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ROBERTO ALIBONI – Vice Presidente Istituto Affari Internazionali SEBASTIANO BAGNARA – Università degli Studi di Sassari-Alghero
NUOVA SERIE
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ALBERTO ABRUZZESE – Università IULM di Milano
- anno 2 - n° 2 - aprile 2009
LUCIANO BENADUSI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” SARA BENTIVEGNA – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ALBERTO BENZONI – Politologo ROBERT CASTRUCCI – Assegnista di Ricerca, Università degli Studi Roma Tre GIULIANO CAZZOLA – Deputato al Parlamento DANIELE CIRIOLI – Fondazione Marco Biagi VINCENZO VISCO COMANDINI – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” MASSIMO DE ANGELIS – Politologo MOISÉS DE LEMOS MARTINS – Università do Minho di Braga (Portogallo) GIANNI DE MICHELIS – Presidente Ipalmo
pol.is
LUIGI COVATTA – Vice Direttore Pol.is
per la riforma della politica e delle istituzioni
STEFANO GORI – Bristol Business School ORNELLA KYRA PISTILLI – Antropologa ANTONIO LANDOLFI – Presidente della Fondazione Giacomo Mancini FABIO LA ROCCA – CeaQ, Università di Parigi “La Sorbonne” ANDREA MALAGAMBA – Dottore di Ricerca Università degli Studi di Roma “La Sapienza” CLAUDIA MANCINA – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” PAOLO MANCINI – Università degli Studi di Perugia MAURO MARÉ – Università degli Studi della Tuscia MARIO PIREDDU – Università degli Studi Roma Tre ANTONIO RAFELE – Università di Torino FRANCO SIRCANA – Vice Direttore Pol.is
per la riforma della politica e delle istituzioni
PIETRO ICHINO – Senatore della Repubblica
pol.is Direttore Enrico Manca
Giorgio Napolitano Giuliano Cazzola Pietro Ichino Vincenzo Visco Comandini Stefano Gori Alberto Benzoni Franco Sircana Luigi Covatta Vincenzo Susca Ornella Kira Pistilli
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VINCENZO SUSCA – CeaQ, Università di Parigi “La Sorbonne” FEDERICO TARQUINI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano TITO VAGNI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano ALBERTO ZULIANI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
ISBN 978-88-95923-19-2
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Spedizione di stampe in abbonamento postale di cui alla lettera C) del comma 2 dell’art. 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 862
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nuova serie - anno 2- n째 2 - aprile 2009
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Direttore Enrico Manca Vicedirettori Luigi Covatta, Franco Sircana Comitato Editoriale Alberto Abruzzese – Università IULM di Milano Roberto Aliboni – Vice Presidente Istituto Affari Internazionali Sebastiano Bagnara -Università di Sassari-Alghero Luciano Benadusi – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Alberto Benzoni – Politologo Enzo Cheli – Università degli Studi di Firenze Derrick de Kerckhove – Direttore dell'Istituto McLuhan di Cultura e Tecnologia dell'Università di Toronto Alberto Gaston – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Antonio Golini – Università di Roma “La Sapienza” Antonio Landolfi – Presidente della Fondazione Giacomo Mancini Michel Maffesoli – “La Sorbonne”, Parigi Claudia Mancina – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Paolo Mancini – Università di Perugia Maria Luisa Maniscalco – Università di Roma Tre Mauro Maré – Università de La Tuscia Stefano Rolando – Università IULM di Milano Alberto Zuliani – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Coordinamento Editoriale Piero Pocci Capo Redattore Maurizio Persiani In Redazione Lorenza Bonaccorsi Robert Castrucci Vincenzo Visco Comandini Vincenzo Susca Segretaria di Redazione Annalisa Simbari
Consulenza e realizzazione editoriale Francesco Bevivino Editore www.bevivinoeditore.it
Pol.is rivista di cultura politica edita dall’Associazione Pol.is – Centro di iniziativa politico-culturale
Progetto grafico Alessio Scordamaglia Concessionaria di pubblicità
via del Boschetto, 68 – 00184 Roma tel. 346 00 40 287 p.iva 09319481009 www.pol-is.it Autorizzazione del tribunale di Milano n. 94/2007 del 20/02/07 Costo dell’abbonamento annuale: – ordinario: euro 60,00 – sostenitore: euro 100,00 L’abbonamento alla rivista può essere richiesto telefonicamente al seguente recapito: +39 346 00 40 257
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Via Monfalcone, 41 20092 Cinisello Balsamo (MI) Tel. +39 02 618002 www.rosaticommunication.com mail: pbc@rosaticommunication.com Stampa Finito di stampare nel mese di aprile 2009 presso Digital Print – Milano Distribuzione nelle librerie JOO Distribuzione – Milano
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SOMMAR IO
Enrico Manca La debolezza dell’opposizione è un rischio per una dialettica democratica forte e vitale
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Giorgio Napolitano Questione meridionale e politiche euromediterranee
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Primo piano Franco Sircana Europa
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Vincenzo Visco Comandini e Stefano Gori Il conto che potrebbe spaccare l’Europa
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Alberto Benzoni Afghanistan: “vincere” ma per potersene andare
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Focus Luigi Covatta Uno spazio impervio per la sinistra
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Giuliano Cazzola e Daniele Cirioli Il modello italiano di protezione del lavoro
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Pietro Ichino Lombardia e Calabria 2013: la valutazione dell’efficienza dei servizi
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Dibattito sull’università Luciano Benadusi Un’università da (ben) riformare ma non da buttar via
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SOMMARIO
Immaginario – Il mondo di Facebook a cura di Vincenzo Susca
Vincenzo Susca La ricreazione della vita elettronica
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Ornella Kyra Pistilli Codici di attrazione
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Mario Pireddu Fakebook: essere insieme, umanamente
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Fabio La Rocca Dialogo con Moisés Martins: l’esposizione in rete della vita quotidiana
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Federico Tarquini La distrazione comunitaria
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Tito Vagni Dalla bacheca di partito alla bacheca di Facebook
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Andrea Malagamba e Antonio Rafele Una stanza tutta di specchi. Facecode e libertà
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Enrico Manca
La debolezza dell’opposizione è un rischio per una dialettica democratica forte e vitale
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’è un rischio democratico, in Italia? Penso di no. Ma una democrazia è vitale se realizza una forte dialettica tra una maggioranza che governa ed una opposizione che controlla. Quel che preoccupa, in questa fase, è da un lato una certa indeterminatezza valoriale di una maggioranza forte ma anche composita; problema questo di particolare importanza in una fase in cui si prospetta un significativo mutamento nell’articolazione e nei meccanismi del Governo del Paese; e dall’altra l’insufficienza (è di questa, in particolare, che vogliamo occuparci in questo articolo) di una opposizione politica, programmatica, progettuale in grado di essere all’altezza delle sfide di questo tempo e tale, quindi, da rendere viva, costruttiva e positiva la dialettica democratica. Non che sulla carta non vi sia una opposizione. Anzi ce n’è più di una: il Partito Democratico; l’Italia dei Valori; il cantiere in ri-costruzione della Sinistra antagonista; l’Unione di centro. E, poi, c’è l’opposizione sindacal-politica: la CGIL; e ancora… “La Repubblica”, riconosciuto king maker del PD. (Interessante ed indicativa al riguardo la lettera al Direttore del giornale di uno stimato e stimabile esponente di lungo corso del PC-PDSDS e ora del PD, Alfredo Raichlin, nel numero di sabato 4 aprile u.s.). Ma si tratta di un’opposizione che non si è ancora interrogata a sufficienza sul significato profondo dei suoi insuccessi, legati certo al fallimento del Governo di coalizione guidato da Romano Prodi, ma non solo. Ne è un esempio lampante l’usci-
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La debolezza dell’opposizione è un rischio per una dialettica democratica forte e vitale
ta di scena della segreteria virtual-mediatica di Walter Veltroni. Le sue dimissioni seguite alla sconfitta sarda non sono state precedute né seguite da una discussione politica aperta e trasparente, e da un forte confronto tra posizioni diverse. Si è, invece, preferito mettere la testa sotto la sabbia. L’esame di coscienza è ancora una volta rinviato in attesa delle elezioni europee, che il PD affronterà, però, privo di un forte contrassegno identitario. L’insufficiente riflessione sul passato, l’assenza di una risposta convincente agli interrogativi del presente, rischia di fare emergere un’opposizione che “rivendica” ma non riesce ad indicare, in paritempo, i cambiamenti possibili in grado di misurarsi realisticamente con la devastante macro-crisi di questa fase mutante del capitalismo. Questo tipo di opposizione ottiene, non di rado, l’effetto paradosso di ingigantire il “FARE” del Presidente del Consiglio e del Governo; di fare emergere le azioni anticrisi del Ministro del Tesoro come le uniche credibilmente in campo. E questo vale anche per la costante sottolineatura polemica del dinamismo internazionale di Silvio Berlusconi, spesso praticato fuori dagli schemi del politically correct diplomatico. Questa continua uscita fuori dalle righe è in parte frutto del carattere estroverso del Presidente del Consiglio, ma non di rado si tratta di scelte fatte consapevolmente per il timore di “mummificarsi” nei musei delle cere delle foto ricordo dei grandi del mondo e per non “allentare” neanche per un attimo il suo ricercato rapporto diretto e personale con il “popolo”. A sinistra si continua spesso a considerare ancora la presenza di Silvio Berlusconi come un epi-fenomeno passeggero. Ciò nasce dal fatto che non sono stati fatti ancora, fino in fondo, i conti con ciò che significa questo passaggio epocale. Ripensare il passato per vivere adeguatamente il presente e progettare credibilmente il futuro: questo il triangolo della storia attorno a cui potrebbe ri-costruirsi una sinistra riformista in grado di inverare oggi in Italia una democrazia vitale fondata su una dialettica reale per costruire una alternativa possibile che faccia perno su alcuni temi e, in alcune circostanze, su possibili incontri tra maggioranza e opposizione su questioni decisive che attengono alla vita dei cittadini e all’interesse nazionale. Nell’ultimo numero di Pol.is abbiamo ripercorso la “via crucis” delle occasioni mancate; delle delusioni sofferte. Abbiamo ricordato come nel tempo vi sia stata una frettolosa ed inadegua-
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EDITORIALE
ta riflessione sulla passata esperienza comunista; e come una siffatta riflessione sia stata, peraltro, contraddetta con la cancellazione (uno di quegli “ossimori” cari a D’Alema) della storia e della creatività programmatica, ideale e politica del socialismo riformista italiano, preferendogli, in qualche caso, persino il dipietrismo sfascista. Aver voluto dar vita ad un grande partito in grado di superare e unificare le culture riformiste del Paese mettendo all’angolo proprio quella parte del riformismo liberal-democratico e liberal-socialista uscito vincente dalla storia, ma perdente, per le ragioni ben note, nella vicenda della quotidianità della politica degli anni Novanta, è stato un errore gravido di conseguenze pratiche. Il risultato è stato di aver regalato politicamente, culturalmente ed elettoralmente al PDL un’area liberaldemocratica e liberalsocialista che, grosso modo, ha sempre rappresentato il 20-25% del corpo elettorale italiano. E non è un caso che oggi l’unico luogo in cui, pur con non poche contraddizioni, uomini della cultura liberal socialista e riformista hanno trovato collocazione sia il Governo espresso dal PDL. Ma c’è un secondo errore: quello di aver pensato di mettere insieme in un solo partito laici e cattolici “in quanto tali”. Non si può considerare esaurita l’esperienza del partito dei cattolici e, in paritempo, pensare di dare carattere fondativo di un partito al gruppo cattolico in quanto tale. La contraddizione risulta evidente considerando il fatto che, mentre le differenza fra la cultura riformista laica e quella cattolica sul terreno economico e sociale e del welfare sono andate sempre più assottigliandosi fino quasi a scomparire, hanno invece assunto una forte dimensione identitaria le tematiche relative ai diritti eticamente sensibili che coinvolgono questioni essenziali attinenti alla vita e alla morte. Una differenziazione su questa tematica tra laici e cattolici è destinata non ad attenuarsi ma con l’avanzamento della scienza e delle tecnologie presumibilmente a crescere. Non è un caso che la Chiesa cattolica viva oggi una stagione in cui il suo ruolo appare acquisire sempre maggiore rilievo anche grazie all’emergere di tematiche che coinvolgono sempre più credenti e non. Sono questi a cui ho fatto riferimento alcuni dei germi di crisi del Partito Democratico senza la cui risoluzione è difficile pensare ad un suo “nuovo inizio”. Ed è bene anche che non ci si consoli nella facile illusione che la grande forza del PDL sia solo legata alla presenza di
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La debolezza dell’opposizione è un rischio per una dialettica democratica forte e vitale
Silvio Berlusconi. Non sono pochi, infatti, a sinistra quelli che affidano al dopo Berlusconi una speranza di cambiamento e di rivalsa. Un atteggiamento di debolezza che si fonda su ipotesi incerte, non programmabili e legate a vicende che possono avere sbocchi anche radicalmente diversi tra loro. È vero che l’ amalgama del nuovo PDL è tutto da verificare. Ma va tenuto presente il fatto che le componenti che ad esso hanno dato vita convivono insieme, in un modo o nell’altro, da oltre quindici anni e costituiscono ormai un blocco sociale e di interessi non facilmente disaggregabile. Va posta attenzione anche a quelle che possono apparire le contraddizioni interne al blocco moderato: esse possono avere una doppia valenza, di debolezza ma anche di forza, cioè di capacità di aggregare altri settori. Penso al caso “Fini”; l’elaborazione del Presidente della Camera, innovativa rispetto alla sua storia politica, va guardata con attenzione e rispetto. Ma potrebbe essere una pericolosa illusione considerare l’atteggiamento del Presidente della Camera come un possibile bastone fra le ruote nell’ingranaggio del PDL. È più probabile che questa posizione, permeata di laicità e sorretta dall’idea dell’inclusione in una società destinata ad essere sempre più multiculturale e multireligiosa, oltre ad essere interessante in sé, può avere la funzione di calamitare consensi che altrimenti non andrebbero al PDL. È quindi consigliabile una maggiore prudenza in quegli esponenti dell’opposizione che vivono come realtà un loro evidente desiderio: quello cioè che il Presidente della Camera sia il picconatore del Polo di centro-destra. Sia che nel futuro diventi stabile la scelta bipolare o bipartitica; sia che il bipolarismo vada in crisi, c’è bisogno di un’opposizione che sia in grado di assolvere ad un ruolo decisivo per la vita democratica ed a costituire un’alternativa identitaria credibile. In mancanza di ciò, le strade che si prospettano sono due: il consolidamento per lungo tempo del centrodestra, o una crisi del sistema politico con sbocchi imprevedibili. Quanto prima la sinistra riformista prenderà coscienza di queste problematiche meglio sarà per la democrazia italiana. Solo un dibattito ed un confronto chiaro, forte e trasparente che dia vita ad una fase di riconosciuta lotta politica potrà far sì che all’interno del Partito Democratico possa emergere un nuovo gruppo dirigente all’altezza delle grandi sfide del nostro tempo.
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Questione meridionale e politiche euromediterranee di Giorgio Napolitano
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a questione meridionale oggi, alla luce degli sviluppi delle politiche europee ed euro mediterranee, può essere declinata al punto di incrocio tra due problematiche: quella degli squilibri tra il Nord e il Sud in Italia, cioè all’interno di un paese europeo tra i fondatori della Comunità e dell’Unione e tra i più impegnati da sempre, nel processo di integrazione; e quella degli squilibri tra la sponda Nord e la sponda Sud del Mediterraneo. Problematiche, che vanno viste nella prospettiva di superare entrambi quegli squilibri in una visione di sviluppo unitario nazionale italiano ed euro mediterraneo. Partendo comunque dalla distinzione tra i due versanti di questa riflessione, e dal richiamo al primo di essi, riprenderò innanzitutto quel che ho già avuto modo di dire recentemente più volte. C’è stata, non si può nasconderlo, una drammatica caduta del grado di attenzione da parte di tutte le forze rappresentative del paese verso la realtà del Mezzogiorno e verso il tema del rapporto tra Mezzogiorno e sviluppo nazionale. Ciò ha voluto anche dire, in concreto, da diversi anni a questa parte, una caduta degli investimenti ordinari dello Stato nelle regioni meridionali; mentre è chiaro che altre risorse e forme di intervento per il Mezzogiorno, in modo particolare i Fondi europei, dovrebbero avere un carattere addizionale e non sostitutivo. Si pone in pari tempo la questione dell’impiego oculato e produttivo delle risorse pubbliche disponibili nelle regioni del Mez-
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Questione meridionale e politiche euromediterranee di Giorgio Napolitano
zogiorno, a cominciare dalle regioni dell’Obiettivo Uno verso cui si sono indirizzati i fondi della politica di coesione della UE. E questo chiama in causa anche la responsabilità delle istituzioni rappresentative dello stesso Mezzogiorno, perché la forza del meridionalismo storico è sempre consistita nel non ridursi alla sola denuncia delle responsabilità delle classi dirigenti nazionali ma nel saper guardare criticamente anche all’interno del Mezzogiorno, della sua stratificazione sociale e della sua classe politica. I fondi europei rimandano a un grande significato, non abbastanza riconosciuto di quella politica di coesione che ha rappresentato, come ci ricorda il suo ideatore Jacques Delors, uno sviluppo fondamentale del processo di costruzione europea. Debbono però considerarsi insufficienti i risultati raggiunti, nel senso della riduzione del divario tra Nord e Sud sul piano della dotazione di infrastrutture, della qualità dei servizi pubblici, dell’investimento in capitale umano, del rendimento delle amministrazioni pubbliche. Un bilancio critico che fa tutt’uno con quello della strategia di nuova programmazione portata avanti in Italia nei confronti del Mezzogiorno tra gli anni 1998 e 2008. Allo stato attuale non è nemmeno dato sapere se il Quadro strategico nazionale approvato per il 2007-2013 resta tuttora valido e impegnativo, o se ad esso sia destinato a seguire un puro e semplice vuoto di strategia verso il Mezzogiorno. Si tratta di nodi che richiamano quanto più volte ho sottolineato: da un lato cioè il dovere di solidarietà tra Nord e Sud, che è garanzia costituzionale dell’unità nazionale, e dall’altro quell’impegno all’autocorrezione e all’innovazione che deve essere portato avanti nel Mezzogiorno. Un impegno, innanzitutto ma non solo, sul piano del contrasto della criminalità organizzata, problema che rimane tuttora di enorme e grave importanza ai fini generali dello sviluppo delle nostre regioni, e segnatamente della Calabria come della Campania. Si tratta di nodi da sciogliere più che mai in presenza di una crisi come quella che sta investendo l’economia mondiale, europea ed italiana: una crisi che sotto diversi aspetti trova particolarmente vulnerabile il nostro Sud. C’è egualmente da chiedersi quanto la crisi trovi particolarmente vulnerabile il Sud del Mediterraneo, o come, all’opposto, una rinnovata cooperazione per lo sviluppo euromediterraneo
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possa rappresentare una leva importante per il superamento della crisi, vista anche come occasione di rinnovamento e non soltanto come un approccio difensivo e ripetitivo. Come sappiamo, la politica di cooperazione euromediterranea ha già alle spalle i tredici anni trascorsi dall’avvio del processo di Barcellona. Penso, altresì, e ne siamo tutti coscienti, che il futuro dell’Unione per il Mediterraneo è legato all’affermazione nei fatti di una forte volontà politica orientata in questa direzione, senza ambiguamente bilanciarla con l’esigenza, pur importante, di rafforzare la politica orientale della UE. Ma il futuro dell’Unione per il Mediterraneo è innanzitutto legato allo sviluppo di un processo di pace nel Medio Oriente e in tutta la regione che lo circonda. È ormai imperativo assillante per la comunità internazionale riaprire la strada del dialogo e del negoziato che non deve essere compromessa e bloccata dal durissimo scontro degli ultimi mesi.
Dal discorso del Presidente della Repubblica al convegno “Mezzogiorno Euromediterraneo” Università Mediterranea di Reggio Calabria
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Europa Cosa c’è di meglio, per i governi degli Stati membri, di un sistema che consente loro di continuare a prendere le decisioni che contano in seno al Consiglio dei Ministri dell’Unione, scaricandone i costi su un’organizzazione rappresentata come tecnocratica, lontana, rarefatta, e nello stesso tempo caratterizzata da procedure complesse, defatiganti e tutt’altro che trasparenti? E chi ha voluto che le procedure fossero tali, se non i Capi di Stato e di governo riuniti in Conferenza intergovernativa? Cesare Pinelli, Pol.is dicembre 2008
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l rinnovo del Parlamento europeo coincide con il trentennale delle sue elezioni a suffragio universale diretto. Per merito dei trattati di Maastricht (1992) e di Amsterdam (1997), il Parlamento ha accresciuto il suo peso passando da un semplice ruolo di tribuna e consultivo a quello di codecisore con il Consiglio dei Ministri e di interlocutore della Commissione su materie via via più rilevanti. Resta però basato su sistemi elettorali nazionali diversi l’uno dall’altro e, menomazione seria per un parlamento, non ha potere di iniziativa sulle leggi, riservato invece alla Commissione europea, composta da persone cui manca il crisma dell’elezione. Marginalità italiana Da un punto di vista italiano salta all’occhio la rarefazione della nostra presenza di vertice: nel precedente
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Parlamento formato per designazione dei Parlamenti nazionali (196279) si incontrano ben tre presidenti italiani su nove (Gaetano Martino, Mario Scelba, Emilio Colombo) mentre non v’è traccia di italiani tra i dodici presidenti dal 1979 ad oggi: tre francesi, tre tedeschi, due spagnoli, un britannico, un irlandese, un olandese. Nel quadro istituzionale europeo, l’Italia è stata compensata, a cavallo del secolo, da una robusta presenza a livello della Commissione (prima i commissari Monti e Bonino, poi il presidente Prodi e il commissario Monti). Ma negli ulti-
Il PDL, scontando un successo del PPE, rivendica la presidenza del Parlamento europeo per un proprio eletto
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Il PD si ritrova ad essere più parte che soluzione dei problemi della sinistra riformista europea mi anni la presenza italiana si è notevolmente ridotta (e nel frattempo, sintomo non trascurabile, si è accentuata la tendenza a marginalizzare la lingua italiana negli usi ufficiali rispetto a inglese, francese, tedesco e spagnolo). Il Popolo delle Libertà, scontando un successo del Partito Popolare Europeo e facendo valere il proprio peso di probabile prima formazione nell’ambito del PPE stesso, rivendica la presidenza del Parlamento europeo per un proprio eletto. Non è evidentemente una questione di puro prestigio: sarà un test importante per verificare il peso e la considerazione del PdL e del nostro paese. Successo conservatore Alcune cause della marginalità italiana sono squisitamente politiche, attinenti al modo stesso di configurarsi dei soggetti politici italiani e alla qualità e ai contenuti della loro proposta. La sinistra, in particolare, non ha saputo creare le condizioni per “monetizzare” la più che decorosa presidenza di Prodi, messa comunque in progressivo risalto dalla qualità del-
l’azione del successore. La coincidenza della leadership dell’Ulivo con la presidenza della Commissione dell’Unione europea significava una forte proiezione della sinistra riformista italiana sulla scena continentale, e comportava l’obbligo di una linea e una proposta politica di rilievo europeo in grado di risolvere positivamente la difforme configurazione del soggetto politico italiano rispetto alle famiglie politiche in cui tradizionalmente i partiti degli altri paesi europei si riconoscono; famiglie logore quanto si vuole, ma che la storia della costruzione europea dota pur sempre di fortissime credenziali, non certo scalfibili dalle vaghezze di un Ulivo transatlantico. E comportava altresì l’obbligo di motivare, in Europa, il mancato esplicito riconoscimento dell’immagine e della storia di tutta l’area di sicuro pedigree europeista (anzi, federalista) riconducibile sotto il nome di liberalsocialismo, il 22% dell’elettorato italiano nel 1992. E oggi il PD si ritrova ad essere assai più parte che non soluzione dei problemi che attanagliano la sinistra riformista europea. Diversa e positiva, sotto questo profilo, la vicenda del PdL o meglio di Forza Italia, che ha risolto con grande chiarezza e tempestività politica il nodo della sua appartenenza europea scegliendo sin dal 1998 il PPE con conseguente emarginazione dei popolari dell’Ulivo e trascinan-
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dovi infine anche AN, concorrendo così notevolmente a ‘sdemocristianizzare’ il PPE stesso e a tradurlo nel grande contenitore europeo della conservazione moderata. Qui, semmai, altri fattori rischiano di pesare negativamente nel confronto europeo. Per un verso radici e antiche storie: Gianfranco Fini ha compiuto con rigore un percorso di conversione guadagnandosi una ormai piena credibilità di liberale e di attento guardiano dei valori della Costituzione; la manifesta non condivisione a questa nuova linea da parte di folte schiere di aennini non mancherà di suscitare reazioni in Europa, soprattutto da parte di quei paesi, Germania in testa, ove i conti con il passato si è stati costretti a farli fino in fondo e si è quindi divenuti puntigliosamente vigili contro ogni forma di nascondimento e di mimetismo (e ciò sfiora, in qualche misura, anche parte della sinistra). Per altro verso, pesa una sostanza partito-leaderistico plebiscitaria, contrastante con forme e sostanze europee caratterizzate da più articolati processi decisionali, e perciò destinata a suscitare prudenze, distinguo e anche sospetti. Infine, pesa sul PdL il condizionamento derivante dall’alleanza con una forza così virulentemente particolaristica come la Lega. Ma la marginalità del nostro paese dipende anche, in larga misura, da cause attinenti alla sua struttura economica e sociale: un debito
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La marginalità del nostro paese dipende anche da cause attinenti alla sua struttura economica e sociale pubblico superiore al 105% del PIL, un’economia da lungo tempo prossima al ristagno e l’arretratezza italiana su una numerosa serie di indicatori – dalle spese per R&S all’occupazione femminile, dal drammatico divario delle regioni meridionali alla paralisi della giustizia, ecc. – non sono buone credenziali per essere nominati al vertice di istituzioni politiche europee e internazionali e comunque per guadagnare una posizione centrale nella trama politica europea. La crisi europea Trama, peraltro, sfilacciata: la crisi planetaria in corso ha colto l’Europa in un passaggio particolarmente critico della sua vicenda. L’introduzione dell’euro a fine anni ’90 e l’allargamento dell’Europa a 27 sono stati, ad un tempo, pietre miliari di uno straordinario processo politico iniziato negli anni ’40 e innesco di una crisi di identità, come segnala anche il tasso di partecipazione alle elezioni al Parlamento europeo, passato, in media europea, dal 63% del 1979 al 45% del 2004. Il NO francese del 2005 alla co-
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stituzione europea è stato un devastante ‘la’ al riflusso, anche se di fatto fu assai più un no di malessere nei confronti di una classe dirigente interna che un ragionato no all’Europa. Anzi, proprio la crisi ha reso di senso comune la valutazione che gli stati nazionali sono piattaforme del tutto insufficienti per fronteggiarla e che la dimensione minima necessaria da cui partire è quella europea. Dimensione peraltro ricercata attraverso fitte serie di incontri intergovernativi a multilateralità variabile finalizzati al coordinamento delle iniziative nazionali, mettendo invece in sordina politiche comuni che abbiano in Bruxelles la sede principale di elaborazione e conduzione. Precarietà dell’architettura istituzionale europea in attesa dell’entrata in vigore di un riveduto trattato di Lisbona, “intensificazione” politica delle questioni attinenti all’economia europea – da quella energetica a quella dei paesi dell’Est, a quella turca, al medio-oriente – e conservatorismo delle classi dirigenti nazionali hanno declassato il ruolo di una Commissione concepita e cresciuta in un quadro di relativa
Per fronteggiare la crisi planetaria gli stati nazionali sono insufficienti, occorre partire dalla dimensione europea
omogeneità socioeconomica e di stabilità politica garantita dalla Guerra Fredda. Il ritorno a un’azione più diretta, non mediata dei singoli stati accresce però i rischi di tensioni, lacerazioni e fuoriuscite, come ci dice per esempio la pericolosa linea di frattura tra est e ovest europei. E rilancia di conseguenza gli stati più forti, Germania e Francia, nel ruolo di aggregatori. Germania e Francia Due stati che, attraverso il lungo processo di costruzione europea, hanno accumulato un solido patrimonio comune come mostra oggi la concordanza di iniziative e di proposte di nuova “governance” con cui affrontare la crisi economico finanziaria mondiale e anche l’unità di intenti in merito alla NATO, manifestata nell’occasione dell’annuncio del reingresso francese nel comando della NATO e maturata nei lunghi anni di comune opposizione alla politica di Bush in Irak. E però due stati che, in mancanza di un forte punto di gravità politico istituzionale europeo, sono sollecitati a farsi carico di un progetto di portata europea in modo più parallelo che integrato, accentuando in questa fase il ricorso a stilemi della politica europea d’antan col ritorno alle zone di influenza, per la Germania soprattutto a nord e a est, per la Francia soprattutto verso il Mediterraneo.
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I segni recenti non mancano. Di rilievo, un paio d’anni fa, il tentativo francese di prendere la guida del consorzio Airbus superando la pariteticità con i tedeschi. Di rilievo, nel 2008, la vicenda della nuova Unione del Mediterraneo, iniziativa di spicco della politica francese. Concepita da Sarkozy fuori da una dimensione comunitaria e limitata ai soli paesi rivieraschi o in prossimità del Mediterraneo, ha suscitato una forte reazione della Germania che ha infine ottenuto il reinserimento dell’iniziativa nel Processo di Barcellona sotto l’egida dell’Unione europea. Di rilievo, agli inizi del 2009, l’uscita della Siemens AG dalla Areva, consorzio paritetico franco tedesco per le costruzioni nucleari e la decisione, di forte significato anche politico, della società tedesca di stringere accordi con i russi e di puntare sul loro mercato. È un serio confronto tra una Germania dominante per popolazione, dimensione dell’apparato industriale e complessiva competitività di sistema a livello mondiale come dimostra la sua bilancia commerciale, e una Francia che dal dopoguerra ad oggi ha ossessivamente coltivato l’obiettivo di conservare tutte le stigmate della grande potenza anche senza esserlo, compresa la perdurante capacità di attenzione all’altrui cultura e di coinvolgimento delle altrui competenze (di cui molte italiane, in tempi recenti Mario
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Monti e Franco Bassanini). Come il Regno Unito, si dirà. Ma i britannici hanno deindustrializzato il paese in nome di una finanza oggi in gravissima crisi e affidata in buona parte alle cure dello Stato e sono stati surclassati dai francesi su tutta la frontiera dell’alta tecnologia di rilevanza strategica. I francesi hanno curato in modo spasmodico, con continuità nel tempo e con il concorso di un’ampia trasversalità politica, il dimensionamento competitivo dei loro grandi gruppi, nella piena consapevolezza della fragilità di un sistema che affidi il proprio futuro soprattutto al “piccolo è bello”. L’obiettivo francese, tutt’altro che difensivo, è di puntare a grandi gruppi con quartieri generali saldamente insediati in Francia e ben interrelati con l’alta amministrazione, ma con forte proiezione multinazionale. E, come è noto, il “complesso amministrativo-finanziario-industriale” francese ha trovato, negli ultimi quindici anni, un terreno particolarmente adatto per esprimersi proprio in Italia, quarto PIL e terza manifattura d’Europa e quindi decisiva in
La Francia ha guadagnato nel nostro paese una posizione dominante in settori chiave del sistema produttivo
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L’attuale governo Berlusconi è più forte all’interno ma più debole all’estero una contesa che si misura su aree di influenza economica. Rapporto asimmetrico La Francia ha guadagnato nel nostro paese, attraverso acquisizioni e non investimenti diretti in nuove iniziative, una posizione dominante o quantomeno condizionante in settori chiave del sistema produttivo (energia elettrica, nucleare, trasporto aereo, industria della moda, grande distribuzione, ma anche apparati di telecomunicazioni, materiale ferroviario, acqua) e soprattutto una fortissima presenza nell’area strategica della finanza, tale da consentire il diretto accesso ad analitici dossier riguardanti primari attori italiani e quindi una straordinaria visibilità sulla nostra industria, con la conseguente possibilità di esercitare, se del caso, un potere di interdizione. È un rapporto asimmetrico. Senza riandare al no di De Gaulle a un Agnelli che voleva rilevare la Citroên (oggi si parla semmai del contrario), merita ricordare che più recentemente (2005), di fronte a un tentativo dell’Istituto San Paolo di scalare la Dexia, controllante di Crediop in Italia, il governo france-
se fece sapere che non avrebbe approvato la fusione con gli italiani perché contrario ad operazioni transfrontaliere nel settore creditizio; così come il tentativo di ENEL, in accordo con la francese Véolia, di rilevare Suez fu bloccato con particolare asprezza: “Un takeover di ENEL su Suez è considerato un attacco contro la Francia”, così al telefono de Villepin con Berlusconi, vedi Corriere della Sera del 24 febbraio 2006. (Mentre è da notare che Unicredit ha potuto guadagnare grandi dimensioni europee rilevando una banca tedesca). Ragionare di Francia, di un così essenziale, impegnativo e coinvolgente vicino, aiuta a porre in risalto il momento critico, per la politica italiana in cui cadono le elezioni per il Parlamento europeo. Un governo, l’attuale, che all’interno poggia su un consenso senza precedenti nella cosiddetta seconda repubblica, ma che all’estero appare più debole rispetto a quello precedente di Berlusconi: manca oggi un pari forte rapporto con l’amministrazione americana, quanto meno sul piano dei riferimenti valoriali e del feeling personale, e il nuovo contesto di relazioni USA-Europa riduce i gradi di libertà nei rapporti con la Russia di Putin; nel Regno Unito non c’è più Blair e con la Germania della Merkel era buono il rapporto del governo Prodi, assai meno quello di questo governo. Lo
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stesso speciale rapporto col Vaticano, così utile sul piano interno, rischia di essere una remora sull’estero a causa dell’oltranzismo conservatore di Benedetto XVI. In un quadro politico europeo incardinato sui rapporti intergovernativi, che mortifica strumentazioni e poteri di una politica comune, la Francia di Sarkozy si presenta, per l’Italia di oggi, con le caratteristiche dell’indispensabilità e della imprescindibilità e la costringe a un rapporto di leadership su nulla e di subordinazione su molto. Difficile dire quale sia il diverso e più appagante indirizzo di politica europea di questa maggioranza. L’argomento non sembra sufficientemente ‘glamour’ per Berlusconi, aspetto che rileva nel caso di una conduzione politica iperpersonalizzata, dove conta essere l’ultimo dei grandi per evitare le impegnative re-
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sponsabilità derivanti dall’essere il primo dei piccoli. Per funzione e statura intellettuale l’attenzione va allora rivolta a Tremonti: e sul viluppo delle sue contraddizioni anche in materia europea è d’obbligo il rinvio al citato saggio di Cesare Pinelli. L’opposizione ha certamente “coltivato” di più l’Europa: ha un patrimonio di competenze, una predisposizione al progetto dell’Europa unita e democratica e una capacità di mobilitazione popolare su questo tema che manca alle forze di maggioranza. Le è oggi difficile correlare il voto per il Parlamento europeo alla gestione della crisi, al recupero di una simpatia tra i popoli e del senso della cittadinanza europea, alla volontà di progetto comune, alla riproposizione di una prospettiva federalista. Ma le è necessario, altrimenti continuerà a subire l’Europa e a consumarsi di politica nazionale.
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Il conto che potrebbe spaccare l’Europa
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n recente numero dell’Economist, presentando in copertina il titolo “Il conto che potrebbe spaccare l’Europa”, paventa il rischio di una crisi insanabile fra vecchi nuovi e stati membri dell’Unione Europea. Più o meno in contemporanea, la Banca Mondiale lancia l’allarme sul fatto che, se i paesi europei più sviluppati non fanno di più per aiutare i loro vicini, difficilmente si potrà evitare l’espandersi della crisi finanziaria. Un crac finanziario nell’Europa dell’Est avrebbe infatti effetti molto negativi sulle banche in Italia, Austria, Svizzera, Svezia che per anni hanno fornito credito alle istituzioni finanziarie e alle imprese dei paesi ex-comunisti e che oggi spesso detengono il controllo delle maggiori banche dell’area.
