocio di culture


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Internet è il più potente strumento che l’umanità abbia mai avuto per cambiare le cose. In meglio Luna: Più di quanto immaginassi all’inizio. Antonelli: Non è cambiata perché mi sono rifiutato fino ad oggi di parteciparvi nella più lontana maniera. Ho già troppi contatti nella vita reale. Andreozzi: Quale sarà la prossima big thing su web? Luna: Il web semantico: poter chiedere a internet non una parola, ma una domanda esatta. Antonelli: Non credo che sia così importante evidenziare nuove big things sul web, quanto il fatto che ci sarà una costante presenza della rete in qualunque luogo e movimento della giornata. Dove ne vedremo delle belle secondo me sarà nel mondo della medicina e delle biotecnologie. Andreozzi: Identità e memoria collettiva nel futuro prossimo. Luna: Una banca dati in perenne aggiornamento. Antonelli: La memoria sociale non è stata mai così aiutata come dagli

strumenti che abbiamo a disposizione oggi, anzi semmai c’è stato un trasferimento totale della memoria all’interno della digitalità collettiva, che avrà un futuro sempre più roseo. Basti pensare a Youtube e alla sua enorme rilevanza a livello planetario. Per quanto concerne l’identità, invece, ipotizzo la fine definitiva delle classi sociali e la nascita di nuovi sottogeneri culturali. Andreozzi: Le sempre maggiori restrizioni applicate al web comprometteranno la sua natura più anarchica? Luna: Credo di no e, soprattutto, mi auguro di no. La sua natura anarchica è la ragione del suo successo. Antonelli: Certamente. A me la rete ricorda molto quella specie di clamoroso esperimento sociale, unico al mondo, che fu l’esplosione delle radio e delle televisioni libere in Italia alla fine degli anni ’70. Chiunque a livello condominiale, rionale, cittadino e nazionale aveva la possibilità di mettere su una propria radio o TV. Ciò a cui abbiamo assistito dopo è stato l’impossessarsi di questo terreno da parte di forze commerciali molto forti, fino ad arrivare al fenomeno Berlusconi. C’è il rischio che tutto questo riaccada anche in una geografia senza confini come quella di internet. Non significa che l’indipendenza venga totalmente

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Futuro: due (pre)visioni. Intervista doppia a Riccardo Luna e Carlo Antonelli di Massimo Andreozzi

schiacciata, ma sono già visibili posizioni dominanti molto forti. Google, per esempio, effettua una grande azione censoria nella sua indicizzazione e costruisce realtà al pari della TV.

Il giornalismo sta benissimo e il contributo del citizen journalism arricchisce il nostro lavoro

Andreozzi: Ritiene che noi italiani siamo indietro rispetto al trend globale?

cinque anni Milano si è trasformata in un deserto sociale. Non c’è socialità vera: è riempita solo di relazioni conviviali e commerciali: pubbliche relazioni. Tale inaridimento porterà a grossi problemi di conflittualità fisica. Dall’altro, la città ha molte opere in corso che daranno alla città un nuovo skyline che porterà novità. Ciò darà uno scossone architettonico che potrebbe fornire una rinascita sociale.

Luna: Senza dubbio. Siamo immobili, anzi arretriamo. Antonelli: No. L’Italia, per questioni culturali, è la prima nazione al mondo ad avere adottato l’uso massificato del cellulare e, se non sbaglio, ad avere usato gli sms. Siamo molto permeabili alle nuove tecnologie. Andreozzi: Il futuro di Roma. Luna: Troppo cinica per salire sul treno del futuro, ma spero di sbagliarmi. Andreozzi: Il futuro di Milano. Antonelli: Il futuro di Milano è distopico e contraddittorio. Da un lato, ci si troverà di fronte al primo caso italiano di città che presenta problemi di conflittualità e depressione urbana veramente gravi: questo ci dice la decadenza sociale della città da vent’anni a questa parte. E il fenomeno si è accelerato, perché in

