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NUOVA SERIE
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pol.is
- anno 2 - n° 3 - luglio/agosto 2009
pol.is per la riforma della politica e delle istituzioni
per la riforma della politica e delle istituzioni
ALBERTO ABRUZZESE – Università IULM di Milano ROBERTO ALIBONI – Vice Presidente Istituto Affari Internazionali SEBASTIANO BAGNARA – Università degli Studi di Sassari-Alghero LUCIANO BENADUSI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” SARA BENTIVEGNA – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ALBERTO BENZONI – Politologo ITALO BOCCHINO – Deputato al Parlamento LORENZA BONACCORSI – Regione Lazio GUERINO NUCCIO BOVALINO – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano DANIELA CARDINI – Università IULM di Milano GIUSEPPE CASCIONE – Ricercatore Università di Bari ROBERT CASTRUCCI – Assegnista di Ricerca, Università degli Studi Roma Tre FABRIZIO CICCHITTO – Presidente del Gruppo Popolo della Libertà alla Camera MASSIMO DE ANGELIS – Politologo RUBENS ESPOSITO – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” SERENA FERRARA– Ricercatrice, Laureata in Scienze della Comunicazione CESARE FURFARO – Ricercatore, Laureato in Scienze della Comunicazione MAURIZIO GASPARRI – Presidente del Gruppo Popolo della Libertà al Senato PAOLO GENTILONI – Deputato al Parlamento ANTONIO LANDOLFI – Presidente della Fondazione Giacomo Mancini ANDREA MALAGAMBA – Dottore di Ricerca Università degli Studi di Roma “La Sapienza” PAOLO MANCINI – Università degli Studi di Perugia MAURO MICCIO – Università degli Studi Roma Tre ALESSANDRO PAPINI – Università IULM di Milano EUGENIO PROSPERETTI – Avvocato, Dottore di Ricerca Università di Roma Tor Vergata GAETANO QUAGLIARIELLO – Senatore della Repubblica RUBEN RAZZANTE – Università Cattolica di Milano VITTORIO ROIDI – Giornalista STEFANO ROLANDO – Università IULM di Milano PAOLO ROMANI – Vice Ministro alle Comunicazioni MARIA LUISA SANGIORGIO – Corecom Lombardia SERGIO SCALPELLI – Vice Direttore Pol.is FRANCO SIRCANA – Vice Direttore Pol.is BRUNO SOMALVICO – Associazione InfoCivica VINCENZO SUSCA – Università di Parigi “La Sorbonne” FEDERICO TARQUINI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano TITO VAGNI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano VINCENZO ZENO-ZENCOVICH – Università degli Studi Roma Tre
Direttore Enrico Manca
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Paolo Romani Paolo Gentiloni Fabrizio Cicchitto Maurizio Gasparri Gaetano Quagliariello Italo Bocchino Alberto Abruzzese Paolo Mancini Vincenzo Zeno-Zencovich Ruben Razzante Maria Luisa Sangiorgio Mauro Miccio Vincenzo Susca Giuseppe Cascione
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ISBN 978-88-95923-31-4
€ 15,00 www.bevivinoeditore.it - www.pickwick.it
www.pol-is.it Spedizione di stampe in abbonamento postale di cui alla lettera C) del comma 2 dell’art. 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 862
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Direttore Enrico Manca Vicedirettori Luigi Covatta, Sergio Scalpelli, Franco Sircana Comitato Editoriale Alberto Abruzzese – Università IULM di Milano Roberto Aliboni – Vice Presidente Istituto Affari Internazionali Sebastiano Bagnara – Università di Sassari-Alghero Luciano Benadusi – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Alberto Benzoni – Politologo Enzo Cheli – Università degli Studi di Firenze Derrick de Kerckhove – Direttore dell'Istituto McLuhan di Cultura e Tecnologia dell'Università di Toronto Alberto Gaston – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Antonio Golini – Università di Roma “La Sapienza” Antonio Landolfi – Presidente della Fondazione Giacomo Mancini Michel Maffesoli – La Sorbonne, Parigi Claudia Mancina – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Paolo Mancini – Università di Perugia Maria Luisa Maniscalco – Università di Roma Tre Mauro Maré – Università de La Tuscia Stefano Rolando – Università IULM di Milano Alberto Zuliani – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Coordinamento Editoriale Piero Pocci Capo Redattore Maurizio Persiani In Redazione Lorenza Bonaccorsi Robert Castrucci Vincenzo Visco Comandini Vincenzo Susca Segretaria di Redazione Annalisa Simbari
Consulenza e realizzazione editoriale Francesco Bevivino Editore www.bevivinoeditore.it
Pol.is rivista di cultura politica edita dall’Associazione Pol.is – Centro di iniziativa politico-culturale
Progetto grafico Alessio Scordamaglia Concessionaria di pubblicità
via del Boschetto, 68 – 00184 Roma tel. 06 32111680 p.iva 09319481009 www.pol-is.it Autorizzazione del tribunale di Milano n. 94/2007 del 20/02/07 Costo dell’abbonamento annuale: – ordinario: euro 60,00 – sostenitore: euro 100,00 L’abbonamento alla rivista può essere richiesto telefonicamente al seguente recapito: tel. 06 32111680
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Via Monfalcone, 41 20092 Cinisello Balsamo (MI) Tel. +39 02 618002 www.rosaticommunication.com mail: pbc@rosaticommunication.com Stampa Finito di stampare nel mese di luglio 2009 presso IGB Group – Brescia Distribuzione nelle librerie JOO Distribuzione – Milano
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SOMMAR IO
Enrico Manca Il socialismo democratico europeo ha esaurito il suo ruolo?
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Focus – L’informazione, stampa e Tv, e le nuove tecnologie a cura di F. Sircana
Paolo Romani Carta stampata, internet e tv: una competizione produttiva
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Paolo Mancini A che punto siamo?