Un crac finanzari nell’Europa dell’Est avrebbe effetti negativi sulle banche in Italia
Quest’invito non è stato accolto dal vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea dello scorso 1° Marzo, e anzi il cancelliere tedesco Angela Merkel ha giustificato questa scelta affermando che “non si possono confrontare le situazioni di paesi come la Polonia o i Baltici o l’Ungheria”. Il rifiuto ad un nuovo Piano Marshall per l’Est europeo (un pacchetto da 180 miliardi di euro) insieme all’invito ad analizzare ogni situazione caso per caso è stato invece sostenuto dalla stampa, in particolare quella politica, quale cattivo presagio per le sorti del nostro continente. Molti osservatori politici si sono chiesti se avesse ragione il premier ungherese Ferenc Gyurcsany quando ha sostenuto che “c’è il rischio che una nuova cortina di ferro divida l’Europa”. Coloro che si dicono praticanti della scienza triste, l’economia, hanno invece assunto una posizione più riflessiva, forse meno ossessionata dai ricorsi storici. Riteniamo che per gli stati membri occidentali, la priorità non sia tanto temere possibili rischi di frat-
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tura con i paesi dell’Est, quanto piuttosto individuare con precisione le specifiche cause di crisi in quell’area, mettendo a punto un cocktail di interventi selettivi coerenti con la situazione economica di ciascun paese. Il tutto tenendo a mente che gran parte della popolazione e le istituzioni di quei paesi si trovano per la prima volta a dover affrontare le conseguenze di una crisi economica seria come quella attuale. Dal crollo del muro la convinzione della maggioranza dei cittadini dell’est era infatti che il capitalismo avrebbe generato tassi di crescita continui, ma la realtà di questi giorni ha mostrato che spesso non è così. In questo scenario il vero rischio è non solo non capire che la crisi, globale, è prettamente economica e finanziaria, ma anche sottovalutare il potenziale esplosivo che si genera se la recessione economica venisse accompagnata dall’acuirsi di questioni politiche che da anni caratterizzano l’area. Perché l’economia di quei paesi è cosi importante per noi? Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) negli ultimi mesi ha già prestato miliardi di dollari a Ungheria, Ucraina, Lettonia, Serbia, Bielorussia, mentre la crisi economica ha innescato manifestazioni, proteste e a volte scontri con la polizia nelle Repubbliche baltiche e in Bulgaria. Recentemente il governo di centro destra della Lettonia, terzo esecutivo
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in Europa a dare le dimissioni sotto i colpi della crisi economica dopo quelli islandese e ungherese, è crollato dopo che il prodotto interno del paese di 2,2 milioni di abitanti era sceso nel mese di gennaio del 10,5%. Le tre Repubbliche baltiche, Lettonia, Lituania ed Estonia, che dopo il loro ingresso nell’Unione europea nel 2004 potevano vantare una crescita economica fra le più alte dell’Unione tanto da essere soprannominate le «Tigri del Baltico», hanno visto nei primi mesi di quest’anno livelli di protesta mai riscontrati dall’epoca sovietica. L’attenzione della “Vecchia Europa” alla crisi è dovuta al fatto che i capitali investiti in questi paesi provengono per la maggior parte da istituti di credito occidentali. Alcune banche italiane sono tra quelle interessate e il rischio di insolvibilità di quei paesi si ripercuoterebbe sui loro conti, con un ulteriore effetto domino sull’intero sistema bancario continentale, che peraltro abbiamo già conosciuto nei mesi scorsi. Più di una fonte stima, ad esempio, che il Gruppo Unicredit è esposto verso quest’area per quasi
I capitali investiti nei paesi dell’Est provengono per la maggior parte da istituti di credito occidentali
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I prestiti in valuta estera sono stati un potente stimolo per l’economia dell’est Europa 100 milioni di euro, e che la sfavorevole congiuntura economica avrebbe molto verosimilmente un impatto negativo sia sui ricavi (nel 2007 il 12% dei ricavi venivano generati dai paesi dell’est Europa, dalla Turchia e dal Kazakistan) che sull’utile operativo del gruppo (40% prodotto nell’area interessata alla crisi). Il problema è esacerbato dalle recenti acquisizioni del gruppo, come la Bank Austria Creditanstalt, che nel 2005 era stata portata in dote dalla tedesca HVB e che oggi risulta pesantemente esposta verso questi paesi. Le difficoltà sono simili per le banche svedesi, che nel Baltico hanno investito un ammontare pari al 25% del PIL svedese, valore che spiega bene perché queste stesse banche, aiutate dalle loro banche centrali, continuino a pompare denaro in questi paesi. Ma anche altri istituti di credito europei risultano fortemente esposti verso queste regioni: l’austriaca Raiffeisen ha 55% dei suoi asset a rischio, la sua connazionale Erste Bank il 38%, la svedese SwedBank il 27%, la belga Kbc il 22% e la francese Sociéte genera-
le il 12%. Ma come e perché si è giunti a questo punto? Nell’ultimo decennio i paesi dell’Est hanno imboccato una strada diversa rispetto a quelli occidentali europei: sul piano politico internazionale hanno deciso di appoggiare gli Stati Uniti accettando sul loro territorio infrastrutture per lo scudo di difesa antimissilistico (postazioni radar nella Repubblica Ceca e batterie di missili Patriot in Polonia); su quello economico hanno presentato tassi di crescita e livello d’inflazione più simili alla Cina che alla Germania. I fattori di debolezza strutturale È quindi importante individuare e analizzare nello specifico i fattori che hanno contribuito ad una forte crescita di questi paesi, che oggi appaiono essere i maggiori responsabili della debacle economica degli ultimi sei mesi. 1) Nell’ultimo decennio ci sono stati investimenti rilevanti dovuti all’attività di outsourcing delle grandi imprese dell’Europa occidentale in Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia in particolare nel settore automobilistico. 2) Sono cresciuti di molto i flussi di rimesse degli immigrati, in particolare Polonia (dal Regno Unito, Irlanda e Germania), Romania (da Italia e Francia), Lettonia (dal Regno Unito), Bulgaria (dalla Francia) e al di fuori dell’UE verso l’Ucraina e la Moldavia, che hanno contribui-
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to alla crescita dei consumi interni di questi paesi. 3) È aumentato l’export verso la zona Euro, in particolare dell’Estonia, della Repubblica Ceca, della Slovacchia e dell’Ungheria; l’incidenza dell’export sul PIL nei paesi dell’area est europea è elevatissima, e oscilla fra il 34% della Romania e il 90% della Slovacchia. 4) I prestiti in valuta estera sono stati un potente stimolo per l’economia, in particolare in Ungheria dove hanno raggiunto un volume equivalente al 33% del PIL. A causa della mancanza di risparmio nazionale ad indebitarsi non sono state solo le aziende, ma anche le famiglie, talvolta anche solo per coprire i normali consumi. Accendere un mutuo in Fiorini risultava una scelta troppo costosa a causa dei tassi troppo alti, per questo gli ungheresi hanno fatto ricorso ai prestiti in Franchi svizzeri o in Euro. 5) Le banche europee hanno investito nel settore finanziario dell’est Europa, acquisendo operatori locali ed introducendo prodotti innovativi per quei mercati. La percentuale del capitale in mano ad inventori esteri è pari al 98% in Estonia, al 97% in Slovacchia, al 90% nella Repubblica Ceca, all’85% in Lituania, all’80% in Ungheria e Bulgaria, al 78% in Lettonia e al 75% in Polonia. 6) I consistenti investimenti in infrastrutture finanziati da fondi eu-
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I flussi di rimesse degli immigrati hanno contribuito alla crescita dei paesi dell’Est ropei hanno contribuito ad accellerare lo sviluppo. Questi fattori hanno tutti, anche se in diversa misura, creato il terreno per la crisi di oggi. Infatti: 1) Gli investimenti nel settore automobilistico e in generale tutta la rete di subfornitori in outsourcing dell’industria tedesca hanno risentito della crisi dell’auto, con una drammatica riduzione degli ordinativi: il flusso degli investimenti verso l’area dei paesi dell’est si è oggi praticamente azzerato. 2) L’ammontare delle rimesse degli immigrati ha subito contraccolpi dovuti alla crisi economica dei paesi ospitanti, tanto che si stanno registrando anche flussi di immigrazione di ritorno. 3) In tutti questi paesi fortemente esportatori l’impatto della recessione nell’Europa occidentale e negli USA si è subito rivelata molto dolorosa. 4) Con il crollo delle valute nazionali i prestiti in valuta sono diventati proibitivi. Questo fenomeno è simile, ma molto più drammatico, a quello che sperimentarono gli italiani che avevano contratto debiti in ECU durante la svalutazione dei
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primi anni Novanta. L’azzeramento di questa fonte di finanziamento sta precipitando verso lo stallo le economie di alcuni dei paesi europei a più rapida crescita. La chiave scatenante della crisi asiatica – e del default argentino del 2002 – era l’uso di finanziamenti in valuta estera come leva per svilupparsi. L’unica buona notizia per questi paesi è la recente svalutazione del Franco svizzero, che sta in particolare alleviando l’onere del debito ungherese in questa valuta. 5) I prodotti innovativi introdotti in un mercato dove la popolazione non ne ha consuetudine ha alimentato la speculazione finanziaria, ha gonfiato in modo non razionale il mercato immobiliare e ha esposto le famiglie e le imprese a rischi prima sconosciuti. L’effetto negativo è stato esacerbato dai problemi delle banche europee che avevano fatto forti investimenti nell’Est Europa, che sono state costrette dalla crisi internazionale a tagliare il credito in questi paesi per ridurre la propria esposizione, alimentando quindi ancor di più le difficoltà dei debitori che non riescono a rifinanziarsi; 6) La fase post-allargamento dei
In Slovenia e in Slovacchia il sistema bancario è stabile e sicuro
forti investimenti europei in infrastrutture si è esaurita. Com’è evidente, questi fattori sommati insieme hanno contribuito ad attivare un circolo vizioso e ad aumentare il rischio di default finanziario dei paesi dell’Est, misurato da un aumento drammatico dello spread fra rendimenti dei loro titoli di stato e quelli dei titoli pubblici tedeschi: l’effetto è stato di impedir loro, in una situazione di bassissimo risparmio nazionale, l’approvvigionamento sui mercati internazionali necessario per reperire risorse da destinare a politiche pubbliche di contrasto della crisi, come invece è avvenuto negli altri stati membri. L’errore di molti commentatori è di fare di tutta l’erba un fascio. Su questo punto il cancelliere Merkel ha ragione a chiedere un distinguo fra i diversi paesi. Possiamo infatti dividere i paesi dell’Est in tre gruppi. Il primo è composto da Slovenia e Slovacchia che hanno adottato l’Euro, in cui ad rallentamento del tasso di crescita dell’economia non è seguita una crisi finanziaria; il secondo dai paesi che hanno risentito dello stallo delle economie della vecchia Europa e che, pur non trovandosi in condizioni drammatiche, rischiano di soffrire dell’atteggiamento punitivo dei mercati solo perché parte di quella regione: Polonia, Repubblica Ceca, Estonia, Bulgaria e Romania; nel terzo infine i malati gravi: Ungheria, Lettonia e Lituania.
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In Slovenia e Slovacchia il sistema bancario è sicuro e stabile, e non casualmente i due paesi non hanno attuato politiche di liberismo incondizionato, senza regole spesso osservate negli altri. Nel secondo gruppo, l’Estonia ha sofferto particolarmente il settore immobiliare, le esportazioni sono in picchiata e il paese sembra pagare il prezzo di una crescita troppo rapida. Contrariamente all’opinione di alcuni analisti che includono l’Estonia nel terzo gruppo in quanto appartenente alla regione baltica, va ricordato che questo paese ha un’economia reale piuttosto solida con una situazione politica stabile. Ancora meno problematica è la situazione della Polonia, dove la Banca Centrale ha recentemente tagliato il tasso di sconto, riducendolo al 4%, minimo storico postcomunista. La crescita del PIL nel 2009 rallenterà dai ritmi quasi cinesi a un 1,7-2%, ma probabilmente non si trasformerà in recessione. Lo Zloty ha da poco fermato la propria svalutazione (da 3,2 a 4,6 Zloty per un euro) tornando così ai livelli del 2004. Il rapporto debito-PIL è fermo al 47% e il disavanzo sotto controllo, ben al di sotto della soglia di Maastricht del 3% del PIL. Se si esclude l’isterismo alimentato dai gemelli nazional-populisti Kaczynski non sembrano esserci all’orizzonte tensioni politiche o sociali particolarmente acute. Per questo molti economisti ritengono realistica la pro-
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La Lettonia, la Lituania e l’Ungheria sono i veri malati su cui intervenire per evitare il contagio spettiva della Polonia di entrare nell’Euro nel 2012 con conti pubblici in ordine. Nella Repubblica Ceca gli ordinativi esteri all’industria per prodotti finiti e di alta tecnologia sono crollati oltre il 30%, ma non c’è un equivalente abbassamento del PIL (meno 0,9% nel 2009 rispetto all’anno precedente) come invece in Ungheria. Il rischio per questo gruppo di paesi è che pregiudizi indifferenziati verso il Centro-Est Europa nel suo insieme abbassino il rating sul loro debito e a cascata sulle loro banche. La Lettonia, la Lituania e l’Ungheria sono i veri malati su cui intervenire per evitare il contagio. A fine febbraio Standard and Poor’s ha declassato il rating dei titoli pubblici lettoni a livelli di junk bond (titoli “spazzatura”) a causa del pessimo quadro congiunturale, caratterizzato da stagflazione, che vede congiuntamente una riduzione del PIL di quasi il 10%, un tasso d’inflazione di uguale importo, la disoccupazione a oltre il 12% e il crollo di più del 20% dei prezzi sul mercato immobiliare; per ridurre la spesa pubblica il governo ha tagliato del 15% gli sti-
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pendi dei dipendenti pubblici con un reddito superiore ai 480 euro al mese. In Lituania il PIL è sceso meno (del 5% circa) ma l’inflazione è ancora molto alta. L’Ungheria, infine, è il paese che desta le maggiori preoccupazioni, sia perché il più grande del gruppo sia perché è passato in poco tempo da nazione all’avanguardia nelle riforme economiche a grande malato della nuova Europa. La Borsa ungherese è crollata in pochi mesi del 50%, il tasso di sconto è volato all’11,5%. La gente si è fortemente indebitata per mutui e credito al consumo, contratti quasi esclusivamente in valuta estera. I prestiti in valuta rappresentano il 90% del totale dei debiti degli ungheresi, e sono oggi pari al 33% del PIL, rispetto all’11% in Polonia e al 4% in Repubblica Ceca. Il paese magiaro sta così pagando doppiamente il crollo del fiorino (negli ultimi due mesi e mezzo il fiorino si è svalutato rispetto all’euro del 11%, rispetto all’inizio del 2007 del 16% e nello stesso periodo rispetto al Dollaro del 20%). L’Economist ha stimato che per il 2009 il debito a breve in Un-
File di piccoli risparmiatori davanti alle banche di alcuni paesi dell’Europa orientale non UE
gheria è pari al 79% delle riserve, rispetto al “solo” 38% della Polonia. Infine la diffusa percezione che gli altri stati membri dell’Unione Europea non sono interessati più di tanto alla situazione ungherese ha fatto salire la tensione sociale e politica, che vede l’estrema destra di Jobbik aumentare i propri consensi. Non si può poi non considerare ciò che sta succedendo ai paesi dell’Europa orientale che non sono parte dell’Unione Europea, in particolare l’Ucraina. Secondo il Financial Times, i maggiori istituti del paese non permettono più ai loro clienti di ritirare anticipatamente i depositi. Così davanti alle banche si formano lunghe file di piccoli risparmiatori. Già da ottobre i bancomat avevano fissato un tetto massimo ai prelievi di 1000 hryvnia (pari a 150 euro) al giorno nel timore di uno svuotamento delle casse e dallo scorso settembre i depositi bancari sono scesi del 20%, gli investimenti del 10%, il PIL di circa il 6%, mentre la valuta ha perso il 40% del proprio valore. Lo scontro interno sta mettendo a rischio anche gli aiuti stranieri, anche quelli messi a disposizione dal FMI alla fine dell’anno scorso ma via via congelati. L’industria siderurgica così come quella estrattiva dell’Ucraina orientale è scesa ai minimi storici, mentre il comparto industriale ha registrato nel mese di gennaio una contrazione del 34%, con conseguenti licenziamenti in massa.
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Possibili strategie d’uscita dalla crisi Di fronte a problemi così complessi e diversificati sarebbe ingenuo ritenere possibile una terapia unica per i paesi dell’Est che oggi stanno affrontando la prima seria crisi economica dell’era post-comunista. Si possono però delineare alcune linee di politica che, poste in essere in modo più o meno coordinato, potrebbero abbreviare di molto l’uscita di questi paesi dalla crisi che rischia di interrompere, se non di invertire, il loro processo d’integrazione nella comunità economica europea. 1) Lo Stress Test per ciascun paese. Per non sprecare risorse ed individuare le cure appropriate è necessario che l’Unione Europea proceda ad un’analisi paese per paese, individuando le questioni più critiche per la stabilità dell’intero sistema (ad esempio prestiti in valuta dei privati, solidità delle maggiori banche, produzione industriale da riavviare) per provvedere ad iniezioni di capitale mirate e a condizioni ben precise. Questi paesi, esattamente come sta avvenendo per le istituzioni finanziarie americane, dovrebbero sottoporsi a una sorta di stress test per verificare le condizioni di utilizzo appropriato delle risorse. 2) Un quadro regolatorio europeo più definito. Le conclusioni del gruppo di esperti guidato dall’ex Governatore della Banca di Francia, Jacques de Larosière, premono per
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Non serve una terapia unica per i paesi dell’Est che affrontano la prima crisi economica dall’era post-comunista una riforma a breve sulla supervisione bancaria a livello europeo, anticipando al 2010 la vigilanza sugli istituti di credito rispetto all’ipotesi iniziale del 2012. La proposta è di creare un ‘Sistema europeo di Supervisione Finanziaria’ e un ‘Consiglio europeo sui Rischi Sistemici’ sotto la guida del presidente della Banca Centrale Europea. Come è stato sottolineato dal gruppo socialista al Parlamento europeo, tale proposta può offrire effetti positivi solamente se tali organismi saranno investiti di poteri effettivi e non svolgeranno il mero ruolo di ‘osservatori’. Finché la supervisione dei mercati resterà nelle mani delle singole autorità nazionali, nonostante gli sforzi ed i buoni propositi di coordinare il loro operato a livello europeo, non si potrà realmente affermare che la stabilità dei mercati è garantita allo stesso modo in tutti i paesi europei. 3) Accordo fra governi più ricchi e banche maggiormente esposte verso l’est europeo. Per affrontare la crisi i debiti in scadenza devono essere necessariamente rifinanziati. Le banche europee potrebbero rinnovare i prestiti a breve termine concessi alle
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loro controllate ma, come sottolinea Moody’s, potrebbero non essere in grado di farlo. Sintomo di ciò è stato il nervosismo sui mercati finanziari osservato ai primi di marzo quando il Commissario Europeo agli Affari Economici Almunia ha dichiarato che nel caso in cui banche dell’Est Europa controllate da gruppi esteri avessero avuto necessità di mezzi freschi sarebbero state le case madri a dover intervenire, ricapitalizzando le loro sussidiarie. 4) Far entrare nell’Euro solo paesi con i conti in ordine, ma aiutandoli ad evitare la scorciatoia della svalutazione competitiva. Una politica monetaria espansiva nella zona euro potrebbe consentire ai tassi di interesse dell’Est Europa di rimanere bassi. Ma questo potrebbe non essere sufficiente. Infatti le nuove economie dell’Est, pressate dalla crisi, chiedono procedure più snelle per l’ingresso nell’area dell’euro. Richiesta respinta dal presidente dell’Eurogruppo, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, che ha loro risposto in modo categorico: “non credo che possiamo cambiare i criteri di accesso all’euro in una notte, non è fattibile”. Un atteggiamento rigoroso sui
Far entrare nell’Euro solo paesi con i conti in ordine
parametri di Maastricht è certamente necessario, ma la BCE dovrebbe cercare di evitare drammatiche svalutazioni nei paesi candidati. 5) Una politica di allargamento dell’Unione più cauta. L’allargamento dovrebbe essere consentito solo a paesi preparati come Croazia e Islanda, al fine di evitare ripercussioni negative e crolli di consenso per la politica europea negli stati membri come Germania, Francia o Regno Unito che stanno già pagando la crisi economica, unitamente ad aiuti mirati anche a paesi extra UE come l’Ucraina o la Bielorussia, decisi assieme alla Russia di giocare un ruolo strategico nell’area. Qui è richiesto l’intervento della BERS e della BEI per gli investimenti nell’economia reale. 6)Il Fondo Monetario Internazionale deve assumere maggiori responsabilità nel finanziamento di prestiti all’Est europeo. In ambito G20, gli europei dovranno convincere sauditi e cinesi a seguire il buon esempio dei giapponesi nel rifinanziamento del Fondo Monetario, in modo che questo possa concedere prestiti vitali a tutto l’Est europeo. I prestiti dovrebbero essere girati alle banche, che li concederanno alle imprese. Una parte dei fondi servirà a stabilizzare i cambi, fatto apprezzabile in paesi in cui banche, imprese e famiglie sono indebitate in valuta. Tuttavia, se non è affatto certo che tale strategia di convincimento rie-
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Il conto che potrebbe spaccare l’Europa di Vincenzo Visco Comandini e Stefano Gori
sca ad andare in porto dal momento che gli stessi stati europei lesinano gli aiuti, non è però da escludere un suo successo perché cinesi e sauditi sono sempre ansiosi di apparire buoni cittadini del mondo. 7) Disinnescare i problemi geopolitici con la Russia. Il Cancelliere tedesco sta utilizzando strumentalmente la crisi dei paesi dell’Est Europa per ribadire il peso economico, politico e culturale della Germania nell’area, cercando di riguadagnare una propria egemonia rispetto agli USA. Dopo l’11 settembre e grazie alla guerra all’“asse del male” la Germania era stata infatti sostituita dagli Stati Uniti come principale paese di riferimento. I tedeschi sono oggi risentiti perché, nonostante abbiano di fatto pagato i costi legati alla realizzazione delle infrastrutture finanziate dall’Europa dopo l’allargamento, il loro sistema industriale abbia fortemente investito nell’area, la Germania sia il più grande importatore di beni e anche la principale destinazione del flusso migratorio proveniente dai paesi dell’Est, hanno dovuto lasciare l’egemonia agli Stati Uniti in quest’area. Lo spiegamento delle basi missilistiche e dei radar americani che dovrebbero essere in-
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Disinnescare i problemi geopolitici con la Russia stallate sia in Polonia che nella Repubblica Ceca entro il 2011, non rappresentano altro che un tentativo da parte di Washington di influenzare i processi attualmente in corso in Europa. Tale contesto geopolitico ha avuto un impatto negativo nei rapporti con la Russia (vedi le crisi dei gasdotti susseguitosi negli inverni scorsi e l’aumento del prezzo del gas naturale), e da più parti si ritiene che per uscire da questa crisi economica sarà necessario ristabilire un rapporto con la Russia che in questi anni si è perso. Il primo ministro slovacco Robert Fico in una recente intervista su La Repubblica ha affermato “È molto importante la partnership strategica tedesco-russa perché a lungo termine la UE non può avere stabilità senza la Russia”. Tale conciliazione potrebbe realizzarsi proprio in questi giorni, dal momento che il presidente Obama non ha mai apprezzato la politica di George Bush verso l’Est Europa.
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ccorre inviare altri 17.000 uomini” solo per “stabilizzare la situazione” (in altre parole, per evitare che si deteriori ulteriormente); una situazione che, per altro, “non ha mai avuto l’attenzione strategica che meritava”. Così il portavoce della Casa Bianca, il 17 febbraio scorso. Pesa qui, naturalmente, la polemica con la precedente amministrazione. Polemica fondata. Perché l’Iraq ha certamente contribuito a “cancellare dagli schermi” l’Afghanistan: in termini di uomini (sino ad oggi la presenza militare a Kabul – forze afghane comprese – è pari a circa un terzo di quella a Baghdad; e in un territorio quasi due volte maggiore), di mezzi finanziari (almeno in termini pro capite, l’Afghanistan ha
Da una parte una guerra basata su ragioni false e obiettivi irrealistici, dall’altra un intervento chiaro e convincente
avuto molto meno dell’Iraq e, se è per questo, della Bosnia o del Kosovo) e, appunto, di “attenzione strategica” (l’Iraq ha avuto il “surge” di Petraeus, una maggiore presenza militare ma al servizio di un nuovo approccio politico; nulla di tutto questo in Afghanistan e in un conflitto che dura oramai da più di otto anni). Le due guerre Due guerre partite sotto auspici del tutto diversi. Da una parte, “la guerra scema” – come l’ha definita Obama – perché basata su ragioni false e caratterizzata da obiettivi del tutto irrealistici (la presenza di armi di distruzione di massa; l’Iraq come luogo dello scontro decisivo con il terrorismo islamico; il cambio di regime a Baghdad come premessa per la democratizzazione dei regimi mediorientali); e per di più la guerra preventiva ed unilaterale, priva di qualsiasi copertura da parte della collettività internazionale. Dall’altra, un intervento chiaro e convincente nelle sue motivazioni (legami evidenti tra il regime talebano e Al Qaeda) e nei suoi obiettivi (ricostruzione di
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un paese distrutto da vent’anni di guerre); e che, come tale, ha potuto fruire del concorso dell’Europa, della Nato e soprattutto dell’Onu, con tutti i suoi molteplici apparati; per tacere di tutte le varie organizzazioni non governative. Come mai allora, gli Stati Uniti stanno oggi uscendo dal pantano iracheno, sia pur dopo aver pagato e fatto pagare costi immani in termini finanziari e soprattutto umani, lasciando dietro di sé una situazione irta di pericoli ma, tutto sommato, accettabile; mentre questa stessa situazione sta sfuggendo di mano a Kabul? Attenzione strategica È mancata, appunto, in quest’ultimo caso la necessaria attenzione strategica; lo abbiamo sentito dallo stesso portavoce della nuova Amministrazione. Nel caso americano, la cosa è comprensibile: qualunque cosa si pensi sulla “super potenza militare” e le “guerre di Bush”, Washington è in grado di affrontare, allo stesso tempo, non più di un conflitto di qualche importanza; e così l’arrivo dell’Iraq nel marzo 2003 ha ridotto fatalmente le risorse e l’interesse dedicati all’Afghanistan. Con le conseguenze note. Altrettanto comprensibile – anche se forse meno giustificabile – la disattenzione europea. Per la verità, l’UE aveva proposto una risposta collettiva NATO al-
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l’attacco alle Torri Gemelle, risposta prevista nel testo del Trattato; ma l’amministrazione Bush aveva lasciato cadere la cosa sostanzialmente per assicurarsi mano libera nella gestione dell’intervento. Di qui una crescente divaricazione nei rispettivi livelli di responsabilità: agli “anglosassoni” la guerra guerreggiata; ad altri il, teoricamente, successivo impegno per la ricostruzione. Livelli gestiti, ambedue, in modo inadeguato. Oggi, si chiede un maggiore impegno sull’uno e sull’altro fronte. Una richiesta che incontrerà presumibilmente forti resistenze e che sarà soddisfatta solo in minima parte. La renitenza, europea ma anche italiana, è dovuta a due fondamentali ragioni: il generale scetticismo di “color che sanno”, militari, esperti, politici; e la crescente ostilità della pubblica opinione alle cosiddette “guerre umanitarie” (unilaterali o benedette dall’ONU non fa molta differenza). Da una parte gli “esperti sul campo” sono convinti che la guerra sia persa; o, più esattamente, che non possa essere vinta. Stiamo parlando,
Washington è in grado di affrontare nello stesso tempo non più di un conflitto di qualche importanza
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Governi e parlamenti europei confermano l’impegno a Kabul. Ma senza un vero consenso da parte dei loro elettori naturalmente, di una guerra asimmetrica: in cui lo scopo dei talebani (oltre tutto molto poco amati dagli afghani) non è di entrare da trionfatori a Kabul, ma piuttosto di creare nel paese una situazione di caos e di insicurezza tale da porre agli occidentali l’alternativa tra un logoramento senza fine ed un ritiro più o meno disonorevole. Si converrà, allora, che la richiesta di “più uomini e mezzi”, soltanto per evitare che la situazione si degradi ulteriormente, non è proprio il massimo della vita. Certo, governi e parlamenti europei confermeranno l’impegno a Kabul. Ma senza un vero consenso da parte dei loro elettori. Nel corso degli anni Novanta, l’intervento umanitario nei Balcani – prima in Bosnia, poi in Kosovo – apparve alle coscienze democratiche europee, rappresentate da leader di sinistra come Blair e Jospin, Fischer e D’Alema, l’unica risposta possibile contro possibili nuovi genocidi: i Caschi Blu avevano assistito passivamente ai massacri di Srebrenica e al martirio di Sarajevo; occorreva impedire, anche ricorrendo all’uso
della forza, che vicende del genere si ripetessero. Ma poi, nel primo decennio del nuovo secolo, la ruota ha girato in senso opposto: di guerre e/o interventi umanitari – dopo l’Iraq e l’Afghanistan – nessuno vuol più sentir parlare; e politici realisti come no-global incalliti contestano la stessa esistenza di questa categoria. Non a caso, allora, ad ogni passaggio parlamentare per il rifinanziamento della missione, i sostenitori della medesima mettono avanti l’ONU e si riempiono la bocca della parola pace. I nostri soldati sono lì per erigere scuole e scavare pozzi; sparano anche, certo, ma solo se disturbati nella bisogna. Afghanizzazione del conflitto Di qui la necessità di una revisione strategica. In sintesi, è impensabile che gli alleati europei e, al limite, gli stessi Stati Uniti reggano a lungo un impegno “open ended” e senza alcuna soluzione in vista; ma questa soluzione (un Afghanistan “viabile” e libero di crescere senza interferenze esterne e in un assetto che non danneggi i paesi vicini), che tra l’altro consentirebbe il disimpegno graduale della presenza militare occidentale, può appunto esser resa possibile solo dopo un generale ripensamento delle strategie di intervento a livello locale e soprattutto regionale. E allora, in primo luogo, afghanizzazione del conflitto. Sul piano militare e soprattutto politico.
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Agli americani può non piacere Karzai. La sua corruzione (ma il vizio nel paese è, diciamo così, strutturale e generalizzato); la sua apertura indiscriminata ai talebani; e, “last but not least”, il suo tentativo di rifarsi una verginità nazionalista cavalcando l’antiamericanismo. Ma, per carità, che non comincino a cercare e/o patrocinare leader più di loro gusto. Per questo ci sono le elezioni; dove ai marines non è concesso il diritto di voto. Allo stesso Karzai e a chiunque altro il diritto dovere di lavorare per un consenso nazionale il più ampio possibile, talebani compresi. Il retroterra Il quadro regionale si presenta nell’insieme più promettente. Né all’Iran né alla Cina né soprattutto alla Russia interessa un paese preda dell’anarchia e sede di questa o quella base terrorista. Teheran aveva salutato con grande soddisfazione la caduta dei talebani; rammaricandosi successivamente del mancato accoglimento della sua offerta di collaborazione a partire dalla lotta contro il traffico di droga. I cinesi faranno quanto è necessario, e anche di più, per evitare il diffondersi del contagio islamista in Asia centrale. Putin, infine, appare chiaramente disposto, in Afghanistan come altrove, ad avviare un dialogo con Washington consono al ruolo internazionale della Russia.
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Senza il retroterra pakistano, la guerriglia sarrebbe condannata alla sconfitta, com’è avvenuto in Iraq Ma, in tutto questo, c’è un grande buco nero: il Pakistan. Senza il retroterra pakistano, la guerriglia sarebbe condannata alla sconfitta, come è avvenuto in Iraq. Il retroterra; anzi i retroterra. Il primo, visibile e immediato, è rappresentato da un’area di frontiera impervia e immensa, con popolazioni sostanzialmente fuori controllo, dove agli antichi legami e regole tribali si sovrappongono sempre più quelli dell’Islam militante. Il secondo e decisivo, è quello del “complesso militare islamista” operante al centro del sistema di potere pakistano. Nella sua ottica, la destabilizzazione permanente a Kabul è una specie di necessità nazionale. Non si tratta soltanto di deviare altrove un radicalismo islamista potenzialmente pericoloso per il proprio paese (oppure di rendere pan per focaccia “all’astuto afghano” che già aveva utilizzato in passato la carta dell’“irredentismo pashtun”). L’obiettivo è strategico: si tratta di utilizzare in tutti i sensi, il retroterra, questa volta afghano, in vista dello scontro prossimo venturo con il nemico storico: l’India.
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Una linea consolidata nel corso di decenni. Che era espressa dai governi; con la garanzia del consenso della pubblica opinione e, cosa assai più importante, dell’appoggio degli Stati Uniti. Il Pakistan era, infatti, il loro alleato storico e fidato nella regione: perché era un’alternativa all’India – equivocamente terza forzista, in realtà amica dell’URSS – e soprattutto perché era disposto a fare la sua parte sino in fondo nella lotta contro l’espansionismo sovietico. Dopo l’11 settembre, però, è cambiato tutto. Islamabad non è più l’unico amico fidato; rimane soltanto un concorso indispensabile, ma nella misura in cui saprà combattere efficacemente, sino ad eliminarla, quella galassia jhadista considerata sino ad un recente passato (e, in alcuni circoli, anche ora) come una risorsa preziosa per il paese. Si richiede, dunque, una svolta di 180 gradi rispetto alle pratiche del passato. Per attuarla occorrerebbe un potere forte o quantomeno credibile e un popolo unito. E non è certo il caso del Pakistan di oggi. Pure, le circostanze oggettive possono spingere nella direzione giusta.
Uscita forzata o predisposta, oppure suggello di un successo militare o anche solo politico
A partire dal quadro internazionale: un’economia dipendente dal concorso FMI; rapporti di “distensione fredda” con l’India, miracolosamente (ma non poi tanto...) sopravvissuti agli attacchi di Mumbai; il timore dell’isolamento (tanto maggiore nel contesto di una “exit strategy” dall’Afghanistan che possa contare sul concorso di tutte le altre grandi potenze dell’area); l’esistenza di un governo e, anche di una pubblica opinione, profondamente ostile al fanatismo islamista; e, infine, per dirla tutta, la necessità vitale del sostegno americano. Exit strategy E, allora, ci vorrà tempo e pazienza. Anche perché gli strumenti punitivi (interventi militari USA nel territorio pakistano) sono controproducenti, mentre le possibili incentivazioni (reale autonomia per il Kashmir, presenza e aiuti internazionali nelle aree di confine) sono di là da venire. L’essenziale è che il paese tenga, nell’immediato, una linea accettabile. In definitiva, anche tenendo conto del fattore Pakistan, il quadro regionale è complessivamente promettente. Attenzione, però: riferirsi, puntare ad un quadro regionale ha senso solo se c’è una “exit strategy”. Affrontiamola, dunque, questa parola: maltrattata e distorta dall’uso politico cui è stata sottoposta. In tale con-
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testo “exit” uguale “uscita”; vale a dire abbandono, fuga, sconfitta, non importa se dovuta e meritata o casuale o legata a proprie debolezze. L’uscita può essere forzata o predisposta; frutto di un disastro incontrollato oppure suggello di un successo militare o magari anche solo politico. E tra i due colori estremi del nero (scappare da Saigon aggrappati ad un elicottero) o del bianco (lasciare l’Europa dopo la seconda guerra mondiale) ci son molte tonalità di grigio. Nel caso di specie, formulare un’ipotesi di uscita è poi assoluta-
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mente necessario; e non perché si sia alla vigilia di una sconfitta, ma perché la coalizione (Usa, Nato, Onu) non è in grado di reggere a lungo gli sforzi che gli vengono richiesti senza aver chiari gli obiettivi da raggiungere e, conseguentemente, gli orizzonti temporali del suo impegno. Dopo tutto il “surge” iracheno del 2007 ha consentito agli americani di organizzare il loro ritiro per il 2010, lasciando dietro di sé un paese ragionevolmente organizzato e ragionevolmente protetto da minacce esterne: perché non dovrebbe accadere lo stesso anche in Afghanistan?