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Andreozzi: Il futuro del giornalismo e dell’editoria alla luce del dibattito sulla libera circolazione di notizie su web. Luna: Il giornalismo sta benissimo, nel senso che ce n’è un gran bisogno e che il contributo del citizen journalism arricchisce il nostro lavoro. I giornali meno, ma non è colpa di internet. Internet ha soltanto evidenziato quanto fossero vecchi e autoreferenziali certi prodotti editoriali. Antonelli: Il futuro da questo punto di vista sarà fantastico. È l’unica cosa sulla quale sono veramente ottimista. Assisteremo alla fine della corporazione giornalistica e in Ita-


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lia faremo un grande passo in avanti. Questo vorrà dire fine del monopolio nella diffusione di gusto e di informazione da parte dei gatekeepers, ovvero i grandi editori italiani che fino ad oggi hanno contrastato l’arrivo di ogni tipo di novità. Ben gli sta. Oggi anche il peggiore blog è migliore della maggior parte delle testate. Andreozzi: E il futuro della sua rivista?

Luna: Vorrei che non fosse soltanto una rivista, ma un movimento. E vorrei che fosse utile a far cambiare le cose in meglio. Spero che ne saremo capaci. Antonelli: Cambierà la sua forma, e già da adesso stiamo sperimentando. Auspico una trasformazione totale: da un modello da sempre sbilanciato verso l’advertising ad uno strettamente legato alla qualità di contenuti irreperibili altrove.

L’articolo sulla Mappa del Futuro è sul sito di Wired Italia: wired.it/magazine/archivio/2009/07/storie/la-mappa-del-futuro-voi-sarete-qui-.aspx Potete trovare online la mappa digitando: densitydesign.org/2009/10/02/we-will-be-here-map-of-the-future

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a nostra contemporaneità sembra essere marcata da due grandi questioni che, data la loro urgenza, sono divenute in alcuni paesi imperativi programmatici e obiettivi principali di politiche nazionali, pubbliche e private. Tali argomenti ci riportano, in primo luogo, alla questione ambientale e, contemporaneamente, all’avvento delle reti digitali, ossia, a quell’insieme d’innovazioni e opportunità proporzionate dalla diffusione delle tecnologie digitali d’informazione e comunicazione (ICT). Due ambiti strategici in cui sono depositate le ansie e le speranze di settori e parti crescenti della società mondiale e dalle quali dipendono le caratteristiche dei nuovi patti sociali in costruzione.

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ciale, anche come una contrapposizione che rinvia a dimensioni e caratteristiche filosofiche. Se si osservano le prospettive che hanno disciplinato le principali concezioni della natura, salvo pochissime eccezioni, si noterà come queste, nel vecchio mondo, si siano sempre mosse all’interno di un dualismo nel quale si sono riprodotte dinamiche dialettiche e relazioni di subordinazione. L’avvento di una nuova razionalità, all’interno della quale le intelligenze della natura e quelle umane non si contrappongono ma si riconoscono come parti interne di una unica razionalità in divenire, comporta, inevitabilmente, anche la necessità di privilegiare lo sviluppo di strategie non più basate su risultati

Tecnologie della natura: l’ambiente e i media Distante dal potersi considerare come un problema di facile soluzione, la relazione tra soggetto e ambiente si presenta, all’interno della cultura occidentale, oltre che come una questione economica, politica e so-

La relazione tra soggetto e ambiente, in occidente, si presenta come una contrapposizione che rinvia a dimensioni filosofiche

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I media permettono di ripensare la relazione tra il soggetto e la natura oltre i paradigmi antropocentrici a breve periodo, dirette a risolvere le questioni ambientali dal vecchio punto di vista sociale e antropocentrico ma, sempre più, tese a promuovere il benessere anche degli elementi non umani, attraverso la sostituzione del contratto sociale con quello naturale e il superamento delle forme moderne del sociale e delle sue rappresentazioni. Se l’origine del problematico rapporto tra l’uomo e la natura del mondo occidentale non risiede soltanto nelle dinamiche industriali e produttive, (giacché conseguenze più che cause), non deve neanche essere ricondotto esclusivamente alle rappresentazioni filosofiche occidentali e alle categorie interpretative che hanno imprigionato il pensiero all’interno delle barriere concettuali antropocentriche. Esiste un ulteriore elemento che deve essere preso in considerazione, in quanto capace di intervenire all’interno dei processi di trasformazione di tali dinamiche, che oggi, a causa delle trasformazioni comunicative, risulta di particolare importanza. Ci stiamo riferendo ovviamente all’elemento tecnologico-co-