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Vincenzo Zeno-Zencovich L’impostura dell’“impresa editoriale”
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Bruno Somalvico La guerra televisiva non è finita, la competizione si è allargata
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Vittorio Roidi Internet: libertà e rischio d’impresa
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Ruben Razzante Tecnologie e deontologia professionale
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Stefano Rolando / Alessandro Papini Editoria al bivio. La sfida dell’innovazione creativa sui contenuti
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Eugenio Prosperetti Il nuovo rapporto tra regole ed informazione nell’era digitale
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Rubens Esposito Riflessioni minime sui sintomi di crisi della convergenza multimediale
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Mauro Miccio Ritorno al futuro: informazione, stampa, TV e nuove tecnologie
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Serena Ferrara Il giornalismo nell’era digitale. Integrazione dei supporti e approfondimento collaborativo
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Massimo De Angelis L’informazione nell’era dell’abbondanza trasmissiva
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SOMMARIO
Maria Luisa Sangiorgio Una partita competitiva tra business e nuovi modelli culturali
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Antonio Landolfi Una nuova informazione a cominciare dai Blog
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Tavola rotonda su “L’informazione, stampa e Tv, e le nuove tecnologie” Interventi di Paolo Gentiloni, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Gasparri, Gaetano Quagliariello e Italo Bocchino 103 Alberto Abruzzese Ripensare il mondo,una sollecitazione critica
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Alberto Benzoni Europee: una consultazione molto singolare
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Lorenza Bonaccorsi L’Europ@ a modello di internet
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Immaginario – La profondità delle apparenze: metafore della serialità televisiva a cura di Vincenzo Susca
Vincenzo Susca Il mostro dal volto umano. La tragedia di Dexter
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Andrea Malagamba La morte e il suo doppio. Six feet under e il filo di Atropo
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Giuseppe Cascione Emotion versus Reason. La filosofia di House
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Guerino Nuccio Bovalino / Cesare Furfaro I Soprano. L’estetica quotidiana del male
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Federico Tarquini Desperate Housewives: piccolo mondo postmoderno
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Tito Vagni Gossip girl: giovani risucchiati dalla rete
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Tito Vagni Dalla storia all’attualità. Intervista a Daniela Cardini
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Enrico M anca
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a storia insegna che i partiti sono mortali, così come le civiltà. È, forse, quindi giunto il momento di dichiarare esaurito il socialismo democratico europeo? L’interrogativo non è improprio dopo il risultato delle ultime elezioni europee. La drammatica crisi che ha investito il capitalismo mondiale avrebbe dovuto, in teoria, segnare il grande ritorno della socialdemocrazia. Non è successo! Anzi è avvenuto il contrario. Il voto ha premiato i partiti di centro destra espressione, almeno in linea di principio, dell’ “ideologia” liberista che tutto affida ad un mercato senza regolazione. La sferzante disfatta dei partiti socialisti e social-democratici appare, a prima vista, in contraddizione con quella che sarebbe potuta essere l’aspettativa: il fatto cioè che di fronte al fallimento delle politiche neo-liberiste sia sul terreno finanziario che su quello dell’economia reale, l’ispirazione neo Keynesiana e l’economia sociale di mercato, pilastri delle cultura riformista di scuola liberal-socialista venissero premiate dagli elettori. Si può ragionevolmente concludere che tematiche un tempo determinanti per l’attualità dell’agenda politica quali, ad esempio, la riduzione delle ore di lavoro, le pensioni, la difesa della dignità del lavoratore e il perseguimento di obiettivi di giustizia sociale abbiano davvero esaurito la propria carica di rilevanza politica? Io penso che le ragioni di questo rovesciamento delle aspettative siano molte come molti sono gli interrogativi in campo e le risposte da dare appaiono di grande difficoltà. Le ragioni di questo
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“paradosso” politico sono diverse e appaiono profondamente connesse ai grandi mutamenti che hanno investito individui e società nel passaggio dalla modernità all’attuale contesto economico e socio culturale. Tali ragioni, pur collocandosi su livelli differenti, si influenzano a vicenda e nel loro complesso contribuiscono a modificare, in larghi settori dell’opinione pubblica, la percezione della sinistra e del suo ruolo nella società. Ad un livello più superficiale, l’analisi può focalizzarsi sul linguaggio, o più correttamente sulle forme del discorso politico con cui la destra e la sinistra europee hanno filtrato il cambiamento presentandolo all’opinione pubblica e agli elettori come più o meno governabile e indirizzabile secondo i propri obiettivi. In particolare, mentre le formazioni di centro destra si sono incamminate sulla strada meno impervia rappresentata dai vari populismi che, quasi sempre, hanno trovato la loro legittimazione nella commistione tra elogio dell’innovazione e retorica della tradizione, le formazioni di centro sinistra hanno scelto di avventurarsi nel terreno mutevole e sconnesso delle “politiche identitarie”, assecondando la deriva post-moderna piuttosto che sviluppare una strategia di governo della stessa. In pratica, se un tempo la Sinistra dava priorità a programmi sociali di respiro universale, oggi i suoi programmi appaiono più espressione di “gruppi identitari”. Ma una politica identitaria è, per definizione, l’opposto di una vocazione maggioritaria oltre ad essere portatrice di interessi diversi e contraddittori. Il limite evidente di questa impostazione programmatica non sta tanto nella scelta di dar voce alle ignoranze, una scelta questa che di per sè potrebbe anche essere a garanzia di successo come in passato ha dimostrato l’esperienza di Zapatero, quanto nell’incapacità della Sinistra di costruire un progetto globale di giustizia sociale al quale tutte le istanza identitarie potessero essere subordinate, pur trovando in esso una propria realizzazione. Frammentazione dell’identità e rinuncia ad un atteggiamento severamente critico nei confronti del sistema economico attuale rendono particolarmente complessa l’elaborazione da parte della sinistra riformista di un progetto politico credibile che sia in grado di governare le trasformazioni che hanno investito il mondo del lavoro e più in generale le forme contemporanee di stratificazione sociale. Nel momento in cui al modello fordista si sostituiscono modelli organizzativi più flessibili, alla vecchia classe operaia si sostituisce una nuova “classe di lavoratori”, i cosid-
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detti knowledge workers e alle economie nazionali si sovrappone un sistema economico globale caratterizzato da regole e assetti diversi, la sinistra appare incapace di declinare i concetti di eguaglianza sociale adattandoli al contesto attuale. In altri termini, mutate le forme del capitalismo, la sinistra abdica al proprio ruolo di denuncia ma, in paritempo, di proposte alternative alle sue storture. C’è anche da mettere in campo l’ indubbia capacità di una destra programmatica e non più ideologica che, una volta scattata la crisi mondiale, ha messo rapidamente in soffitta l’antistatalismo, la negazione dell’intervento pubblico, la lotta alla spesa pubblica, i dogmi delle privatizzazioni. Un centro-destra europeo che rapidamente ha fatto propri gli strumenti di politica economica tradizionali della sinistra riformista, giungendo persino ad esaltare il Welfare e a rinnegare il capitalismo dei mercati. Di fronte a questa iniziativa di una destra moderna e populista la sinistra riformista è, con tutta evidenza, apparsa priva di una strategia credibile in grado di dominare la situazione e in grande sconcerto di fronte alla messa in discussione di tutti i parametri e i riferimenti culturali di un tempo. Ci può aiutare a capirne qualcosa di più il caso inglese che è per molti versi emblematico della crisi che pervade tutta la sinistra europea. Il New Labour è la formazione politica che in questi anni ha portato avanti con più decisione un processo di rinnovamento, nella consapevolezza che nell’epoca del post-fordismo e della globalizzazione, le ricette pensate nella seconda metà del ‘900 non potevano più funzionare. Pur semplificando possiamo dire che da questa riflessione nasce la così detta “terza via”, fondata sul convincimento che il sistema economico capitalista così come si era venuto a definirsi era ormai immodificabile . Di fronte a questa convinzione è nata l’idea che l’unica strada fosse quella di adattare la società a questo sistema capitalista. In definitiva tutti i partititi socialisti europei ,ciascuno con le sue tradizioni, la sua storia, le sue peculiarità, hanno imboccato questa strada . Intendiamoci, una strada che, fermandoci al caso inglese, ha portato per lungo tempo ottimi risultati elettorali, garantendo un governo a guida laburista per molti anni. Ma non può sfuggire il fatto che con l’opzione della “terza via” i partiti socialisti hanno abbandonato l’idea, non solo, e giustamente, di una società alternativa al capitalismo, ma hanno, anche, di fatto, lasciato cadere l’idea di un
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rapporto fortemente dialettico con il capitalismo. Con questa scelta i partiti della sinistra riformista europea si sono privati di uno strumento strategicamente decisivo come quello di un credibile progetto di trasformazione riformista della società, dandosi come unico e solo obiettivo quello di favorire la crescita economica. Ma così facendo hanno messo in soffitta non soltanto ciò che era diventato cadùco delle loro politiche ma anche quelle stesse parole d’ordine che hanno fatto grande il socialismo democratico europeo. Ed è così avvenuto che quando il ciclo espansivo del capitalismo si è interrotto ed il capitalismo stesso è stato investito da una crisi drammatica cominciata negli Usa e ben presto dilagata in tutto il mondo; quando i mercati sono stati scossi da una violentissima tempesta che ha rivelato tutte le fragilità del turbo-capitalismo, i socialisti democratici europei si sono trovati privi di ogni strategia politica ed incapaci di dare una risposta a livello della qualità e dell’ acutezza della crisi. Gli elettori lo hanno capito e si sono regolati di conseguenza. Tutti i partiti riformisti oggi in Europea sono stretti nella tenaglia di una serie di contraddizioni. Non possono rispolverare i programmi di 50 anni fa, ma non possono neanche rimasticare i presupposti della terza via alla luce della più recente esperienza. Molti in Europa, comprensibilmente, guardano al neo Presidente americano cercando una nuova ispirazione in Barack Obama. Attenzione, però, perché ispirarsi alle politiche del Presidente può funzionare solo fino un certo punto perchè gli Stati Uniti hanno una struttura sociale ben diversa da quella europea e quindi le risposte ai problemi posti dalla crisi non possono essere uguali in Europa e negli Stati Uniti. Del resto va anche riflettuto sul fatto che è errato pensare che una situazione di crisi economica, anche se al Governo c’è il centro destra, possa di per sè portare dei benefici alla sinistra. Quando i cittadini hanno paura per il lavoro, per il salario, per il futuro dei figli votano spesso in modo difensivo e conservatore. Anche per questo la sinistra democratica e riformista deve essere in grado di offrire un’analisi più elaborata della nuova economia che è destinata a caratterizzare il mondo degli anni a venire. La denuncia del neo-liberismo non può bastare se non propone un modello diverso di società. Senza per questo ricadere nelle idee palingenetiche che sono state all’origine delle grandi tragedie che il comunismo realizzato ha portato con sé.