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ncora negli ultimi mesi dell’anno scorso Maurizio Sacconi minacciava di tagliare le unghie alle Regioni, annunciava la fine della “festa dei formatori”, lasciava intendere di voler approfittare della crisi per regolare definitivamente conti che, nel governo del mercato del lavoro, restavano aperti dai tempi del “Libro bianco” di Marco Biagi. A sua volta Renato Brunetta sfidava il potente sindacato del pubblico impiego, metteva alla gogna i “fannulloni”, minacciava tornelli anche a palazzo Chigi. Con l’anno nuovo, invece, si respira un’aria diversa. Sacconi nega l’opportunità di rinnovare il sistema degli ammortizzatori sociali, si oppone a qualunque ipotesi di riforma delle pensioni, si accorda con le Regioni su una sorta di prelievo forzoso dal Fondo sociale europeo. E Bru-
La crisi è grave e l’ipotesi di cavalcarla introducendo riforme necessita di un vasto consenso politico e sociale
netta, per teorizzare che il nostro mercato del lavoro è il migliore del mondo imbastisce addirittura una polemica postuma con Biagi (Corriere della Sera del 7 marzo). La strada della prudenza Sacconi e Brunetta hanno molte buone ragioni per avere imboccato la strada della prudenza. La crisi è grave ma, almeno finora, non catastrofica. L’ipotesi di cavalcarla per introdurre riforme, quindi, non è sostenuta dallo stato di necessità, ma potrebbe reggere solo con un vasto consenso politico e sociale di cui non si vedono tracce. E del resto cambiare la locomotiva con il treno in corsa, come hanno imparato a proprie spese i vecchi lombardiani, è impresa improba e di incerto successo. Al di là del merito, però, ci sono altre buone ragioni che giustificano la svolta dei due ministri (e più in generale del governo). Sono ragioni più squisitamente politiche (che per chi scrive sono sempre ottime ragioni) e che quindi vanno comprese ancor più approfonditamente delle ragioni di merito. Senza quella svolta, infatti, difficilmente il Popolo della Libertà fon-
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dato alla fine di marzo avrebbe potuto definirsi “il partito degli italiani”. Sarebbe stato solo un partito, e non avrebbe risolto, come invece “il partito degli italiani” ambisce a risolvere, la crisi di sistema aperta da vent’anni. La path dependence In Italia, infatti, le crisi di sistema non sono mai state risolte in termini di radicale discontinuità, perfino quando si sono manifestate nella forma della guerra civile. Per Luciano Cafagna, anzi, fu innanzitutto sul lascito fascista (“un lascito di mezzi e strutture, un lascito di funzioni e attese pubbliche, un lascito di know how, insomma”) che si fondarono “le fortune successive, nella nuova Italia repubblicana, della Democrazia cristiana e del Partito comunista” (La grande slavina, 1993). E per Michele Salvati fu la path dependence il principale elemento di legittimazione dell’Italia repubblicana (Il Mulino, aprile 2003). Anche Berlusconi, con buona pace di quanti ne esaltano o ne deprecano il carattere di radicale innovatore, sta puntando sulla path dependence per fondare il nuovo sistema politico. Perciò non disturba sindacati e Confindustria nel consueto mercimonio di casse integrazione e mobilità lunghe, offre agli ex capitani coraggiosi il business di Alitalia depurata dai debiti, non si nega al negoziato con le Regioni benché governate pro tempore dal centrosinistra, assume addirittura il ruolo di Lord protettore nei confron-
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ti di quanti (per esempio Bassolino) risultano in disgrazia presso il loro schieramento, e come Lord protettore si propone anche alla Chiesa, sia nella sua dimensione gerarchica che in quella, più impalpabile, che ne traduce in senso comune i precetti. La crisi mondiale, inoltre, invece di tagliargli le ali, come avvenne dopo l’11 settembre, consente a lui di tagliare le unghie ai banchieri, primo contropotere fra i più significativi; mentre l’insipienza dell’opposizione, incapace di esprimere sia un presidente della commissione di vigilanza che un presidente della RAI, gli mette in mano una scala reale al tavolo delle nomine ai vertici di emittenti e giornali. Paradossalmente Berlusconi sta percorrendo la stessa strada che, fallendo, tentarono di percorrere i postcomunisti negli anni passati. Tale infatti doveva essere il ruolo di Prodi nel tenere insieme poteri e interessi su cui si reggeva una costituzione materiale passata indenne attraverso molteplici riforme dei sistemi elettorali, scioglimento di diversi partiti, epurazione di un’intera classe politica. Ora che quel disegno è arrivato non al capolinea, come ancora due anni fa scriveva Emanuele Macaluso,
Berlusconi sta percorrendo la stessa strada che, fallendo, percorsero i postcomunisti negli anni passati
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Il paradigma antifascista della prima Repubblica è stato sostituito dal paradigma anticomunista ma al deposito delle vecchie vetture, è il caso di interrogarsi sui motivi di un così clamoroso fallimento. C’è stata, sicuramente, carenza di leadership, da imputare non solo e non tanto a Prodi, ma soprattutto a chi Prodi lo aveva scelto e incoronato: ai “compagni di scuola” che ritenevano di poter ereditare senza beneficio d’inventario un patrimonio fatto di radicamento sociale e di rigorosa selezione dei gruppi dirigenti, e che non solo hanno esibito la loro modesta cultura di governo, ma hanno dimenticato che la Graecia capta aveva bensì acculturato i feri victores, ma non aveva mai preteso di esprimerne il duce; ma anche ai resti di quella che fu la sinistra democristiana, del tutto inadeguata a garantire la continuità di una cultura di governo tutt’altro che disprezzabile ed a farsi carico del deficit di riformismo di cui soffrivano i loro compagni di strada. La tigre referendaria Le cause di questa défaillance, peraltro, vanno indagate a partire dal concepimento della lunga gestazione da cui sarebbe nato il Partito democratico. A partire cioè dal momento in cui, negli anni ’90, postcomunisti e democristiani di sinistra cavalcarono la tigre referendaria senza rendersi conto che sta-
vano segando il ramo su cui anche loro (soprattutto loro, anzi) erano seduti. Allora fu Ernesto Galli della Loggia a segnalare sul Corriere, molto prima che Berlusconi scendesse in campo, che sarebbe stata la riforma del sistema elettorale a sdoganare la destra, correggendo “un sistema affatto sbilenco, senza destra o centrodestra, senza cioè una rappresentanza propria e diretta della parte moderata e conservatrice del paese, un sistema dove il centro faceva la parte anche della destra ma che poi la deriva naturale, insita nel suo codice genetico risalente al CLN, ha progressivamente spinto nella vasta palude del consociativismo e dunque ancor più sotto un segno egemonico – se non altro emotivo e lessicale – della sinistra”. Ora è ancora Galli della Loggia a segnalare, sul Corriere del 29 marzo, che il paradigma antifascista su cui si era formato il sistema politico della prima Repubblica (che esaltava l’utilità marginale della sinistra democristiana e preservava l’insediamento del PCI) è stato definitivamente sostituito dal paradigma anticomunista. Per cui, fra l’altro, il Popolo della Libertà non deve fare nessuna fatica culturale per svolgere il ruolo di “partito degli italiani”, dal momento che il mainstream ha già da tempo radicalmente cambiato direzione. Law & order In altra sede sarà interessante discutere su quanto la sinistra degli anni
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‘90 abbia contribuito a questo cambiamento non solo oggettivamente (con la riforma elettorale), ma anche soggettivamente. Qualche anno fa uno storico comunista, Salvatore Lupo, osservò che allora “persino i comunisti guidati da Achille Occhetto si mostrarono pronti a far propri concetti che sino a qualche anno prima sarebbero a loro stessi apparsi eversivi nonché degni del peggiore degli insulti: qualunquista” (Partito e antipartito, 2004). E certo la sinistra di fine secolo non si fece mancare niente nel riabilitare concetti di destra come law & order ed antiparlamentarismo, appena mascherati dal populismo giustizialista ed antipolitico. In questa sede, però, conviene prendere atto della chiusura di un ciclo e chiedersi quale ruolo possa svolgere la sinistra nel ciclo che si apre. Se continuerà, come sta facendo il Partito democratico, da un lato nella politica del “più uno” (sugli ammortizzatori sociali, sugli aiuti alle imprese, sul sostegno ai poveri), e dall’altro su quella del “no” (al piano casa, al nucleare, al maestro unico, alla riforma universitaria) è facile immaginare che il bipartitismo che si profila tornerà ad essere quello imperfetto evocato da Giorgio Galli negli anni ’60. Lo spazio che si apre, invece, è un altro, ed è molto più impervio di quello che la sinistra aveva occupato con orgogliosa sicurezza negli ultimi quindici anni. Ma è l’unico in cui si può disvelare la magia berlusconiana, che
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navigando verso il nuovo è approdato al vecchio “blocco storico”, costruito come sempre sulla consociazione dei poteri costituiti ai vertici e sul dualismo alla base. Solo contraddicendo questo dualismo, infatti, si può dar luogo a un bipartitismo “perfetto”. Solo dando voce, cioè, innanzitutto agli outsiders, visto che gli insiders stanno ormai felicemente al caldo sotto la coperta del “partito degli italiani”. Le occasioni non mancano. Sulla politica sociale, per esempio, si potrebbero perfino prendere in parola i propositi riformisti accennati l’anno scorso da Sacconi e Brunetta. Sulla politica istituzionale meglio prendere in parola il Fini della “stagione costituente” che non quello della “difesa della dignità del Parlamento” con contorno di impronte digitali. E non prendere in parola, invece, Bossi e Calderoli, pifferai magici di un federalismo che si sa dove comincia e non si sa dove finisce. E sulla politica urbanistica meglio ascoltare i senza casa che gli archistar. È uno spazio impervio, come ho già detto. Ma ha il grande vantaggio di essere l’unico che rimane. L’altro, quello che era stato ereditato, lo ha occupato tutto Berlusconi.
Approdo di Berlusconi al vecchio “blocco storico”: consociazione dei poteri costituiti ai vertici e dualismo alla base
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Il modello italiano di protezione del lavoro Premessa Il tema degli ammortizzatori sociali è al centro del dibattito sulla crisi. L’opposizione accusa il Governo di non aver provveduto a dare copertura a tutto il mondo del lavoro in caso di sospensione dell’attività produttiva e di perdita del posto di lavoro. E di non averlo fatto sottraendosi all’impegno di riformare in senso universalistico il quadro delle prestazioni (un’operazione sempre ribadita con maggiore o minore solennità, ma mai realizzata nell’arco di almeno quattro legislature). Di qui l’osservazione – che ormai è divenuta quasi un luogo comune – che il sistema degli ammortizzatori sociali da noi non funziona e non tutela adeguatamente una parte importante di lavoratori. In verità, il modello italiano di protezione del lavoro ha i
La rete della protezione del lavoro si è allargata con il metodo della partenogenesi
medesimi difetti di gran parte del welfare: un insieme di interventi settoriali, talvolta persino corporativi, varati in tempi differenti ad alcuni segmenti del mercato del lavoro, poi estesi ad altri. In geometria anche un insieme di particolari segmenti possono costituire una linea, ancorché non rettilinea. Così, nel tempo, è molto cresciuta la platea dei soggetti tutelati, avvalendosi delle strumentazioni più flessibili del sistema. Il Governo lo ha fatto attraverso l’estensione della c.d. cassa integrazione in deroga (rivolta cioè ai settori e ai soggetti che non ne fruiscono), il cui finanziamento è passato dai 400 milioni di euro previsti dal collegato Lavoro, ai 9 miliardi in due anni, definiti dopo l’accordo del 17 febbraio scorso tra Governo e Regioni dove è stato stabilito che queste ultime avrebbero reso disponibili risorse per 2,5 miliardi sul versante degli ammortizzatori sociali. Per meglio chiarire questi passaggi sarà utile tracciare le linee generali dell’attuale ordinamento, per quanto riguarda sia la sospensione che la perdita del lavoro. Si vedrà così che in tutti
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questi anni la rete della protezione si è allargata, magari con il metodo della partenogenesi. Più nel disordine che nell’ordine. Ma pur sempre con molta concretezza. Questa situazione ha indotto il ministro Maurizio Sacconi ad escludere – nel breve periodo – un’ampia revisione degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione e disoccupazione) che a suo avviso avrebbe posto più problemi di quelli che avrebbe potuto risolvere. Il primo intervento del Governo messo in campo a favore dell’occupazione è consistito di una duplice azione di potenziamento e di estensione degli ammortizzatori sociali. A questi interventi sono seguite, poi, delle linee guida per la tutela attiva della disoccupazione che il Governo ha consegnato a Regioni e Parti sociali, durante un confronto del 22 gennaio 2009 a proposito della riforma della contrattazione. Il documento si chiama «Provvedere alle persone, ripartire dalle persone: un progetto solidale tra istituzioni e attori sociali», un titolo fortemente significativo. Individua una serie di misure «tempestive e mirate», finalizzate «all’occupabilità» durante l’emergenza economico-sociale della crisi, secondo un percorso – spiegano le stesse Linee guida – «non semplice nella sua capacità di raggiungere tutti coloro che saranno colpiti dalla crisi né scontato nell’efficacia delle azioni ipotizzate». Dunque un percorso difficile, anche
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negli effetti, ma non impossibile da praticare. Particolarmente accattivante è il significato che, nelle Linee guida, assumono queste misure. Vale a dire il significato di azioni capaci di rispondere ai bisogni delle persone senza sacrificare le esigenze delle imprese. Una soluzione, dunque, per mantenere al lavoro quante più persone possibili in questo periodo di crisi, caratterizzato dalla riduzione della produzione nelle imprese, e quindi delle ore di lavoro, garantendo comunque un reddito ai lavoratori che si traduce nei consumi tanto ricercati per far ripartire la carovana del PIL. Il rovescio della medaglia, stando sempre alle Linee guida, è la presenza di alcune criticità: l’alto numero di lavoratori che non sono ancora destinatari di ammortizzatori sociali; il fenomeno dell’inurbamento – lo spostamento dei lavoratori per andare a vivere in città – che inevitabilmente accentua le difficoltà economiche durante la disoccupazione; la bassa professionalità soprattutto di giovani, donne ed anziani. La proposta del Governo – que-
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Provvedere alle persone, ripartire dalle persone sto difficile ma non impossibile percorso per l’occupabilità – si snoda su sette punti e potrebbe condurre (il condizionale viene d’obbligo: si tratta solamente di una proposta) a significativi cambiamenti dell’attuale sistema degli ammortizzatori sociali. Dal punto di vista amministrativo, burocratico, si potrebbe registrare uno spostamento dell’attività decisionale degli interventi dallo Stato verso le Regioni (oggi gli accordi per l’erogazione della Cig, per esempio, vengono sottoscritti presso il Ministero del Lavoro). Agli enti territoriali, infatti, viene chiesto di assumere le «funzioni di valutazione e negoziazione» delle richieste di intervento a favore dei lavoratori in esubero. Dal punto di vista delle imprese si potrebbe registrare una modifica delle procedure di gestione del personale in esubero, con maggiore ricorso ai «contratti di solidarietà» – che consentono di evitare i licenziamenti riducendo a tutti i lavoratori l’orario di lavoro senza modificare i salari che vengono integrati dalla Cig; con minori autorizzazioni alla mobilità (anticamera dei licenziamenti); e con qualche forma d’incentivazione in più all’utilizzo dei tirocini formati-
vi quale strumento di primo impiego per i lavoratori disoccupati. Dal punto di vista dei lavoratori, infine, si potrebbero registrare le modifiche più rilevanti. Prima di tutto ci dovrebbe essere l’ampliamento della platea dei soggetti destinatari di misure a sostegno del reddito durante la disoccupazione. Una novità, a dire il vero, che ha già trovato ampia effettività con le misure di potenziamento degli ammortizzatori sociali introdotte dal Pacchetto anticrisi. Oltre questo, la fruizione degli ammortizzatori sociali dovrebbe perdere l’automatismo che oggi la caratterizza – è erogata in forma una tantum per predeterminati periodi di tempo – per essere invece vincolata, per quanto riguarda misura e durata, alle ore di lavoro prestate dal lavoratore prima di perdere il posto di lavoro e, comunque, secondo importi progressivamente decrescenti, al fine di stimolare comportamenti attivi da parte dei beneficiari (la ricerca di una nuova occupazione), fino alla revoca della prestazione in godimento nelle ipotesi di rifiuto di un’offerta di lavoro o di un percorso di formazione. «Provvedere alle persone, ripartire dalle persone»: la proposta del Governo, in definitiva, contiene interessanti misure d’intervento per affrontare la crisi alcune delle quali, come detto, che sono già norme di legge. Misure che chiedono, anche questo è vero, un’intesa solidale e di
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collaborazione tra istituzioni e società civile. Va osservato, tuttavia, che si tratta di misure che si fermano al «provvedere alle persone». Resta (ancora) in sospeso, invece, il «ripartire dalle persone»: un concetto forte e che prelude ad altro. Al superamento, per esempio, delle divergenze che ancora impediscono – crisi o non crisi; con o senza le nuove misure – una piena uguaglianza di opportunità e trattamento, sul mercato e sulle tutele, tra lavoratori – appunto persone – delle diverse categorie di appartenenza. La preoccupazione è che la crisi, con il suo carico di paure, non possa finire per intorpidire la voglia e la forza di ammodernamento in questa direzione, di cui il Paese e la società hanno veramente bisogno. Le misure «tempestive e mirate», di indiscutibile necessità, non devono perciò fare accantonare i progetti di riforma, quale tra gli altri quello del welfare partito con il Libro Verde sul futuro del modello sociale nel 2008 (il 25 luglio). Se davvero si vuole raggiungere il «primato della persona, di ciascuna persona, di tutte le persone», come auspicato nelle recenti Linee guida, occorre prima di tutto stabilire (o ri-stabilire) le regole di uguaglianza sociale, che fungono peraltro da iniettori di fiducia e di speranza. Dall’operazione non deve restarne escluso nessuno perché sia una sfida non
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«solamente economica ma, prima di tutto, progettuale e culturale», diretta a «riproporre la centralità della persona, in sé e nelle sue proiezioni relazionali a partire dalla famiglia». Ammortizzatori sociali: il caso Italia In Italia opera, da decenni, un articolato sistema di tutela del reddito a favore dei lavoratori che sono sospesi dal lavoro per motivi contingenti e temporanei, quelli che sono in procinto di perdere o che hanno già perso il posto di lavoro. Si tratta, come già anticipato, di quello che comunemente va sotto il nome di «ammortizzatori sociali». <Gallia omnis divisa est in partes tres>, scriveva Giulio Cesare. Anche nel nostro caso possiamo individuare tre branche di tutele: quelle alle quali si ha diritto in costanza di un rapporto di lavoro; quella (perché è una: la procedura di mobilità) che accompagna i lavoratori dallo stato di occupazione a quello di disoccupazione, favorendo il loro reinseri-
In Italia opera da decenni un articolato sistema di tutela del reddito a favore dei lavoratori: gli ammortizzatori sociali
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Una barriera invisibile e invalicabile protegge chi è dentro il lavoro e penalizza chi è fuori
mento nel mondo del lavoro; quelle alle quali si accede una volta che si è perso il posto di lavoro. Al primo gruppo appartengono le integrazioni salariali, nelle due specie di cassa integrazione guadagni ordinaria (Cig) e cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs); al secondo gruppo, come detto, appartiene la procedura di mobilità; del terzo gruppo, infine, fanno parte le indennità di disoccupazione, nelle diverse declinazioni (ordinaria, con requisiti ridotti, speciale per l’edilizia). Sul lavoro, ed anche sulla previdenza e assistenza (pensioni e ammortizzatori sociali insomma), signi-
fica smontare le tre prerogative che caratterizzano oggi il mercato dell’occupazione. La prima: il «privilegio di appartenenza», ossia la fortuna di avere un impiego nel settore pubblico e non in quello privato. Crisi o non crisi ma il dipendente pubblico che rischi corre di perdere il posto di lavoro? La seconda: i «diversi pesi dei contratti di lavoro», ossia la sproporzione nei diritti e nelle tutele ai lavoratori che esiste tra lavoro subordinato (dipendente), parasubordinato (co.co.pro) e autonomo. La terza, infine, «l’apartheid dei lavoratori». Tipica del lavoro dipendente è quella sorta di rendita di posizione di cui gode chi sta dentro il mondo del lavoro (chi è assunto) rispetto e a sfavore di chi, invece, in quel mondo vorrebbe tanto entrarci. Una barriera invisibile e invalicabile che protegge chi è dentro (occupati) e penalizza chi è fuori (inoccupati e disoccupati).
Tabella 1 - Gli ammortizzatori sociali Gruppo 1
Salvaguardia del posto di lavoro
Le misure
• Cassa integrazione guadagni ordinaria • Cassa integrazione guadagni straordinaria • Integrazioni salariali in agricoltura • Integrazioni salariali in edilizia
Gruppo 2
Sostegno a favore della rioccupazione
Le misure
Procedura di mobilità
Gruppo 3
Sostentamento durante la disoccupazione
Le misure
Indennità di disoccupazione ordinaria
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La Cassa integrazione guadagni La cassa integrazione guadagni – o ancor più genericamente le integrazioni salariali – è una prestazione che integra o sostituisce la retribuzione dei lavoratori sospesi o che lavorano a orario ridotto presso aziende in momentanea difficoltà produttiva. Anche se può apparire, a prima vista, un sostegno più a favore delle imprese che dei lavoratori, rappresentando un aiuto economico in relazione agli oneri della manodopera non utilizzata in attesa della ripresa della normale attività produttiva, in realtà con la cassa integrazione l’azienda evita i licenziamenti. Ci sono due tipi di cassa integrazione : quella ordinaria (Cig ordinaria) e quella straordinaria (Cigs). Alla prima accede l’impresa che soffra una crisi dipendente da eventi temporanei come la mancanza di commesse, eventi meteorologici straordinari e via dicendo. In questi casi, dunque, si reputa transitoria l’instabilità anche dei posti di lavoro e si ritiene certa la ripresa dell’attività produttiva normale dell’azienda. È straordinaria, invece, la cassa integrazione accordata all’azienda che deve fronteggiare processi di ristrutturazione (cambiamento di tecnologie), riorganizzazione (cambiamento dell’organizzazione aziendale), riconversione (cambiamento dell’attività) o in caso di crisi azien-
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La mobilità non è alternativa al licenziamento, ma lo presuppone dale. Inoltre, l’intervento straordinario può essere richiesto anche a seguito di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria. Si capisce, dunque, che in questi casi si è di fronte a eventi di una gravità maggiore, tali da far temere addirittura la tenuta stessa dell’azienda. Tale gravità giustifica un periodo di concessione più lungo, rispetto alla cassa integrazione ordinaria. L’importo dell’integrazione salariale è pari all’80% della retribuzione complessiva che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate, fino ad un massimo di 40 ore settimanali. L’ammontare deve essere poi ridotto di una percentuale pari al 5,84% (e corrispondente all’aliquota contributiva a carico degli apprendisti). Al lavoratore che percepisce l’integrazione salariale è dovuto l’assegno per il nucleo familiare. L’importo da corrispondere è soggetto a un limite mensile che varia anno dopo anno, in quanto rivalutato in base alle variazioni dell’indice dei prezzi al consumo accertate dall’Istat (cfr. Tabella 2).
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Tabella 2 - I limiti alle integrazioni salariali Retribuzione mensile
Massimale integrazione salariale – Anno 2009 Al lordo della ritenuta (1)
Al netto della ritenuta (1)
Fino a euro 1.917,48
euro 886,31
euro 834,55
Oltre euro 1.917,48
euro 1.065,26
euro 1.003,05
Settore edile Fino a euro 1.917,48
euro 1.063,57
euro 1.001,46
Oltre euro 1.917,48
euro 1.278,31
euro 1.203,66
(1) Ritenuta contributiva del 5,84 per cento
La procedura di mobilità L’indennità di mobilità è un ammortizzatore sociale che mira a rendere meno drammatiche ai lavoratori le conseguenze della perdita del posto di lavoro. A differenza delle integrazioni salariali (Cig e Cigs), la mobilità non è alternativa al licenziamento, ma lo presuppone. Non consiste unicamente in un sostegno economico elargito ai lavoratori, ma anche di meccanismi che per favorirne la loro rioccupazione come, per esempio, il passaggio tra aziende (da quelle in crisi a quelle che hanno bisogno di manodopera). Per queste ragioni si parla più propriamente di «procedura» di mobilità. Non tutte le aziende possono av-
La procedura di mobilità non determina sempre e automaticamante ai lavoratori il diritto alla relativa indennità
viare la procedura di mobilità. Essa infatti è riservata alle imprese con più di 15 dipendenti ammesse alla cassa integrazione guadagni straordinaria che, nel corso del programma di risanamento, dichiarano di non essere in grado di garantire il reimpiego di tutti i lavoratori sospesi e di non poter attivare misure alternative; alle imprese che occupano più di 15 dipendenti (compresi apprendisti e contratti di formazione) che, in seguito a una riduzione o trasformazione dell’attività o di lavoro, decidono di effettuare un licenziamento collettivo (si ricorda, come detto, che perché si possa parlare di «licenziamenti collettivi» è necessario che avvengano almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni, in una o più unità produttive dell’azienda nell’ambito della stessa provincia; alle imprese che occupano più di 15 dipendenti che intendono effettuare licenziamenti collettivi per la cessazione dell’attività. Dal punto di vista dei lavoratori,
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la collocazione in mobilità può avvenire sia direttamente a seguito di licenziamento e sia, come più spesso accade, dopo un periodo di cassa integrazione guadagni. La scelta dei lavoratori (operai, impiegati e quadri) da collocare in mobilità è operata sulla base di criteri previsti dai contratti collettivi o da accordi sindacali. In mancanza, la scelta deve avvenire tenendo conto dei criteri del carico fiscale di famiglia; dell’anzianità; delle esigenze tecnico produttive ed organizzative. Attenzione: la procedura di mobilità non determina sempre e automaticamente il diritto (ai lavoratori) alla relativa indennità: questa, infatti, è concessa soltanto se le imprese rientrano nel campo di applicazione della cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs) e a favore dei lavoratori che ne possiedono i necessari requisiti. In particolare, hanno titolo all’indennità i lavoratori che: • sono stati assunti con contratto a tempo indeterminato (quindi il precario, il lavoratore a termine, in ogni caso di attivazione di pro-
cedure di mobilità non avrà mai diritto alla relativa indennità); sono iscritti nelle liste di mobilità compilate dalla Direzione regionale del lavoro sulla base degli elenchi inviati dalle aziende in crisi; • hanno un’anzianità aziendale di almeno 12 mesi, compresi i periodi di lavoro a tempo determinato e i periodi di apprendistato svolti prima dell’assunzione a tempo indeterminato nella stessa impresa; • hanno almeno 6 mesi di lavoro effettivo nell’impresa, compresi i periodi di sospensione del lavoro per ferie, festività, infortuni. Per il periodo di concessione dell’indennità, il lavoratore ha diritto alla contribuzione figurativa. Oltre all’indennità, i lavoratori che ne hanno diritto possono percepire anche l’assegno per il nucleo familiare. L’importo da corrispondere è soggetto a un limite mensile che varia anno dopo anno, in quanto rivalutato in base alle variazioni dell’indice dei prezzi al consumo accertate dall’Istat (cfr. Tabella 3).
Tabella 3 - I limiti all’indennità di mobilità Massimale indennità di mobilità – Anno 2009 Retribuzione mensile Al lordo della ritenuta (1)
Al netto della ritenuta (1)
Fino a euro 1.917,48
euro 886,31
euro 834,55
Oltre euro 1.917,48
euro 1.065,26
euro 1.003,05
(1) Ritenuta contributiva del 5,84 per cento
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Il pacchetto anticrisi del Governo introduce alcune modifiche alla disciplina dell’indennità di disoccupazione
L’indennità di disoccupazione con requisiti normali L’indennità di disoccupazione risponde alla finalità di garantire, in presenza dei requisiti previsti dalla legge, un aiuto economico che sostituisca il reddito da lavoro al lavoratore che sia divenuto disoccupato. Con il Pacchetto anticrisi il Governo ha introdotto alcune modifiche alla disciplina, al fine di potenziarne la portata a beneficio dei lavoratori. Rispetto alle regole previgenti, l’indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti normali: • riguarda anche i lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali; • è erogata subordinatamente ad un intervento integrativo pari almeno alla misura del 20% dell’indennità a carico degli enti bilaterali previsti dalla contrattazione collettiva (ma l’indennità può essere concessa anche senza necessità dell’intervento integrativo degli enti bilaterali, fino a che un apposito regolamento ministeriale non disciplinerà la materia);
• ha una durata massima che non può superare novanta giornate di annue indennità; • non è sottoposta a specifiche limitazioni di spesa. La principale novità, dunque, è rappresentata dal vincolo dell’intervento integrativo degli enti bilaterali. Questi enti sono organismi costituiti ad iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei lavoratori comparativamente più rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro attraverso, in particolare, la promozione di una occupazione regolare e di qualità, l’intermediazione nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, la programmazione e le modalità di attuazione di attività formative, la gestione mutualistica di fondi per la formazione e l’integrazione del reddito, la certificazione dei contratti di lavoro e lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro; La nuove regole, inoltre, confermano il campo di non applicazione dell’intervento, sia riguardo ai dipendenti di aziende già destinatarie di trattamenti di integrazione salariale, nonché nei casi di particolari tipologie contrattuali. Allo stesso modo la richiamata indennità non spetta nelle ipotesi di perdita e sospensione dello stato di disoccupazione disciplinate dalla normativa in materia di incontro tra domanda e offerta di lavoro.
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L’indennità ordinaria di disoccupazione con i requisiti normali è concessa ai lavoratori che vengono a trovarsi senza lavoro, quindi senza retribuzione, per le seguenti ragioni: • licenziamento; • sospensione per mancanza di lavoro; • scadenza del contratto; • dimissioni per giusta causa, determinate da molestie sessuali; mancato pagamento della retribuzione; modifica peggiorativa delle mansioni lavorative; mobbing; notevole variazione delle condizioni di lavoro a seguito della cessione dell’azienda ad altre persone, fisiche o giuridiche; spostamento del lavoratore da una sede all’altra, senza comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive; comportamento ingiurioso del superiore gerarchico. L’indennità di disoccupazione spetta a operai, impiegati, equiparati ed intermedi (lavoratori che svolgono mansioni a metà strada tra quelle operaie e quelle impiegatizie), anche se assunti con contratto parttime o a tempo determinato. Spetta, inoltre, ai dirigenti di qualsiasi settore privato; ai lavoratori a domicilio, ma solo nel caso di licenziamento/cessazione del rapporto di lavoro e non di sospensione del lavoro tra una commessa e l’altra; ai lavoratori impiegati in attività stagionali o attività soggette a periodi di sosta; ai lavoratori occupati occasio-
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Non ha diritto all’indennità di disoccupazione chi si dimette volontariamente nalmente in sostituzione di altro personale; ai lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro (abrogato); ai lavoratori con contratto di solidarietà; ai portieri di stabili; ai lavoratori assunti in Italia ed operanti all’estero in paesi non convenzionati o con i quali non esistono accordi di sicurezza sociale; ai soci di cooperative, con l’esclusione di quelle di facchinaggio svolto anche con l’ausilio di mezzi meccanici o diversi, trasporto il cui esercizio sia effettuato personalmente dai soci proprietari o affittuari del mezzo. Non hanno diritto all’indennità, invece, i lavoratori che si dimettono volontariamente, ad eccezione delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri che abbandonano il posto di lavoro durante il periodo in cui è previsto il divieto di licenziamento (vale a dire dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento del 1° anno di età del bambino); i lavoratori parasubordinati; i lavoratori autonomi; i lavoratori con contratto a part-time verticale per i periodi di pausa dell’attività lavorativa; i lavoratori a domicilio, per i periodi intercorrenti tra una commessa e l’altra nel corso del rapporto di lavoro; i
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lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno stagionale; gli apprendisti; i caratisti, gli armatori e i proprietari armatori imbarcati su navi da pesca da loro stessi armate; i lavoratori con contratto di compartecipazione agli utili; i ministri del culto che esercitano il loro ministero in modo esclusivo; i soci dipendenti da società o enti cooperativi anche di fatto; i soci delle cooperative della piccola pesca; i soci delle cooperative teatrali e cinematografiche. Su tale ambito, tuttavia, notevoli e importanti novità sono arrivate, proprio con riguardo alla crisi del 2009, dalla manovra del Governo (di questo di parlerà più avanti). Il diritto all’indennità di disoccupazione si perfeziona in presenza dei seguenti requisiti: • disoccupazione, il lavoratore cioè non deve svolgere alcun tipo di attività lavorativa, né autonoma, né subordinata e né parasubordinata; • essere alla ricerca di un posto di lavoro avendo, a tal fine, rilasciato al Centro per l’impiego la prevista “dichiarazione di immediata
Per avere diritto all’indennità di disoccupazione, il lavoratore non deve svolgere alcun tipo di attività
disponibilità” a svolgere una attività lavorativa o a seguire un percorso per la ricerca di una nuova occupazione; • avere svolto in passato un’attività lavorativa, con il relativo versamento dei contributi all’Inps per la disoccupazione, almeno due anni prima del licenziamento; • avere almeno un anno di contribuzione (equivalente a 52 contributi settimanali) nei due anni che precedono la data di cessazione del rapporto di lavoro; • essere in possesso della capacità lavorativa, sia pure residua (non avere cioè in corso malattie che provochino la temporanea inabilità al lavoro). In caso contrario, l’indennità sarà erogata a partire dal momento del recupero della capacità lavorativa, sempre che permanga lo stato di disoccupazione. Relativamente al requisito contributivo (avere almeno un anno di contribuzione, equivalente a 52 contributi settimanali, nei due anni che precedono la data di cessazione del rapporto di lavoro), sono validi in via generale tutti i contributi settimanali versati per l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria. A questi, poi, si aggiungono i seguenti periodi coperti dalla contribuzione figurativa: • periodi indennizzati di astensione obbligatoria o facoltativa per maternità;
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• periodi di astensione dal lavoro per le malattie dei figli di età compresa tra i 3 e gli 8 anni; • periodi di servizio militare o civile, se nell’anno antecedente la data di chiamata alle armi risultano versati almeno 24 contributi settimanali effettivi; • periodi di lavoro all’estero in paesi convenzionati. Altri periodi coperti da contribuzione figurativa sono, invece, considerati neutri. Nel senso che, sebbene non utili al raggiungimento delle 52 settimane contributive necessarie, pur tuttavia consentono di ampliare il biennio nel quale ricercarle. Sono considerati neutri i periodi di: • servizio militare o servizio civile nel caso in cui nell’anno antecedente la chiamata alle armi non risultino versati almeno 24 contributi settimanali contro la disoccupazione; • autorizzazione alla Cassa integrazione guadagni a zero ore; • astensione obbligatoria e facoltativa per gravidanza non indennizzata; • assenza per infortunio sul lavoro; • assenza per malattia certificata ma non indennizzata; • lavoro all’estero in paesi non convenzionati; • assenza per permesso e congedo per i figli con handicap grave. Il periodo massimo indennizzabi-
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le per i trattamenti di disoccupazione ordinaria con requisiti normali è di 8 mesi per i soggetti con età anagrafica inferiore a 50 anni e di 12 mesi per i soggetti con età anagrafica pari o superiore a 50 anni (requisiti di età che vanno verificati alla data di inizio della disoccupazione indennizzabile). Ai lavoratori sospesi, invece, l’indennità spetta nel limite massimo di 65 giorni. La misura dell’indennità è fissata al 60% della retribuzione media lorda per i primi 6 mesi; al 50% per i 2 mesi seguenti e al 40% per i restanti mesi. Ai lavoratori sospesi è pagata nella misura del 50% della retribuzione. L’indennità viene corrisposta per 30 giorni al mese (indipendentemente dal fatto che il mese sia di 30 o 31 giorni), ad eccezione del mese di febbraio, per il quale viene corrisposta per l’esatto numero di giorni (28 o 29). A coloro che, anche per un solo giorno, percepiscono l’indennità di disoccupazione nel periodo compreso tra il 18 e il 24 dicembre, è corrisposto inoltre, in aggiunta all’indennità normalmente spettante, un assegno
Il disoccupato che percepisce l’indennità ha diritto, su domanda, anche all’assegno per il nucleo familiare
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L’indennità di disoccupazione con i requisiti ridotti spetta a chi ha lavorato per un periodo limitato di tempo speciale commisurato a 6 giorni di indennità (è la cosiddetta gratifica natalizia). Il disoccupato che percepisce l’indennità ha diritto, dietro domanda, anche all’assegno per il nucleo familiare. L’importo da corrispondere a titolo d’indennità di disoccupazione è soggetto a un limite mensile che varia anno dopo anno, in quanto rivalutato in base alle variazioni dell’indice dei prezzi al consumo accertate dall’Istat (cfr Tabella 6). L’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti Al pari di quella con i requisiti normali, anche l’indennità di disoccupazione con i requisiti ridotti è una
prestazione a sostegno del reddito dei lavoratori. In tal caso, si rivolge specificamente a quei lavoratori che, avendo svolto lavori brevi e discontinui (ad esempio, le supplenze del personale precario della scuola), non riescono a raggiungere il requisito di contribuzione minimo richiesto per ottenere l’indennità di disoccupazione con i requisiti normali (i 52 contributi settimanali). Con la disoccupazione con i requisiti ridotti, che va richiesta una volta all’anno, i lavoratori hanno la possibilità di ottenere l’indennità per i periodi di non occupazione che si sono verificati nell’anno solare precedente la domanda. Il Pacchetto anticrisi del Governo ha introdotto alcune modifiche. Rispetto alla previgente disciplina, adesso l’indennità: • riguarda anche i lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali; • ha una durata massima che non può superare 90 giornate di indennità nell’anno solare; • non è sottoposta a specifiche limitazioni di spesa.