municativo mediante il quale intendiamo descrivere, da un lato, tutte quelle forme di rappresentazione tecnologiche dell’ambiente che, dal telescopio alla fotografia al cinema, hanno contribuito all’alterazione non solo della percezione ma anche della relazione tra soggetto e territorio; dall’altro, le forme del dinamismo d’interazione che, con l’avvento di nuove tecniche di informazione (la lettura, le immagini tecniche e l’informatizzazione del territorio) ha, in epoche distinte, favorito la diffusione di pratiche e di interazioni diverse con la natura. L’assunzione dell’elemento mediatico come uno strumento importante per la conoscenza introduce una dimensione tecnica dell’abitare che ci permette di ripensare la relazione tra il soggetto e la natura oltre le cicliche dinamiche delle concezioni antropocentriche. Analizzando la distinzione tra le culture pre-letterarie e quelle già legate alla scrittura, M. McLhuan sosterrà che le tecniche di comunicazione propizieranno i cambiamenti delle interazioni dell’uomo con l’ambiente. Situazione analoga è quella inaugurata dal telescopio che ha permesso la trasformazione della comprensione dell’universo e l’avvento della concezione scientifica della natura. La percezione della natura, dopo Galileo, diverrà il risultato di una triplice relazione che pone in dialogo il soggetto, gli strumenti tecnici di os-

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servazione e il mondo, ricollocando il vedere e l’esperienza sensoriale all’interno dell’esperienza conoscitiva e, come sarà chiarito in seguito da Einstein e da Heisenberg, non certo in una relazione strumentale. Se la natura e l’intero universo inizieranno ad essere osservati, compresi e comunicati dalle tecnologie che ne permetteranno l’esatta visione e saranno in grado, con il passar del tempo, di svelarne i segreti attraverso osservazioni e analisi sempre più tecnologicamente sofisticate, ne consegue che le pratiche e le concezioni dell’abitare diverranno sempre più il risultato di una mediazione tecnica che determinerà le qualità e i significati dell’interazione tra il soggetto, la natura e il territorio. L’occhio meccanico, oltre a mostrare a Galileo un altro universo, invisibile ad occhio nudo, ebbe il merito di infrangere per sempre la barriera che si frapponeva tra il soggetto e la natura, innescando un nuovo tipo di interazione nella quale il mondo interno dell’osservatore e quello esterno della natura iniziano a dialogare tra loro attraverso le estensioni meccaniche dei sensi. In tale nuovo contesto, l’abitare inizierà a mostrarsi in senso relazionale e complesso e non più come la proiezione dell’io sul mondo. La trasformazione tecnica dell’esperienza sensoriale evidenzia la costituzione di uno stretto legame tra la percezione del territorio, i si-

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gnificati ad esso attribuiti e le forme dell’abitare, mostrando allo stesso tempo l’esistenza di qualcosa di diverso rispetto alla dimensione rappresentativa dello spazio, realizzata invece dal soggetto e dal suo immaginario socio-culturale. Ciò è ancora più evidente con l’avvento dell’elettricità e delle tecnologie mediatiche che, dopo le leggi della prospettiva e la visione aumentata del telescopio galileiano, introdurranno un’ulteriore alterazione tecnica delle pratiche di interazione con la natura. Il carattere naturale dell’artificiale e la crisi della ragione cartesiana La concezione antropocentrica, che ha costruito l’immaginario dell’abitare e della natura all’interno della cultura occidentale, caratterizzato dalla supposta separazione tra soggetto e ambiente, è stata posta ulteriormente in discussione da alcune scoperte realizzate nella prima metà del secolo passato. Queste ultime hanno posto in evidenza, all’interno della teoria sulla composizione della materia e in seguito alla misurazione di alcuni fenomeni fisici, l’impossibilità di separare il soggetto os-

Le pratiche e le concezioni dell’abitare diverranno sempre più il risultato di una mediazione tecnica