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Ma, al contrario, facendo vivere e pulsare proprio ciò che ha fatto grande il socialismo democratico: mettere al centro della sua visione la persona, la solidarietà, la difesa dei diritti individuali e collettivi. Senza un’attenta riflessione e comprensione delle nuove realtà che scandiscono la vita e muovono le aspirazioni dei cittadini nel quotidiano, la sinistra continuerà a ripetere slogan ormai senza riscontro. In Europa esiste un nuovo proletariato: immigrati, donne lavoratrici, lavoratori precari, poveri che non trovano sufficiente rappresentanza nei partiti riformisti spesso subalterni a gruppi elitari espressione di una borghesia tecnocratica. Un’ impostazione che non riflette a sufficienza la società e le sue disuguaglianze. Una sinistra che, non a caso, è ormai assolutamente minoritaria nel mondo del lavoro. In questa situazione i partiti social-democratici europei debbono avviare una grande e seria riflessione anche ripercorrendo il cammino della loro storia per vedere se in essa trovano l’ispirazione non per un ritorno all’indietro né per segnare il passo ma per affrontare i problemi dell’oggi e del futuro, senza tuttavia indulgere ad un pragmatismo senza principi e privo di un forte collegamento con le radici che sono a fondamento della loro storia. Forse potrebbe essere utile rileggere gli scritti di Keynes degli anni ’30 attraversati da una crisi economica, diversa ma anche simile, per non pochi aspetti, a quella attuale. Anche perché, se è vero che il socialismo democratico che abbiamo conosciuto è in una crisi profonda, è altrettanto vero che le ragioni per le quali è nato e si è diffuso il socialismo liberale e cioè la domanda di giustizia sociale è sempre più al centro dell’agenda politica della nostra epoca. Tutte le più recenti ricerche epidemiologiche-sociali concordano oggi sul fatto che le ineguaglianze sociali ed economiche minacciano globalmente il benessere della società. Secondo queste ricerche più una società è ineguale più i problemi sociali sono devastanti e destinati a moltiplicarsi. La disuguaglianza non tocca soltanto le fasce deboli della società ma anche le classi medie. Non poche ricerche mettono in evidenza, ad esempio, come figli di genitori con un buon grado di istruzione abbiano più possibilità di riuscita a scuola. E si sa anche che, fra i bambini nati da genitori molto istruiti, quelli che vivono in paesi con maggiore uguaglianza sociale godono di un livello di istruzione più elevato. Allo stesso modo, il rischio di essere affetti da una malattia mentale – questo dicono
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le ricerche – è 5 volte più elevato in quei Paesi dell’OCSE in cui maggiori sono le disuguaglianze sociali. In tutte le classi sociali l’aspettativa di vita è maggiore nei paesi in cui le società sono caratterizzate da una maggiore giustizia sociale. Discorso analogo riguarda l’aspettativa di vita, la mortalità infantile così come l’autovalutazione dei sistemi sanitari. La filosofia neo-liberista secondo la quale un sovraccarico di disuguaglianze si tradurrebbe in una maggiore crescita si è rilevata errata. Se così stanno le cose, la sinistra riformista europea deve cogliere questa realtà per tradurla in una grande questione politica a cui collegare una forte iniziativa strategica che sia in grado di dare ad essa un nuovo ruolo riformatrice e di governo. Quando questa crisi sarà superata ci si renderà conto che nulla tornerà più come prima e si dovrà prendere atto che saranno mutati stili di vita e modi di consumo; questa la grande sfida di fronte alla quale si trova la sinistra riformista europea. Di questo scenario fa parte in Italia il Partito Democratico che, a differenza dei partiti socialisti europei, non ha punti di riferimento credibili nella sua storia da cui ripartire per invertire la tendenza negativa che, infatti, sembra destinata ad aggravarsi. Il PD non ha una storia di riferimenti credibile perché espressione, per dirla come D’Alema, di una amalgama non riuscita fra post-comunisti ed ex sinistra DC. Né la parzialità democristiana e tanto meno l’eredità comunista possono essere fonte di ispirazione per costruire sul passato, il futuro. L’esclusione di ogni apporto del socialismo liberale, prima nei democratici di sinistra e poi nella formazione del PD, pesa come un macigno sulla sua strada e nulla fa pensare, oggi, che emerga consapevolezza di ciò. Così facendo si è anche, forse, definitivamente reciso ogni possibile legame politico con larghi settori di elettori di cultura liberal-democratica e liberal-socialista. L’opposto di quello che, sia pure in modi e forme discutibili, ha fatto il centro destra dando ospitalità agli uomini di salda cultura social-democratica e riformista. Sono i paradossi della situazione italiana dove un Partito Democratico incapace di liberarsi del giustizialismo degli anni ‘90 rischia sempre più di attorcigliarsi la corda al collo di Di Pietro. Saprà il Congresso ribaltare questa situazione? A tutt’oggi non se ne vedono i segni. Non c’è quindi che attendere e sperare, costretti comunque oggi a stare ai fatti e non alle speranze già andate tante volte deluse.