Tabella 4 - I limiti alla disoccupazione ordinaria (1) Retribuzione mensile
Importo massimo mensile dell’indennità
Fino a euro 1.917,48
euro 886,31
Oltre euro 1.917,48
euro 1.065,26
(1) Con requisiti normali
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L’indennità di disoccupazione con i requisiti ridotti spetta a coloro che, nell’anno solare di riferimento, hanno prestato attività di lavoro dipendente (utile per il diritto alla prestazione) per un periodo limitato di tempo. Se hanno avuto un unico rapporto di lavoro terminato con le dimissioni, non avranno diritto a nessuna indennità di disoccupazione. Nel caso di più rapporti di lavoro successivi, il periodo non indennizzabile è quello compreso fra le dimissioni e l’inizio del nuovo rapporto di lavoro. È, invece, indennizzabile il periodo successivo al rapporto di lavoro terminato per motivi diversi dalle dimissioni, fino all’inizio di un nuovo rapporto lavorativo. Tutti i periodi lavorati, comunque, sono da ritenere utili sia ai fini del diritto sia della durata e della misura della prestazione da liquidare. Per avere diritto al pagamento della disoccupazione ordinaria con i requisiti ridotti bisogna: • avere almeno 2 anni di anzianità assicurativa contro la disoccupazione involontaria; il biennio si calcola a ritroso a partire dal 31 dicembre dell’anno per il quale viene richiesta la prestazione; • avere svolto lavoro dipendente per almeno 78 giorni di calendario nel periodo di riferimento. Per verificare il requisito delle 78 giornate vanno considerate non solo le giornate effettivamente lavorate ma anche quelle comunque inter-
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ne ad un rapporto di lavoro e per le quali sussista l’obbligo di contribuzione. Nel calcolo dei giorni sono incluse anche le giornate indennizzate a titolo di malattia, maternità ecc.; sono, invece, escluse le assenze a titolo personale (scioperi, congedi non retribuiti ecc.). Con riferimento ai lavoratori parasubordinati, la loro eventuale iscrizione alla Gestione separata Inps non preclude il diritto all’indennità di disoccupazione; tuttavia, le giornate svolte come parasubordinato, anche coincidenti con un’attività di lavoro dipendente, non sono utili né per il diritto, né per la durata e nemmeno per la misura della prestazione. In particolare, non si ha diritto alla prestazione: • se si è iscritti come liberi professionisti, dalla data di iscrizione al relativo albo fino alla data di cancellazione; • se si è iscritti come collaboratori coordinati e continuativi o come lavoratori a progetto, per i periodi di attività che dovranno essere dichia-
Gli artigiani hanno diritto all’indennità per le giornate di sospensione dell’attivià lavorativa dell’azienda
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La disoccupazione agli apprendisti scatta in caso di sospensione per crisi aziendali, occupazionali o di licenziamento rati con autocertificazione o con attestazione del committente da cui risulti la durata del contratto. Quindi, il lavoratore che, nell’anno solare di riferimento, ha prestato la sua attività esclusivamente come parasubordinato (con obbligo di iscrizione alla Gestione separata), non ha diritto alla prestazione. Con riferimento ai lavoratori autonomi, gli artigiani hanno diritto all’indennità per le giornate di sospensione dell’attività lavorativa dell’azienda, purché lo status di disoccupato sia accertabile tramite: • la documentazione da cui risulti la comunicazione da parte dell’azienda all’ufficio provinciale del lavoro e all’Inps dei periodi di inattività; • la dichiarazione rilasciata dall’ente bilaterale artigianato che ha provveduto ad erogare le integrazioni economiche per il periodo durante il quale è previsto l’indennizzo; tali integrazioni sono cumulabili e compatibili con l’indennità di disoccupazione.
Le misure nel Pacchetto anticrisi Oltre a quanto già anticipato, con il Pacchetto anticrisi il Governo ha introdotto una serie di novità in materia di ammortizzatori sociali, operando sia con la previsione di ulteriori strumenti a tutela del reddito in caso di disoccupazione o di sospensione dal lavoro e sia mediante la riproposizione di misure già in atto. La disoccupazione agli apprendisti Il nuovo trattamento è previsto in via sperimentale per il triennio 2009-2011 e subordinatamente a un intervento integrativo pari almeno alla misura del 20% a carico degli enti bilaterali previsti dalla contrattazione collettiva. L’erogazione scatta in caso di sospensione per crisi aziendali o occupazionali ovvero in caso di licenziamento, ed è pari all’indennità ordinaria di disoccupazione con requisiti normali per i lavoratori assunti con la qualifica di apprendista alla data del 29 novembre 2008 e con almeno tre mesi di servizio presso l’azienda interessata da trattamento, per una durata massima di 90 giornate nell’intero periodo di vigenza del contratto di apprendistato. È prevista una specifica procedura al fine della fruizione del nuovo trattamento. In particolare, è previsto l’obbligo di comunicazione, da parte del datore di lavoro – con apposita dichiarazione da inviare ai Centri per l’impiego e alla sede del-
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l’Inps – della sospensione della attività lavorativa nonché delle relative motivazioni e dei nominativi dei lavoratori interessati. I lavoratori, a loro volta, hanno l’obbligo di comunicare al locale Centro per l’impiego, tramite specifica dichiarazione, l’immediata disponibilità al lavoro o a un percorso di riqualificazione professionale. Il Centro per l’impiego, a sua volta, ha l’obbligo di comunicare tempestivamente, e comunque non oltre 5 giorni, a determinati soggetti autorizzati o accreditati (si tratta delle Agenzie per il lavoro le quali svolgono attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, nonché supporto alla ricollocazione professionale – ne parliamo nel prossimo capitolo), i nominativi dei lavoratori disponibili al lavoro o a un percorso formativo finalizzato alla ricollocazione nel mercato del lavoro ai sensi della normativa vigente. La tredicesima ai lavoratori a progetto Sempre in via sperimentale per il triennio 2009-2011 il Pacchetto anticrisi ha previsto il riconoscimento di una somma da liquidarsi in unica soluzione e pari al 10% del reddito percepito l’anno precedente (la prestazione salirà al 20%), ai collaboratori coordinati e continuativi, iscritti in via esclusiva (cioè non iscritti a un’altra forma di previdenza obbligatoria, o che non siano già titolari
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di una pensione) alla gestione separata presso l’Inps, con esclusione dei soggetti i soggetti titolari di redditi di lavoro autonomo. Il beneficio può essere concesso nei soli casi di fine lavoro e a condizione che il soggetto sottoscriva un apposito patto di servizio presso i competenti Centri per l’impiego. Per fruire dell’una tantum i richiamati soggetti devono soddisfare, congiuntamente, le seguenti condizioni: • operare in regime di monocommittenza; • conseguimento, nell’anno precedente al periodo di riferimento, di un reddito superiore a 5.000 euro e pari o inferiore al minimale di reddito contributivo fissato per gli artigiani e commercianti (pari a circa 13.280 euro nel 2008), nonché accreditamento presso la predetta Gestione separata di un numero di mensilità non inferiore a tre; • accreditamento, nell’anno di riferimento, presso la stessa Gestione separata, di un numero di mensilità non inferiore a tre; • non risultino accreditati nell’an-
Somma da liquidarsi in un’unica soluzione pari al 10% del reddito percepito l’anno precedente
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no precedente almeno 2 mesi presso la richiamata Gestione separata. Concessione di ammortizzatori sociali in deroga Il Pacchetto anticrisi prevede la proroga dei trattamenti di integrazione salariale straordinaria, di mobilità e di disoccupazione speciale cosiddetta in deroga, cioè anche se non previsto dalla disciplina ordinaria. La proroga viene disposta per la concessione di trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria, di mobilità e di disoccupazione speciale, nonché dei programmi finalizzati alla gestione di crisi occupazionali, anche con riferimento a settori produttivi e ad aree regionali, definiti in specifiche intese stipulate in sede istituzionale territoriale entro il 20 maggio 2009 e recepite in accordi in sede governativa entro il 15 giugno 2009. La proroga deve essere disposta con decreto del Ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, di concerto con quello dell’Economia e delle Finanze, a condi-
zione che i piani di gestione delle eccedenze abbiano determinato una riduzione, in misura pari ad almeno il 10%, del numero dei destinatari dei trattamenti scaduti alla data del 31 dicembre 2008. L’importo dei trattamenti corrisposti in base a tali provvedimenti ministeriali di proroga è ridotto nella misura del 10% nel caso di prima proroga, del 30% nell’ipotesi di seconda proroga e del 40% nel caso di ulteriori proroghe. In quest’ultima ipotesi di proroga successiva alla seconda, i trattamenti possono essere erogati esclusivamente nel caso di frequenza di specifici programmi di reimpiego, anche miranti alla riqualificazione professionale, organizzati dalla regione. Estensione della mobilità Altra novità è la previsione, a favore dei lavoratori non destinatari dei trattamenti di mobilità, dell’erogazione di un trattamento di ammontare equivalente all’indennità di mobilità, in caso di licenziamento. La fruizione dell’indennità assicura, inoltre, anche la copertura figurativa dei relativi periodi di percezione. Ammortizzatori sociali al terziario Il Pacchetto anticrisi, ancora, fino al 31 dicembre 2009, ammette che siano concessi trattamenti di integrazione salariale straordinaria e di mobilità ai dipendenti delle imprese esercenti attività commerciali con
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più di 50 dipendenti, delle agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici, con più di 50 dipendenti e delle imprese di vigilanza con più di 15 dipendenti. Ammortizzatori sociali ai portuali Viene prorogata, inoltre, una misura introdotta con il Protocollo Welfare del 2007 per l’anno 2008, a favore dei lavoratori portuali. Si tratta, propriamente, della concessione per l’anno 2009 di un’indennità, pari a un ventiseiesimo del trattamento massimo mensile d’integrazione salariale straordinaria (che per il 2009 è di euro 886,31 per i lavoratori percettori di una retribuzione fino a euro 1.917,48 ovvero di euro 1.065,26 per quelli che percepiscono una retribuzione maggiore), nonché la relativa contribuzione figurativa e gli assegni per il nucleo familiare: • per ogni giornata di mancato avviamento al lavoro; • per le giornate di mancato avviamento al lavoro che coincidano, in base al programma, con le giornate definite festive, durante le quali il lavoratore sia risultato disponibile. L’indennità spetta quindi per un numero di giornate di mancato avviamento al lavoro pari alla differenza tra il numero massimo di 26 giornate mensili erogabili e il numero delle giornate effettivamente lavorate in ogni mese, incrementato dal
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numero delle giornate di ferie, malattia, infortunio, permesso e indisponibilità. L’erogazione è riconosciuta alle seguenti categorie di lavoratori: • addetti alle prestazioni di lavoro temporaneo occupati con contratto di lavoro a tempo indeterminato nelle imprese e agenzie portuali (il riferimento è all’articolo 17 della legge n. 84 del 28 gennaio 1994). L’articolo 17 disciplina la fornitura del lavoro portuale temporaneo. In particolare, stabilisce che le autorità portuali o, laddove non istituite, le autorità marittime, debbano autorizzare l’erogazione delle prestazioni di lavoro temporaneo da parte di una impresa, che deve essere dotata di adeguato personale e risorse proprie con specifica caratterizzazione di professionalità nell’esecuzione delle operazioni portuali. L’attività della richiamata impresa deve essere esclusivamente rivolta alla fornitura di lavoro temporaneo per l’esecuzione delle operazioni e dei servizi portuali, da individuare secondo una procedura
Il Protocollo Welfare del 2007 prevede la proroga degli ammortizzatori sociali per i portuali
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Possono iscriversi nelle liste di mobilità i lavoratori delle imprese con meno di 15 dipendenti licenziati per giusto motivo
ta, nell’ambito della trasformazione in società delle compagnie e gruppi portuali, dell’obbligo, appunto, di trasformazione, da parte di questi ultimi, in una società o una cooperativa secondo i tipi previsti dal codice civile, per la fornitura di servizi, nonché, fino al 31 dicembre 1996, di mere prestazioni di lavoro.
accessibile ad imprese italiane e comunitarie. Inoltre, la disposizione prevede che, nel caso in cui ciò non si realizzi (relativamente all’istituzione e all’autorizzazione all’esercizio della richiamata impresa), le prestazioni di lavoro portuale temporaneo vengano erogate da agenzie promosse dalle autorità portuali o, laddove non istituite, dalle autorità marittime e soggette al controllo delle stesse e la cui gestione è affidata ad un organo direttivo composto da rappresentanti delle imprese operanti in operazioni portuali (carico, scarico, trasbordo, deposito, movimento in genere delle merci e di ogni altro materiale, svolti nell’ambito portuale), in fornitura di lavoro portuale temporaneo e nella gestione di opere attinenti alle attività marittime e portuali. • lavoratori delle società derivate dalla trasformazione delle compagnie portuali (il riferimento stavolta è all’articolo 21 della medesima legge n. 84 del 1994). Si trat-
L’iscrizione nelle liste di mobilità Il Pacchetto anticrisi proroga al 31 dicembre 2009 la possibilità di iscrizione nelle liste di mobilità da parte dei lavoratori delle imprese con meno di 15 dipendenti licenziati per giustificato motivo oggettivo, connesso a riduzione, trasformazione o cessazione di attività o di lavoro. La possibilità d’iscrizione è riconosciuta ai soli fini dei benefici contributivi conseguenti all’eventuale rioccupazione (benefici rivolti soprattutto alle imprese: come tale, dunque, l’iscrizione si trasforma in una sorta di incentivo all’occupazione di questi lavoratori), con esclusione del diritto all’indennità di mobilità. In particolare, questi sono gli incentivi per l’assunzione dei lavoratori iscritti nelle liste di mobilità: • in caso di stipulazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, al datore di lavoro è riconosciuto il beneficio della riduzione della relativa contribuzione (a suo carico) che, per i primi 18 mesi della nuova occupazione (e per
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la nuova occupazione) viene equiparata a quella dovuta per gli apprendisti dipendenti da aziende non artigiane; • lo stesso beneficio è riconosciuto, sempre al datore di lavoro, anche in caso di stipulazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato per una durata non superiore a 12 mesi, per l’intero periodo di occupazione nonché, eventualmente, per ulteriori 12 mesi qualora il contratto venga trasformato a tempo indeterminato. I contratti di solidarietà difensivi Prorogato al 31 dicembre 2009 il termine entro il quale le imprese possono stipulare «contratti di solidarietà», pur non rientrando nell’ambito ordinario di applicazione della disciplina. In particolare, si tratta dei contratti di solidarietà cosiddetti «difensivi», che si sostanziano in accordi tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali volti a ridurre l’orario di lavoro da praticare in azienda, allo scopo di evitare, o quantomeno limitare, i licenziamenti mediante un utilizzo più razionale della forza lavoro. I contratti di solidarietà hanno una durata compresa tra i 12 e i 24 mesi, con possibilità di proroga per ulteriori 24 mesi (36 per le regioni del Mezzogiorno), beneficiando di determinate agevolazioni. Per le imprese industriali appartenenti nel campo di applicazione
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della cassa integrazione guadagni straordinaria, i contratti di solidarietà possono nascere anche su accordi collettivi aziendali e prevedere, in relazione alla riduzione dell’orario di lavoro, della quale sia stata accertata la finalizzazione all’evitare dichiarazioni di esubero di personale da parte dell’Ufficio regionale del lavoro, la concessione del trattamento d’integrazione salariale il cui ammontare è determinato nella misura del 60% del trattamento retributivo perso a seguito della riduzione d’orario. La disciplina dei contratti di solidarietà, inoltre, riguarda le imprese artigiane non rientranti nel campo di applicazione della Cigs, anche con meno di 16 dipendenti, e le imprese che non ricadono nel campo di applicazione della cassa integrazione guadagni straordinaria. Per queste ultime imprese, in particolare, la nuova disciplina transitoria prevede uno specifico beneficio, nel caso in cui esse stipulino i contratti di solidarietà, che evitino o riducano le eccedenze di personale, nel corso della procedura di mobilità. In tal caso, viene riconosciuto, per un periodo massimo di 2 anni, un contri-
I contratti di solidarietà difensivi sono accordi tra le parti volti a ridurre l’orario di lavoro
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Con la cessazione definitiva dell’attività commerciale viene erogato un indennizzo pari al minimo pensionistico buto pari al 50% del monte retributivo non erogato a seguito della riduzione di orario. La misura, erogata in rate trimestrali, è ripartita in parti uguali tra impresa e lavoratori interessati alla riduzione dell’orario di lavoro. Per i lavoratori, inoltre, il contributo non ha natura di retribuzione ai fini degli istituti contrattuali e di legge; tuttavia, ai fini della liquidazione del trattamento pensionistico, si tiene conto dell’intera retribuzione di riferimento. La nuova disciplina transitoria, ancora, prevede che il predetto contributo economico possa essere concesso anche alle imprese artigiane non rientranti nel campo di applicazione del trattamento Cigs, anche ove occupino meno di 16 dipendenti. Tale estensione è disposta a condizione che i lavoratori interessati dal contratto di solidarietà percepiscano una prestazione «di entità non inferiore alla metà della quota del contributo pubblico destinata ai lavoratori», con oneri a carico dei fondi bilaterali istituiti dalla contrattazione collettiva.
La rottamazione negozi Il Pacchetto anticrisi ha ripristinato, per il periodo dal 1° gennaio 2009 al 31 dicembre 2011, una vecchia misura a favore delle aziende commerciali, nota come «rottamazione negozi». Si tratta, in particolare, dell’erogazione di un indennizzo, pari al trattamento pensionistico minimo, a fronte della cessazione definitiva dell’attività commerciale a favore degli esercenti il commercio al minuto e loro coadiutori che avessero superato determinati limiti di età. Le attività commerciali di riferimento sono: • attività commerciali al minuto in sede fissa, anche abbinata ad attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande; • attività commerciali su aree pubbliche. Le condizioni e i requisiti per il godimento dell’indennizzo prevedono: • età maggiore a 62 anni, se uomini, ovvero 57, se donne; • iscrizione, al momento della cessazione dell’attività, per almeno 5 anni nella Gestione pensionistica Inps relativa ai soggetti esercenti attività commerciali; • cessazione definitiva dell’attività; • riconsegna dell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività commerciale e di quella eventuale per l’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande;
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• cancellazione del soggetto titolare dell’attività dal registro degli esercenti il commercio e dal registro delle imprese presso la camera di commercio. La fruizione dell’indennizzo è incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività di lavoro autonomo o subordinato; a tal fine i commercianti interessati possono presentare la relativa domanda all’Inps entro il 31 gennaio 2012. L’importo dell’indennizzo, come accennato, è pari al trattamento minimo di pensione per gli iscritti alla Gestione Inps relativa ai soggetti esercenti attività commerciali (il quale è eguale a quello previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti). Il trattamento minimo, nel 2009, è pari a euro 458,20 e rappresenta un’integrazione che lo Stato, tramite l’Inps, corrisponde al pensionato quando la pensione, che deriva dal calcolo dei contributi, è di importo inferiore a quello che viene considerato il “minimo vitale”. In tal caso cioè l’importo della pensione viene aumentato (integrato) fino a raggiungere la cifra stabilita, di anno in
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anno, dalla legge. Tuttavia, l’integrazione è riconosciuta a condizione che il pensionato e l’eventuale coniuge abbiano redditi non superiori ai limiti stabiliti ogni anno dalla legge. L’indennizzo spetta dal primo giorno del mese successivo a quello di presentazione della domanda fino a tutto il mese in cui il beneficiario compie il 65° anno di età, se uomo, ovvero il 60° anno, se donna. Il periodo di godimento dell’indennizzo è utile ai soli fini del conseguimento del diritto a pensione. Più precisamente, l’erogazione dell’indennizzo perdura fino al momento della decorrenza della pensione di vecchiaia: la precisazione è importante e necessaria per scongiurare che, con l’introduzione delle «finestre» anche per la pensione di vecchiaia, gli interessati si trovino, in alcuni casi, privi sia della pensione che dell’erogazione dell’indennizzo. Queste «finestre», già operative da anni per il pensionamento di anzianità, dallo scorso anno sono state previste anche per le pensioni di vecchiaia. Consistono in una particolare disciplina della decorrenza dei trattamenti pensionistici.
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Lombardia e Calabria 2013: la valutazione dell’efficienza dei servizi Al Nord Milano, 30 novembre 2013, ore 10 – Nel grande auditorium della Regione il portavoce del Nucleo regionale di valutazione ha appena terminato la presentazione della bozza di rapporto annuale sull’andamento dei servizi al mercato del lavoro in Lombardia. Nella platea, attentissima fino a quel momento, corre un brusio: si mescolano voci di consenso con altre di perplessità o addirittura disappunto. Sono le reazioni dei dirigenti dell’assessorato regionale al mercato del lavoro, alcuni dei quali siedono sui carboni accesi, perché dai dati appena forniti può dipendere la conferma o no del loro incarico. Ma anche dei rappresentanti dei gesto-
Il “portale della trasparenza” in Lombardia è in funzione da tre anni, ma gli addetti ai lavori non sono abituati a utilizzarlo
ri privati dei servizi accreditati: per ciascuno di essi, dalla valutazione che verrà varata ufficialmente alla fine dipende l’entità del finanziamento regionale nel prossimo anno, secondo la legge regionale n. 22/2006. Ci sono anche numerosi sindacalisti, giornalisti specializzati, ricercatori universitari. I dati di questo annual report in progress erano, in realtà, già disponibili on line da due settimane attraverso il “portale della trasparenza” della Regione. È in funzione ormai da tre anni, ma gli addetti ai lavori non si sono ancora abituati a utilizzarlo. Così, i giornali riporteranno solo domani gli indici di andamento gestionale che sono stati da poco proiettati sullo schermo. E soprattutto le tabelle comparative: quella con i dati omologhi delle venti regioni italiane e quella con i dati dei principali Paesi europei. Complessivamente, non è andata così male come qualcuno temeva: la Lombardia si conferma al terzo posto tra le Regioni italiane – dietro a Trentino-Alto Adige e Toscana – in base all’indice di coerenza
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tra formazione professionale finanziata con fondi pubblici e sbocchi occupazionali effettivi di chi ne ha fruito. Secondo i dati comparativi forniti dal Nucleo di valutazione la Lombardia scende, invece, al quinto posto in graduatoria, dal quarto del 2012, per l’efficacia dei servizi di mediazione tra domanda e offerta con finanziamento pubblico; il che non sarebbe un dramma, se non fosse che su questo dato gli addetti agli uffici di collocamento e i loro dirigenti si giocano un premio che sarebbe potuto arrivare, rispettivamente, al sette e al trenta per cento dello stipendio. Il dato più negativo che si trae dalla bozza di rapporto annuale, però, è il distacco apparentemente incolmabile dei servizi lombardi da quelli degli altri Paesi europei e in particolare del Nord-Europa: nonostante i progressi in termini assoluti degli ultimi anni, la Regione ha perso ancora del terreno in questo confronto rispetto alla fascia alta. Ora, per esempio, il tasso complessivo di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, per la Lombardia, è salito al 56 per cento, dal 52 per cento registrato nel 2010; ma deve confrontarsi con un “lunare” tasso dell’81 per cento della Svezia, del 79 per cento della Danimarca e addirittura dell’83 per cento della Norvegia. “Quelli, però, corrono troppo; non possiamo continuare a con-
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frontarci con loro” protesta un sindacalista del settore pubblico, intervenendo nella discussione; “ormai non li ripigliamo più. D’altra parte, quelli sono Paesi molto più piccoli del nostro; e più ricchi; un vero confronto non si può fare”. Su questa uscita si apre uno strano dibattito, che vede contrapporsi al sindacalista della funzione pubblica un altro sindacalista, mai comparso prima, nelle tre edizioni precedenti di questa public review regionale sui servizi per l’impiego: rappresenta un sindacato nuovo, lo SGEC, Sindacato delle generazioni emergenti e dei cittadini. “Ma quali Paesi più piccoli!? – protesta vivacemente – La Svezia ha esattamente lo stesso numero di abitanti e lo stesso reddito medio pro capite della Lombardia; la Danimarca ha un milione di abitanti in più del Piemonte; per altro verso, da noi le Regioni hanno una competenza legislativa e amministrativa piena ed esclusiva in materia di servizi nel mercato del lavoro. Perché, dunque, i servizi di collocamento e di
Secondo i dati comparativi del Nucleo di valutazione, la Lombardia scende al 5° posto dal 4° posto del 2012
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È ancora troppo piccola la parte di management capace di usare fino in fondo le prerogative di cui dispone formazione della Lombardia non potrebbero garantirci lo stesso grado di efficienza dei servizi di quei Paesi?”. E i due segretari regionali confederali di Cgil e Cisl danno l’impressione di concordare più con lui che con il sindacalista della funzione pubblica. All’intervento dello SGEC fa eco il capogruppo dell’opposizione nella commissione consiliare per il lavoro e la formazione, Gianni Serrapico, che preannuncia per il prossimo anno una campagna elettorale centrata sulla fissazione ai dirigenti del settore dell’obiettivo di allineare entro tre anni gli indici di efficacia dei servizi di loro competenza a quelli scandinavi: “Se accettano questo obiettivo – dice il consigliere – meritano di essere confermati nell’incarico; se lo rifiutano, meritano di essere sostituiti con dirigenti capaci di applicare il know-how più avanzato. Se necessario li recluteremo tra i migliori dirigenti delle agenzie private. Oppure – perché no? – li importeremo dai Paesi stranieri più avanzati”.
Gli replica, irritato, un dirigente regionale del settore: “Come facciamo a migliorare la performance se non abbiamo i poteri? Qui non si può spostare una sedia senza il permesso del sindacato, non si possono sostituire gli incapaci, non si possono incentivare incisivamente quelli che si impegnano di più. Abbiamo introdotto l’incentivo collettivo, ma quando scatta lo prendono tutti quanti, anche quelli che hanno contribuito di meno…” “Le cose non stanno così” lo interrompe l’assessore regionale che presiede la public review “e non potete fingere di non saperlo: la legge dello scorso anno facilita i trasferimenti d’ufficio e attribuisce ai responsabili di ogni comparto e servizio un budget per la distribuzione degli incentivi anche ad personam, incrementabile con la collocazione in mobilità del personale eccedentario rispetto agli organici; e le procedure disciplinari sono state molto semplificate fin dal 2009. Il fatto è che è ancora troppo piccola la parte del management regionale capace di usare fino in fondo le prerogative di cui dispone. Ormai invece tutti i dirigenti devono imparare a farlo, e a farlo efficacemente, perché l’efficienza e la produttività di ogni comparto dell’amministrazione ora è costantemente sotto gli occhi di tutti. Ora la gente vede, confronta, se i risultati fissati non vengono raggiunti, ne chiede con-
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to a noi politici. Ci chiedono: ‘perché avete scelto dei dirigenti incapaci? Se si sono impegnati a raggiungere questo o quell’obiettivo e poi non lo hanno raggiunto, perché non li sostituite con altri migliori? E se invece non si sono impegnati a raggiungerlo, perché li avete assunti?’ Neppure noi politici possiamo continuare a sfogliar margherite: se non siamo noi a mandar via i dirigenti incapaci, saremo noi a essere mandati via. Da quando l’efficienza dei servizi viene misurata e confrontata, non ci sono più opzioni ideologiche che tengano: la maggior parte della gente vota per chi sa garantire le performance migliori, sulla base delle tabelle pubblicate on line dalla rete degli osservatori indipendenti”. Già che ha preso la parola, l’assessore prosegue spiegando in che modo verranno utilizzati i dati forniti dal valutatore indipendente per redistribuire i contributi regionali fra i centri di collocamento e di formazione accreditati, secondo la legge n. 22/2006. E passa quindi ad aprire la seconda parte della discussione: quella sugli obiettivi di miglioramento che dovranno essere fissati per il prossimo anno; sul punto dà di nuovo la parola al portavoce del Nucleo di valutazione, cui compete di formulare una proposta alla Giunta regionale. Questi propone alla discussione pubblica una serie di obiettivi di migliora-
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mento ulteriore di tutti gli indici nell’ordine dei due punti nell’arco del prossimo anno, tranne che per i servizi di orientamento professionale, il cui tasso di capillarizzazione è cresciuto più del previsto nell’ultimo periodo e per il quale sembra realistico proporsi un aumento ulteriore della stessa entità: entro l’anno prossimo la percentuale di giovani in uscita dalla scuola media inferiore o dalla media superiore cui sarà offerto il nuovo servizio di guidance, nel rispetto dello standard di qualità definito due anni or sono, dovrà salire al 90 per cento, per raggiungere il 100 per cento entro il 2015. A questo punto chiede la parola il rappresentante di un’associazione di portatori di handicap: lamenta lo spazio troppo esiguo dedicato dal Nucleo di valutazione all’andamento dei servizi specificamente dedicati a queste persone; e integra l’annual report con i dati raccolti ed elaborati autonomamente dall’associazione. Rileva che il numero complessivo degli inserimenti al lavoro nell’ultimo anno è aumentato, ma osserva che, se lo
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Il portavoce del Nucleo chiede di integrare il set di obiettivi da proporre alla Giunta con riferimenti all’incremento del tasso di occupazione femminile
si disaggrega in base alla gravità della menomazione, il dato relativo all’handicap grave è invece leggermente peggiorato. Propone dunque di lanciare un programma regionale speciale per l’inserimento nel tessuto produttivo dei portatori di handicap grave, di cui traccia le linee essenziali e propone anche il nome: “Neutralizzare l’handicap”. E chiede che al dirigente cui verrà affidato il programma venga fissato un obiettivo particolarmente impegnativo: “Su questo terreno non siamo più all’anno zero; ma abbiamo ancora un gap enorme da superare rispetto ai Paesi più avanzati. Dobbiamo imparare a importare da loro i metodi migliori, che in quei Paesi sono stati affinati in decenni di sperimentazioni, mentre noi restavamo fermi”. Conclude chiedendo che nel “portale regionale della trasparenza” venga inserito il link a una pagina web curata dall’associazione, nella quale si dà conto mese per
mese degli indici di andamento dei servizi lombardi per l’avviamento al lavoro dei portatori di handicap, posti a confronto con quelli delle altre regioni e degli altri principali Paesi europei. È quindi la volta della rappresentante dell’associazione femminista “Pari o dispari”, che osserva come il tasso di occupazione femminile in Lombardia sia rimasto al di sotto di quello svedese del 7 per cento; chiede pertanto all’assessore che cosa la Giunta si proponga di fare per superare questo gap. L’assessore obietta che il tasso regionale di occupazione femminile resta pur sempre il più alto sul piano nazionale. La rappresentante di “Pari o dispari” si dichiara insoddisfatta della risposta. Interviene di nuovo il consigliere d’opposizione Serrapico, sostenendo che il superamento di quel gap non sarebbe affatto impossibile, se la Regione si impegnasse di più sul terreno specifico dei servizi alla famiglia e alle donne che lavorano e della riqualificazione professionale e assistenza intensiva per la rioccupazione di quelle che intendono rientrare nel mercato del lavoro dopo un periodo di maternità. Il portavoce del Nucleo trae occasione da questo scambio per integrare il set di obiettivi da proporre alla Giunta per il nuovo anno con un obiettivo riferito allo sviluppo di questi servizi mirati al-
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l’incremento del tasso di occupazione femminile. La public review lombarda si chiude con una breve sessione di carattere marcatamente tecnico, introdotta dalla relazione del dottor Mitchel, il membro dell’Agenzia centrale per la trasparenza e la valutazione nelle amministrazioni pubbliche che fino al 2010 ha lavorato per la Health Care Audit Commission britannica. Il quale illustra le correzioni che dal prossimo anno dovranno essere apportate al metodo di rilevazione degli indicatori di performance nei settori del collocamento e della formazione, come è già avvenuto in alcuni altri Paesi stranieri per evitare distorsioni nel comportamento delle agenzie fornitrici dei servizi. Spiega poi il modo in cui l’Agenzia centrale segue e coordina l’operato degli organi indipendenti periferici di valutazione; nell’ultimo anno, in due casi essa ha dovuto chiedere lo scioglimento per grave difetto di indipendenza rispetto al vertice politico o al management del comparto sottoposto al loro controllo. Al Sud Catanzaro, 2 dicembre 2013, ore 10 – Nella sala dell’Auditorium Casalinuovo la public review sui servizi calabresi di formazione e collocamento si apre in un clima di grande tensione: pochi giorni or sono il
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Presidente del Consiglio regionale si è dimesso dopo che la Corte di Giustizia europea ha condannato la Regione a restituire la non piccola somma di 6 milioni di euro. Si tratta dei contributi che erano stati erogati dal Fondo Sociale Europeo tra il 2009 e il 2011, a fronte di un esborso di pari entità disposto dal Consiglio regionale nel novembre 2007, per l’attivazione presso le amministrazioni pubbliche della stessa Regione di 250 “stage di alta formazione”, riservati a laureati con il massimo dei voti, attivati nel corso del 2008. Indennità di formazione: 1000 euro al mese. Durata degli stage: 24 mesi. Tema dell’iniziativa: l’innovazione amministrativa. Motivo della decisione della Corte di Lussemburgo: assenza pressoché totale di contenuto formativo effettivo degli stage in questione. Altri 250 stage dello stesso tipo e con lo stesso finanziamento, attivati nella seconda metà del 2009, sono ancora sotto esame. In attesa che venga svolta la relazione del presidente del Nucleo regionale indipendente di valuta-
Tensione all’Auditorium Casalinuovo di Catanzaro dove si apre la public review sui servizi di formazione
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La Verheek affronta subito il tema dei “super-stage per l’innovazione amministrativa” messi sotto accusa dall’Unione Europea zione, il pubblico in sala discute l’accaduto accalorandosi. “Lo sai perché tutto questo è potuto accadere? – dice il professor Sgarlato, medico dell’ateneo catanzarese, a un funzionario della Presidenza del Consiglio regionale – Perché fino all’anno scorso l’organo regionale di valutazione delle politiche del lavoro e della formazione dipendeva ancora dalla Presidenza: figurati se avrebbe potuto permettersi di squalificare l’iniziativa dei 500 super-stage di 24 mesi a 1000 euro al mese!” “Ma destra e sinistra in Consiglio regionale sono corresponsabili dell’abuso del finanziamento comunitario per i super-stage, replica il funzionario: se fosse solo una questione di metodo di designazione dei membri dell’organo di valutazione non si salverebbe neppure il Nucleo attuale, che è stato istituito con una delibera bi-partisan. Però questa volta il Consiglio ha fatto una scelta coraggiosa, scegliendo due giovani analisti-valutatori stranieri e un marchigiano che ha lavorato in Svezia per dieci
anni: credo che abbiano fatto un buon lavoro e che davvero non guardino in faccia nessuno. Sentiamo che cosa vengono a dirci”. La dottoressa Verheek, presidente del nuovo Nucleo di valutazione esordisce col suo forte accento olandese e il suo sguardo tagliente, affrontando subito il tema del giorno: i “super-stage finalizzati all’innovazione amministrativa” messi sotto accusa dall’Unione Europea. Dei 227 laureati eccellenti che hanno portato a termine nel 2010 il “super-stage” attivato nel 2008, risulta che, a due anni di distanza, nel 2011, avevano trovato un’occupazione di durata superiore a quattro mesi soltanto 103, cioè il 45,3 per cento; che scendeva al 41,2 rispetto ai 250 laureati interessati al programma fin dall’inizio e usciti prematuramente. A tre anni di distanza il dato aumenta a 155, pari rispettivamente al 68,2 e al 62 per cento. Ma il dato più clamoroso è costituito dal numero di quelli che, a tre anni di distanza, risultano avere trovato una occupazione coerente con l’oggetto dello “stage” biennale, ovvero in una amministrazione pubblica o parapubblica: soltanto 17, pari al 7,5 per cento. Mentre un terzo degli interessati risulta ancora disoccupato. Questo significa – conclude la presidente del Nucleo – che non soltanto i 6 milioni di euro investiti dal Fondo Sociale Europeo in
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questa iniziativa, ma anche i 6 milioni investiti dalla Regione sono stati spesi quasi interamente a vuoto, sono serviti tutt’al più per trattenere in Calabria qualcuno che altrimenti sarebbe migrato altrove, ma senza creare le condizioni per una successiva occupazione migliore; “e, per essere del tutto franchi – aggiunge la dottoressa Verheek – ci avrebbe stupito il contrario: era infatti agevolmente prevedibile fin dall’inizio che da quei 24 mesi spesi presso amministrazioni pubbliche calabresi i giovani interessati avrebbero potuto trarre soltanto i 1000 euro mensili di indennità, ma non certo una formazione nel campo dell’innovazione amministrativa. Se fosse stato davvero questo lo scopo dell’iniziativa essi avrebbero dovuto essere inviati, con una spesa uguale o persino minore, per sei mesi presso amministrazioni d’avanguardia straniere, o in qualche ufficio del Trentino, o dell’Emilia-Romagna, dove l’innovazione si sperimenta davvero”. Dalla sala si alza la voce di un giovane “super-stagista”: “Chi paga per questo spreco? E chi ci dà un lavoro, dopo quattro anni di attesa? Ci avete ingannato con quei 1000 euro al mese per due anni: era una trappola. A pagare, ora, non sono i politici, ma siamo noi”. La presidente del Nucleo di valutazione dagli occhi di ghiaccio, impassibile, risponde: “Voi avete ragione
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a protestare. Ma non dovete prendervela con noi: noi abbiamo soltanto il compito di misurare e valutare i risultati, senza reticenze e senza compiacenze verso nessuno”. La relazione prosegue con l’esposizione e la discussione dei dati relativi al tasso di coerenza tra formazione impartita in altri programmi finanziati con denaro pubblico e sbocchi occupazionali conseguiti: dati, certo, migliori rispetto al 7,5 per cento dei “super-stage”, ma pur sempre inaccettabilmente bassi: tutti sotto il 35 per cento. La sproporzione tra spesa pubblica e risultati conseguiti è messa in risalto dal confronto impietoso con i tassi di coerenza medi delle Regioni del Centro e del Nord-Italia e – più ancora – con i tassi di coerenza medi degli altri maggiori Paesi europei. Vengono quindi esaminati i dati relativi alle attività di collocamento e a quelle di orientamento professionale, i cui risultati utili sono ancora più bassi, rispetto alle medie delle Regioni del Centro-
Un giovane “super-stagista” chiede: Chi paga per questo spreco? Chi ci dà un lavoro dopo quattro anni di attesa?