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Non vi è più una perfetta distinzione dei limiti che separano i nostri corpi dal mondo servatore dall’ambiente circostante. In altri termini, analizzando i movimenti e i processi di reazione delle particelle infinitamente piccole, ci si era resi conto dell’esistenza di reti d’interazione che indicavano il superamento dei limiti tra interno ed esterno, tra soggetto e oggetto, tra organico e inorganico. La reintroduzione del soggetto osservatore all’interno dell’ambiente da questo osservato e la natura tecnica della percezione, sono stati alcuni dei contributi apportati dalla fisica nella prima metà del secolo passato. Questi testimoniano il diffondersi di una concezione ecosistemica che non percepisce più l’ambiente e l’intorno come qualcosa di distinguibile e separato dal soggetto, ma come qualcosa di abitabile in forme diverse a seconda del tipo di tecnologia utilizzata nel processo di interazione-osservazione. Fu lo stesso Einstein, nella sua teoria della relatività speciale, sorta in risposta al fallimento dell’esperimento realizzato da Michelson e Morley, ad esporre la relazione tra la percezione e gli strumenti tecnici di cui la fisica si serviva per misurare i fenomeni. L’esperimento di Michelson e Mor-

ley sulla velocità della luce aveva messo in discussione un’importante legge, quella relativa alla proprietà della somma e sottrazione della velocità. La soluzione proposta da Einstein fu proprio quella di mettere in discussione i due principali strumenti di misurazione utilizzati dalla fisica, – l’orologio e il metro – considerati erroneamente, fino a quel momento, come unità di misura costanti. L’osservatore che si accingeva a misurare la velocità della luce, aveva anche esso una velocità di movimento, data dalla velocità di rotazione terrestre che cambiava, a seconda della sua specifica posizione geografica. Motivo sufficiente a rimettere in discussione l’oggettività delle misurazioni spazio-temporali per preferire, a queste, le pluralità tecno-percettive delle mutazioni di tali dimensioni. Ma sarà soprattutto l’enunciato del principio di indeterminazione di Heisenberg ad andare chiaramente nella direzione del superamento delle frontiere tra il soggetto e il territorio. L’esperimento effettuato da Compton aveva determinato che la radiazione luminosa necessaria per l’individuazione della posizione di un elettrone nell’atomo, bastava già per scacciare l’elettrone fuori dall’orbita dello stesso. Ciò, oltre a comportare l’impossibilità di determinazione della esatta posizione dell’elettrone, mostrava alla fisica e alla scienza, in generale, i limiti dell’osservazione e

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la dipendenza di questa dagli strumenti tecnici, di volta in volta utilizzati. Da tutto ciò nasceva la necessità di pensare l’osservazione – e conseguentemente la conoscenza – non più come un’attività separata, svolta dall’occhio di un osservatore distante ed esterno, ma come l’azione di un attore inevitabilmente interveniente, esso stesso parte del mondo e della struttura da lui osservata. La non più possibile perfetta distinzione dei limiti che separano i nostri corpi dal mondo, e di quelli frapposti tra gli strumenti tecnici e la nostra percezione, suggerisce la necessità di ripensare i significati e le forme delle relazioni comunicative con l’ambiente, a partire dalle tecnologie utilizzate per comunicare con esso. Lo stesso concetto di media, analizzato in questa prospettiva, può essere pensato, sulla scia degli studi proposti da D. De Kerckhove come una psicotecnologia, ossia, come una tecnologia dell’intelligenza, che interpreta e organizza le informazioni in simbiosi con la nostra struttura mentale. Stabilito il carattere “connettivo” della nostra intelligenza, che definisce i media come tecnologie della mente indispensabili alla costruzione della nostra percezione e allo sviluppo delle nostre attività cerebrali, è necessario ripensare il significato attribuito alle nostre relazioni con l’ambiente e all’abitare. In generale, facciamo ciò a partire dall’insieme delle interazioni tecnologiche-