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Carta stampata, internet e tv: una competizione produttiva
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a maturità raggiunta dalle nuove tecnologie informatiche e telematiche e la loro diffusione hanno creato le condizioni per un significativo mutamento di modalità operative e di struttura del mondo dell’informazione, ma soprattutto delle modalità di fruizione da parte degli utenti. Aumenta sempre di più il ruolo attivo dell’utenza, che grazie alle nuove tecnologie, può scegliere, costruire il proprio palinsesto di notizie, informazioni e programmi, è libero di approfondire le tematiche prescelte, di scartare ciò che non è di suo interesse e di interagire con altri fruitori del sistema, fino a trasformarsi in vero e proprio produttore di contenuti. Un ruolo sempre più attivo che non esclude però una fruizione, cosiddetta, “passiva” di un
I nuovi mezzi di informazione permettono agli utenti di definire da soli la propria scala di interesse
palinsesto precostituito o di una prima pagina di un quotidiano. Prima di questa rivoluzione tecnologica in atto, la “limitatezza” dei mezzi, non per forza da intendersi scarsezza, poneva la necessità al produttore di contenuti di costruire una griglia ed un ordine di importanza dove inserire il proprio prodotto: agli utenti la libertà concessa dal telecomando e dalla scelta di leggere un articolo piuttosto che un altro. Rivoluzione digitale I nuovi mezzi di informazione permettono agli utenti di definire da soli la propria scala di interesse, di scegliere i contenuti e di costruirsi il proprio palinsesto. In un ambiente multimediale ogni utente ha la possibilità di usufruire di ogni mezzo al fine di massimizzarne l’utilità. Lo abbiamo visto con la televisione, che grazie alla rivoluzione digitale, prosegue il cammino in questa direzione. Più capacità trasmissiva permette ai fornitori di contenuti di offrire all’utenza non solo un palinsesto generalista preconfezionato, che prenda in considerazione una
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Carta stampata, internet e tv: una competizione produttiva di Paolo Romani
scelta, il più possibile varia, di contenuti, gradevole alla maggioranza dell’utenza, ma anche palinsesti specializzati, su temi, generi, argomenti, in grado di catturare un interesse maggiore, di una più ristretta cerchia di telespettatori; fino ad arrivare al video on demand ed all’opportunità, per l’utente, di scegliere non un’intera programmazione ma singoli contenuti. Con il passaggio dal sistema analogico al digitale, che moltiplica fino a 5 ogni canale di programmazione, aumentano le possibilità di usufruire di un’offerta più varia, anche grazie all’ingresso nel mercato di nuovi fornitori di contenuti. Switch off nel 2012 Nuova tecnologia, o meglio, maggiore diffusione di una tecnologia già esistente: stiamo infatti portando il digitale nelle case di tutti gli italiani, in ossequio ad una direttiva europea che stabilisce al 2012 il totale passaggio in tutti gli stati della comunità dall’analogico al digitale, ma soprattutto di pari passo con altri Paesi come Giappone e Stati Uniti, che ha visto il totale Switch Off delle trasmissioni in analogico il 12 giugno 2009. In Italia stiamo affrontando un processo graduale, anticipando la scadenza del 2012 con tappe cadenzate regione per regione, e precedendo lo switch off con lo switch over – passaggio in digitale delle sole reti Rai 2 e Rete 4 – al fine di abituare l’utenza. Migliore tecnologia
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vuol dire maggiore offerta, come abbiamo già visto, ed ancora, qualità migliore. Con il sistema digitale sarà infatti possibile trasmettere, e quindi usufruire, di programmi in alta definizione. Cambia quindi l’offerta, ma cambia soprattutto il ruolo dell’utenza. Oltre a maggiori possibilità di scelta dei programmi, il digitale consentirà all’utente di interagire con il mezzo televisivo. Questo ha aperto un mezzo di comunicazione, come la Tv, a soggetti e contenuti diversi: il progetto di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione voluto dal Ministro Brunetta, potrà arrivare nelle case dei cittadini anche attraverso un mezzo familiare e consueto come il televisore, raggiungendo finanche chi ha meno abitudine all’uso del computer. Non più solo contenuti ma anche servizi: saranno quindi i tradizionali fornitori a doversi adattare alla nuova tecnologia al fine di sfruttarne al meglio le potenzialità, e sarà l’occasione per l’ingresso nel mercato di soggetti differenti. Un prodotto veicolato attraverso la tecnologia analogica può essere trasmesso con tecnologia digitale, una serie, potenzialmente infi-
Con la digitalizzazione, la Pubblica Amministrazione, attraverso la TV, arriverà anche a quei cittadini meno abituati all’uso del pc
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FOCUS
La nascita delle Web Tv ha spostato un certo numero di utenti dalla Tv al pc, senza però arrivare alla sostituzione dell’uno con l’altro nita, di prodotti e servizi che possono essere veicolati attraverso il sistema digitale non potevano essere usufruiti attraverso l’analogico. Le nuove tecnologie devono fungere da stimolo per i produttori di contenuti e di servizi. Nel caso particolare del sistema televisivo la nuova tecnologia andrà a sostituirsi alla precedente, con lo spegnimento dell’analogico. Un cambiamento che in realtà dal punto di vista dell’hardware gestito dall’utente non è particolarmente rilevante: il tradizionale televisore sarà semplicemente affiancato da un decoder, o sostituito da un televisore integrato. Diverso è il caso in cui a modificare le modalità di fruizione dell’informazione è l’hardware stesso. Mi riferisco alla multimedialità rappresentata dalla carta stampata, internet, televisione e radio. Nel mondo della comunicazione abbiamo assistito e stiamo assistendo a rivoluzioni via via sempre più rapide, nell’ambito di una evoluzione che non è mai stata distruzione del pregresso. Le nuove tecnologie o le migliorie tecnologiche, hanno affian-
cato, diffuso, a volte superato, ma mai sostituito integralmente le precedenti. Lo sviluppo di nuove tecnologie non esclude quindi la sopravvivenza delle esistenti, ne diversifica però i contenuti e gli obiettivi. Sarebbe fallimentare se i mezzi di comunicazione tradizionali inseguissero le nuove tecnologie nell’offerta di servizi e contenuti. Paradossalmente devono muoversi nella direzione opposta all’evoluzione tecnologica, non arroccandosi in posizioni antiquate, ma costruendo un’identità del mezzo ed offrendo contenuti ben distinti e riconoscibili. Più chiaramente: è inutile che un quotidiano tradizionale tenti di offrire ai lettori lo stesso servizio di un quotidiano online, parimenti è improduttivo che un quotidiano online replichi semplicemente la testata in cartaceo sul web. Generazioni diverse Si tratta di due mezzi di comunicazione molto diversi che possono offrire contenuti, servizi e possibilità di fruizione molteplici ad utenti differenti, ma, se vogliamo, anche allo stesso utente, che può voler usufruire di entrambi i servizi se ben costruiti, di qualità e diversificati. La popolazione è attualmente costituita da 5 generazioni differenti che, parafrasando il sistema radiotelevisivo, possiamo definire generazioni digitali o generazioni analogiche, a maggior ragione si conferma la possibilità di
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Carta stampata, internet e tv: una competizione produttiva di Paolo Romani
coesistenza di diverse tecnologie. Non si deve leggere, a mio avviso, un rapporto di conflittualità fra la carta stampata ed internet, semmai di complementarità. Anche il sistema radiotelevisivo sta affrontando la concorrenza con la rete: la nascita delle web tv e la possibilità di usufruire di contenuti audio e video con una interattività decisamente più evoluta rispetto a quella che può offrire la Tv digitale, ha sicuramente spostato un certo numero di utenti dal mezzo televisivo al computer, senza però arrivare alla sostituzione dell’uno con l’altro. Internet è inoltre caratterizzato da barriere d’ingresso al mercato quasi inesistenti. Non sono, infatti, necessari grandi investimenti per produrre contenuti per il web. Ciò rende ancora più facile l’ingresso di nuovi soggetti, ma soprattutto il passaggio da fruitori a fornitori, ed il mutamento di concezione di quello che da mezzo di informazione diventa vero e proprio mezzo di comunicazione. Digital divide La diffusione di un mezzo di comunicazione universale come internet sta decisamente modificando il sistema di informazione, ma anche la gestione dell’amministrazione pubblica e delle imprese. Stiamo assistendo ad una vera e propria rivoluzione che non coinvolge solo la comunicazione, e non ci possiamo permettere co-
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me Paese di rimanere indietro. È in quest’ottica che ci stiamo impegnando affinché la connessione in banda larga ad internet sia accessibile a tutti, superando quel digital divide che non consente, attualmente, di usufruire dei servizi erogati su internet e di partecipare a quello che sempre di più si sta trasformando in un dialogo tra fornitori e fruitori di contenuti. Si tratta di realizzare le infrastrutture necessarie affinché sia possibile questa rivoluzione. Le piattaforme attraverso cui potremo usufruire dei servizi di informazione sono sempre in evoluzione. Ormai è possibile accedere ad internet attraverso palmari e cellulari, il che ci garantisce di essere connessi al mondo dell’informazione ovunque ed in qualsiasi momento. Cambia quindi anche la tempistica dell’informazione, ma è un processo al quale abbiamo già assistito. L’informazione televisiva aveva già superato la cadenza quotidiana della carta stampata offrendo aggiornamenti almeno tre volte al giorno. Con internet l’aggiornamento è in tempo reale.