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Un ricercatore francese: l’opinione corrente è che il mercato del lavoro in Calabria non esista
Nord, di quanto non siano quelli delle attività di formazione. “Abbiamo ovviamente curato – avverte la presidente del Nucleo – di tarare i risultati in relazione alle condizioni del mercato del lavoro calabrese, notoriamente assai peggiori rispetto alla media nazionale; ma ciononostante la valutazione dell’efficacia di questi servizi è drasticamente negativa. Al punto da far dubitare di una riformabilità delle strutture: qui occorre pensare piuttosto a una loro rifondazione radicale”. La relazione si chiude con una nota di ottimismo: “In una situazione così pesantemente negativa, i margini di miglioramento sono amplissimi. Una nuova dirigenza fortemente motivata non farà fatica a conseguire dei miglioramenti rilevanti degli indicatori di performance”. Dalla sala una voce chiede in tono sarcastico: “Vuole indicarci come fare?”. Ma la dottoressa Verheek torna al suo posto senza neppure degnare il contestatore di un’occhiata. Il primo intervento nella discus-
sione è di un ricercatore fresco reduce da un dottorato in Danimarca: “L’opinione corrente è che in Calabria il mercato del lavoro non esista, cioè che la domanda di lavoro sia a zero. Se fosse davvero così, allora logica vorrebbe che la Regione azzerasse anche le proprie iniziative in questo campo: non avrebbe senso attivare dei servizi al mercato del lavoro, se questo mercato non ci fosse. Anche il programma dei ‘super-stage’ oggi contestato dagli ispettori del Fondo Sociale Europeo, a ben vedere, nasceva dalla convinzione che la sola cosa possibile qui da noi fosse disporre misure sostanzialmente assistenziali per alleviare la disoccupazione. In Calabria, invece, oltre all’offerta c’è anche una domanda di lavoro: non quanta ne vorremmo, ma c’è e si misura in decine di migliaia di contratti ogni anno in ogni provincia. Per esempio nel settore turistico, nel commercio, nell’artigianato, nei servizi informatici alle imprese, nei servizi alla persona e alla famiglia. Dobbiamo farne una mappa e orientare tutti i servizi per l’impiego a questa domanda. Nel campo dei servizi informatici si può pensare anche all’intercettazione di domanda proveniente da altre Regioni, per mansioni suscettibili di essere svolte in forma di telelavoro. Se incominciamo a farlo, è realistico puntare, all’inizio, a un aumento del
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tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi del 5 per cento all’anno, poi anche del 10 per cento; e lo stesso discorso vale per l’aumento di efficacia dei servizi di orientamento professionale e di collocamento. Fissare obiettivi di questo genere ai nuovi dirigenti non è affatto velleitario, né tanto meno vessatorio nei loro confronti; a condizione, ovviamente, che si consenta loro di sostituire il personale inutilizzabile con personale utile allo scopo”. “E del personale inutilizzabile che cosa dovremmo fare, secondo te?” chiede dalla platea un sindacalista. “Collocarlo in mobilità, come è espressamente previsto dalla legge”, risponde il ricercatore. “Poi, via via che se ne presenta l’occasione, spostarlo negli uffici dove ce n’è bisogno. Ci sono uffici dove le pratiche hanno ritardi di anni; manca personale d’ordine negli ispettorati, negli istituti previdenziali, nelle cancellerie giudiziarie, negli uffici della Pubblica Sicurezza e della Guardia di Finanza, nelle Aziende sanitarie locali. Per esempio, se trasferissimo un po’ dei dipendenti dei vecchi uffici di collocamento agli ispettorati del lavoro, come assistenti degli ispettori, si potrebbe raddoppiare o triplicare l’efficienza di questi ultimi senza costi aggiuntivi per l’erario; e negli uffici di collocamento nessuno se ne accorgerebbe”.
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Interviene ora un altro sindacalista: “Se vogliamo aumentare la domanda di lavoro in Calabria dobbiamo imparare ad attirare qui investimenti, intercettandoli dovunque è possibile. Per questo, però, dobbiamo saper offrire a chi investe un habitat favorevole al decollo dell’impresa; e soprattutto sapergli proporre una scommessa comune sul successo dell’impresa. Dobbiamo mostrargli che siamo i primi a crederci; in molti casi il modo migliore per farlo è negoziare un differimento parziale della retribuzione a quando i frutti arriveranno”. Quest’ultima affermazione fa ribollire alcuni settori della platea. “Vatti a fidare dei padroni!” grida una voce dal pubblico; “Cambia mestiere!” grida un’altra. “Ti sbagli, tiene botta il sindacalista: il nostro mestiere consiste anche nel guidare i lavoratori nella valutazione attenta della qualità dell’imprenditore con il quale stanno trattando. Ma se la valutazione è positiva, compito del sindacato è di rappresentare e assistere i lavo-
Un sindacalista: dobbiamo imparare ad attirare investimenti qui in Calabria, offrire un habitat favorevole al decollo
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ratori nella scommessa comune con chi propone un buon piano industriale. Dobbiamo dirgli: ‘tu ci metti il capitale e il know-how, noi ci mettiamo il nostro lavoro. Per i primi due anni ti prestiamo noi una parte del capitale, accettando una dilazione del pagamento di un quarto delle nostre retribuzioni; poi, se il risultato sarà 100, incomincerai a pagarci la retribuzione intera; se sarà 120, come siamo convinti che sia possibile, ci restituirai quel quarto di retribuzione che ti avremo prestato fino a quel momento”. L’intervento provoca un dibattito acceso, in cui intervengono altri sindacalisti, rappresentanti delle imprese, esponenti politici. Le conclusioni della public review sono tratte dall’Assessore regionale alle politiche del lavoro e alla formazione professionale, che riprende il discorso sull’attrazione di investimenti nella Regione: “Per creare un habitat più interessante per le imprese dobbiamo migliorare non soltanto i servizi al mercato del lavoro, ma tutti i servizi e le infrastrutture di cui le imprese hanno bisogno. Per questo l’opera dei Nuclei indipendenti di valutazione è preziosa non soltanto in questo settore di cui ci siamo occupati oggi, ma anche in tutti gli altri. Sarà la loro opera a consentirci di fissare ai nostri dirigenti obiettivi specifici, misurabili, ripetibili, esigibi-
li, collegabili a scadenze temporali ben precise; a consentirci di commisurare ai risultati oggettivi il loro trattamento, ivi compresa, dove necessario, la rimozione dall’incarico dirigenziale. Rendere immediatamente visibili questi obiettivi on line, rendere costantemente conoscibile il loro grado di realizzazione da parte di ciascun ufficio, sarà un impegno prioritario dell’Amministrazione regionale, mirato a consentire alla cittadinanza di controllare l’operato di noi politici e di tenere il suo fiato sul collo dei dirigenti. Se avessimo potuto disporre del servizio prezioso della valutazione indipendente, e ancor più se avessimo potuto disporre della combinazione tra questa e l’attività di civic auditing svolta direttamente dalla cittadinanza, probabilmente non sarebbe potuto accadere che la Regione commettesse l’errore commesso con il programma dei ‘super-stages’ di cinque anni fa. Vi assicuro – scandisce l’Assessore alzando la voce – che un errore di questo genere non si ripeterà”; e qui si guadagna un applauso convinto da una buona metà del pubblico presente. “Un vantaggio di cui disponiamo – conclude l’Assessore – per il fatto di essere oggi la Regione più arretrata sul piano amministrativo, in coda a tutte le graduatorie nazionali, sta certamente, come diceva la presidente del Nucleo di va-
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lutazione, negli ampi margini di miglioramento che ci si offrono. Ma un altro vantaggio sta nella possibilità di appropriarci delle esperienze più positive svolte nei
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decenni passati nelle altre Regioni, e anche negli altri Paesi europei, coi quali tutti dobbiamo imparare a confrontarci sempre più intensamente”.
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Un’università da (ben) riformare ma non da buttar via
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’articolo di Alberto Zuliani (dicembre 2008) presenta un quadro sistematico della situazione in cui versa l’università italiana, ne individua i problemi a suo parere più importanti e indica alcune soluzioni possibili. In larga parte condivido le sue analisi e proposte e ne trovo apprezzabile lo stile, che si distingue per rigore, equilibrio e pragmatismo, da molti degli attuali interventi sull’università non solo di politici e di giornalisti ma anche di studiosi che trovano larga audience sui media. Tali interventi hanno infatti spesso un’intonazione tendenziosa, scandalistica e catastrofista, e anche quando fanno uso di documentati argomenti empirici – mi riferisco in particolare ai giudizi espressi da alcuni autorevoli colle-
ghi della Bocconi – rivelano un’evidente pregiudizio negativo, insieme con una più o meno esplicita propensione ideologica di stampo neoliberista ed elitista. Da questo che sta diventando un vero e proprio mainstream nell’ambito della formazione dell’opinione pubblica, l’università italiana viene dipinta come la sentina di ogni male: sperpererebbe finanziamenti accordatile con dovizia, selezionerebbe il personale su basi clientelari e familiste, ospiterebbe un gran numero di fannulloni e di mediocri e, anche per effetto di mal ponderate riforme (come il vituperato 3 più 2), si troverebbe “in caduta libera” mostrando livelli di qualità decrescenti e decisamente inferiori a quelli degli altri paesi sviluppati.
Per l’opinione pubblica l’università mostra livelli di qualità decrescenti e inferiori a quelli degli altri paesi
Opera di disinformazione Messe così le cose, solo una shumpeteriana “distruzione creatrice” potrebbe permettere al paese di rivedere delle università degne di questo nome, e poco importa se queste fossero solo un pugno avendo tutt’intorno un panorama desolato di isti-
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tuzioni low cost, dedite a impartire corsi di formazione post-secondaria senza alcun legame con la ricerca e con l’avanzata expertise professionale. Il Guinness dei primati nell’opera di disinformazione e di discredito dell’università italiana tocca, con pieno merito, al nostro Presidente del Consiglio, il quale, secondo quanto riportano alcuni quotidiani del 16 marzo, le avrebbe imputato in un convegno a Cernobbio di essere “diventata un sistema di ammortizzatori sociali, in cui ogni professore ha il figlio, il cugino, l’amico del figlio, il cognato che ha la cattedra con l’invenzione di un corso di laurea”, aggiungendo di aver visto “corsi di laurea che mi hanno fatto prima inorridire e poi ridere, come il corso di salute animale, che ha due iscritti in Italia” (vedi Corriere della Sera, pag. 5). Processo pubblico all’università Qui troviamo compresenti in maniera esemplare tre vizi ricorrenti nell’attuale “processo pubblico all’università”. Innanzitutto l’indebita generalizzazione a partire da singoli, ovviamente riprovevoli, casi di malcostume. In secondo luogo la disonestà intellettuale perché si finge di non sapere che fenomeni di nepotismo e di favore prestato ad amici ed amiche non esistono solo, e nemmeno soprattutto, nell’università ma sono purtroppo assai diffusi nella società italiana, ivi compresa
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– e certamente non ultima – la classe politica. Infine, l’avventatezza dei giudizi di merito, dal momento che la laurea in “Salute animale” ha tutta l’aria di essere una normalissima laurea in veterinaria solo con un nome un po’ inconsueto e il fatto che conti appena due iscritti probabilmente significa che si tratta di un corso già soppresso e in via di esaurimento. Non intendo fare processi alle intenzioni, ma non posso non esprimere il timore che per effetto di tale distorcente rappresentazione della realtà, potremmo assistere presto ad un nuovo caso di perversa “profezia che si autoadempie”. Un’istituzione, quale è la nostra università che, per riprendere le espressioni usate da un recente studio comparativo coordinato da Regini (2008), è sicuramente “malata” ma anche ingiustamente “denigrata”, può, per errore di diagnosi, venire sottoposta a misure punitive e a terapie incongrue, e conseguentemente sospinta davvero verso una irreversibile agonia. Pur sapendo che vanno utilizzati con cautela perché talora possono
Si finge di non sapere che fenomeni di nepotismo e di favori agli amici sono assai diffusi nella società italiana, compresa la classe politica
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La politica dei tagli all’università, già cominciata dal precedente governo, è proseguita in modo più radicale dall’attuale essere fuorvianti, mi avvarrò nell’analisi, oltre che di dati nazionali come quelli passati in rassegna da Zuliani, di dati di tipo comparativo messi a disposizione dalle fonti statistiche internazionali e da indagini serie quali la ricerca appena citata. Il mio intento è di effettuare un’analisi che permetta di discernere le malattie reali da malattie solo supposte, anche se proclamate a gran voce da critici malevoli e superficiali. Comincerò proprio dal problema del finanziamento. In un suo recente volume (2008) Perotti ha asserito che i valori della spesa per studente nell’istruzione terziaria calcolati dall’Oecd sarebbero nel caso dell’Italia fortemente sottostimati perché, come avverte una nota metodologica aggiunta alla tabella comparativa pubblicata su Education at a Glance (2008), tutti gli studenti, analogamente a quanto si fa per la Germania e l’Austria ma non per gli altri paesi, sarebbero considerati “a tempo pieno equivalente”, formula utilizzata per rendere più omogenei i con-
fronti internazionali e approssimarsi maggiormente all’offerta reale di servizi agli studenti. Mi rendo conto che ragionando attorno a “studenti teorici” le insidie presenti nella comparazione internazionale, dovute alla carenza di informazioni omogenee su un numero spesso assai ampio di paesi, aumentano sensibilmente. Questo indicatore va pertanto utilizzato con molta cautela e non può certo costituire il fondamento principale su cui sorreggere una tesi di ordine generale sulla questione del finanziamento. È proprio ciò che fa invece Perotti. Ne ridetermina la misura sulla base dei dati sugli “studenti equivalenti in regola con gli esami”1 forniti dal Mur giungendo a concludere che il valore indicato dall’Oecd andrebbe addirittura raddoppiato; così grazie ad uno sbalorditivo coup de theatre l’Italia balzerebbe dalla fascia medio-bassa alla fascia alta delle classifiche internazionali ed europee. Legittimare i tagli Insomma, al contrario di quanto si era fin qui ritenuto, l’università non risulterebbe affatto sottofinanziata e l’unico problema da affrontare resterebbe l’esistenza di troppi e inammissibili sprechi. Una volta costruita e ben pubblicizzata questa nuova “evidenza empirica”, è riuscito più facile ai policy makers governativi legittimare la politica dei tagli al finanziamento statale alle uni-
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versità che, iniziata dal precedente Governo, è stata proseguita, in modo più radicale, dall’attuale. Il punto è dunque importante e merita una discussione. Spesa pro capite Il raddoppio della spesa italiana per studente rappresenta, a mio parere, una correzione del tutto ingiustificata in quanto la formula con cui l’Oecd calcola il numero degli “studenti a tempo pieno equivalente” tiene conto non solo del carico didattico effettivo richiesto dagli studenti in un dato anno – misurato dal numero degli esami sostenuti o dei crediti acquisiti – ma anche della durata effettiva degli studi, cioè del periodo di tempo mediamente intercorrente fra l’atto dell’immatricolazione e quello dell’uscita, avvenga essa per conseguimento del titolo o per abbandono2. È per questo che nell’annesso cui rimanda la tabella, l’Oecd asserisce che per i tre paesi per i quali non si ricorre alla formula del “tempo pieno equivalente” l’ammontare della spesa per studente rimane pur sempre comparabile poiché la mancata considerazione del carico didattico effettivo, la quale comporta una sottovalutazione della spesa pro-capite, si compensa con la mancata considerazione della durata effettiva degli studi, che al contrario comporta una sua sopravvalutazione. Tale asserzione ha una sua indubbia plausibilità sul piano
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Nel 2004 la spesa per studente a “tempo pieno equivalente” è stata al di sotto degli USA e pari a quella della Francia logico ma rimane generica e quindi priva di una dimostrazione statistica. L’ho perciò sottoposta ad un tentativo di misurazione per necessità alquanto approssimativo, anche per una certa oscurità presente nelle specifiche metodologiche offerte dall’Oecd, applicando la sua formula del “tempo pieno equivalente” ai dati pubblicati dal Mur e dal Cnvsu relativamente alle due variabili in oggetto: il carico didattico effettivo in un dato anno e la durata effettiva degli studi3. La conclusione cui sono pervenuto è che non parrebbe esservi una compensazione totale, come affermato dall’Oecd, bensì una solo parziale, per cui nel 2004, l’ultimo anno per il quale è effettuato il confronto, la spesa italiana per studente “a tempo pieno equivalente” dovrebbe essere stimata poco meno di 10.700 USR, un valore nettamente inferiore a quello calcolato da Perotti (attorno ai 16.000), sebbene significativamente superiore a quanto pubblicato in Education at a Glance. Il motivo della compensazione soltanto parziale sarebbe presumibilmente l’elevata presenza in Italia del fenomeno del dropping-out che inci-
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de soprattutto sugli studenti in ritardo sulla tabella di marcia, quindi considerati non a tempo pieno. Un motivo, cioè, che rimanda ad un fenomeno patologico, per quanto è possibile, da eliminare. Malgrado questa correzione al ribasso, si tratta comunque di un ammontare che, per centrare il confronto sui maggiori fra i paesi sviluppati, resterebbe decisamente al di sotto del livello degli Stati Uniti, del Giappone, del Regno Unito, della Germania, sarebbe più o meno pari a quello della Francia ed un poco più elevato di quello della Spagna. In Europa ad attestarsi su valori inferiori rimarrebbero praticamente, oltre agli altri paesi del Sud (Spagna appunto, nonché Portogallo e Grecia), solo le nazioni dell’Est. Tuttavia, per le ragioni dette, la via meno fallace per comparare l’Italia ad altri paesi è guardare piuttosto ad un altro, meno problematico e più significativo indicatore, la quota del PIL spesa per l’istruzione terziaria. Il quadro che ne risulta diviene allora più chiaro e nello stesso tempo ben più drammatico. Sempre
Finanziare azioni volte a contrastare il macroscopico fenomeno degli abbandoni e dei ritardi nel conseguimento dei titoli di studio
in base alle statistiche Oecd – ma quelle Eurostat (2008) nella sostanza ci forniscono la medesima indicazione – l’Italia con il suo 0,9% del 2005 (0,76% secondo Eurostat), si colloca al di sotto di tutti i 6 maggiori paesi sopra menzionati (Stati Uniti, 2,9; Giappone, 1,4; Regno Unito, 1,3; Germania, 1,1; Francia,1,3; Spagna 1,1), al di sotto della media dell’Oecd (1,5) e dell’Europa a 19 (1,3) e viene superata perfino da paesi come il Portogallo, la Grecia e da alcuni di quelli dell’Est. Pertanto, se pure fosse accettabile – e siamo convinti che non lo sia – il calcolo di Perotti, ci si dovrebbe allora a maggior ragione domandare perché il nostro paese investe nel settore così poche risorse e non si preoccupi, ad esempio, di elevare il suo numero di laureati o il suo infimo numero di studenti “a tempo pieno equivalente” portandolo a livelli più dignitosi a confronto con gli altri paesi. Abbandoni e ritardi Obiettivi che comunque la politica dell’istruzione superiore dovrebbe perseguire non tanto aumentando il flusso degli immatricolati, già oggi molto consistente, quanto soprattutto finanziando azioni volte a contrastare il macroscopico fenomeno degli abbandoni e dei ritardi nel conseguimento dei titoli di studio. Di nuovo, i dati Oecd fanno risaltare che questa rimane tuttora una delle
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maggiori piaghe che affliggono il nostro sistema, con effetti perversi sia in termini di efficienza che di equità. Le recenti normative fatte approvare dal Governo (la legge n. 133/2008 e il D.L. 180/2008) con i tagli apportati al Ffo e le pesanti limitazioni introdotte per il turnover dei docenti universitari, avranno la conseguenza di peggiorare in misura consistente entrambi gli indicatori di finanziamento che abbiamo appena preso in esame e con ogni probabilità anche quella di squilibrare ulteriormente la posizione dell’Italia rispetto agli altri sistemi nazionali di istruzione terziaria, rendendo le nostre ancora più deboli nella competizione con le università degli altri paesi europei e nel mercato globale. Cessazioni e reclutamento A proposito del turnover, il Cnvsu (2008) stima che nei prossimi 4 anni intervengano circa 10.000 cessazioni, che riguarderanno in gran parte i professori ordinari e per una parte minore, ma pur sempre rilevante, i professori associati. La previsione è prudenziale in quanto basata solo sul numero delle cessazioni per raggiunti limiti di età quando abitualmente quelle effettive ammontano a circa il doppio. A fronte di queste straordinariamente ingenti uscite – come minimo circa un sesto dell’attuale organico del personale docente e probabilmente più di un terzo dei
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professori di prima fascia – la nuova normativa consentirà un reclutamento (dall’esterno o per scorrimento di carriera) ridottissimo per le prime due fasce ed uno più corposo, e pur tuttavia anche esso ben al di sotto di quanto occorrerebbe ai fini del rimpiazzo, per i ricercatori. È vero che ne deriveranno alcuni effetti positivi come il ringiovanimento di un corpo docente troppo invecchiato, punto su cui i confronti internazionali giustificano pienamente le critiche rivolte al nostro sistema. E, in una certa misura, può essere considerato un effetto positivo anche la correzione della struttura per fasce così da farle assumere, grazie all’ampliamento della base (i ricercatori) ed al restringimento del vertice (i professori ordinari), una forma piramidale che oggi non ha. Sennonché la correzione mi sembra troppo drastica comportando due conseguenze negative: indebolire la qualità e la reputazione scientifica dei nostri atenei o almeno di alcuni o di alcune parti di essi, ristabilire una gerarchia accademica (intendo dire anche del potere accademico) molto forte con
Con la nuova normativa si amplierà la base (ricercatori) e si restringerà il vertice (professori ordinari)
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Nella grave crisi che attravesiamo, il Governo non intende accrescere la spesa pubblica per l’università, come fanno altre nazioni prevedibili ricadute anche sul controllo dei concorsi, per i quali oltretutto la nuova normativa, sul punto giustamente criticata da Zuliani, riserva la presenza nelle commissioni ai soli ordinari. Si aggiunga, per completare lo scenario restrittivo in termini di risorse umane e finanziarie che si profila per i prossimi anni, la sicura contrazione del numero (assai più elevato da noi che negli altri grandi paesi europei, eccetto la Germania, come mostra il già citato studio coordinato da Regini) dei professori a contratto, già oggi in atto, per motivi di sostenibilità economica e soprattutto per i requisiti di copertura degli insegnamenti mediante personale “strutturato” introdotti dal D.M. 270 e dai successivi decreti che hanno corretto gli ordinamenti e il sistema di regolazione della didattica previsti dalla riforma, cioè dal D.M. 509. Concludendo sulla questione del finanziamento, non posso dunque non condividere le frustrazioni, gli allarmi e le proteste diffusesi così
ampiamente tra docenti e studenti negli ultimi mesi e apprezzare l’invito autorevolmente rivolto dal Presidente della Repubblica al Governo di ritornare sulle decisioni prese e di rinunciare ai tagli “indiscriminati” disposti dalle recenti normative e dalla legge finanziaria. Redistribuire il finanziamento Si può capire che nella grave crisi che stiamo attraversando il Governo italiano non se la senta, per una serie di motivi più o meno condivisibili, di accrescere la spesa pubblica per le università, come pure sarebbe bene fare e come altre nazioni stanno facendo. Quel che non mi pare proprio accettabile è che il già insufficiente ammontare del flusso dei finanziamenti venga drasticamente ridotto anziché piuttosto redistribuito in modo più razionale allo scopo di rimediare alle più gravi carenze e premiare il merito dei singoli e delle istituzioni. Le analisi fin qui svolte e i dati richiamati si riferiscono ai finanziamenti complessivi, pubblici o privati che siano. Guardando invece alla composizione interna si può constatare che dal 2001 al 2006 la quota di essi proveniente dal Mur (FFO e finanziamenti finalizzati) è significativamente diminuita passando dal 72,9% al 64,7%, mentre è aumentata sia l’incidenza delle entrate contributive (le somme pagate dagli stu-
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denti e dalle loro famiglie) che, ancor più, quella delle entrate finalizzate provenienti da altri soggetti (istituzioni e imprese). Facendo uguale a 100 il loro ammontare nel 2001 le prime sono infatti arrivate a 145,0 e le seconde a 167,2, mentre nel contempo le entrate non finalizzate dal Mur – rappresentate dal Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo) – sono salite solo a 116,6. Anche in questo torna utile il confronto internazionale. Secondo l’Oecd (2008), la componente pubblica del finanziamento in Italia ha oramai – si tratta ancora una volta del 2005 – un peso inferiore a quelli medi dell’organizzazione e dell’Europa a 19, e fra i maggiori paesi sopra considerati solo negli Stati Uniti il peso risulta essere decisamente più basso (nel Regno Unito è all’incirca eguale, negli altri 4 è invece più o meno marcatamente superiore). Il mercato finanziario Non si può poi non condividere l’osservazione avanzata opportunamente dal Cnvsu (2008) che la crescita delle entrate finalizzate provenienti da altri soggetti se da un lato “rappresenta un segnale della capacità imprenditoriale delle nostre università”, dall’altro “ha degli ovvi effetti sull’incremento delle uscite, poiché le entrate finalizzate vengono in larga parte acquisite a fronte di specifiche attività di formazione e di ricerca <addizionali>, che solo in par-
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La componente pubblica del finanziamento in Italia ha un peso inferiore a quello dell’Europa a 19 te vengono fatte rientrare nell’impegno istituzionale del <personale strutturato>”. Per la medesima ragione non sembra che si possa dare per scontato, come fanno i sostenitori della trasformazione delle università pubbliche in fondazioni, che spingere verso un ancora più accentuato ricorso al mercato per il finanziamento dell’istruzione universitaria e della ricerca, inseguendo sotto tale profilo il modello americano, serva davvero ad alimentare l’attività istituzionale anziché missioni più specifiche, magari economicamente e socialmente utili se appunto “addizionali”, non così se diventassero di fatto “sostitutive”. D’altra parte, se la penuria delle risorse disponibili per il sostentamento delle università e lo svolgimento delle primarie funzioni di formazione “graduata” e di ricerca di base conducesse, come sta già verificandosi, ad innalzare a livelli sempre più insopportabili il prelievo sulle entrate finalizzate da parte di atenei e dipartimenti, il risultato sarebbe quello di una perdita di competitività rispetto ad altri soggetti (università private o straniere, enti pubblici e privati, imprese)
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e di un’uscita dal mercato. Dal momento che ritengo essenziali le funzioni istituzionali ma anche utile la presenza sul mercato, che non va affatto demonizzata come alcuni fanno, la soluzione più adatta mi sembra non già la trasformazione delle università in fondazioni bensì la costituzione, a fianco delle strutture universitarie pubbliche, di fondazioni e società sotto il loro controllo che svolgano sul mercato, in condizioni competitive e senza paralizzanti lacci e lacciuoli, le funzioni “addizionali” (ricerca applicata, master e altri tipi di formazione professionale, consulenza, ecc.). E, nello stesso tempo, trasferiscano una parte, determinata in misura ragionevole e non eccessiva, delle risorse guadagnate sul mercato alle università perché siano destinate all’adempimento dei compiti istituzionali. Intendo ora spostare l’attenzione dall’entità dei finanziamenti e dalla loro composizione interna alla questione del loro uso efficiente entrando sia pure brevemente nell’acceso dibattito sugli sprechi. Non intendo
Tagliare gli sprechi ma rivedere le spese necessarie e utili gestite in modo inefficiente e scorretto
affatto negare che nelle università italiane si verifichino forme di cattivo utilizzo delle risorse, chiamiamole pure sprechi, talora gravi ed inammissibili. Né intendo affatto negare la necessità di riforme, alcune delle quali sono indicate in modo persuasivo nell’articolo di Zuliani. Credo però che si debbano distinguere, cosa che nel mainstream degli attuali processi pubblici all’università si è soliti non fare, fra due tipi di sprechi ovvero tra sprechi e inefficienze. Il primo tipo di sprechi consiste in spese inutili e non necessarie che si dovrebbero semplicemente tagliare. Il secondo tipo, cioè le inefficienze, riguarda spese necessarie e potenzialmente utili che vengono tuttavia gestite in modo inefficiente e in certi casi addirittura scorretto. Spese inutili e inefficienze Si sta facendo credere che gli sprechi universitari appartengano soprattutto al primo tipo, anche perché ciò torna comodo ai politici consentendo loro di legittimare i tagli al bilancio dello Stato. In realtà in grande prevalenza essi sono del secondo tipo e per affrontarli con strategie adeguate conviene anzitutto misurarne e apprezzarne in modo realistico le dimensioni e quindi comprenderne le cause, che sono a volte abbastanza complesse. Diamone un esempio a proposito di uno dei fenomeni più spesso biasimati: la moltiplicazione dei corsi di laurea. Come avverte
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Zuliani, un corretto raffronto va fatto fra entità omogenee, cioè tra gli attuali corsi triennali e a ciclo unico e i corsi di laurea preesistenti alla riforma. Essendo all’incirca del 27%4, l’incremento non risulta così imponente come vogliono farlo apparire quanti dimenticano che con la riforma i livelli di laurea sono stati raddoppiati. Autoreferenzialità-espansionismo Quanto alle cause del fenomeno, ve ne sono alcune deteriori o comunque discutibili: autoreferenzialità ed espansionismo da parte dei docenti, pressioni di politici locali a favore della disseminazione degli insediamenti universitari sul territorio, tentativi da parte di Atenei e Facoltà di attrarre maggiori quantità di studenti al fine di accrescere la propria presa sulle risorse trasferite dallo Stato, erroneamente distribuite in misura proporzionale al numero degli iscritti. Non sono stati assenti però altri motivi che del resto spiegano la presenza del fenomeno anche al di fuori dei nostri confini nazionali. In primo luogo, come abbiamo detto, il 3 più 2 che in certi paesi ha portato a raddoppiare i livelli di laurea. E poi, la tendenza incoraggiata a livello europeo ed internazionale, a immettere nell’istruzione universitaria più consistenti dosi di “vocazionalismo”, ovvero a valorizzarne il ruolo propulsivo rispetto allo sviluppo economico locale. Sta di fatto però che la differen-
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ziazione specialistica e la disseminazione territoriale dell’offerta formativa sono state in Italia eccessive, date le scarse risorse disponibili talora provocando scadimenti qualitativi intollerabili. È quindi del tutto giustificato l’indirizzo portato avanti dal Ministero nel quadro dell’attuazione del D.M. 270, con i nuovi più vincolanti “requisiti funzionali”, che cerca di contrarre il numero dei corsi di laurea facendo chiudere quelli con pochi iscritti o con pochi docenti “strutturati”. Vi è solo da augurarsi che il controllo da parte del Cun sulle deliberazioni in materia adottate degli atenei sia sufficientemente severo così da evitare le elusioni della normativa, come ben sappiamo assai frequenti nel nostro paese. Ciò detto, per dimostrare che di uno spreco da sanare si tratta, va però subito avvertito che scarse sono le risorse risparmiabili grazie alla policy degli accorpamenti: qualche aula e strumentazione didattica, alcuni professori a contratto per lo più pagati con cifre irrisorie, un poco di lavoro del personale amministrativo. Il grosso dei costi, che derivano dalle retribuzioni dei docenti di ruo-
Differenziazione specialistica e territorialità dell’offerta formativa in Italia sono state eccessive
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Per un miglioramento occorre evitare nuovi sprechi/inefficienze lo impiegati, rimarrà immutato, semplicemente si sposterà su altri corsi di laurea, e se tutto andrà bene ne migliorerà la qualità. Perché il miglioramento effettivamente avvenga si dovrà prestare sufficiente attenzione al rischio che l’operazione, mal gestita, produca effetti perversi, cioè nuovi sprechi/inefficienze, che potrebbero prendere la forma di sottoutilizzazione dei docenti riallocati o delle competenze da loro possedute. Si tratta, dunque, di uno spreco del secondo tipo, la cui eliminazione comporterà – se tutto andrà bene – una crescita di qualità, e solo in proporzioni assai ridotte una contrazione della spesa. Molti altri esempi del genere si potrebbero addurre: dalla frammentazione dei moduli e degli esami – anche essa oramai preclusa dal D.M. 270 – alle distorsioni del sistema concorsuale e del reclutamento, che è forse l’inefficienza più grave e di più difficile superamento. A questo proposito, debbo dire che la mia indignazione per la campagna scandalistica in atto non è minore di quella di Zuliani. Si assumono come rappresentativi dell’intera università casi-limite relativi alle sedi ed alle aree disciplinari più esposte a fenomeni
degenerativi. E si ignora che familismo e nepotismo, sono atteggiamenti radicati diffusamente nella società italiana e interessano in modo particolare talune professioni come quella medica, siano o non esercitate in ambito accademico. Soluzione non congiunturale Il problema di una selezione concorsuale poco meritocratica tuttavia esiste e non mi sembra in grado di risolverlo la scelta ora adottata, il sorteggio dei membri delle commissioni: una strada, che può forse essere non irragionevole scegliere nell’attuale contingenza, ma che è stata già percorsa in passato e i cui esiti, come ricordano i più anziani di noi, si sono rivelati poco felici. Pur essendo convinto che nessuno può presumere di avere in materia la ricetta giusta, credo che una soluzione non congiunturale vada piuttosto cercata sulla linea su cui si erano orientati, sia pure in modo diverso, i due precedenti ministri, la Moratti e Mussi. Mi riferisco cioè ad una procedura selettiva a due stadi. Il primo si svolgerebbe a livello nazionale (vincolato ad una scadenza annuale per scongiurare i ritardi verificatisi in passato, quando vigevano appunto i concorsoni nazionali) con la funzione di designare rose di idonei sulla base di una rigorosa verifica dei requisiti scientifici di soglia. Il secondo si esplicherebbe invece a livello di ateneo, dove la chiamata di un ido-
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neo o di un altro sarebbe sì libera ma soggetta indirettamente ad una valutazione esterna ex post dell’efficacia scientifica, didattica ed organizzativa della struttura di pertinenza, avente effetti premianti o sanzionatori sull’istituzione decidente. In realtà ogni discorso generale sull’efficienza e sulla qualità del nostro sistema universitario appare inevitabilmente arbitrario in quanto siamo oggi in presenza di un grado elevatissimo di eterogeneità, non solo tra diverse istituzioni e aree disciplinari ma anche all’interno di esse, che va al di là del limite da considerarsi fisiologico in un regime di autonomia. Una governance inceppata Prendiamo ad esempio il tema dell’impegno dei docenti. Mancano dati che ci consentano, come in altri paesi, di determinare il numero dei docenti da considerarsi di fatto, e non formalmente, “a tempo pieno equivalente”, rapportandolo al numero totale dei docenti in servizio. La mia impressione è che il tempo effettivo dedicato ai compiti istituzionali – di ricerca, di didattica ed organizzativi – sia andato negli anni aumentando non poco per effetto dell’ampliamento della cerchia dei docenti attivi, talora molto attivi fino a situazioni di vero e proprio stress. Contemporaneamente, persistono nondimeno cerchie che si alli-
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Nell’organizzazione universitaria troviamo i “fannulloni”, gli “stakanovisti” e, fatto eccezionale, numerosi volontari neano al minimo delle prestazioni prescritte dalla legge o addirittura si collocano al di sotto. Una parte importante e crescente del lavoro universitario è poi – non dimentichiamolo – eseguito da contrattisti, retribuiti in misura risibile o non retribuiti affatto, nonché da giovani volontari senza alcun rapporto contrattuale con l’organizzazione universitaria. Insomma, ad un estremo troviamo, come in tutte le amministrazioni pubbliche, i “fannulloni”, ad un altro gli “stakanovisti” o addirittura, e questo è davvero eccezionale, un numero cospicuo di volontari. Nessun altra istituzione pubblica, a mia conoscenza, presenta situazioni tanto eterogenee. E ciò accade non solo perché vi è un regime di autonomia – in tal caso sarebbe ancora normale – ma perché la governance universitaria si è inceppata, non funziona, non è in grado quanto meno di temperare la tendenza, naturale nelle organizzazioni accademiche, significativamente definite da un grande studioso delle organizzazioni quale March “anarchie orga-
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nizzate”, all’individualismo atomistico ed all’anarchia. Sarebbe troppo lungo affrontare qui il problema e le alternative che si prospettano per la sua soluzione, salvo il dire che tutte passano per una revisione del modello organizzativo tradizionale, radicale per chi auspica l’avvento di un managerialismo all’americana, meno radicale per chi, a mio avviso più realisticamente, preferisce pensare a correzioni molto incisive però non tali da smantellare il modello di governance “democratico” delle università europee. Penso, ad esempio, ad una semplificazione della struttura organizzativa che (moltiplicando gli intrecci: tra Senati, Consigli di Amministrazione, coordinamenti di Presidi e di Direttori; tra Facoltà, Dipartimenti e Corsi di Laurea, ecc.) ha assunto la forma di una matrice troppo complessa, ad una sostanziale limitazione dell’assemblearismo, al rafforzamento delle leadership elettive e delle figure gestionali di tipo tecnico e amministrativo (anche con la diffusione di ruoli nuovi come il manager didattico). E soprat-
Il ministro Gelmini ha giustamente introdotto la valutazione periodica della produttività dei docenti
tutto penso alla centralità della valutazione – interna ed esterna, di sistema e di ateneo o di facoltà – non solo per la trasparenza e per il controllo dei processi ma anche per l’irrogazione di sanzioni e l’elargizione di premi ed incentivi. Dell’eccellenza Alcune delle misure introdotte di recente dal ministro Gelmini, come la valutazione periodica della produttività di tutti i docenti, si muovono nella direzione giusta. Per altri importanti aspetti, mi riferisco in particolare all’istituzione dell’agenzia indipendente per la valutazione, dopo qualche passo avanti nella precedente legislatura, invece si registra ora un deplorevole ritardo. Un’ultima questione cui intendo dedicare qualche considerazione, strettamente connessa del resto al tema della valutazione, è quella della qualità o, per usare un termine che oggi tende a sostituirla nell’enfasi accordata da chi discute dell’università in Italia e a livello internazionale, dell’eccellenza (Bleiklie, 2008). La critica delle critiche indirizzata al nostro sistema universitario riguarda infatti proprio questo punto, considerato giustamente essenziale. Ingiustificati catastrofismi Ebbene, ancora una volta conviene evitare ingiustificati e fuorvianti ca-
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tastrofismi per affrontare il problema nelle sue dimensioni e caratteristiche reali. Con tutti i loro limiti, derivanti spesso dalla insufficiente affidabilità ed omogeneità dei dati su cui sono costruiti nonché dalle differenze di metodologie e anche di sottese concezioni della qualità che conducono a risultati difformi (Fornari, 2009), i ranking internazionali, quando vengono interpretati con intelligenza e cautela, possono aiutare a farsi un’idea del livello qualitativo raggiunto da una singola istituzione o dall’intero sistema universitario di un paese. In Italia sono spesso letti a sproposito e utilizzati per dipingere una situazione di sconsolante arretratezza e degrado. In realtà il nostro sistema certamente non eccelle ma non figura nemmeno così male da giustificare il mainstream catastrofista. Nella sua valutazione dei sistemi nazionali Il Ranking Thes (Times Higher Education Supplement) colloca l’Italia al 12° posto nel mondo ed al 7° in Europa, preceduta da nazioni, come gli Stati Uniti, il Giappone, il Regno Unito, la Germania, la Francia ed altre, che spendono quasi tutte una quota maggiore, a volte molto maggiore, del loro PIL in questo settore. Il piazzamento, pur non essendo certamente brillante, appare pertanto migliore di quello ottenuto nelle classifiche sulla spesa. Se poi andiamo a esaminare le quattro dimensioni su cui si articola la graduatoria ci accorgiamo che le
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nostre performance sono molto differenziate. Secondo il criterio dell’accessibilità (% degli studenti iscritti ad un’università italiana compresa fra le 500 migliori) figuriamo benissimo: siamo terzi nel mondo e primi in Europa. Ad influenzare negativamente il punteggio complessivo è il criterio dell’eccellenza (performance globale delle università di un paese che risultano meglio piazzate nella classifica riguardante i singoli atenei) dove ci collochiamo soltanto al 30° posto. Gli altri ranking maggiormente accreditati a livello internazionale confermano, anzi rafforzano, l’idea che la qualità media dei nostri atenei è buona: ne abbiamo più della Francia e della Spagna tra i primi 500 nella graduatoria di Shanghai, anche più del Regno Unito sempre tra i primi 500 in quella di Taiwan ed egualmente più della Spagna, della Francia e del Regno Unito tra i primi 250 in Europa secondo la classifica di Leiden. Il problema va dunque circoscritto alla nostra presenza nella fascia non già delle buone bensì delle ottime università. Altri paesi europei, la Francia e la Germania, han-
Nella valutazione dei sistemi nazionali, il ranking Thes colloca l’Italia al 12° posto nel mondo e al 7° in Europa
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Per numero di studenti iscritti siamo terzi nel mondo e primi in Europa. Per eccellenza ci collochiamo soltanto al 30° posto
sciando la situazione attuale e assumendo il modello dualistico delle Research Universities drasticamente separate dalle Education Universities, pur di risparmiare e allocare altrove delle risorse si accontenti di veder sorgere qua o là qualche “cattedrale nel deserto”.