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mediatiche che si sono instaurate, di volta in volta, tra noi e il mondo, dirigendosi, così, verso prospettive non più antropomorfiche o strumentali ma eco-midiatiche. Il punto di vista qui esposto, in cui le forme comunicative dell’abitare sono intese come le pratiche e i significati sorti a partire dalle interazioni simbiotiche e poietiche di soggetti-media e ambiente, si inserisce all’interno di un’ottica transdisciplinare di studi, ambientali, informativi, sociali e comunicativi, proposta da A. Abruzzese, per i quali “risulta assai difficile separare la qualità dello spazio dalla qualità dei mezzi di comunicazione”. In essi, attraverso un’interpretazione storica, si riconosce la qualitativa trasformazione degli spazi apportata dai media che incontra nella modernità un momento e un significato specifici: “il tempo della modernità risulta essere appunto il momento in cui per costruire uno spazio sociale si è passati decisamente all’uso degli oggetti di consumo, al linguaggio delle merci e all’efficacia dei mezzi di comunicazione” È possibile, quindi, una volta appurata l’esistenza di una relazione simbiotica tra il soggetto, la sua per-

Risulta difficile separare la qualità dello spazio dalla qualità dei mezzi di comunicazione


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Le tecnologie comunicative rendono l’esperienza della territorialità qualcosa di plurale e dinamico cezione, le tecnologie mediatiche e l’ambiente che lo costituisce, individuarne alcune tappe e soprattutto verificarne le nuove modalità innescate dall’avvento delle tecnologie digitali e dei processi di informatizzazione della natura. Se con le piattaforme comunicative espresse dalla lettura e con quelle legate all’elettricità e alle forme comunicative unidirezionali dei media di massa, si è perpetuata l’idea e la percezione di una natura distante e dominata, sia se descritta attraverso le sequenze dei caratteri di un testo, sia se filmata e riprodotta attraverso le sequenze di immagini e suoni: cosa avviene con l’avvento delle reti digitali e con le pratiche interattive e tecno-dinamiche delle forme comunicative collaborative ? In che modo le reti digitali stanno contribuendo alla costruzione di nuovi patti ambientali e alla diffusione di un paradigma aperto ed ecologico? Ecosofie e reti digitali Come osservato a più riprese da M. McLuhan, l’interpretazione delle trasformazioni tecno-comunicative non

deve essere compresa in forma evolutiva e diacronica. Le tecnologie mediatiche tendono a convivere dialogando tra loro e ritraducendosi reciprocamente. Pertanto le tecnologie comunicative che contribuiscono al processo di costruzione informativa dell’abitare, sono di fatto tra loro contemporanee e rendono l’esperienza della territorialità qualcosa di plurale e dinamico. Sin dalla tecnologica della scrittura, la territorialità ha iniziato a moltiplicarsi, facendo dell’abitare una pratica dislocativa. Riproducendosi di volta in volta, in forme diverse, e acquisendo con l’elettricità e con la sua riproduzione digitale nuove dimensioni, essa ha assunto le forme meta-geografiche del cinema, della radio, della Tv, del video, prima e, in seguito, quelle delle interazioni e delle spazialità simulate, legate alle dimensioni virtuali. Le caratteristiche di tali innovazioni rimettono a trasformazioni qualitative nella percezione, nella concezione e nelle forme di interazione con l’ambiente. Se, come osservato da B. Latour, la natura all’interno della cultura occidentale si era mantenuta sempre distante, dominata e separata dal soggetto, con l’avvento della cultura delle reti viene a consolidarsi la concezione di un altro modello d’interazione che si esprime attraverso l’insorgere di una diffusa cultura ecologica. Tanto da un punto di vista della

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natura, quanto da un punto di vista sociale, negli attuali contesti digitali, non appare più possibile pensarci esterni al paesaggio ma inseriti al suo interno e da esso stesso costituiti. La diffusione di tale concezione è strettamente legata anche alle nuove scoperte e concezioni delle scienze biologiche. Queste, negli ultimi decenni, hanno cominciato a considerare gli organismi non più soltanto come membri separati di comunità ecologiche ma come complessi ecosistemi, contenenti moltitudini di organismi minori, dotati di una considerevole autonomia ma, allo stesso tempo, in sinergia tra loro. Sin dagli inizi degli studi sull’ambiente le comunità ecologiche sono state pensate come reti che riunivano insiemi di organismi attraverso la circolazione delle risorse alimentari. Con il passar del tempo, la concezione legata ad una nuova interpretazione delle realtà biologiche come ad un sistema in rete è divenuta un paradigma diffuso, utilizzato per la descrizione di tutti i livelli di sistema. Tale concezione ha contribuito alla realizzazione di un importante cambiamento di prospettiva secondo il quale tutti gli organismi erano considerati, non soltanto composti da reti di cellule, organi e sistemi di organi ma, anche, come parti di un ecosistema formato a sua volta da reti di organismi individuali. Coerentemente con tale percezione un ecosistema poteva essere