La connessione in larga bande ad internet deve essere accessibile a tutti per partecipare al dialogo tra fornitori e fruitori di contenuti
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Gli inserzionisti acquisteranno gli spazi in base alle loro strategie di mercato e al target di riferimento, dalla cartellonistica ad internet Sulla gratuità o meno della fruizione dei contenuti e delle informazioni sul web non mi esprimo, si tratta di scelte aziendali nel merito delle quali non è mio compito intervenire. Pubblicità e mercato Sulle problematiche legate al mercato pubblicitario posso ritenere che sicuramente ci saranno, e ci sono stati in passato, spostamenti di quote di mercato da una piattaforma all’altra. Ma anche qui, possiamo di-
re, che ci potranno essere problemi di assestamento del mercato e difficoltà oggettive dei soggetti che perderanno parte dei loro introiti pubblicitari a favore delle nuove piattaforme, ma non vedremo mai la sostituzione di un mercato con un altro. Gli inserzionisti sceglieranno di volta in volta gli spazi da acquistare in base alle loro strategie di mercato ed al loro target di riferimento, dalla cartellonistica ad internet. Il mezzo è sempre neutrale, sta a noi la capacità di utilizzarlo al meglio. L’impegno del Dipartimento Comunicazioni del Ministero dello Sviluppo Economico è sicuramente volto ad agevolare lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie dei mezzi di comunicazione, sia ai soggetti produttori di informazione sia ai fruitori della stessa.
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Paolo M ancini
A che punto siamo?
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on è ovviamente un caso che il titolo lasci intendere un punto di partenza principale: nel sistema italiano dei mass media ci sono alcuni dati strutturali di lunga data che ne costituiscono elementi caratterizzanti rispetto a quanto è dato riscontare in altre democrazie. C’è stato alcun cambiamento negli ultimissimi anni? Internet ha mutato qualcosa? E la legge sulle intercettazioni recentemente approvata come si colloca in un quadro che sembra fatto soprattutto di persistenze? Come si dice nella vita di ogni giorno, a che punto siamo? Persistenza: questo è infatti il sostantivo che meglio definisce il sistema italiano dei mass media che è passato indenne attraverso il processo di commercializzazione della fine del secolo scorso (sto parlando della fine del Novecento) e che sembra attraversare immutato anche le turbolenze create da internet. Le persistenze principali che caratterizzano il nostro sistema sono soprattutto due: una cronica debolezza della carta stampata che attraverso i secoli (in questo caso sto parlando di un
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periodo molto più lungo che abbraccia quanto meno 1800 e 1900) ha determinato la necessità di una sovrapposizione con altri poteri, in primo luogo quello economico e quello politico, e quindi una figura professionale debole che dalla carta stampata si è poi trasferita anche nella televisione. Sovrapposizione così della figura del politico con quella del giornalista, commistione di funzioni, ecc. Il dominio dell TV Son cose che conosciamo bene: a che punto siamo rispetto a esse? Ci sono state modifiche più o meno importanti oppure tutto è continuato come prima? Propendo, come si dovrebbe esser già capito, per la seconda ipotesi: le persistenze prevalgono rispetto agli elementi di cambiamento. Vediamole.
Persistenza è il sostantivo che meglio definisce il sistema italiano dei mass media
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Persiste il dominio della Tv sulla carta stampata costituendo in questo unacaratterizzazione tutta italiana L’ultima relazione della Fieg ci conferma il quadro delle persistenze: la carta stampata continua a perdere mercato: nel 2008, rispetto al 2007 le vendite sono diminuite del 2% ed erano diminuite ancora del 2% nel 2007 rispetto al 2006. La quota delle copie vendute giornalmente si attesta poco al di sopra dei cinque milioni. L’investimento pubblicitario sulla stampa è calato del 7% nel 2008 rispetto al 2007 mentre, nella presente situazione di crisi economica, molto minore è stato il calo dell’investimento pubblicitario in Tv che continua a mantenere la fetta più grande. In altre parole, persiste il dominio della televisione sulla carta stampata costituendo in questo una caratterizzazione tutta italiana. Seppure di meno rispetto a quanto avviene negli altri paesi europei l’investimento pubblicitario su internet è invece aumentato passando dal 1,2% del totale al 3,2%. Un mutamento nella persistenza. Un mutamento di poco conto che però può dirla lunga per quanto riguarda le attese per il futuro (Fieg, La stampa in Italia 2006-2008.
Politica e informazione D’altra parte il decremento della stampa, decremento in termini di lettori e di mercato pubblicitario non è un dato solo italiano: Murdoch un giorno ci dice che presto i quotidiani scompariranno, il giorno dopo ci dice che, visto il loro successo su questo mezzo, i quotidiani su internet saranno a pagamento La partigianeria dei mass media permane. Non si conoscono bene le vicende dietro gli assetti proprietari e anche dietro le nomine dei direttori, ma lo stretto rapporto tra sistema della politica e sistema dell’informazione giornalistica non sembra conoscere intralci. Non si può dire che sia un caso se, più o meno un anno dopo la vittoria elettorale del Popolo della Libertà abbiano cambiato direzione la principale testata della carta stampata e la principale testata della televisione. Al massimo, e a questo proposito hanno ragione gli esponenti del centro destra, ci si deve meravigliare che questo cambio sia avvenuto ad un anno di distanza e non prima (cosa che invece era successa, almeno per la tv, nel caso della vittoria di Prodi). A cascata, nella tv pubblica sono seguite, e presto seguiranno, altri mutamenti “al vertice”, come si dice. Aldilà delle vicende personali, dei rancori e delle accuse di non riconoscenza, il divorzio consumatosi tra Mentana e Mediaset non può non rientrare in un quadro più generale
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di subordinazione del sistema dei mass media a quello della politica. E il quadro delle sovrapposizioni tra mass media e politica esce confermato dal successo elettorale di Sassoli che rinverdisce la prassi abitudinaria, difficilmente riscontrabile in altre democrazie, dei travasi quotidiani tra professioni della politica e professioni del giornalismo. La Repubblica è sempre il giornale delle campagne e, come preferisce dire il suo attuale direttore, il giornale che lavora sulla spiegazione del contesto. Ovviamente, spiegare il contesto significa innanzitutto una scelta di campo e questo giornale, fedele ai precetti del suo fondatore (“questo è il giornale della nuova classe dirigente di sinistra”) la scelta di campo continua a farla quotidianamente. L’attenzione alle vicende personali sesso/sentimentali, goliardiche/festaiole, etichettabili in differente maniera, del nostro Presidente del Consiglio sono anche testimonianza di una scelta di campo, nonché, ovviamente, anche di un sano costume di investigazione giornalistica. Se La Repubblica guarda a sinistra, Il Giornale è sempre di più il giornale della famiglia Berlusconi. La sua collocazione sul centro destra ne aveva fatto, a detta di molti, l’unico quotidiano di opposizione della passata legislatura, mentre oggi si erge a difensore dell’attuale governo. Ha un alleato, certamente me-