no avviato politiche ad hoc dirette ad accrescere la presenza di istituzioni nazionali fra le Top Universities destinandovi ingenti risorse (Regini, 2009). Con le nuove normative anche noi abbiamo finalmente iniziato a lanciare una politica dell’eccellenza riservando una quota del Ffo agli atenei che saranno valutati più “meritevoli”. Questa scelta, per la verità ancora piuttosto timida, dovrebbe da un lato essere finanziata grazie ai risparmi derivanti da un vigoroso taglio dei “rami secchi” (atenei sotto lo standard minimo accettabile), dall’altro e prevalentemente investendovi, come fanno diversi altri paesi, adeguate risorse addizionali. Se si assume come vincolo il mantenimento dell’attuale punto di forza del nostro sistema che è, come si è visto, la qualità (scientifica e didattica) media delle istituzioni universitarie, il finanziamento di una policy per l’eccellenza non dovrebbe però comportare tagli a carico di istituzioni “buone” ancorché non in grado di primeggiare. A meno di non volere optare per una linea elitista, che rove-
Bibliografia Bleiklie I., (2008), “Excellence and the diversity of higher education systems”, Paper presented at the 21st CHER Conference on “Excellence and Diversity in Higher Education. Meanings, Goals, and Instruments”, Pavia. Cnvsu, (2008), IX Rapporto sullo stato dell’università. Eurostat, (2008), 5% of EU GDP is spent by governments on education, “Statistic in focus”, 117. Fornari R., (2009), Efficienza, qualità ed eccellenza dell’università. La costruzione del dato per la valutazione, Tesi di dottorato, Università di Roma-Sapienza. Mur, (2008), Università in cifre 2007. Oecd, (2008), Education at a glance, Paris. Perotti R., (2008), L’università truccata. Gli scandali del malcostume accademico, le ricette per rilanciare l’università, Einaudi, Torino. Regini M. (a cura di), (2009), L’università malata e denigrata. Un confronto con l’Europa, in corso di pubblicazione.
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Zuliani A., (2008), “Università: spunti per un confronto”, in Pol.Is per la riforma della politica e delle istituzioni, 1. Note 1 La definizione data dal Mur è la seguente: gli studenti equivalenti sono pari al numero teorico di studenti che sarebbe necessario per “generare” il numero di esami superati o di crediti acquisiti se tutti gli studenti fossero in regola in un dato anno. Il loro ammontare si ottiene dividendo il numero di esami superati o dei crediti acquisiti per il numero medio di esami o di crediti previsti annualmente dall’ordinamento degli studi. 2 La definizione dell’Oecd di full time equivalent student è la seguente: “A full-time equivalent (FTE) measure attempts to standardise a student’s actual course load against the normal course load. Calculating the full-time/part-time status requires information on the time periods for actual and normal course loads. Where data and norms on individual participation are available, FTE is measured as the share of the actual study load in the normal study
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load multiplied by the share of the actual duration of study in the normal duration of the school/academic year. [FTE = (actual course load/normal course load) * (actual duration of study during reference period/normal duration of study during reference period).]. 3 Per l’anno 2003-2004, il rapporto tra numero di studenti in regola con gli esami e totale degli studenti iscritti calcolato dal Mur è pari a 0,483 mentre il rapporto tra la durata media degli studi effettiva (stimata dall’Oecd a 5,01) e la durata media teorica (da me stimata a 3,35) è pari a 1,5. Rapportando i due fattori, così come previsto nella formula dell’Oecd, il full time equivalent risulta pari a 0,724. 4 Secondo la stima presentata nell’articolo di Zuliani, nell’anno 2000 i corsi di diploma e laurea erano pari a 2.262 cui possono essere aggiunti 182 corsi di laurea triennale sperimentale per un totale di 2.444 corsi, mentre nell’anno 2007, i corsi di laurea triennale e a ciclo unico “effettivi” (cioè senza considerare quelli disattivati o in esaurimento) erano pari a 3.102.
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Vincenzo Susca vincenzo.susca@ceaq-sorbonne.org
La ricreazione della vita elettronica entocinquantamila nuove facce al giorno si sporgono dalla finestra di Facebook, spalancando il sipario più intimo della propria esistenza privata alle multiple reti di amici veri, verosimili e potenziali cha fluttuano nel cyberspazio. Dal mese di gennaio, gli utenti del software sociale fondato ad Harvard nel 2004 da Mark Zuckerberg sono aumentati di un milione la settimana, giungendo oggi a una quota di più di centosettantacinque milioni. Una pletora di volti accompagnati dai dettagli minuziosi di ciò che contraddistingue l’aspetto più sensibile, emotivo e simbolico del vissuto individuale. Le esperienze amorose, gli sballi notturni, le relazioni amicali e i conflitti
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I rivoli delle identità private confluiscono fatalmente in un bacino comune: non è più e non è solo un corpo fisico, ma un corpo elettronico
familiari debordano dalle cornici riservate della vita domestica e schizzano sugli schermi di quanti sono stati scelti e implicati nell’esperienza degli utenti. Ognuno diviene così parte integrante della vita di ogni suo amico, di cui accede completamente sia alla scena, sia al retroscena esistenziale. I rivoli delle identità private confluiscono fatalmente in un bacino comune, inaugurando uno stato di congiunzione che non è più e non è solo un corpo fisico, ma un corpo elettronico, non più un organo unico e collettivo, ma una pluralità di nodi, uno per ogni rete, per ogni identità e per ogni relazione sprigionate nei flussi comunicativi. Un destino comune Non è il mero impulso voyeristico a calamitare lo sguardo verso una pagina personale, ma un sentimento di compartecipazione alle vicende altrui che rinvia alla condivisione di un destino comune. Siamo così interpellati ad intervenire nella vita dell’altro perché lasciare un segno della nostra presenza significa accrescere la sua identità, consolidare una
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La ricreazione della vita elettronica di Vincenzo Susca
relazione e fortificare la tribù di cui si fa parte. Ogni comunità è quindi attraversata da intensi rapporti di solidarietà tra i propri membri e implica la loro reciproca trasparenza e interdipendenza. Sboccia così un florilegio di patti, tormentoni baldanzosi, adesioni a cause, stigmatizzazioni e denunce che, quand’anche incentrate su argomenti futili, coagulano e confortano dei sentimenti condivisi, irradiandoli sulla rete sotto forma di tribù. Si tratta di un paradigma comunitario poroso, che da una parte stringe i partecipanti in un abbraccio intimo, mentre dall’altra li proietta continuamente altrove. Abbiamo infatti accesso alle faccetracce dei contatti affissi nella pagina personale di ognuno dei nostri interlocutori, siamo al corrente delle relazioni che intercorrono tra gli utenti, conosciamo gli spostamenti e i legami che giorno dopo giorno si tessono e siamo costantemente appellati ad aderire a una nuova causa, a convolare verso un altro gruppo, a fonderci giocosamente in una diversa tribù. Si fa qui largo una vibrante socialità in grado di porre in sinergia la distrazione con l’implicazione, la leggerezza con l’impegno, svelando tutta la profondità insita nelle figure culturali apparentemente più effimere del nostro tempo. Per questo motivo si può affiggere contemporaneamente e senza vergogna su una pagina personale una barzelletta o un
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commento ilare ad una foto, accanto alla denuncia del genocidio in Sri Lanka e a una petizione per il rispetto della Costituzione. In entrambe le dimensioni è all’opera una forma di partecipazione alle cose di tipo empatico, che lascia prevalere il pensiero dei sentimenti, l’implicazione emozionale e sensibile rispetto a un’adesione razionale e astratta a un principio o a una issue: Facebook è il reame dove sono i sensi a pensare e non il pensiero a dirigere la sensibilità. Un’etica senza morale Al suo interno si sviluppa un’etica che, alimentata da ebbrezze ludiche, da pulsioni oniriche e da adesioni estetiche, può prescindere dalla morale o persino porsi come immorale nella misura in cui l’epifania di un gruppo, con tutto il carico di codici valoriali e simbolici che esso porta con sé, sia inconciliabile con qualsivoglia norma istituita e consolidata. Per ogni tribù, infatti, la legge del gruppo, ovvero ciò che garantisce ai partecipanti di sentirsi insieme, riconoscersi e vibrare all’unisono, trionfa su qualsiasi altro principio
Facebook è il reame dove sono i sensi a pensare e non il pensiero a dirigere la sensibilità
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IMMAGINARIO
L’individuo moderno esplode in qualcosa di più grande di sé e del sé proveniente dall’esterno del proprio corpo comunitario, della propria pelle elettronica. Ciò implica contemporaneamente un coinvolgimento intenso e familiare nella vita dell’altro. Basti vedere come si compone ogni pagina personale del social software. Al volto dell’utente è immediatamente associato il caleidoscopio delle facce dei suoi amici. La sua esistenza elettronica è completata e finanche resa possibile dallo sguardo ed eventualmente da un commento, un’immagine, una emoticon e di tutti gli altri tipi di tracce lasciate dagli altri. La stanza della nostra vita mentale è costantemente abitata da un formicolio di voci e stimoli che sovrappongono alla nostra coscienza personale una supercoscienza in grado di interrompere lo stato di solitudine nel quale versiamo e di aggiungere ulteriori strati alla nostra esistenza. Si tratta di un processo più complesso della sua semplificazione come sparizione del sé o trionfo narcisistico dell’individuo. Questo ambiente ci interpella infatti, in un andirivieni incessante, ad agire sull’altro e a desiderare segretamente l’azione dell’altro su di noi.
L’identità elettronica e la vita quotidiana Una volta letto che Gio è stato tradito dalla sua compagna, una coscienza invisibile ci sussurra che abbiamo il compito di incoraggiare l’amico o semplicemente di fargli sentire che siamo con lui. L’apprendimento dell’informazione ci sollecita immediatamente all’azione e all’interazione; pratiche che, beninteso, possono rimanere circoscritte nell’ambito della sola attività comunicativa senza riverberarsi sul terreno fisico della vita sociale. Nell’ambito di questa dinamica ci accorgiamo tuttavia che un filo rosso lega gradualmente la dimensione immaginaria e immateriale della rete a quella materiale del mondo, come testimoniano le situazioni e gli eventi creati a partire dai social software e dai mondi virtuali, così come la propagazione nei territori urbani di mode, stili di vita e attitudini provenienti dai luoghi della socialità elettronica. I casi evocati rilevano l’instaurarsi di un rapporto dialogico, di una costante reversibilità tra media e vita quotidiana, un processo di codeterminazione che plasma un paesaggio dell’abitare sospeso tra la terra e il cielo, tra i bit e la terra. Su questo limbo rinnoviamo e riproduciamo la nostra esperienza coniugando in modo alternativamente armonioso e conflittuale gli orizzonti liquidi della nostra identità elettronica con quelli solidi del suo referente fisico.
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La ricreazione della vita elettronica di Vincenzo Susca
Per ciò che concerne i rapporti sociali, Facebook avalla inoltre una condizione in cui il singolo sperimenta la duplice prospettiva di fare parte di uno o più gruppi senza abbandonare completamente la sua identità e di acquisire un’identità accresciuta senza perdere il senso del gruppo. Ogni amico ha il diritto e il dovere di affiggere un suo pensiero, un’immagine o una traccia sensibile sulla nostra pagina, ed è esattamente ciò che attribuisce un valore specifico al profilo personale, di cui il volto diviene una sommatoria confusa tra l’immagine del sé e l’impronta dell’altro. L’identità privata quindi si polverizza e liquefa nei rivoli dei gruppi di contatti in cui viene canalizzata e da ognuno di essi è incessantemente rielaborata. Avviene quindi che l’individuo moderno esplode in qualcosa di più grande di sé e del sé. Senza le incursioni e le incisioni degli amici la pagina personale, per quanto ciò possa sembrare paradossale, si impoverisce, diviene anemica. Assistiamo così a un evento al tempo stesso prodigioso e controverso: Facebook azzera la solitudine e l’isolamento che avvolgono tante dimensioni della vita sociale e anche elettronica contemporanea. Da questo punto di vista tale sistema fa compiere un salto di qualità anche al web, e in particolare al blog. Nell’ambito della blogosfera appaiono tante comete fugaci, dove a scrivere e leggere è il solo blogger.
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Il fuoco sacro che riscalda l’immaginario di Facebook è il coacervo di immagini ed emozioni che fluttua tra gli schermi e i corpi degli utenti Queste si dissipano frettolosamente perché non riescono ad inserirsi nella galassia comunicativa. Facebook è invece un universo multistratificato dove la connessione è stimolata sia tecnicamente, sia socialmente, divenendo quasi un processo automatico, ben sorretto dall’architettura del software e dalla sua estetica, le quali sono al tempo stesso abbastanza uniformi da garantire una comprensibilità e un accesso agili, e sufficientemente personalizzabili da lasciare ai singoli un margine di manovra per disegnare la propria finestra autonomamente. Tribù elastiche Le comunità di Facebook si pongono come il collante che garantisce all’utente di non smarrirsi in un universo che supera quantitativamente la popolazione del Canada. Sono infatti centinaia di migliaia i gruppi disseminati in questo mondo. Ognuno di essi si distingue rispetto all’evidenziazione di una passione condivisa, di un simbolo o di un’altra forma di appartenenza.
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Fiorito originariamente attorno alle università di Harvard, Stanford, Columbia e Yale, tale social software ha ora oltrepassato ampiamente le barriere dell’accademia. Più della metà dei suoi abitanti è ormai esterna ai campus statunitensi e, soprattutto, appare mossa da obiettivi e linguaggi ben lungi dalle prospettive più seriose e scientifiche dell’università. Il fuoco sacro che riscalda l’immaginario di Facebook è il coacervo di immagini, comunicazioni ed emozioni che fluttua tra gli schermi e i corpi degli utenti. La condivisione delle banalità di base attorno a cui si delinea l’esistenza nella sua dimensione ordinaria rende tale ambiente familiare e adatto a stabilire nuovi legami profondi. Questi si dipanano sulla base del principio ìgli amici dei miei amici sono miei amiciî, facendo tuttavia a meno dell’intercessione della persona tramite cui l’incontro è favorito. Frugando nella lista dei contatti di un nostro amico, ci lasciamo affascinare da una faccia e possiamo agevolmente, una volta che l’interlocutore ci dia il suo benestare, entrare direttamente in contatto con essa e con il suo universo. In tal modo le nostre reti si estendono e ognuno
Siamo qui immersi completamente nella vita dell’altro
può levarsi in voli pindarici rispetto al proprio punto di partenza geografico o sociale. Ogni tribù oscilla nel cyberspazio come una meteora, in alcuni casi sgranandosi e in altri attraendo magneticamente nuovi componenti. Per afferrare l’identità di ogni persona che risiede in Facebook diviene così necessario esplorare le molteplici trame comunitarie di cui essa è partecipe. Ciò è tuttavia possibile solo idealmente, giacché ogni tribù non è che una nebulosa elastica, di cui i tratti mutano in tempo reale. Basti pensare che le pagine personali visitate ammontano a settanta miliardi la settimana, e che la visita media in ognuna di esse è di venti minuti. Provate ad iscrivervi e noterete con quale velocità sarete attratti da flussi di persone e di immagini in grado di condurvi, ben al di là di quanto crediate di controllarlo, dove non avreste mai neanche immaginato. La profondità dell’effimero Il mondo tecnomagico di Facebook è in grado di immergerci completamente e in tempo reale, in una condizione sospesa tra l’incantesimo e la scelta razionale, nella vita degli altri, tanto da farci provare l’ebbrezza del “fiato sul collo”. Si inaugura qui una circolazione virtuosa e viziosa di affetti sotto forma di immagini, elaborazioni grafiche o frasi brevi, che garantiscono una comunione pagana tra i par-
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La ricreazione della vita elettronica di Vincenzo Susca
tecipanti e ne rendono possibile, a partire dalla condivisione degli aspetti più effimeri e ordinari dell’esistenza, un rapporto in profondità. Il software prevede diversi rapporti comunicativi, che vanno dalla chat privata o collettiva allo scambio di battute in pubblico, passando per la telefonata tramite Skype sino ad arrivare alle lettere più tradizionali. Questi scambi sono tuttavia anticipati dall’iniziazione che ha luogo tramite l’adesione al repertorio di dati e soprattutto di immagini fornito da ogni utente per presentarsi al pubblico. Facebook risulta infatti essere il principale servizio di condivisione di immagini con circa 5 miliardi di foto presenti. Esse testimoniano a che punto la cultura digitale abbia a cuore la dimensione estetica dell’esistenza e sappia farsene carico autonomamente. Le foto esposte non sono sbiadite copie degli artificiosi photobook
sbandierati da modelle e veline di ogni lega, ma riproducono in modo tanto genuino quanto ricercato gli assi, le icone e le passioni di base che muovono ogni attore sociale presente, manifestandosi come una forma di recitazione spontanea piuttosto che come una spontaneità recitata. La messa in scena del sé, pur articolandosi attorno all’esibizione dei dati più intimi e banali della persona, si compie in modo inedito rispetto a quanto mostrato dalle derive televisive dei reality show, svincolandosi dal ricorso al ridicolo e al trash richiesto dall’industria audiovisiva al pubblico come costo da pagare per l’apparizione. Il mondo di Facebook, per quanto non avulso dal sistema economico e finanziario che regge il web 2.0, è aperto gratuitamente a tutti e non vende direttamente alcuno spettacolo a nessuna audience. Qui l’utente, in sé e per sé, è lo spettacolo. Il resto è noia.
Vincenzo Susca insegna Sociologia all’università Sorbonne di Paris, dove fa parte del CeaQ. Direttore editoriale dei Cahiers européens de l’imaginaire. Collabora con l’Università IULM di Milano e scrive per L’Espresso.
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Origini Mark Zuckerberg ha fondato “Facebook” (inizialmente noto col nome di Thefacebook) nel Febbraio 2004, mentre frequentava l’Università di Harvard, con l’aiuto di un amico specializzato in informatica, Andrew McCollum, e Eduardo Saverin. Il nome del sito si riferisce agli annuari (facebooks) con le foto di ogni singolo membro che alcuni college e scuole preparatorie statunitensi pubblicano all’inizio dell’anno accademico e distribuiscono ai nuovi studenti e al personale della facoltà come una via per conoscere le persone del campus. In seguito il software ha raggiunto l’Università di Stanford, della Columbia e di Yale, per poi allargarsi in breve tempo a tutte le università americane. Dal 27 febbraio 2006 Facebook si estese anche alle scuole superiori e alle grandi aziende americane. Dall’11 settembre 2006, chiunque abbia più di 13 anni può parteciparvi. Gli utenti possono fare parte di una o più reti partecipanti, come la scuola superiore, il luogo di lavoro o la regione geografica. Di fatto, da questa data, qualsiasi utente connesso alla rete può iscriversi a Facebook. Funzionalità Facebook permette di: – Generare network con i propri amici ed entrare in relazione con tutti i contatti ad essi legati. – Presentare il proprio profilo includendo foto, video e immagini. La visione dei dati dettagliati della persona è ristretta agli utenti della stessa rete e agli amici. – Scegliere di aggregarsi ad una o più reti, organizzate per città, posto di lavoro, scuola e religione. – Commentare qualsiasi contenuto inserito in Facebook dai propri contatti. – Chattare, scambiarsi e-mail e telefonare tramite Skype. – Importare, condividere video e creare album fotografici e slideshow. – Esportare funzionalità e contenuti da un profilo all’altro. – Creare eventi ai quali possono essere invitati esclusivamente i propri contatti, o chiunque voglia parteciparvi. – Diventare fan di qualcosa o qualcuno. – Creare gruppi intorno ad un tema o ad una persona, o aderire a quelli già esistenti su Facebook – Essere informati su qualsiasi contenuto ricevuto sul proprio profilo grazie alla funzione “notifiche”.
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A cura di F. Tarquini
Dati Gli utenti di Facebook hanno a disposizione più di 2000 applicazioni, tra cui primeggiano: Top Friends, Video, Graffiti, MyQuestions, iLike, FreeGifts, X Me, Superpoke!, Fortune Cookie & Horoscopes. I risultati ottenuti usando un’applicazione, ad esempio i giochi, sono costantemente comunicati ai propri contatti, e viceversa, tramite la funzione “notifiche”. L’iscrizione al sito è gratuita per gli utenti. I suoi proventi derivano dalla pubblicità posta tramite i banner. Secondo TechCrunch, circa l’85% degli studenti dei college americani fa parte della comunità. In uno studio condotto da Student Monitor, Facebook è stato nominato negli USA come la seconda cosa più “in” tra gli studenti universitari subito dopo l’iPod, allo stesso posto della birra e del sesso. Sony Pictures e Aaron Sorkin, il creatore della serie The West Wing, hanno confermato che stanno preparando un film sul social network Facebook. Il film non ha ancora un titolo e sarà prodotto da Scott Rudin, e probabilmente sarà incentrato su Mark Zuckerberg. Numeri Dal settembre 2006 al settembre 2007 la posizione nella graduatoria del traffico dei siti è passata secondo Alexa dalla sessantesima alla settima posizione. In Italia nel mese di agosto 2008 si sono registrate oltre un milione e trecentomila visite, con un incremento annuo del 961%. Durante il terzo trimestre del 2008 l’Italia è in testa alla lista dei paesi con il maggiore incremento del numero di utenti: +135% Dal mese di gennaio 150.000 persone al giorno si iscrivono al social software. Oggi gli utenti ammontano a più di 175 milioni (dati aggiornati al 9.1.2009; fonte: Facebook Statistics). Il sito è attualmente valutato circa quindici miliardi di dollari. Recentemente Microsoft ha acquisito una quota di Facebook pari all’1,6% per l’esorbitante cifra di 240 milioni di dollari.
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Ornella Kyra Pistilli okpistilli@gmail.com
Codici di attrazione na sera, un mio amico di Facebook, ha scritto sul suo stato: “sono un’antenna omnidirezionale”. Qualcosa in quella frase mi ha colpito all’improvviso. Ho iniziato ad immaginare le facce dei miei contatti Facebook come strane antenne, muoversi in ogni direzione alla ricerca di qualcosa da intercettare o da cui lasciarsi intercettare. Facce antenna. Movimenti di antenna. Captare e irradiare. Attrattori1 nello spazio aperto della rete. Quella frase-immagine, quella visione animata, compendia dove ogni cosa sta andando: i nostri corpi, le nostre identità, le nostre menti, le nostre relazioni, i molteplici universi esperenziali nei quali quotidianamente navighiamo. Come visione solletica un nuovo sentire, come metafora cognitiva registra un passaggio, co-
U
Viviamo quotidianamente nell’estensione della nostra mente
me visore suggerisce un’ipotesi: l’avatar antenna. Con Facebook, è la nostra faccia e il nostro nome ad agire da avatar, perché siamo noi ad essere interfacciati all’ambiente digitale e non il contrario, come avveniva nel web 1.0. Questo è un punto nodale interessante perché cambia radicalmente il nostro rapporto con le macchine, con gli ambienti digitali e con la stessa idea di mente. I media elettronici hanno contribuito a sciogliere ontologie vecchie di secoli ma alcune scorie teoriche fluttuano ancora nell’aria intossicando le visioni del presente. Qui di seguito, una breve ma indicativa sequenza di frasi selezionate da articoli apparsi sulla stampa italiana negli ultimi mesi: Facebook rende soli; Facebook è per gli sfigati; Su Facebook ti rubano l’identità; Facebook è un programma della CIA per il controllo totale; Facebook dà dipendenza. La traccia che connette La sequenza rivela l’incapacità di afferrare il nuovo, di comprender-
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Codici di attrazione di Ornella Kyra Pistilli
ne le potenzialità oltre che le criticità; di registrare le spinte libertarie e sperimentali che si agitano al suo interno. Soprattutto, rivela persistenze di concetti, visioni e paradigmi che non funzionano più, perché non riescono a cogliere la complessità dello stato presente. Reale/virtuale, mente/corpo, materiale/immateriale, pubblico/privato, non possono più essere pensati come parti sconnesse e contrapposte di realtà. Tra il corpo fisico, l’avatar e la pelle elettronica delle interfacce digitali vi sono contiguità ontologiche che impediscono di definire con certezza dove finisce l’una e inizia l’altra. Viviamo quotidianamente nell’estensione della nostra mente, in ambienti immateriali generati da contenuti e relazioni. Tutto questo sfida le interpretazioni precedenti e spinge oltre il dominio della ratio dualista che separa, divide, oppone e sconnette, pensa la realtà in entità contrapposte e non vede il cambiamento in atto. È come cercare di catturare onde radio con reti per farfalle. Le applicazioni Se la mente è immanente2 non solo al corpo ma anche ai canali e ai messaggi esterni al corpo allora tutti i canali di informazione e i messaggi trasportati devono essere considerati parte del sistema mentale. Nelle reti della comunicazione globale, la mente è estensibile, l’infor-
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mazione navigabile, il confine tra reale e virtuale, corpo e mente, materiale e immateriale, una pura convenzione. Facebook, letteralmente, libro delle facce, è un dispositivo per la creazione di legami tra persone, social network, appunto. Nato con lo scopo di riunire ciò che il tempo e le circostanze hanno disperso – i vecchi compagni di scuola, gli amici del cortile o quelli incontrati in giro per il mondo, i parenti, i colleghi di lavoro – fa il pieno di utenti nel momento in cui introduce una serie di applicazioni che permettono di generare e far circolare contenuti multimediali sui quali giocare affinità e divergenze, simpatie e antipatie, comunanze, indifferenze e conflitto. I contenuti sprigionano tracce testuali, visuali, iconiche, soniche, che lasciano scie ambigue della nostra presenza. Lo statico libro delle facce si trasforma in un imprevedibile e mutante libro delle tracce, dove non sono più i gradi di separazione a stabilire la condizione di possibilità delle relazioni ma i contenuti generati dagli
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La faccia diviene una sottile membrana che si connette alla pluralità dei mondi
utenti a dare una chance alle relazioni. È la traccia a connettere. Le applicazioni permettono un’interazione creativa. Tra le più utilizzate: Super Wall, per la ricerca e condivisione di foto, video; Cause, che consente di sottoscrivere e condividere cause o anche di crearne di nuove; Note, per pubblicare e condividere testi; Facebook Mobile, che consente l’utilizzo di Facebook da dispositivi mobili; Top Friend, per segnalare i nostri migliori amici inserendoli nel Top Friend Box; Define Me, per chiedere ai nostri amici che cosa ne pensano di noi; Tag Cloud, per assegnare degli aggettivi qualificativi ai nostri amici; iLike, per inserire musica e video; MyMusic, per accedere alla propria libreria iTunes direttamente da Facebook; Last FM Music, per ascoltare e condividere la musica di last.fm; Visual Bookshelf per condividere i libri che stiamo leggendo, Testimonials, per raccogliere le nostre referenze Blog RSS Feed Reader, per leggere le Feed RSS, Friend Stats, per creare statistiche sui nostri amici; Console Identities, per mostrare il nostro Xbox Live Gamer-
tag, PlayStation Network ID, o Wii Friend Code nel profilo. E ancora, applicazioni che visualizzano il nostro stato di forma fisica, le città che abbiamo visitato, la natura dei collegamenti tra i nostri amici, le statistiche sui nostri amici, così come quiz per sapere a quale Rock Star del momento o del passato assomigliamo, quale personaggio di un film o opera d’arte siamo, e così via. È possibile aggregarsi a una o più reti, organizzate per tipologie – città natale, città di residenza, residenza geografica, professione, università; far parte di un gruppo, sostenere una causa, una rivista scientifica, un hobby, una passione comune. Giochi di sguardi Sedotti dal traffico di messaggi, conversazioni, collegamenti, avvinti dal fragore semantico degli attrattori, transitiamo nel libro delle tracce sperimentando il piacere del dislocamento e dei movimenti plurimi. Perché Facebook non è soltanto voyeurismo. È il piacere di seguire le tracce disseminate dagli altri; di percepire e decodificarne i messaggi; di giocare con gli sguardi – chi sarà quella persona? Cosa posso capire della sua vita guardando la sua bacheca? Che cosa penserà di me? Questo movimento tra indizi trasforma la faccia che è anche avatar in un’antenna che capta e dif-
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fonde segnali. Le antenne di Facebook sono entità liminali che vivono sulla linea della propria identità. Quello che affascina è la possibilità di fare esperienza della condizione di soglia, di limite. La faccia non è più soltanto il luogo dell’identità fissa da documento di riconoscimento, del sé medesimo, ma può diventare il luogo del transito, una sottile membrana che si connette alla pluralità dei mondi. E in questo movimento sperimenta la sottile evanescenza di tutte le identità e appartenenze e le potenzialità libertarie del transito. Con Facebook scrivo e riscrivo continuamente la mia interfaccia – e di conseguenza anche la mia faccia – a seconda delle azioni che compio, dei testi che scrivo, delle cause che sostengo, delle relazioni che intrattengo, delle dichiarazioni di stato che rilascio ogni giorno. L’impossibilità di toccare con mano e di vedere con gli occhi l’altro, stimola un diverso tipo di sguardo. Apre canali imprevisti alla percezione in grado di materializzare nuove dimensioni di realtà. Una nuvola di tag può generare un’aura, un insieme di link un sistema nervoso. La serie di post suggeriscono un’attitudine, uno stile, una mappa delle abitudini cognitive. I contenuti funzionano da potenti marcatori semiotici, attrattori capaci di impollinare ma anche captare, attrarre per simpatia con-
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La moda elettronica è una sfida alla staticità cognitiva ed esperenziale tenuti dello stesso tipo. Tracce, segni, graffi, scritture che non hanno propriamente un inizio e una fine ma andamenti, sviluppi, improvvisazioni, dissonanze, contatti, intrecci, picchi, arresti improvvisi che seguono l’instabile fluire delle affinità elettive. Con Facebook, la dinamica degli sguardi passa attraverso questi segnali. Segnali esibiti come vestiti, come make-up, parlati come slang. Strade e reti: verso il life-sharing C’era una volta la strada, libro delle facce, luogo degli sguardi, crocevia dei desideri. Zona franca dell’identità, spazio libero dove sperimentare momenti di non-appartenenza – alla tradizione, alle radici, alla classe sociale, alla famiglia, alla religione, al genere sessuale, all’ethos dominante. Dal cemento delle strade sono germogliate idee, culture, stili di vita, forme di resistenza simbolica e, soprattutto, la consapevolezza dello stile e la consapevolezza dell’importanza simbolica delle differenze esibite attraverso lo stile. La strada ha reso possibile il prolungamento dell’io, espressione nero cemento dell’inquietudine me-
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tropolitana. Con l’avvento dei media elettronici, del web 2.0 e del social network, gli spazi di condivisione si sono estesi, moltiplicati e sovrapposti. È qui, insieme alla strada, che si praticano, innovano e scontrano le nuove forme dell’interazione umana; è qui che si generano, inseminano e diffondono mode, stili e tendenze che poi tornano alla strada, in un processo di ibridazione continua; un file-sharing che realizza il life-sharing. Le qualità sottili dello scambio. “E dimmi, questa antenna omnidirezionale, non ti sembra un soffione da soffiare? Soffi e le idee girano per il mondo”, scrive sulla mia bacheca l’amico-antenna. Nella dimensione immateriale della moda elettronica, i segnali di moda circolano a una velocità maggiore rispetto alla moda fisica, limitata dalle sue stesse caratteristiche materiali. Se in un giorno posso rinnovare i contenuti della mia interfaccia digitale, non posso fare altrimenti con il mio guardaroba! La moda fisica, che si esprime attraverso la manipolazione di dress code – accessori, abbiglia-
Oggi la nostra faccia può andare ovunque: basta schiacciare il tasto Enter
mento, make-up, messaggi paralinguistici e cinetici – non è in grado di incorporare visualmente le informazioni che ogni giorno ci attraversano a causa della sua stessa struttura materiale. La moda elettronica Con la moda elettronica, che si basa sulla creazione e condivisione di contenuti esperiti come segnali di espressione, è possibile incorporare ed esibire strati di informazione prima impensabili. I segnali esibiti indicano sempre, come nella moda fisica, il tipo di accesso all’informazione e la posizione occupata nello spettro della moda: tempestivo, selettivo, qualitativo, imitativo, fashion victim, ritardatario. Se la comunicazione è la forza sotterranea della moda, nella moda elettronica è accelerata, moltiplicata e dislocata. Una sfida alla staticità cognitiva ed esperenziale. L’esperienza del flusso e dell’attraversamento eccita l’immaginazione creativa: collegare, costruire ponti, sentieri, passaggi, stazioni di cambio tra mondi diversi. Vorrei suggerire l’importanza che tutto questo può avere nel sentire, nel pensare ed esperire la molteplicità, la differenza; di andare oltre i confini prefissati; nella possibilità di smuovere il pensiero critico; nell’ibridazione tra culture. Altro che invisibilità e scomparsa dell’identità! Non si tratta di liberarsi del corpo ma di liberare il cor-
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po, che è anche mente. Oggi la nostra faccia può andare ovunque, basta continuare a schiacciare il tasto ENTER. Se tutto questo suggerisce altri modi, altri mondi, altre possibilità, Facebook ce ne fornisce una traccia.