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pensato come un sistema in rete composto di nodi, che a loro volta contenevano reti. Come osservato da Bernard Patten, l’ecologia diveniva così un campo di studio delle reti: “L’Ecologia è composta da un insieme di reti…comprendere un ecosistema significa, in ultima analisi, comprendere le reti”. Oltre a tale aspetto, l’approssimazione dell’ambiente e della natura alle forme comunicative delle reti si diffonde ad un livello interpretativo e ad un livello percettivo. Negli ultimi anni, soprattutto dopo l’avvento delle reti digitali, la natura e l’ambiente sono divenuti essi stessi parte del sistema d’informazione, pensati come sistema di reti e come parte del sistema sociale d’informazione, in quanto monitorati e osservati continuamente dagli sguardi attenti di scienziati, politici, movimenti ambientalisti etc. che ne indagano lo stato e i livelli di salute. Il processo d’informatizzazione della natura ci conduce ad una continua inclusione degli elementi considerati in passato esterni, e ci fornisce la chiara percezione dell’importanza dello stato di salute del piane-

Negli attuali contesti digitali non è più possibile pensarci esterni al paesaggio ma inseriti al suo interno e da esso costituiti


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ta e della stretta relazione tra il nostro organismo e gli organismi maggiori che compongono gli insiemi degli ecosistemi del pianeta. Oltre al livello esplicativo e a quello di percezione, la visione della natura e della vita come un insieme di reti vive ci apre la possibilità di pensare ad un altro punto importante di trasformazione relativo alle forme di interazione tra noi e l’ambiente. Questo, di fatto, una volta digitalizzato e diffuso nella rete, diviene accessibile e prossimo, comprensibile e non più, pertanto, esterno e distante. L’accompagnamento delle sue alterazioni diviene l’elemento di una relazione continua che unisce in un dialogo permanente il buco dell’ozono, i ghiacciai dell’Antartide, le nostre auto, ai nostri corpi e al nostro quotidiano. Ed è probabilmente a questo livello che si comprende come le nuove tecnologie dell´informazione e i social network costituiscano l’unica arena possibile per la realizzazione di politiche di sviluppo sostenibile, per il semplice motivo che all’interno di essi tutti i soggetti e gli attori di un territorio sono presenti, ugualmente rappresentati e, per la prima volta nella storia, interagenti, da un punto di vista comunicativo, in forma simmetrica. Le politiche di eco-sostenibilità risultano la conseguenza della loro attuazione in rete, ma anche il risultato di una nuova concezione e in-

terazione con la natura veicolata dalle reti a vari livelli. Oltre che alla produzione di un “accesso generalizzato alla parola” (Vattimo) e alla ridefinizione delle arene pubbliche di discussione, le reti digitali favoriscono l’accesso a nuove forma di interazione eco sistemiche che ridefiniscono i rapporti tra soggetto e ambiente. Il soggetto in rete non è più esterno e separato dall’ambiente ma, in quanto in continua interazione informativa con la rete, è esso stesso parte di un ecosistema informativo che riunisce in forma simbiotica gli elementi comunemente definiti organici a quelli inorganici. Possiamo dunque identificare, in maniera sintetica, le trasformazioni apportate dalle reti e dalla comunicazione digitale alla percezione e all’interazione con l’ambiente nelle seguenti osservazioni. Da un punto di vista percettivo le innovazioni comunicative digitali, passano a stabilire, nel loro uso per le questioni ambientali un nuovo tipo di alleanza tra l’organico, l’inorganico, la tecnica, l’informazione e l’ambiente. Tale nuova forma di interazione determinata dalla digitalizzazione dei territori, ci fornisce un aggiornamento continuo dello stato di salute del pianeta, o di un ecosistema specifico, innescando una relazione informativa con questo che apparirà non più come un’entità separata e passiva, ma come una realtà viva in continua trasformazione.