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Lo stretto rapporto tra sistema della politica e sistema dell’informazione giornalistica non sembra conoscere intralci no affidabile, ma altrettanto e forse anche di più agguerrito, Libero. Nelle recenti vicende che hanno coinvolto Berlusconi, Libero ha testimoniato ancora una volta meglio di tutte le altre testate come la commercializzazione del sistema della comunicazione di massa che ha coinvolto anche l’Italia a partire dagli anni ’80 si sia sposata in modo assolutamente originale con la vecchia, tradizionale, consolidata partigianeria. “Libero” è un quotidiano che fa spettacolo del suo essere di parte. Essere di parte come scelta di mercato operata nella consapevolezza del più urlato scandalismo, della più sfrenata esagerazione degli eccessi. Il cerchio e la botte Spettacolarizzazione della partigianeria, altra persistenza italiana. Una persistenza vecchia oramai di parecchi anni. Il Corriere della Sera e La Stampa si confermano effettivamente, come lo sono stati per decenni, i “quotidiani” di informazione italiani, come parte rilevante della manualistica sui mass media si ostina a definirli. L’informazione, supposta neutra-
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le, prevale sulla scelta di campagna, sull’aperta scelta di campo. Non che non ci siano scelte di campo: l’endorsement di Mieli a favore di Prodi nella campagna elettorale del 2006 ha rappresentato una trasparente scelta di campo. Spesso, in questi quotidiani la neutralità dell’informazione giornalistica è interpretata secondo il noto detto “una botta al cerchio e una alla botte” per cui se Gianantonio Stella un giorno mette alla berlina un’amministrazione di sinistra, la volta seguente tocca a un’amministrazione di destra. Debolezza cronica Quotidiani regionali e pluriregionali ripropongono lo stesso schema di appartenenza di campo con una decisa prevalenza per la collocazione sull’asse del centro destra. Ecco allora la legge sulle intercettazioni: la teoria della differenziazione sociale ci spiega che quando un sistema sociale è così coinvolto con un altro sistema, in questo caso stiamo parlando del sistema dei mass media e del sistema della politica, l’autoregolamentazione è pressoché impossibile. Nasce allora il bisogno dell’eteroregolamentazione, un siste-
Legge sulle intercettazioni: un sistema esterno interviene a regolamentare un altro sistema
ma esterno che interviene a regolamentare un altro sistema, un eteroregolamentazione che ovviamente assume i colori del potere momentaneamente in carica. In altre parole, la debolezza cronica dell’identità professionale dei giornalisti italiani diventa la ragione, più che la giustificazione, dell’intervento esterno. Di un intervento esterno che in quadro di endemica debolezza identitaria della professione può assumere qualsiasi colore e tendenza. Che questo intervento rischi di minare uno dei principali caposaldi della democrazia liberale è altra questione ancora che si intreccia drammaticamente con la cronica debolezza dell’identità professionale dei giornalisti italiani. In questo quadro di persistenze, due novità effettivamente ci sono e le conosciamo bene. Si chiamano Sky e, ovviamente internet. Sky può rappresentare il terzo incomodo nel mercato televisivo. Lo è già, lo sta diventando sempre di più. Lo sport, ma non solo quello, sembra essere la sua carta vincente: quali lotte si apriranno, quali ostacoli e quali strategie si metteranno in campo non lo sappiamo, ma che Sky sia una spina nel fianco dei due principali non c’è ombra di dubbio. Può essere un elemento “esclusivamente” di mercato in un sistema ancora fortemente sovrapposto con il sistema della politica? Domanda per il momento senza risposta. Internet: come abbiamo visto, è
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ovviamente la grande novità. Rappresenterà per il futuro la principale fonte di informazione, lo è già per i più giovani. Tantissimi indicatori e dati lo confermano. Svecchierà il costume giornalistico? Infrangerà il regno delle persistenze? Questo è più difficile dirlo. Ci sono ragioni che ci lasciano pensare che questo scalfimento avverrà con tempi più lunghi. Internet è un mezzo individuale (one to one o many to many) e il nostro è un paese dove prevale ancora il pluralismo organizzato: no, dove ancora prevale il voto d’appartenenza, rispetto a quanto è dato os-
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Sky è il terzo incomodo sul mercato televisivo, internet rappresenterà la principale fonte di informazione
servare in altri paesi. La disintermediazione dei new media fa ancora i conti con la mediazione dei vecchi media. Il caso di Beppe Grillo è forse l’esempio più importante di questa confluenza tra vecchi e nuovi media.
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L’impostura dell’“impresa editoriale”
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a qualche tempo, soprattutto a seguito della crescente espansione delle tecnologie della comunicazione, ha ripreso fiato – in termini normativi, in particolare oltr’Alpe – la tesi della specificità della “impresa editoriale”. Essa trova sostenitori anche nel nostro paese. Si tratta di una impostura. Per impostura si intende – così si legge, più o meno, in qualsiasi dizionario – una “simulazione volta a ottenere vantaggi”. Qualificare come una “impostura” la figura della c.d. “impresa editoriale” richiede un onere motivazionale perché si tratta di giudizio poco lusinghiero e contrario a dominanti visioni e interpretazioni. Tale onere è tuttavia alleggerito da una constatazione che è invece
La qualifica di “impresa editoriale” porta con sé vantaggi per l’impresa stessa o per taluni soggetti che vi lavorano
condivisa: la qualifica di “impresa editoriale” porta con sè vantaggi per l’impresa stessa o per taluni soggetti che vi lavorano. Lo sforzo di costruire la categoria dunque mira a differenziare l’“impresa editoriale” da altre imprese e ad attribuire ad essa un regime giuridico particolare. Ed anche se si potrà discutere se le particolarità sono “vantaggiose” o “svantaggiose”, chi brandisce l’arma della specialità lo fa per perseguire un interesse settoriale che dovrebbe prevalere su quello generale. Sempre a mo’ di premessa si vuole qui sostenere che la figura della “impresa editoriale” è frutto di una visione fortemente ideologica dell’attività “editoriale” che non corrisponde alla realtà, la quale, come un petulante accattone, viene messa alla porta dai benpensanti. Si tratta di uno dei tanti rivoli della “giurisprudenza dei concetti” che continua a governare molto del pensiero giuridico dell’Europa continentale. Il concetto è a priori, e non può sporcarsi le mani con i fatti del mondo materiale.
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L’impostura si manifesta sotto tre profili: a) la titolarità dell’“impresa editoriale”; b) l’attività dell’“impresa editoriale”; c) il lavoro nell’“impresa editoriale”. a) La titolarità dell’“impresa editoriale” Tutti possono essere titolari di una “impresa editoriale”. In una società globalizzata ed in un mercato unificato a livello europeo le “imprese editoriali” devono assumere dimensioni tali da affrontare le sfide della concorrenza, delle nuove tecnologie e dei nuovi linguaggi. Chi parla di “impresa editoriale” non pensa al piccolo editore di Cittaducale o di Dronero. Pensa a imprese di dimensioni ben più grandi e articolate. Perché i capitali dovrebbero muoversi verso le imprese editoriali? Le ragioni dell’economia dicono che la motivazione dovrebbe essere quella del rendimento sull’investimento. Rende di più una catena di periodici che di fast-food, di negozi di abbigliamento in franchising, di alberghi. Perché dunque coloro che scelgono di essere titolari di una “impresa editoriale” dovrebbero godere di un regime privilegiato? O per dirla in altri termini perché il mercato degli investimenti dovrebbe riconoscere dei “paradisi azionari”?