Note 1 Massimo Canevacci, Una Stupita Fatticità, Costa & Nolan, Milano, 2007. 2 Gregory Bateson, Steps to an Ecology of Mind, 1972; (1976) trad. It. Verso un’Ecologia della Mente, Adelphi, Milano, 1995.
Ornella Kyra Pistilli, antropologa, ricercatrice indipendente, collabora con l’Università “La Sapienza” di Roma.
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“G
aia Lopresti è nata su Facebook il 25 Novembre 2008, è iscritta a 319 gruppi, partecipa a tutti gli eventi, ha 2175 amici, ma solo 15 sanno che in realtà lei non esiste”. Così si conclude il breve corto “GaiaLopresti: una vita virtuale” della regista Emilia Ricasoli, girato il 20 dicembre 2008 e caricato su YouTube il 27 gennaio del 20091. Il corto racconta della creazione di una identità che vive di messaggi scritti nel proprio ‘status’ di Facebook, di immagini e video postati nel proprio profilo, di partecipazioni a gruppi di vario tipo, di adesioni a eventi, di richieste di amicizia. Una identità appunto “non esistente” secondo gli autori, i quali quasi a dimostrazione rimarcano la soppressione del profilo da parte degli amministratori di Facebook seguita alla pub-
Il caso di Gaia Lopresti mette in luce elementi per comprendere alcuni processi di costruzione delle relazioni nei social network
blicazione del video su YouTube. Infatti, di norma gli account su Facebook dovrebbero corrispondere a identità ‘reali’, ovvero a persone con nome e cognome (spesso vi sono problemi, infatti, per gli account di associazioni, collettivi, gruppi artistici e politici, etc.). Il team di Facebook ha oscurato il profilo di Gaia Lopresti, aperto il 25 novembre 2008 perché contravveniva al regolamento contro i fake, ossia i profili “falsi”, ma la sera del 2 febbraio 2009 lo stesso team ha riattivato il profilo di Gaia, “invitandola a non usare il suo wall per diffondere il video e la sua storia” secondo quanto raccontato dagli autori del video. Alla data dell’8 febbraio 2009 Gaia Lopresti ha 2.350 amici, molti ormai consapevoli della sua identità, molti altri sicuramente ancora ignari. Al di là delle intenzioni degli autori dell’esperimento, l’esperienza di Gaia mette in luce una serie di elementi interessanti per comprendere alcuni processi di costruzione delle relazioni nei social network. Naturalmente Facebook non nasce dal nulla, ed è forse utile una breve contestualizzazione. Dal punto di vista della comunicazione e delle
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forme di relazione sociale, infatti, si può sostenere che l’affermazione di logiche di rete e l’utilizzo abituale di numerose applicazioni web based hanno consentito l’introduzione di diversi elementi di discontinuità rispetto al passato. Definire il web 2.0 Ben prima che il termine “web 2.0” diventasse familiare per analisti e studiosi, ci si era accorti che al di là della fortuna degli slogan, qualcosa nella rete stava cambiando profondamente. Il termine “web 2.0”, lo si ricorderà, comincia a diffondersi nel 2003 e viene utilizzato per tracciare a posteriori una linea di demarcazione tra la prima fase di sviluppo della rete (web 1.0) e l’attuale evoluzione in direzione sempre più connettiva e collaborativa. Di web 2.0 sono state date definizioni spesso in contrasto tra loro, e il termine viene spesso utilizzato nel marketing per la sua stessa natura di slogan efficace; ad ogni modo, la definizione di O’Reilly resta la più celebre: “web 2.0 è la rete come piattaforma, comprendente tutti i dispositivi interconnessi; le applicazioni web 2.0 sono quelle che sfruttano maggiormente i vantaggi specifici di tale piattaforma: la distribuzione di software come servizio continuamente aggiornato che diventa migliore quanto più viene utilizzato, con il consumo e il remix di dati da molteplici fonti, inclusi i singoli utenti, che mettono a disposizione i propri dati e servizi in una for-
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ma che consente ad altri di remixarli, producendo effetti di rete attraverso una “architettura della partecipazione”, e oltrepassando la metafora della pagina del web 1.0 per offrire esperienze di utenti sempre più ricche”2. I social network fanno parte della galassia diversificata di realtà che viene definita “2.0”, e sono evidentemente un fatto insieme sociale e tecnologico, dunque svincolato da qualsiasi teleologia o finalismo intrinseco (che invece gli apocalittici e gli integrati di turno credono sempre di individuare). Il web 2.0 – spesso con troppo entusiasmo acritico – rimanda a un’idea di luogo sociale in cui le possibilità di sviluppo della rete si esprimerebbero al meglio, per cui ogni nodo diventa un potenziale “server”. Ciò nel senso del ruolo fondamentale che l’apporto produttivo di ogni elemento della rete rivestirebbe per l’organizzazione, lo scambio e più in generale per la crescita del sapere condiviso dalla moltitudine di utenti che fanno parte del processo comunicativo. L’accento è sulla riduzione e sulla distribuzione di un controllo centrale in favore della velocità, del dinamismo e dei risultati di attività comuni.
La “meccanica” in atto su Facebook sarebbe la soluzione dei molti problemi che affliggono la nostra Università
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Il fatto che esistano migliaia di account come quello di Gaia dimostra che il “valore” di Facebook debba essere ridimensionato? L’architettura della partecipazione Descrivere il web come una piattaforma vuol dire definire la formulazione del concetto di architettura della partecipazione: funzionalità, servizi, contenuti, ed efficienza di programmi e applicazioni migliorerebbero con l’aumentare costante degli utenti che li utilizzano. Da questo punto di vista, sono gli utenti ad aggiungere valore agli strumenti e ai prodotti degli scambi comunicativi. Se si osservano le forme di online business di successo (da eBay ad Amazon, passando per il più vicino IBS, che stanno ridando linfa al mercato dei prodotti di nicchia3), non si può non riconoscere che alla base di questi processi vi siano effettivamente delle interessanti e per certi versi inedite forme di interazione sociale. Yochai Benkler, professore di diritto all’Università di Yale, parla espressamente di produzione di capitale e di valore. I capitali a disposizione dei singoli individui sono molteplici, dalla capacità di calcolo inutilizzata dei computer alla creatività e al lavoro intellettuale (capitale cognitivo), e il loro parziale utilizzo per la produzione di beni condivisi (shareable goods), pur
non implicando grossi investimenti a livello individuale, tutto ciò può condurre – grazie alle tecnologie della comunicazione – alla creazione di beni dall’elevato valore4. Il valore di Facebook È proprio sul “valore” che si gioca la partita dell’interpretazione sul mutamento in atto. Se nel caso di Wikipedia (esperienza peraltro contestata in varie occasioni), dei suggerimenti dei lettori su Amazon o altre realtà “2.0”, pare più o meno chiaro quale sia il valore che cresce grazie alla partecipazione attiva degli utenti, nel caso dei social network le valutazioni si fanno più contraddittorie. A leggere quel che viene scritto sui social network, infatti, ci si trova spesso davanti a letture ora giudicanti, ora enfatiche. Su Facebook, in particolare, è stato detto e scritto molto, e questo – oltre che per il suo effettivo successo in termini di iscrizioni e valore economico – sia mettendo in evidenza la presenza di gruppi razzisti o inneggianti alla violenza, sia per il suo utilizzo “intelligente”, come ad esempio quello dello staff del presidente Obama durante la campagna elettorale contro McCain5. Non entrando nel merito, tra l’altro, si può affermare come nota a margine che quella che è stata condotta come una complessa campagna di marketing ben riuscita6 (con tutte le novità del caso, naturalmente) è stata scambiata da molti analisti per una unione tra una nuova politica “rivoluzionaria” e le lo-
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giche connettive e partecipatorie della rete, con un appiattimento sulle retoriche del web 2.0 – che più che aiutare a comprendere, rendono opaca la reale portata dell’evento e la sua naturale ambiguità. Miti e realtà della rete Forse è meglio dirlo chiaramente, come fa Formenti nel suo ultimo testo: sulla rete circolano ancora diverse mitologie che vengono da lontano, che sono cresciute negli anni Novanta del secolo scorso e che sono sopravvissute nella trasformazione recente del web7. “La rete non può essere controllata”, “la trasparenza è sempre buona”, “lo sciame è sempre intelligente”, e via discorrendo. Anche relativamente al valore partecipativo che si attribuisce a fenomeni di intrattenimento digitale come questo, ci sarebbe molto da discutere. Da un lato, la partecipazione non è riuscita a funzionare di per sé come deterrente delle deviazioni autoritarie della democrazia e anzi ha spesso fatto da dispositivo di pericolose derive populiste. Al contempo va detto che la “meccanica” in atto su Facebook sarebbe la soluzione dei molti problemi di inerzia, passività e verticalità che affliggono la nostra Università. Sottolineare questo non significa affatto porsi dalla parte degli apocalittici che enfatizzano la “negatività” della cultura dello user generated content. Anzi, chi scrive è convinto della inevitabilità del cambiamento e della utilità di un mutamento che scardina le lo-
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Quel che accade nei social network e in Facebook è nella sostanza qualcosa di amorale giche elitarie e centraliste che avevamo ereditato da una cultura monomediale quale quella tipografica della modernità. Più che altro, si è convinti del fatto che per indagare la realtà sociale serva un atteggiamento laico, un approccio basato sulla comprensione più che sul giudizio fulmineo, sulla curiosità più che sulla specchiata moralità (solitamente dell’osservatore e mai in discussione). Già, perché quel che accade nei social network e in Facebook è nella sostanza qualcosa di amorale, proprio poiché – come detto sopra – siamo davanti a un fatto insieme sociale e tecnologico, privo di qualsiasi finalismo costitutivo. Ed ecco perché la vicenda di Gaia Lopresti può essere letta in vari modi. Non è questa la sede per elencare la proliferazione di realtà interessanti connesse alla cultura della partecipazione e dei contenuti generati dagli utenti8. Ci si limiti a osservare che uno dei meriti indubbi di Facebook, rispetto ad altre realtà, è stato il riuscire a portare in rete centinaia di migliaia di persone che forse avrebbero tardato o non vi sarebbero mai entrate. È indubbio infatti che Facebook abbia “alfabetizzato” (brutta parola che rende evidente il pregiudizio tipografico sempre incombente sulla percezione delle vie alla conoscen-
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za) alla rete moltissime persone che non avevano familiarità con il network e le sue logiche, e spesso addirittura neanche con il computer. Alcune di queste persone si sono affacciate su Facebook con l’entusiasmo di chi ritrova vecchie conoscenze o ne fa di nuove, di chi prende parte a cene della classe delle scuole superiori, etc; altre utilizzano Facebook come strumento di lavoro (contatti, comunicazioni, analisi sociologiche, etc.) o di autopromozione (personale, politica, artistica, etc.). Altre ancora, si sono iscritte a Facebook con identità nascoste o “non reali”, decidendo di valutare e ponderare il da farsi, oppure scegliendo esplicitamente la via dell’identità “falsa” (la stessa cosa avviene per ovvie ragioni, e maggiormente, anche nei mondi tridimensionali persistenti online, come Second Life etc.). È il caso di Gaia Lopresti, che peraltro ci dice qualcosa che sapevamo già, sin dai tempi dei MUD e delle chat. Gaia Lopresti lives Il fatto che esistano migliaia di account come quello di Gaia – a volte anche dai nomi celebri, come Gesù di
In Facebook prende corpo una realtà sociale costruita a partire da un senso comune che ogni individualità concorre a modellare
Nazareth, Frank Zappa, etc. – dimostra che il “valore” di Facebook debba essere ridimensionato? Ciò presupporrebbe che consideriamo gli account “normali” – quelli che Facebook ci intima di aprire, ovvero con i nostri nomi e cognomi – rappresentazioni reali di noi stessi. Ma l’identità sociale è qualcosa di enormemente sfaccettata per poter assumere questa posizione come valida in assoluto. In Facebook prende corpo una realtà sociale costruita e complessa, costruita a partire da un senso comune che ogni individualità concorre a modellare, e per questo sostanzialmente indefinibile una volta per tutte. Davide Borrelli ricorda come alla radice dell’espressione “senso comune” risieda una ambivalenza semantica di fondo: munus come debito verso l’altro, come fondazione del luogo comune e dei legami di reciprocità che sono alla base dell’essere insieme; e comune come banale, ovvero ordinario e poco significativo. In questo senso, scrive Borrelli riprendendo l’etimologia di banale (da in bannum positum, abbandonato e allontanato), nello slittamento di significato del concetto di comune, “dal condiviso al banale, si verifica una trasformazione da ciò che percepiamo come “anche nostro” a ciò che invece sentiamo come “estraneo da noi”9. Più nel concreto, come già rimarcava Goffman, se l’identità sociale è costruita, ognuno di noi lavora per costruirla individualmente in un certo modo, ognuno si assume la responsabilità di
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Fakebook: essere insieme, umanamente di Mario Pireddu
sorvegliare il flusso degli eventi a cui assiste e a cui partecipa10. E insieme agli altri crea la realtà sociale, il suo “valore” e le sue configurazioni. L’ostentata voglia di ripulire Facebook da questo o da quello, dai fake e dalle identità non chiare, con il corredo di inferenze che ne consegue, è il corrispettivo oscuro delle acritiche dichiarazioni di entusiasmo per le mitologie e le “rivoluzioni” dei nuovi media. Si tratta di una volontà che rende conto di un’idea di medium spoglia di una considerazione ancora fondamentale: il medium è il messaggio, e il messaggio siamo noi. Il “valore” del medium è nella natura dell’interazione, nel mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che introduce nei rapporti umani11. Rapporti che da sempre si definiscono attraverso media differenti. Quel che si decide di postare su Facebook è una parte di quel che siamo, ed è in questo senso che appare limitante affermare che Gaia Lopresti non esiste. Gaia Lopresti agisce, scrive i suoi pensieri, pubblica dei video, risponde ai contatti. Gaia Lopresti esiste. Note www.youtube.com/watch?=7YP961Y41U4 “Web 2.0 is the network as platform, spanning all connected devices; web 2.0 applications are those that make the most of the intrinsic advantages of that platform: delivering software as a continuallyupdated service that gets better the more
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people use it, consuming and remixing data from multiple sources, including individual users, while providing their own data and services in a form that allows remixing by others, creating network effects through an “architecture of participation”, and going beyond the page metaphor of Web 1.0 to deliver rich user experiences”. http://radar.oreilly.com/archives/2005/10/w eb_20_compact_definition.html 3 Anderson C., La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Codice, Torino, 2007. 4 Benkler Y., The Wealth of Networks: How Social Production Transforms Markets and Freedom, Yale University Press, New Haven and London, 2006. Si veda anche Benkler Y., “Sharing Nicely: on shareable goods and the emergence of sharing as a modality of economic production”, The Yale Law Journal, Vol. 114, 2004, pp. 273-358. 5 www.facebook.com/barackobama 6 www.7thfloor.it/2009/01/29/12-lezioniche-abbiamo-imparato-dalla-strategia-dimarketing-e-comunicazione-di-barackobama/ 7 Formenti C., Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008. 8 Si veda a titolo di esempio Jenkins H., Cultura convergente, Apogeo, Milano, 2007; Jenkins H., Fan, blogger e videogamers. L’emergere delle culture partecipative nell’era digitale, Franco Angeli, Milano, 2008. 9 Borrelli D., Il mondo che siamo. Per una sociologia dei media e dei linguaggi digitali, Liguori, Napoli, 2008, p. 174. 10 Cfr. Goffman E., Il rituale dell’interazione, Il Mulino, Bologna, 1971. 11 McLuhan M., Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967. Mario Pireddu, mediologo, è assegnista di ricerca presso l’Università Roma Tre.
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Fabio La Rocca / Moisés de Lemos Martins flr@ceaq-sorbonne.org / moisesm@ics.uminho.pt
L’esposizione in rete della vita quotidiana. Dialogo tra Fabio La Rocca e Moisés de Lemos Martins
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abio La Rocca: Il mondo contemporaneo è sempre più dominato dal trionfo della società della comunicazione, nella quale il paesaggio del web rappresenta il mezzo principale di scambio, di relazione e di espressione. In questo panorama, la tendenza del social networking si diffonde capillarmente nella nostra vita sociale, divenendo la forma espressiva dell’essere sociale nell’era del web 2.0. Qui la figura dell’internauta assume allo stesso tempo il ruolo di attore e spettatore della “grande conversazione” scambiata quotidianamente in Internet. È il caso di Facebook, un vero fenomeno alla moda, un altro strumento che si aggiunge alla panoplia dei diversi siti friends e comunitari, e che
Facebook non è un semplice “fenomeno alla moda”: l’aggregazione degli esseri umani e degli oggetti tecnici è una tendenza di lunga durata
potremmo definire come un metamedium interattivo che rimodella la vita quotidiana. Quali sono le chiavi del suo successo? Si tratta di un nuovo paradigma dell’esistenza? Moisés de Lemos Martins: Per iniziare, vorrei segnalare che non sono del tutto sicuro che il paesaggio del web rappresenti il “mezzo principale di scambio, relazione ed espressione” della società della comunicazione. Si tratta del trionfo della società della comunicazione o piuttosto dell’emergenza di una società capitalista migliorata, una società basata sul controllo e la soggettivazione? A mio avviso, l’informazione tecnologica è prima di tutto una nuova forma di dominazione. L’interazione con le tecnologie s’iscrive in un processo iniziato tempo fa con la tensione tra la logica degli esseri umani e la logica tecnica. Per essere più precisi, assistiamo oggi a una specie di sincretismo, in cui delle nuove tribù socio-tecniche coesistono con strutture di dominio legate al capitalismo. In questo nuovo ordine, il proto-modernismo e il
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modernismo tout court si presentano mescolati. In questo contesto il sociale, come l’umano, è ormai mescolato all’inumano. Il sociale ha una pelle tecnica, come potremmo dire citando Derrick de Kerckhove. Ciò che lei chiama “un metamedium interattivo” a mio avviso rappresenta una nuova forma di aggregare gli esseri umani con degli oggetti tecnici. Non penso che possiamo parlare di Facebook come di un “fenomeno alla moda”. L’aggregazione degli esseri umani e degli oggetti tecnici è una tendenza di lunga durata nel senso in cui ne parlano Bergson e Leroi-Gourhan. Per la stessa ragione, non credo che siamo di fronte all’avvento di un nuovo paradigma dell’esistenza. Questo paradigma viene dal proto-modernismo e si ricollega alla fusione degli esseri umani con gli oggetti tecnici. FLR: Nello scenario attuale Facebook, inteso come medium sociale, si inserisce in un cambio di paradigma legato alle nuove tecnologie, un ecosistema mediatico strutturato sull’interazione, le reti e le relazioni. Si sviluppa così una sensazione di appartenenza ad una sola vasta tribù che potremmo tradurre evidenziando il passaggio da una società intima all’esposizione e alla messa in rete della vita quotidiana. Possiamo vedere che nell’esperienza digitale della comunicazione, l’identità si mette a nu-
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do, l’intimità si pubblicizza e in questo modo si sviluppa una cartografia umana relazionale e comportamentale. Il fatto di “aggiornare” il profilo, di visualizzare ciò che stiamo facendo, il notro status emotivo, in ogni momento della giornata, è il segno evidente della pervasività della Rete che è sempre in posizione ON; dunque una permanenza on line ininterrotta, che permette la diffusione e l’accesso a tutta la catena di amici (o pseudo tali). Anche questo è il simbolo della potenza della comunicazione attraverso le NTCI (Nuove Tecnologie di Comunicazione e Informazione) che sono sempre più relazionali e, come mostra bene Derrick de Kerckhove, sono un emblema dell’interattività, della connettività e dunque dell’effetto della webitude. Su Facebook, riscontriamo un trionfo del linguaggio digitale della comunicazione da intendere come uno scambio intenso di messaggi, foto, video, informazioni, che si immerge nell’universo dove vige “l’estasi della comunicazione” di cui parlava Jean Baudrillard. MLM: Mi interrogo se la definizione di Facebook come “medium so-
Nell’esperienza digitale della comunicazione l’identità si mette a nudo
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Nei nuovi ecosistemi ha luogo un’ibridazione: l’homo sapiens si mescola all’homo numericus ciale” spieghi tutta la sua natura. I nuovi media rendono conto dell’emergenza di una società capitalista migliorata. Concepisco Facebook come un’attività positiva, dove è all’opera un processo di soggettivazione che ci rende docili e utili. Per capire meglio il dispositivo Facebook, possiamo appoggiarci sull’idea di Castells dell’abbandono del modello basato sulla produzione e l’avvento di un modello imperniato sull’informazione. Considero tuttavia che questa chiave ermeneutica non sia completamente soddisfacente. Se posso fare una parodia della teoria dell’informazione, direi che, dalla sua origine, essa è legata alle compagnie telefoniche. Si tratta di compensare o di annullare dei rumori, in modo che i messaggi circolino tra un emittente e un ricettore. Direi allora che la figura dell’ecosistema mi sembra, a tal proposito, molto più pertinente. Dobbiamo comunque rilevare che in questi ecosistemi ha luogo un’ibridazione: l’homo sapiens si mescola all’homo numericus. Un essere ibridato con le sue logiche socio-tecniche. Pensando a Donna Haraway, si potrebbe parlare
di cyborg. Ma forse bisogna esprimersi in modo più radicale. Dovremmo quindi dire che questo processo di ibridazione è cominciato con il linguaggio (la scrittura in quanto proto-tecnica per parlare come Derrida) ed è continuato con la stampa, la fotografia, il grammofono, il film e la macchina da scrivere, la radio, la TV e prende forma oggi in questa nuova fusione di bios e tekné: una fusione dell’organico e dell’inorganico che il cibernauta sperimenta quotidianamente. Non credo, tra l’altro, che questo passaggio dalla società intima all’esposizione e la messa in rete della vita quotidiana sia apparso all’improvviso tramite l’avvento dei nuovi media. Abbiamo visto con Habermas che la creazione dello spazio pubblico è iniziata con i giornali e i bar, in seguito alla Rivoluzione francese. La radio ha avuto anch’essa un’importanza decisiva nella prima metà del XX secolo, per poi lasciare spazio alla televisione. C’è stato quindi un grande cambio di forma: all’inizio, i media avevano un centro di controllo dell’informazione ed erano gerarchici e verticali con un’interazione dell’alto verso il basso. Era il caso della stampa, della radio e della televisione. Ora invece le reti digitali costituiscono una cartografia accentrata con delle interazioni orizzontali. Sulla connessione permanente, continua e ininterrotta “della rete
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che è sempre in posizione ON” vorrei ricordare che per Toni Negri il capitalismo è per natura connettivo, ed egli arriva fino al punto di parlare di modo connettivista del capitalismo che comporta la fine delle frontiere. La “modernità liquida” di cui parla Bauman spiega questo genere di fenomeni; essa permette quindi la liberazione del capitale e la sua frontiera un tempo ristretta, chiusa, pesante, meccanica, ora può mobilizzare l’uomo intero. Questa logica connettivista è una logica iper che s’impone nel sociale: “se tu non sei connesso, non esisti più”; “mi connetto, quindi esisto”. In questo processo c’è una certa somiglianza con i fenomeni di dipendenza: più ne prendi più ne vuoi. Anche la televisione produce un effetto simile. Pertanto la connessione nei nuovi media non è più parziale, ma avvolge la gente sempre più nella loro totalità come se si trattasse di un processo virale. FLR: Se Internet diventa l’infrastruttura di funzionamento delle attività umane, è certo che Facebook occupa qui un posto di primo piano, divenendo una norma di quelle che con Federico Casalegno chiamiamo “cybersocialità”. (Il Saggiatore, 2008). Ciò influenza l’immaginario collettivo nel quale il gioco, il ludico, il sentimento di condivisione, la smania di tessere dei legami all’infinito, sono altrettanti segni dell’ho-
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“Mi connetto quindi esisto”
mo numericus oppure del nuovo uomo postmoderno che tramite Facebook realizza un’autocelebrazione del Sé che si perde in un Noi più vasto. Ma allo stesso tempo, questa autocelebrazione genera anche un’autosorveglianza dell’esistenza, una mondializzazione della vita privata. L’individuo insieme con il sistema di sorveglianza e di marketing virale che si “nasconde” dietro il supporto tecnico di Facebook, forma in questo modo un solo e unico Big Brother! La “facebookizzazione” del mondo potrebbe allora essere intesa come un nuovo paradigma dell’esistenza che indicizza il corpo sociale. MLM: Questa socialità è ambigua. Potremmo dire che essa può sia produrre qualcosa di nuovo ricreando delle inedite possibilità, sia rinforzare la società del controllo. Facebook è in grado, infatti, di provocare lo sviluppo delle differenze con la celebrazione del corpo e del ludico. Le comunità e le feste rese possibili dal social networking vanno in questo senso. Ma i suoi effetti sono contraddittori e le dipendenze emozionali che genera ne offrono una testimonianza. Questo nuovo Big Brother si indirizza all’individuo intero e lo avvolge dall’interno come se parteci-
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passe ad una allucinazione collettiva, uguale all’esperienza allucinogena descritta da Gibson nel suo romanzo Neuromante. Questo processo è in grande accelerazione: sempre più reti e anche sempre più tempo davanti al computer. Si tratta di un Big Brother frammentato, accentrato, con delle rugosità e delle contraddizioni. Per esempio, vediamo sorgere delle reti sotterranee che sono nel Net ma che non gli sono sottomesse. È il caso del neo-sciamanismo, del new age, della sperimentazione estetica, delle comunità di software libero contro Microsoft, degli hackers etc. La logica di questo Big Brother va nel senso di una mobilizzazione estetica ed emotiva di ogni individuo. D’altra parte, bisogna sottolineare che l’invocazione dell’estetica nel contesto tecnologico non è limitata dal taglio epistemologico di questa disciplina. L’estetica è qui compresa in rapporto alla sensibilità, all’emozione, alle sensazioni, all’affetto. Per questo diremo che la nuova sensibilità è ibrida. Sono le macchine prodotte dalla scienza che mobilitano gli affetti e
Siamo di fronte alla crisi dei rapporti di proprietà sui quali si poggiano i valori di creatività, genialità, valore eterno e segreto
gli danno un valore mercantile. Nel momento stesso in cui le nuove tecnologie si spettacolarizzano, esse remitologizzano il mondo in permanenza, realizzando il ritorno dell’arcaico nell’attuale. Dall’analisi di Benjamin, capiamo che l’avvento dei nuovi mezzi tecnici non ha come unico effetto la “disarticolazione delle masse”. Al contrario, le nuove tecnologie aiutano l’ingresso delle masse nella storia rinforzando il loro diritto affinché possano affermarsi nella loro potenza. Questa circostanza provoca la crisi dei rapporti di proprietà sui quali si poggiano i valori di “creatività, genialità, valore eterno e segreto”. FLR: L’esistenza dell’uomo postmoderno è generalmente posizionata in questo mondo digitale sociale, di cui Facebook fa parte, con una forte convergenza tecnologica in cui Internet, come indica Joël de Rosnay, è pensato come una Tecnologia di Relazione. Relazione e convergenza sono dunque caratteristiche legate all’effetto Facebook, che dallo spazio privato si propaga in quello pubblico grazie alla proliferazione degli apparecchi tecnologici, come i telefoni cellulari di nuova generazione, che permettono agli individui di essere ad ogni momento della giornata in contatto con la propria comunità di amici per comunicare e avere sotto controllo ogni istante della loro vita. In tal modo, si potrebbe
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ipotizzare, seguendo Alexander Bard e Jan Söderqvist, che l’utente diventa il medium; questo lifestreaming getta la personalità skizoide nella tela di Facebook e nel desiderio di essere collegato (nel senso del legame tecnologico) che determina il passaggio dell’individuo verso il “dividu”, nel senso deleuziano. Ecco dunque quello che sembra essere, nel momento della trasposizione della vita quotidiana in Facebook, uno dei tratti caratteristici della personalità “dividuale”: un punto di vista sulla frammentazione dei pezzi di vita in funzione del coinvolgimento nel contesto, nel presente dell’immersione tecnologica. MLM: Riconosco nel suo spunto una tesi di Deleuze che trovo molto interessante. In effetti, la tendenza schizoide della società moderna è antecedente al web 2.0. A mio avviso, il web 2.0 non costituisce un
Moisés de Lemos Martins è professore di Scienze della Comunicazione all’Università do Minho di Braga (Portogallo), membro del CECS (Centro de Estudos Comunicação e Sociedade), dove dirige il gruppo di ricerca “Linguaggio e Interazione Sociale” e presidente dell’Istituto di Scienze Sociali della stessa università. Direttore delle riviste scientifiche Comunicação e Sociedade e Anuário Internacional de Comunicação Lusófona.
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cambio di paradigma. Siamo qui di fronte alla dilatazione di ciò che è cominciato con lo sviluppo della società moderna o, in altri termini, di quello che è cominciato con il capitalismo. Un ultimo aspetto da evidenziare: la sua riflessione colloca la trasposizione della vita quotidiana su Facebook sulla linea della frammentazione. L’immersione nel contesto, nel presente dell’immersione tecnologica, significherebbe la frammentazione dei pezzi di vita. Condivido pienamente questo punto di vista. La tecnica non è più soltanto strumentale, non si limita più a prolungare il braccio umano ma attraversa l’umano e lo investe. Essa è, in effetti, seguendo la formula di Heidegger, la condizione che ci permette di definire l’umano. L’uomo non è più separabile dalle reti tecnologiche multiple dove decide la sua vita: esso ha ormai una pelle tecnologica.
Fabio La Rocca è sociologo ricercatore al Centre d’Etude sur l’Actuel et le Quotidien (CeaQ) all’Università Paris Descartes Sorbonne dove ha fondato e dirige il GRIS (Groupe de Recherche sur l’Image en Sociologie). Docente di Sociologia della vita quotidiana, Immaginario e Postmodernità alla Sorbonne.