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L’aggiornamento continuo dei dati territoriali mostra le variazioni dell’impatto delle nostre azioni sul territorio, evidenziando l’impossibilità del presupposto autopoietico dell’umano le dimensioni reticolari e interattive tra il soggetto e l’ambiente. Tale concezione ci spinge verso una nuova cultura ecologica in cui vengono sospese le tradizionali interpretazioni dell’abitare che separavano il soggetto dal territorio e l’interno dall’esterno. In tal modo, si sostituiscono a queste i dinamismi di ecosistemi informativi e interattivi, all’in-

terno dei quali è possibile abitare soltanto attraverso le forme di un nuovo tipo di azione, non più esclusivamente centrata sul soggetto né caratterizzata da un movimento in direzione all’esterno. Da un punto di vista dell’interazione, le reti digitali ci propongono, dunque, la possibilità di superare l’azione del soggetto sul territorio creando un nuovo flusso a-direzionale che ci immerge all’interno di ecosistemi informativi che sono sia habitat che parti costituenti delle nostre essenze.

Bibliografia Abruzzese, A., Lessico della comunicazione, Roma, Meltemi, 2003 Capra F., Il punto di svolta,1984, Feltrinelli, Milano Capra F., The web of life, a New Scientific Understanding of Living System, 1996 De Kerckhove, D., La pelle della cultura, Milano, Costa & Nolan, 2007a De Kerckhove, D., L’ architettura dell’ intelligenza, Roma Testo & immagine, 2007 Di Felice M., Paisagens pos urbanas, 2009 S. Paulo, Anna Blume Latour B., Jamais fomos modernos, 1994, S. Paulo Ed. 34 Patten B., in Capra F. The web of life, a New Scientific Understanding of Living System, 1996 Serres M.,O contrato natural, 1990, Lisbona, Instituto Piaget

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pol.is Direttore Enrico Manca

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VINCENZO NADDEO – Università degli Studi di Salerno ISABELLA PIERANTONI – Istat ORNELLA KYRA PISTILLI – Antropologa STEFANIA PRESTIGIACOMO – Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare ERMETE REALACCI – Direzione Nazionale del Partito Democratico ONOFRIO ROMANO – Università di Bari FRANCO SIRCANA – Vice Direttore Pol.is VINCENZO SUSCA – Ceaq, Sorbonne, Parigi SALVATORE ZUCCARELLO – Giornalista e consulente

pol.is

ANGELO ALESSANDRI – Deputato e Presidente Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici MASSIMO ANDREOZZI – Giornalista AURELIO ANGELINI – Università degli Studi di Palermo CARLO ANTONELLI – Direttore Rolling Stone NELLO BARILE – Ricercatore all’Università IULM, Milano VINCENZO BELGIORNO – Università degli Studi di Salerno ALBERTO BENZONI – Politologo DAVIDE BOCELLI – The long now foundation MARA CAMMAROTA – Istat CARLO CELLAMARE – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ANTONIO D’ALÌ – Senatore e Presidente Commissione Territorio, Ambiente, Beni Ambientali ENZO DE LUCA – Senatore e Componente Commissione Territorio, Ambiente, Beni Ambientali MASSIMO DI FELICE – Università di San Paolo SERENA FERRARA – Dottoressa in Scienze della Comunicazione ROSA FILIPPINI – Presidente Amici della Terra Italia ENRICO FONTANA – Coautore del Rapporto Ecomafia 2009 di Legambiente FABIO LA ROCCA – Ceaq, Sorbonne, Parigi ALBERTO LA VOLPE – Giornalista SERGE LATOUCHE – Economista e filosofo, Professore emerito all’Università Paris XI ENRICO LETTA – Vicesegretario del Partito Democratico RICCARDO LUNA – Direttore di Wired-Italia LUCIANO MAIANI – Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche ROBERTO MEZZANOTTE – Già Direttore del Dipartimento Nucleare, Rischio Tecnologico

04/2009

Hanno scritto:

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