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Se si possono concepire – ma non sempre giustificare – delle franchigie basate su ragioni sociali (l’esempio più tipico è l’organizzazione dell’impresa sotto forma di cooperativa), perché l’azionista di una s.p.a. il cui oggetto sociale è l’attività editoriale dovrebbe contare su un quadro di regole d’impresa diverso da quello dall’azionista di qualsiasi altra s.p.a.? Se poi si guarda alla realtà italiana – dalla quale i teorici della specialità allontanano lo sguardo come se fossero delle pudende – basti considerare l’azionariato delle principali “imprese editoriali” del nostro paese. Vediamo dominanti l’auto (Fiat per La Stampa), il credito (Mediobanca-Generali per il Corriere della Sera), la finanza (CIR per La Repubblica e l’Espresso), le costruzioni (Caltagirone per Messaggero e Mattino). Paradossalmente l’unico grande editore “puro” realmente tale, depurato delle sue origini palazzinare, è Berlusconi. La domanda, retorica, è dunque: perché tali settori impreditoriali dovrebbero godere di uno statuto pri-
Rende più una catena di periodici che di fast-food, di negozi di abbigliamento in franchising, di alberghi
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La libertà di espressione è un diritto individuale e degli enti esponenziali chelo rappresentano. Non è un diritto fondamentale delle aziende vilegiato che non si sognerebbero mai di chiedere nel loro “core business”? Forse bisogna “premiarli” perché decidono di investire in un settore depresso come quello del tessile? Perché mantengono in vita antichi mestieri come quelli circensi che altrimenti scomparirebbero? Perché la chiusura di tali imprese avrebbe nocivi effetti sociali, come lo spopolamento delle campagne? Non c’è alcuna ragione perché i capitali non debbano affluire dove maggiori sono i margini di guadagno. E nessuna ragione per la quale essi dovrebbero essere sviati verso le “imprese editoriali”. Le risposte che solitamente si danno a queste considerazioni evitano di considerare i profili economici e si arroccano sul contenuto delle attività “editoriali”, che giustificherebbe la specialità della disciplina. La linea di difesa è altrettanto imbevuta di pre-concetti ideologici, come si evidenzierà a breve. Ma fin dall’inizio si pone in una insanabile
contraddizione. Un’impresa è innanzitutto un’impresa. Cioè un’entità del mondo economico. Se ignoriamo questo aspetto abbiamo una non-impresa, una simil-impresa, una para-impresa. Se è di questo che occorre discutere è bene chiarirlo subito. Le conseguenze giuridiche sono ovvie: abbandoniamo il campo del quinto libro del codice civile, ovvero stabiliamo che l’“impresa editoriale” può organizzarsi solo attraverso un numero tassativo di tipi (ad es. la società semplice ovvero quella cooperativa). Oppure si affidi tale attività allo Stato, qualificandola come di preminente interesse generale. Insomma non si chiami impresa quella che in una società e in un mercato moderni impresa non è, e si evitino fastidiosi ossimori, come il morto vivente, il ghiaccio caldo, il credito passivo. b) L’attività dell’“impresa editoriale” Come si è detto, per giustificare il conferimento di uno statuto giuridico speciale alla “impresa editoriale” si utilizzano pre-concetti (gli a priori, appunto) ideologici, sostenendo che essa svolgerebbe una funzione essenziale nella vita democratica di un paese. Essa sarebbe lo strumento di realizzazione della libertà di espressione, attraverso il quale i cittadini soddisfano il loro diritto a essere informati. L’argomento – diffuso non soltanto in Italia – confonde visto-
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samente piani assai diversi fra di loro e prospetta soluzioni incompatibili con gli stessi valori che si vorrebbero affermare. Poiché si tratta di concetti poco digeriti dalla maggioranza degli studiosi, sopratutto se italiani, è bene ripetere qui che la libertà di espressione è un diritto individuale e degli enti esponenziali che lo rappresentano. Non è un diritto fondamentale delle imprese, le quali sicuramente hanno diritto di dire la loro sulle vicende che le riguardano, ma secondo regole e limiti assai precisi. Le imprese, pur importantissime nella nostra società – e questo lo si dice da una prospettiva profondamente liberista – , non sono esseri umani; non hanno gli stessi diritti e mentre gli uomini non sono fatti per il diritto (ma viceversa), per le imprese vale l’opposto. Esse nascono, prosperano, muoiono perché così vuole il diritto. Non un diritto-moloch, ma razionale che individua le regole più adeguate per l’agire economico degli esseri umani. Se la libertà di espressione non è un diritto fondamentale dell’impresa, non lo è – a maggior ragione – delle “imprese editoriali”. Altrimenti argomentando dovremmo ritenere che, nel nostro paese, gli unici e autentici titolari del diritto sono la FIAT, Mediobanca, Caltagirone, CIR e, orrore!, Berlusconi. Le conseguenze dell’impostazio-
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Perché si dovrebbe stabilire per l’”impresa editoriale” un regime giuridico peculiare? ne dominante fanno concettualmente a cazzotti con i principi democratici: non una testa, un voto, una voce. Ma chi ha più “aziende”, e cioè è più forte economicamente. Dunque il primo equivoco che occorre dissipare è che l’“impresa editoriale” meriti un regime giuridico preferenziale perché essa esercita ai massimi livelli la libertà di espressione. Tale tesi non viene qui proposta quale artificio retorico: non c’è documento degli editori e dei loro sostenitori il quale non esalti il loro contributo alla libertà di espressione, quasi che essi pensassero e parlassero per il resto del paese. Ma quanto finora detto giustifica una reazione opposta, che l’“impresa editoriale” debba essere assoggettata a particolari oneri? Secondo molti proprio perché tali soggetti economici svolgono un ruolo fondamentale nell’esercizio del diritto a essere informati sarebbe necessario gravare l’“impresa editoriale” di obblighi specifici. Che in una società moderna l’impresa, qualsiasi impresa, sia soggetta a limiti alla sua attività, posti nell’interesse generale, è constata-
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zione ovvia. Dunque, non vi è nulla di strano che anche l’“impresa editoriale” lo sia. Il problema è se tali limiti siano, per utilizzare un parametro di valutazione ormai entrato nel bagaglio mentale del giurista, proporzionati. In termini semplici e concreti, posti i preminenti interessi pubblici, si giustificheranno solo le regole che effettivamente sono coerenti con tali obbiettivi. Con il che risulta evidente che occorre distinguere fra regole che riguardano le modalità concrete di svolgimento dell’attività, e regole riguardanti la struttura e l’organizzazione dell’impresa. Con riguardo alle prime possono risultare conformi al principio di proporzionalità talune tipiche misure riguardanti il contenuto del prodotto editoriale (tutela dei minori, disciplina dei messaggi pubblicitari, rettifica). Sfugge invece il perché si dovrebbe stabilire per l’“impresa editoriale” un regime giuridico peculiare: quale rapporto c’è fra il tipo societario e il risultato dell’attività? È proporzionato stabilire a priori chi può – e chi non può – esercire una “impresa editoriale”? È legittimo che
Se l’“impresa editoriale” è solo quella che pubblica quotidiani e qualche settimanale, è bene chiarirlo subito
un soggetto esterno stabilisca quale attività informativa l’impresa può svolgere? Gli interrogativi retorici che si sono posti sono volti a porre in dubbio la credenza che per svolgere una attività editoriale i soggetti debbano essere selezionati, disciplinati e organizzati secondo regole, imposte ab externo, diverse da quelle di ogni altra impresa naturalmente (e doverosamente) vocata al profitto. Ma poi, viene da chiedersi, cosa è mai una attività “editoriale”? Scartiamo – letteralmente – le imprese che producono tanti utilissimi prodotti stampati: le cartoline di augurio, le carte regalo, le etichette e gli imballaggi, i manifesti elettorali o pubblicitari. Tale esclusione appare ovvia ma serve a mettere in luce che sotto l’amplissimo manto della “stampa” vi sono tante attività che potrebbero in teoria, e guardando ai mezzi da essi impiegati, aspirare allo status di “impresa editoriale” (ed in effetti ai loro dipendenti si applica il CCNL poligrafici, come a quelli delle “imprese editoriali” “nobili”). Ristretto il campo, però, sarebbe il caso che qualcuno dei teorici dell’“impresa editoriale” scendesse dall’empireo dei concetti giuridici (per dirla con le sempre attuali e sferzanti parole di Rudolf Jhering sulle imbecillità dei suoi colleghi dell’epoca) e si recasse presso un’edicola. Se guardasse non solo le pile di quoti-
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diani e di settimanali affastellate per terra o disseminate sui banconi, ma desse anche un’occhiata agli scaffali e alle vetrine esterne, dovrebbe rispondere a queste semplici domande: in che cosa consiste la specialità delle imprese che pubblicano Abitare, Amico Cellulare, Antiquariato, Armi e Tiro, Aviorama, Bici di Montagna, Il Blocco Enigmistico, Computer Magazine, Cyclinside, Digital Music, Domenica Quiz, Flash Magazine, Hortus Musicus, Lineagrafica, LinuxPro, Materia, Motociclismo, Paperinik, PC Professional, Rockstar, Sentieri di Caccia, Topolino, Tutto Sconti, Vogue? E si potrebbe continuare per decine di altre testate che coprono tutto lo sport, le arti, la moda, il tempo libero, compresa l’unica ed insostituibile “Settimana Enigmistica”. Se non è di questo che vogliamo parlare, ma l’“impresa editoriale” è solo quella che pubblica quotidiani e qualche settimanale, è bene chiarirlo subito. Ma la scelta è ardua: con che criterio includere Amica ed escludere Cioè? Includere l’Espresso ed escludere Grand Hotel? Includere Il Mondo ed escludere Onda TV? La realtà economica è che l’editore – che per sua fortuna non insegue gli alambicchi della dottrina giuridica – fa quel che fa qualsiasi altra impresa: o si specializza in un settore, ovvero diversifica i suoi prodotti, in ogni caso cerca di avvalersi di economia di scala.