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Federico Tarquini federico.tarquini@iulm.it
La distrazione comunitaria
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La distrazione e il raccoglimento vengono contrapposti in un modo tale che consente questa formulazione: colui che si raccoglie davanti all’opera d’arte vi si sprofonda; penetra nell’opera, come racconta la leggenda di un pittore cinese alla vista della sua opera compiuta. Inversamente la massa distratta fa sprofondare nel suo grembo l’opera d’arte. Ciò avviene nel modo più evidente negli edifici. L’architettura ha sempre fornito il prototipo di un’opera d’arte la cui ricezione avviene nella distrazione e da parte della collettività. Le leggi della sua ricezione sono le più istruttive” (Walter Benjamin, 1936). Mettendo a confronto l’esercizio del raccoglimento e della distrazione, Benjamin traccia le conclusioni del suo magnifico saggio sull’opera
La distrazione configura una struttura mentale che impone a sua volta un inedito paradigma sociale
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. È il passo conclusivo di una riflessione nata dalle caratteristiche tecniche della riproducibilità seriale, e capace di spiegare come i processi di percezione scaturiti da essa rappresentino sia delle discontinuità che delle continuità con le forme estetiche del passato. L’elemento che certifica questa doppia valenza è la distrazione, intesa come qualità e modalità della percezione delle masse. Discontinua è l’alternanza tra raccoglimento e distrazione, valore culturale e valore espositivo; in continuità con le attitudini blasé del soggetto metropolitano è, all’opposto, lo sguardo distratto. Già Baudelaire nella prima pagina de “Il pittore della vita moderna” descriveva l’andamento noncurante dei visitatori nei corridoi dedicati alla pittura del Louvre. È la metropoli il medium di questi processi. Il contenitore che permette, finanche obbliga, un uso così naturale della distrazione nel vissuto quotidiano della massa. Attraverso la distrazione si costruisce quella struttura mentale che presiede l’imporsi di un nuovo
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La distrazione comunitaria di Federico Tarquini
significato, l’erigersi delle architetture dell’immaginario (Bachtin). Distrazione, abitudine e normale senso comune Intorno ai concetti di abitudine e di normale senso comune Stuart Hall e Louis Althusser hanno offerto riflessioni degne di nota. Il principale animatore della corrente dei Cultural Studies ci ha mostrato come siano effettivamente la spontaneità e la naturalità “che rendono il senso comune simultaneamente, ‘spontaneo’, ideologico e inconscio”. E inoltre che “tramite il senso comune non si può apprendere come stanno le cose: si può solo scoprire qual è il loro posto nello schema esistente delle cose”. È perciò evidente in che modo l’ideologia, espressa come la narrazione che “racconta” il senso comune, non possa essere estrapolata dalla vita quotidiana ed essere esclusa dall’incessante divenire del mondo. È su questa prospettiva che Louis Althusser ci concede la sua visione del comportamento dell’ideologia all’interno del contesto sociale. Per il filosofo francese, l’ideologia non è altro che “un sistema di rappresentazioni, ma queste rappresentazioni non hanno il più delle volte nulla a che vedere con la ‘coscienza’. Per lo più sono immagini, a volte anche concetti, ma soprattutto sono strutture, e come tali si impongono alla stragrande maggioranza degli uomini senza passare at-
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traverso la loro ‘coscienza’. Sono oggetti culturali percepiti-accettati-subiti che agiscono sugli uomini attraverso un processo che sfugge loro”. Tutta questa introduzione ha l’ambizione di spiegare, seppur parzialmente, quale sia il meccanismo che soggiace alla connotazione di un “oggetto culturale” come Facebook. La distrazione sembra essere uno dei punti cardinali intorno al quale i soggetti interessati a tale piattaforma ne stanno negoziando il significato. Vedremo in seguito un esempio topico che rappresenta come la distrazione sia un fattore essenziale nel processo di analisi che si sta compiendo sul fenomeno Facebook: le sue comunità. Comunità della e nella distrazione Riflettere oggi sul senso della comunità offerto da Facebook è certamente una sfida complicata. Dopo un lungo tempo nel quale la comunità fu disgregata, sradicata ed esclusa dalla scena sociale, oggi sembra tornare con rinnovato vigore. Per definire la sua emersione nei social net-
Community è uno dei tanti termini inglesi che si sono imposti nel nostro vocabolario dall’avvento delle tecnologie digitali
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L’esibizione di volti è in grado di svelare le sfaccettature diaboliche che caratterizzano il nostro tempo
work si tende ad usare un vocabolo inglese: community. Community è uno dei tanti termini inglesi che si sono imposti nel nostro vocabolario dall’avvento delle tecnologie digitali. Ciò accade quando una piattaforma espressiva, la lingua italiana, non è più capace di reggere l’urto del mutamento in atto. Detto in altre parole il concetto di comunità che si va delineando in rete sfugge al suo tradizionale significato linguistico, ed è perciò necessario accettare l’invasione di un elemento incoerente (un vocabolo inglese) dentro un insieme storicamente dato (il vocabolario della lingua italiana). Questa anomalia, fuori da una riflessione prettamente linguistica, mette in luce come la comunità – dimensione relazionale – abbia ritrovato vigore dopo secoli di esclusione dalla scena sociale, ma in una forma dalle caratteristiche diverse. Il pensiero sociologico moderno in tutte le sue molteplici declinazioni è unanime nel considerare il tempo moderno come ciò che ha disgregato le comunità tradizionali (Giddens). L’uso di una
terminologia inglese è perciò un’operazione volta a definire le comunità in rete come derivazione mutata dell’antico concetto di comunità. Tale manovra si basa, in maniera alquanto evidente, sulla qualità e la quantità di rapporti sociali consumati nei social network. Questa forma “del tutto nuova” di comunità è il campo espressivo dove convergono le tesi e gli studi maggiormente coinvolti nell’analisi della società delle reti, o più in generale nella tanto dibattuta società postmoderna. L’industria culturale, attraverso le sue narrazioni, ha avuto una forte influenza nei processi di mondanizzazione delle società occidentali, fornendo “l’habitat” dentro cui le nuove soggettività, costantemente delineate e messe in crisi dai meccanismi della moda e del progresso tecnologico, hanno potuto collocarsi. Sradicamento e ricollocazione furono al tempo stesso sia il mezzo che il fine (o la fine) di una inesorabile marcia verso il ritorno della comunità come dimensione relazionale. In altre parole i continui conflitti acuiti dall’accelerazione del tempo si riducevano nell’adesione ad una comunità, intesa come soglia tra spazio pubblico e spazio privato, tra identità e personalità. È questo il meccanismo che diede vita alla lunga stagione delle sottoculture, all’invenzione del “giovane”, al prepotente ingresso dei miti dello spettacolo e del consumo nei processi di costru-
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La distrazione comunitaria di Federico Tarquini
zione dell’identità. Il fattore che rese possibile l’equilibrio di un tale sistema, sempre fondato sulla crisi e perciò altamente instabile, fu la distrazione. Attraverso la distrazione veniva imposto il senso dell’abitudine nella percezione. La frattura creata nella narrazione dei vissuti quotidiani dallo strano, dal barbaro e da altre figure simili, veniva ben presto ridotta e ricongiunta, tramite l’insorgere della distrazione, alla dimensione del senso comune. Tutto ciò poteva avvenire grazie alla capacità della cultura occidentale di rendere oggi canonico ciò che ieri era anomico. Il coinvolgimento emotivo Che senso ha, dunque, parlare di community? Che senso ha la community stessa? Questa mattina aprendo Facebook ho letto lo stato di un amico che così recitava: “Onore a Massimo Morsello”. Che significato ha tutto ciò? Quale grado di coinvolgimento emotivo causa la lettura di tali affermazioni? Basso! Letto nei termini della canonica scala di valori di una persona tendenzialmente democratica ciò dovrebbe far inorridire, o al massimo provocare dissenso. Sinceramente non si riscontrano in gran numero questo genere di sentimenti. Sulla superficie di questa indifferenza va ricercato il senso della community. Numerosi sono i gruppi-comuni-
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Facebook crea e ricrea costantemente la vita comunitaria
tà su Facebook che dovrebbero provocare sdegno. È evidente che spesso, e nella mente di molti, si accenda il calore di questo sentire. Ciò non impedisce comunque la loro esistenza, spogliando, inoltre, il velo che nelle precedenti piattaforme espressive, più facili da controllare e quindi da indirizzare, copriva questo genere di fenomeni. Il valore espositivo viene di conseguenza fortemente potenziato; la parte del diavolo si mostra dunque a noi con il suo “semplice” volto. Una serie di informazioni ci tengono costantemente legati alle persone che sono nella nostra orbita, nella nostra pagina, venendo da lontano “come l’acqua e il gas” (Valéry). Così come è difficile mortificare la nostra abitudine al comfort della luce e del gas a favore di una condotta rispettosa dell’ambiente, ci è complicato infervorarci per questo genere di cose. Ciò accade poiché questi messaggi vengono dagli “amici”, da persone che abitano la nostra comunità, e che quindi intrattengono con noi un rapporto di prossimità. Quest’ultima è capace, in maniera prepotente rispetto ad altre piattaforme, di attivare all’infinito altre
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forme di relazioni con “gli amici degli amici”. Tali forme espressive penetrano in noi, nello stesso modo descritto da Benjamin per il cinema. La valutazione che esprimiamo intorno a questi temi è distratta, blasé. La capacità che permette tale esercizio si è sedimentata nell’animo occidentale proprio grazie all’esperienza della metropoli e delle sue forme estetiche. “Siamo abituati” ad elaborare informazioni, a valutarle, nella distrazione. Al di là di un giudizio di merito su tale attitudine valutativa – per un’operazione del genere si avrebbe bisogno di altro spazio e forse di competenze maggiori – ci preme sottolineare come siano i processi di distrazione a tenere le fila di una dimensione sociale così liquida. A permetterci ancora una volta, nonostante le molte criticità, di essere immersi nella dimensione relazionale simboleggiata da Facebookbbok. Hebdige, parlando della dialettica tra culture dominanti e sottoculture, poneva come discriminante la portata non natu-
Ciò che in Facebook si esprime con il meccanismo della distrazione, è una crescente necessità di rapporti umani
rale delle forme estetiche di quest’ultime. La riduzione di tale innaturalità venne operata grazie alla distrazione con cui si finisce per percepirla, che velocemente diviene abituale. Lo strappo operato sulla maglietta di un punk frequentando la stessa dimensione della moda, usandone gli stessi strumenti, può essere velocemente ricondotto nell’abitudine e rielaborato a piacere dalla cultura dominante. La ricreazione e la socialità Accettare tale visione del mondo e dei rapporti umani sembra portare ad un’inevitabile qualificazione peggiorativa degli stessi. Facilmente si potrebbe concludere che la quasi incapacità di provare sdegno – la semplicità con cui apparentemente la cultura dominante pesca nel mare della rete i suoi frutti dorati, anche quelli apparentemente tossici – porta ad un imbastardimento dell’animo umano. È forse plausibile credere che tutto ciò porti alla dittatura della distrazione, evocata nel suo senso peggiore, quello del mito dell’uomo-macchina privo ormai di cuore e di umori, capace solo di eseguire. Crediamo diversamente che tale meccanismo abbia il potere di porsi come campo espressivo della mutazione socioantropologica in atto – ruolo da sempre assolto dalle forme estetiche – svelando i residui che le grandi narrazioni moderne celavano, espellendoli come rifiuti.
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La distrazione comunitaria di Federico Tarquini
Ciò che in Facebook si esprime, attraverso il meccanismo della distrazione, è una crescente necessità, e quantità, di rapporti umani. Potenziando la comunicazione si potenzia un genere di legame che, anche qualora fosse vuoto di senso, sancisce la necessità immanente all’uomo di essere in relazione con il mondo, con
le comunità che sceglie o che è obbligato a frequentare. Difficile uscire da una torsione così delicata come quella che si è appena descritto. Capire altresì dove riposi il senso ultimo della comunità ricreata su Facebook. Conoscerne la verità. Distratti lasciamo questo compito a chi ne fosse capace.
Federico Tarquini svolge un dottorato di ricerca in cotutela presso l’Istituto di Comunicazione dello IULM di Milano e il CeaQ dell’Università Descartes Paris V “La Sorbonne”. Prepara una tesi diretta da Alberto Abruzzese e Michel Maffesoli sul rapporto tra estremismo politico e società delle reti.
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Tito Vagni tito.vagni@iulm.it
Dalla bacheca di partito alla bacheca di Facebook
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’Italia che abbiamo in mente assomiglia poco alle altre nazioni occidentali che si identificano spesso con i grandi agglomerati urbani o con le megalopoli. L’Italia è una nazione di provincia. I suoi cittadini abitano per il 70% in territori che potremmo definire rurali. Come già osservava Georg Simmel agli albori della modernità, la vita nella metropoli è assai più complessa di quella nei piccoli centri, perché consente una quantità di relazioni e di stimoli superiori, determinando così una distinzione tra le due forme dell’abitare, in particolare per ciò che concerne l’esperienza pubblica. La metropoli è il luogo naturale dell’azione politica, quindi i suoi cittadini avvertono una prossimità maggiore alle istituzioni di quanto non sia per un abitante della provincia italiana, che ha la sensazione di essere alla periferia dell’impero. Nei comuni italiani la politica
Jean Baudrillard: “Video dunque sono”
nazionale è un’esperienza televisiva. Si ha accesso alle notizie soltanto attraverso i media e in particolare grazie alla televisione. Non a caso come ha più volte scritto Alberto Abruzzese, il processo di metropolizzazione, e quindi di modernizzazione, per buona parte degli italiani è avvenuto attraverso lo schermo televisivo. Il retroscena metropolitano Nella metropoli i cittadini hanno la possibilità di osservare i propri rappresentanti nella situazione di retroscena, senza la mediazione dello schermo. Non è difficile infatti imbattersi in un politico mentre sta facendo shopping, mentre pranza con sua moglie o è affaccendato in qualsiasi altra attività quotidiana. Molti cittadini della nostra capitale conoscono abitudini e frequentazioni di quegli uomini pubblici che sono alla guida del Paese. Così, oltre al rapporto mediato dallo schermo o dalle pagine stampate, vi è una sorta di visione diretta dei politici che dà la sensazione di essere vicini, di esperire un contatto. L’incontro di un
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Dalla bacheca di partito alla bacheca di Facebook di Tito Vagni
parlamentare, di un ministro, di un banchiere, di un divo, di uno qualsiasi dei personaggi che popolano la televisione costituisce un ricongiungimento tra la dimensione rappresentativa e quella rappresentata che garantiscono, l’una per l’altra, l’esistenza. Quando invece la conoscenza si arresta a un livello meramente immaginario, essa gode del fascino del dubbio lacerante, in cui non sappiamo se le nostre passioni, i nostri investimenti affettivi riposino su un dato reale o meno. Siamo animati da un’insolvibile voglia di rischiare. Gli abitanti della metropoli si confondono con le figure del potere reale e anche se il contatto è sempre protetto da una pellicola di intangibilità si ha la sensazione di partecipare e di condividere l’esperienza dell’abitare. Le medesime dinamiche non sono rinvenibili in un piccolo comune di provincia, anche se i due livelli dell’esperienza permangono. Il primo è occupato dai media che danno vita alle narrazioni dell’azione politica. C’è anche un secondo piano, misconosciuto nella metropoli, in cui il cittadino veste i panni dell’anonimo amministratore o del militante. Questa dimensione non ha risalto nei mezzi di comunicazione di massa e pertanto resta lontana dalle logiche delle odierne videocrazie. È chiaro infatti che gli sfortunati che non hanno avuto un battesimo televisi-
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vo sembrano quasi condurre una vita minore o comunque un’esistenza di cui nessuno, se non i membri della stessa comunità, ha notizia. Come ha sintetizzato Jean Baudrillard: “video dunque sono”. La bacheca nella vita di partito La vita di partito, almeno fino a qualche anno fa, era fatta di riunioni di sezione, di porta a porta, di discussioni nei bar e della bacheca. La bacheca era lo strumento di comunicazione attraverso il quale la sezione locale del partito comunicava le proprie idee alla popolazione. Era un mezzo di grande impatto perché affissa sulle mura della piazza o in ogni luogo in cui pulsava la vita della comunità. Intorno alla bacheca c’era un’aura speciale: avere la possibilità di emanciparsi dal ruolo comune dell’urlatore da bar e godere del privilegio di pubblicizzare attraverso il sofisticato strumento della scrittura i propri pensieri, provocava un particolare stato di euforia. Impossibile dimenticare il rumore forte dei colpi impressi sulla macchina da scrivere, i ripensamenti, gli errori, i sorrisi di
La bacheca di partito era il simbolo di idee forti mosse da passioni coraggiose che davano senso all’esistenza
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I contenuti di Facebook sono pubblici senza avere una rilevanza pubblica compiacimento. La famiglia chiamata a raccolta per giudicare, a lavoro finito, la riuscita del pezzo che sarebbe deflagrato come una bomba nel vociare cittadino. La bacheca conteneva spesso delle invettive che necessitavano di essere coperte e difese, per questo le affissioni avvenivano a notte fonda, di sabato, quando l’oscurità bastava a coprire ogni responsabilità e la bacheca a fare da scudo a qualsiasi reazione. Così, la domenica mattina dopo la messa, vedere un capannello di persone, amici, compaesani, attenti a leggere quelle parole era emozionante. Difficile scordare quei tempi che sembrano quasi aneddoti da libro Cuore per quanto sono distanti dalla “politichetta” che prepotentemente si affaccia sui nostri giorni. Invece si tratta degli anni ’90, anni in cui le definizioni avevano ancora un senso e la bacheca sulla quale si scriveva marcava una distinzione di valore tra le storie a cui ciascuno apparteneva. La bacheca era un momento che cristallizzava una passione autentica, priva di qualsiasi tornaconto. Questa caratteristica accumunava, in maniera indistinta, tutti gli schie-
ramenti. Si desiderava introdurre la propria storia nella Storia a cui si sentiva di appartenere. Bacheche digitali Quando si parla di bacheca, in questo preciso momento storico, ci si riferisce, quasi sempre e in particolare per le giovani generazioni, alla bacheca di Facebook. I paragoni sono inutili, perché l’unico punto di contatto tra questi due oggetti è la loro rilevanza pubblica, la loro capacità comunicativa. Entrambe servono per rendere noto un contenuto. Ma con quali contenuti abbiamo a che fare su Facebook? Sarebbe impossibile dirlo con esattezza, tant’è alto il numero di utenti che ne fa uso e che ha facoltà di scrivere. Quello che è certo, è che i contenuti di Facebook sono pubblici senza avere una rilevanza pubblica. Ciascuno può assistere ogni giorno ad una pubblicizzazione, vera, verosimile o falsa (poco importa) di uno dei suoi contatti. L’intimità, un tempo gelosamente custodita nel proprio corpo, che riusciva a trapelare soltanto con un arrossamento, una lacrima o un sorriso, adesso è pubblicizzata senza pudori, segno di una svendita totale al mercato delle vanità. Così questo che viene definito un social network diviene lo strumento per fare quello che si è sempre fatto con mezzi meno efficaci: mettersi in mostra. Il processo di vetrinizzazione sociale descritto da Vanni Codeluppi, ini-
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ziato con i passages parigini e le grandi esposizioni universali, in cui per la prima volta la merce veniva esposta, mettendo in secondo piano il proprio valore d’uso e facendo emergere dal suo nucleo vitale la sua forma estetica come valore di scambio simbolico, vive con Facebook la fase più avanzata, quella più potente, perché capace di aggregare, montandoli insieme, foto, musiche, parole, attribuendo ad ognuno di questi segni un significato ricombinato. Ciascuno produce il proprio racconto, trasformando la miseria umana in un film ad alta tensione, con l’intento di compiacere il proprio pubblico o la propria cerchia. Bravo maestro il reality I quattro milioni di italiani che usano Facebook con disinvoltura hanno avuto gioco facile ad acquisire le tecniche della esteriorizzazione del sé grazie ai tanti reality show che sono emersi come l’ultimo grande genere della televisione generalista. In questi spettacoli televisivi sembra che i concorrenti sviluppino una particolare attitudine nell’autonarrazione. Partendo dal Grande Fratello e passando per i suoi surrogati, i personaggi che hanno avuto maggiore successo sono quelli che hanno saputo costruire un racconto avvincente della propria storia. La narrazione è rivolta al pubblico dal quale però è difficile o raro avere dei feedback, per tale motivo il concorrente vive nella paura
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Facebook è il simbolo di una vita avviluppata su se stessa, incapace di dedicarsi all’altro ma bramosa di esibirsi
costante di non essere compreso e inizia a fornire delle didascalie a corredo dei suoi video-comportamenti, iniziando così a parlare di sé ogni volta che se ne presenta l’occasione. Il teorema è di grande interesse: l’immagine ha una forza dirompente e si ha la sensazione che abbia la grande capacità di cogliere un momento, catturarlo e isolarlo, costituendolo come una prova vincolante. Le persone che compaiono nello schermo non vogliono che le immagini siano interpretate liberamente, così un bacio non è semplicemente un bacio, e la foto con un bicchiere in mano non è sete ma voglia di divertirsi. Attraverso la parola i partecipanti dei reality vorrebbero circoscrivere le interpretazioni, proiettare lo sguardo del telespettatore dietro l’immagine, per catturarne veramente il senso, racchiuso nelle intenzioni di chi ne è protagonista. Così in un banale programma televisivo, in maniera inconscia, assistiamo a una sorta di performance surrealista. Come nell’opera di René Magritte Ceci n’est pas une pipe, il modo in cui i partecipanti dei reality, e sulla loro scia gli utenti di
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Facebookbook, affiancano a delle immagini dal significato apparentemente incontestabile delle didascalie che ne negano la naturalezza dell’evidenza, mette in crisi il legame presunto tra immagine e realtà. L’epoca delle passioni tristi Dopo aver appreso alla scuola dei reality le tecniche per parlare di sé, agli utenti di Facebookbook non resta che pubblicare tutto, sviscerarsi, per non avere il timore di essere interpretati e fraintesi. Ecco allora che assistiamo quotidianamente a un’inflazione di segni: “sono triste”, “sono contento”, “ho trovato l’amore”, “mi hanno lasciato”, “sono arrabbiato”, “ho sonno”, “devo andare in bagno”. Una cronaca stucchevole di cui potremmo fare a meno, aspetti del quotidiano che un tempo sarebbero restati nella propria intimità oggi sono pubblicizzati. La bacheca di partito era il simbolo di idee forti mosse da passioni coraggiose che davano senso all’esistenza. Questa nuova declinazione cibernetica della bacheca è l’esempio della tristezza delle passioni attuali (Benasayag) fondate sulla mi-
Facebook è una piattaforma di relazioni che in sé non produce effetti negativi
sera venerazione dell’io erto a stella polare. Facebook è il simbolo di una vita avviluppata su se stessa, incapace di dedicarsi all’altro ma bramosa di darsi, per il gusto perverso di essere presa da chiunque, di essere desiderata e desiderarsi in una forma di autoerotismo che vuole impedire la brutalità del contatto, della partecipazione e della condivisione. La barbarie dell’altro. La bacheca era il racconto di un’esperienza collettiva, il risultato sintetico di un sogno che trascendeva gli uomini del presente, e li confondeva, obbligandoli a costituirsi in comune, rinunciando così alla differenziazione con l’altro con cui si condivideva la propria vita totalizzata. Facebook, figlio legittimo della nuova dimensione globale, si scopre contenitore di mondi umani, di corpi in cui inizia e si esaurisce l’esperienza nella sua dimensione minima, quella individuale. Esistono eccezioni, alcuni utenti utilizzano la bacheca per socializzare informazioni, per creare una coscienza condivisa, ma molto più spesso Facebookbook è uno strumento utile a propagandare se stessi e mostrare ai piccoli pubblici che ci costruiamo intorno chi siamo o in molti casi chi vorremmo essere. Non si tratta qui di descrivere in maniera esauriente i meccanismi che sottendono a due dispositivi così diversi, ma di comprendere un cambiamento, il passaggio dalla dimen-
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sione collettiva a quella privata dell’esperienza. Il passaggio da una società passionale ad un cinismo contemplativo che si fonda sul fallimento della prima. La sfiducia nell’altro e l’egocentrismo che ne deriva. La malinconia Questa scrittura intrisa di malinconia ha ragioni personali ma si nutre anche di un dubbio al momento irrisolvibile. Facebook non è un’aberrazione, è anzi una piattaforma di relazioni che in sé non produce effetti negativi, e l’esposizione pubblica del proprio io non è un fatto da condannare. Non si vuole neanche sostenere il teorema del “si stava meglio quando si stava peggio”, sappiamo
bene che nelle nostre ali è impigliata la tempesta che ci conduce inesorabilmente verso il futuro (Benjamin), ma non crediamo che tutto quello che ci lasciamo alle spalle siano macerie e distruzione. Abbiamo impressi nelle nostre menti ricordi di cui non vogliamo privarci in nome del progresso, e allo stesso tempo sentiamo il bisogno di liberarci da alcune costrizioni del passato e trovare nei media digitali un ambiente capace di accogliere le nostre istanze. Se è impossibile giudicare senza prendere parte, allora siamo con il vecchio futuro che ci accoglie nel suo presente, ma non rinunciamo alle passioni, altrimenti gelerebbe il nostro cuore.
Tito Vagni è dottorando di ricerca in Comunicazione e Nuove Tecnologie presso l’Università IULM di Milano e in Sciences Humaines et Sociales preso l’Université Paris Descartes, “La Sorbonne”. Si occupa di cultura pop, immaginario politico, nuovi media.
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Andrea Malagamba e Antonio Rafele andrea.malagamba@yahoo.it / antonio.rafele@gmail.com
Una stanza tutta di specchi. Facecode e libertà gni volta che Narciso si sporge sull’acqua a contemplare se stesso, si espone al rischio di morire. Eppure ognuno sente la fascinazione irresistibile di qualsiasi forma di estensione di sé: un motorino o un binocolo prolungano il nostro corpo, diventano il nostro corpo, ma solo a patto che esso sia narcotizzato e amputato – perché «il sistema nervoso riesce a sopportarlo solo nel torpore o bloccando la percezione» – cioè sia reso, secondo una definizione divenuta ormai classica di Marshall McLuhan, un «servomeccanismo». Il mito di Narciso si lega indissolubilmente alla semantica del suo nome, legata al greco narcosis: narcosi, torpore1. Il medium elettronico non fa eccezione: il nostro sistema nervoso
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L’identità Facebook consiste nell’infinita moltiplicazione di sé nel prisma dello sguardo altrui
deve essere intorpidito, perché nella tecnologia elettronica è esso stesso ad essere riprodotto. Quante volte la televisione ci culla fino al sonno o accompagna muta le nostre attività domestiche? Analogamente, anche l’utente di Facebook lascia la sua pagina aperta per controllarla e aggiornarla di tanto in tanto, mentre è preso da altre occupazioni; anche Facebook è estensione e intensificazione – e dunque, per certi versi, narcosi – della nostra vita psichica. Ma nello spazio di Facebook Narciso non è solo: la sua immagine si specchia negli occhi degli altri, la sua identità consiste nell’infinita moltiplicazione di sé nel prisma dello sguardo altrui; una sorta di mise en abîme nella quale salta la distinzione tra l’io e la sua immagine, tra la sostanza e il simulacro. Narciso senza narcosi Insomma, «io non sono io» secondo la dicitura di Ramon Jimenez, o almeno non sempre lo stesso io. L’utente di Facebook può “refreshare la sua pagina” o “aggiornare il suo status” di continuo: la stravagante
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Una stanza tutta di specchi. Facecode e libertà di Andrea Malagamba e Antonio Rafele
compresenza nel lessico Facebook dell’inglese italianizzato e del latino realizza l’antinomia tra la persistenza che la parola “identità” per lo più presuppone, e il suo essere sempre modificabile e sostituibile. E nella promessa di rinascere incessantemente, Narciso può specchiarsi all’infinito. Da questo punto di vista, Facebook impone di pensare il medium secondo un nuovo impianto concettuale, configurandosi come un’estensione di sé che sembra non prevedere la fase amputativa, vale a dire la riduzione dell’intensità sensoria nell’uso del medium. Poco importa se l’identità è vera o falsa, poiché in entrambi i casi, essa è innanzitutto un’identità rinarrata, un’estensione narrativa di sé che appare al mondo a diversi livelli, come per un gioco di cerchi concentrici. «Dal canto mio, preferisco cominciare prendendo in considerazione un effetto. [...] La prima cosa che mi chiedo è: “fra gli innumerevoli effetti, o impressioni, di cui il cuore, l’intelletto, o (più in generale) l’anima sono suscettibili, quale debbo scegliere in questa occasione?”». Nelle pagine di Poe2, l’opera d’arte moderna si differenzia da quella antica per l’implicita dichiarazione della propria artificialità: il testo si costruisce a partire dall’effetto, e di conseguenza l’opera stessa non viene più intesa come esperienza duratura e del tutto autonoma, capace di vivere al di là del momento fruitivo,
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ma come dispositivo comunicativo capace di creare un gioco finzionale e del tutto “interno” tra chi scrive e chi legge. Il lettore entra nel testo, diviene immagine onnipresente del processo creativo, l’operazione mentale attraverso cui e per cui il testo si genera. La vita dell’opera coincide allora esclusivamente con la sua lettura, con l’attimo della sua dissoluzione: il piacere, e il suo rovescio – la caducità – sono il procedimento e l’obiettivo di un testo ormai privo di qualsiasi finalità esterna al suo stesso consumo. In questa prospettiva, l’autore si configura come un tecnico particolarmente ispirato, la cui strumentazione è fornita da quell’insieme di magazzini della memoria o archivi stilistici che attraversano la storia letteraria. Cooperazione ludica Al pari di ogni narrazione, anche quella che Facebook realizza prevede la presenza del lettore, di codici più o meno stretti e di messaggi non sempre del tutto chiari per chi li ri-
La ricerca dei volti perduti coincide con il tentativo di riorganizzare, raccontandolo a se stessi e agli altri, il proprio passato
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Facebook tesse il filo del racconto di sé, sottraendo al passato il suo tratto pertinente di “non essere più”
ceve: nella lista di amici di Facebook figurano individui con diversi gradi di familiarità e di partecipazione alla nostra vita; per questo, ogni lancio di un nuovo status, vale a dire di un nuovo racconto di sé, non viene compreso da tutti nel suo significato originario: chi lo legge può rispondere fischi per fiaschi, può funzionare rispetto ad esso come uno specchio deformante; ma è proprio tale azione di plastico adattamento del messaggio altrui alla propria vita che può divenire a sua volta punto di innesto di nuovi discorsi, occasione per nuove narrazioni di sé da parte di chi risponde. Le modalità di costruzione e ricezione del testo convergono verso una percezione di ogni testo come medium della comunicazione; la dimensione estetica assume, di riflesso, un carattere essenzialmente ludico sia rispetto al piano della sfera creativa – testo come combinazione di elementi narrativi – sia rispetto a quella della fruizione, semplice o complessa che sia. Il principio di cooperazione testuale diventa una componente essenziale nei meccanismi di significa-
zione per portare a compimento un sofisticato gioco compositivo e intrappolare il fruitore in un complesso labirinto di specchi e di vetrine. Tale dinamica costituisce una delle strutture portanti dell’industria culturale e presuppone che autore e lettore accettino di essere, per un dato periodo – quello della creazione e quello della lettura – parte di un regime finzionale puro. Le recenti narrazioni televisive e videoludiche sono, infatti, disseminate di indizi che prevedono l’attiva partecipazione del fruitore. Da questo punto di vista, Facebook è un medium perfettamente integrato nella tradizione letteraria, televisiva e videoludica: presuppone un autore e un potenziale lettore, e presuppone anche la creazione di un regime finzionale puro recuperando, in questo, l’aspirazione e la fascinazione, tipicamente metropolitana, per una seconda vita, per un universo parallelo. Accanto a questo, rende possibile un secondo scenario: quello di un utente che, pur lavorando ancora con le strutture e la strumentazione tipica della tradizione letteraria – scrittura, finzione, creazione e ricezione – ne fa un uso sostanzialmente nuovo e discontinuo. In questo caso, l’utente fa coincidere la finzione prodotta su Facebook con la propria vita quotidiana, con i propri ritmi, con i propri desideri e con i propri bisogni. Nel primo scenario, tendono a
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conservarsi le distinzioni tra individuo e massa, tra essere e apparire, tra finzione e realtà. Nel secondo, queste distinzioni sembrano invece sfumare generando una dimensione molto più intima, antropologica, somatica, interiore. Ad un gioco finzionale e sociale perfettamente controllato si sovrappone una dimensione che assume, sì, le sembianze del gioco in senso lato, ma che prevede anche un investimento e una partecipazione fortissima da parte dell’attore. Narciso non usa l’estensione e l’esposizione di sé come un semplice travestimento o stratagemma all’interno di un sistema collettivo di status e valori, ma come un modo di partecipare, di rendersi visibile, di esibire o donare, sotto lo sguardo degli altri, la propria forma, il proprio abito. Vite al limite Palcoscenico dell’egolatria per alcuni, ma anche spazio di interazione e riconoscimento, di equivoci più o meno fruttuosi, di abbrivii narrativi e di sentieri interrotti, Facebook può appartenere interamente al gioco finzionale della tradizione letteraria, oppure generare una dimensione nella quale questo stesso gioco diventa strumentale alla pubblicità di sé, del proprio essere, del proprio stile, richiamando, in quest’ultimo caso, la promozione che le star televisive hanno fatto e fanno del proprio corpo e del proprio stile di
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Sorridi Narciso che Facebook ti vede vita. E come nel caso di una star televisiva, alla massima visibilità corrisponde una massima esposizione allo sguardo, al controllo e al rischio degli altri. Nel continuo racconto di sé, l’io vive in limine tra il dentro e il fuori, è soglia aperta nello spazio e nel tempo. Secondo Paul Virilio «viviamo in un mondo fondato non più sull’estensione geografica, ma su una distanza temporale che viene costantemente ridotta dalle nostre capacità di trasporto, trasmissione e azione telematica». Il rapporto tempo/spazio nella seconda modernità tende a zero, poiché la velocità è un «milieu […] una sorta di sostanza aerea che satura il mondo»3. Se le chat o skype – come d’altro canto, ma ad altri costi, il telefono o il fax – abbattono la frontiera dello spazio, Facebook sembra abbattere il muro del tempo, facendo riemergere dal passato volti che non credevamo di vedere più: la ricerca dei volti perduti coincide con il tentativo di riappropriarsi del tempo, di riorganizzare, raccontandolo a se stessi e agli altri, il proprio passato, per farlo affiorare tra le pieghe del tempo, nei golfi d’ombra che esso apre nella vita di ognuno.
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Specchiandosi nei volti altrui, Narciso presentifica il se stesso del passato, tesse il filo del racconto di sé, sottraendo al passato il suo tratto pertinente di “non essere più”: che sia anche questo un rispecchiamento senza morte? E dunque: sorridi Narciso! Facebook ti vede.
Note 1 McLuhan M., Gli strumenti del comunicare, Milano, 1967, pp. 51 e 56. 2 Armitage J. (a cura di), Virilio Live: selected interviews, London, 2001; Bauman Z., La società sotto assedio, Bari, 2003. 3 Poe E. A., La filosofia della composizione, Milano, 1995, p. 26.
Andrea Malagamba è dottore di ricerca in Studi di storia letteraria e linguistica italiana e cultore della materia presso l’Università di Roma “La Sapienza”.
Antonio Rafele è assegnista di ricerca all’Università di Torino. Collabora con il CeaQ, Università “La Sorbonne” di Parigi.
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Bibliografia essenziale A cura di Federico Tarquini e Tito Vagni
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ROBERTO ALIBONI – Vice Presidente Istituto Affari Internazionali SEBASTIANO BAGNARA – Università degli Studi di Sassari-Alghero
NUOVA SERIE
02/2009
ALBERTO ABRUZZESE – Università IULM di Milano
- anno 2 - n° 2 - aprile 2009
LUCIANO BENADUSI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” SARA BENTIVEGNA – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ALBERTO BENZONI – Politologo ROBERT CASTRUCCI – Assegnista di Ricerca, Università degli Studi Roma Tre GIULIANO CAZZOLA – Deputato al Parlamento DANIELE CIRIOLI – Fondazione Marco Biagi VINCENZO VISCO COMANDINI – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” MASSIMO DE ANGELIS – Politologo MOISÉS DE LEMOS MARTINS – Università do Minho di Braga (Portogallo) GIANNI DE MICHELIS – Presidente Ipalmo
pol.is
LUIGI COVATTA – Vice Direttore Pol.is
per la riforma della politica e delle istituzioni
STEFANO GORI – Bristol Business School ORNELLA KYRA PISTILLI – Antropologa ANTONIO LANDOLFI – Presidente della Fondazione Giacomo Mancini FABIO LA ROCCA – CeaQ, Università di Parigi “La Sorbonne” ANDREA MALAGAMBA – Dottore di Ricerca Università degli Studi di Roma “La Sapienza” CLAUDIA MANCINA – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” PAOLO MANCINI – Università degli Studi di Perugia MAURO MARÉ – Università degli Studi della Tuscia MARIO PIREDDU – Università degli Studi Roma Tre ANTONIO RAFELE – Università di Torino FRANCO SIRCANA – Vice Direttore Pol.is
per la riforma della politica e delle istituzioni
PIETRO ICHINO – Senatore della Repubblica
pol.is Direttore Enrico Manca
Giorgio Napolitano Giuliano Cazzola Pietro Ichino Vincenzo Visco Comandini Stefano Gori Alberto Benzoni Franco Sircana Luigi Covatta Vincenzo Susca Ornella Kira Pistilli
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VINCENZO SUSCA – CeaQ, Università di Parigi “La Sorbonne” FEDERICO TARQUINI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano TITO VAGNI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano ALBERTO ZULIANI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
ISBN 978-88-95923-19-2
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€ 15,00
www.bevivinoeditore.it - www.pickwick.it - www.pol-is.it
Spedizione di stampe in abbonamento postale di cui alla lettera C) del comma 2 dell’art. 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 862