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Se l’“impresa editoriale” è solo quella che utilizza la carta, si dimostra una visione antiquata della comunicazione E dunque razionalmente – e legittimamente – pubblica tanto il quotidiano di attualità quanto il settimanale di facezie; tanto il periodico indirizzato a professionisti quanto quello rivolto agli adolescenti. Cosa si intende fare? Coprire tutto sotto il nobile mantello dell’“impresa editoriale” (e dunque anche quelle pubblicazioni che, per dirla con la CEDU, non portano alcun contributo al dibattito pubblico); oppure costringere a scorporare talune attività sulla base di giudizi contenutistici che non si saprebbe proprio chi dovrebbe fare? Queste considerazioni avrebbero potuto e dovuto essere svolte decenni orsono. Oggi esse sono ancor più pregnanti se si guarda al fenomeno comunicativo nella sua effettiva dimensione attuale. In sintesi la domanda è questa: ha senso parlare di una “impresa editoriale” solo se essa utilizza il supporto cartaceo? Editoria significa solo stampa? Torna qui utile il paradossale esempio di apertura sull’impresa specializzata in cartoncini di auguri. Cosa si vuole proteggere e avvantaggiare? L’impresa in quanto
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utilizza determinati strumenti di diffusione, ovvero l’impresa che si ritiene sia veicolo di pensiero, cultura, aggregazione sociale? È chiaro che se si opta per la tesi secondo cui l’“impresa editoriale” è quella che utilizza la carta, si dimostra una visione a dir poco antiquata dei fenomeni della comunicazione, che ormai privilegia e di gran lunga, altri strumenti. Si ritorna all’idea di proteggere imprese e mestieri in forte declino, la diligenza contro le automobili; i treni a vapore contro l’alta velocità, i piroscafi contro gli aerei. Il che per un verso mette in luce una forma mentis primitiva che non si è evoluta negli ultimi 50 anni e ragiona come se vivessimo in una società dominata dalle rotative. Dall’altro verso fa sorgere serie questioni di disciplina della concorrenza. Perché l’“impresa editoriale” cartacea dovrebbe essere preferita a quella radiotelevisiva o a quella telematica? La risposta affermativa poggia su una tanto auto-referenziale quanto narcisistica visione di co-
Nella società moderna si vive circondati dalle immagini che ci trasmettono gran parte delle conoscenze che abbiamo del mondo
loro che lavorano nelle “imprese editoriali” cartacee o vi collaborano. La vera informazione, il vero dibattito, la vera critica è sulla carta, dotata di una sua durata e figlia di una cultura che dalla Bibbia passa ai Vangeli (quod scripsi, scripsi), a Dante, Gutemberg, The Spectator, Randolph Hearst. La radio, la televisione sono mero suono o immagine, effimeri e dunque di secondo livello. Questa concezione – espressa al meglio dalla c.d. Scuola di Francoforte di stampo hegelian-marxista – fa fatica ad accettare l’idea che ormai nella società moderna si vive circondati da immagini le quali ci trasmettono gran parte delle conoscenze che abbiamo del mondo. Pretendere poi che si comprenda il fenomeno internet è come chiedere al Cardinal Bellarmino di capire cosa fa la NASA. Ma con le supposizioni – e ancor meno con la supponenza – non si disciplinano i fenomeni economici. Se la qualifica di “impresa editoriale” intende perseguire degli obiettivi di politica (nel senso alto e non sminuitivo del termine) di questa impresa occorre dare una nozione funzionale e se ci accorgiamo che quelle funzioni sono perseguite – più e meglio – da altre imprese è necessario porsi dei quesiti in ordine alla proporzionalità e non discriminatorietà della supposta categoria.
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c) Il lavoro nell’“impresa editoriale” Fra i principali corifei della specialità dell’“impresa editoriale” vi sono ovviamente i giornalisti. E in questo non c’è niente di strano: per parlare di fatti di casa nostra gli avvocati invocano la specialità della loro professione rispetto ad altre e la protezione costituzionale dell’art. 24. I professori universitari non sono da meno e confidano nell’art. 33. Alla fine siamo tutti “speciali”, compresi, con ragione, i becchini che hanno il privilegio di seppellirci tutti. Quel che però colpisce con riguardo ai giornalisti è la radicata convinzione che sono essi l’“impresa editoriale”, la quale è in sostanza la proiezione delle loro identità e della loro psicologia. Non esiste altro settore – neanche quelli di più ampia e “nobile” ascendenza sindacale – nella quale alberghi un’idea del genere. In genere l’impresa – impersonata dall’ imprenditore – è la controparte contrattuale. I rapporti saranno collaborativi o conflittuali, ma sono sempre fra soggetti che hanno abbastanza chiara la distinzione fra i rispettivi ruoli. Nel caso delle “imprese editoriali” – in particolare quelle cartacee – i giornalisti si immedesimano nelle stesse anche avvalendosi di un’altra impostura, e cioè che l’art. 21 Cost. è stato fatto per loro ed essi ne sono i sommi sacerdoti. Ovviamente, solo che si guardino le cose come stanno
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È radicata la convinzione che i giornalisti siano essi stessi l’“impresa editoriale”, proiezione della loro identità e psicologia (e come, sul piano dei valori, devono stare), i giornalisti in quanto tali sono tanto titolari della libertà di manifestazione del pensiero, quanto i macchinisti dei treni lo sono della libertà di circolazione garantita dall’art. 16 Cost. o gli infermieri lo sono del diritto alla salute garantito dall’art. 32 Cost. E così come si confonde il ruolo del dipendente con quello dell’imprenditore, così si confonde la funzione servente con il diritto fondamentale che è attribuito a tutti i cittadini e che questi, di certo, non hanno trasferito o delegato ai giornalisti. Occorre peraltro dire, a discarico degli equivocanti, che essi sono indotti in errore e quasi incoraggiati dai loro datori di lavoro i quali sembrano guardare solo al conto economico, e in larga misura si disinteressano dell’organizzazione aziendale e quasi mai si occupano seriamente del loro prodotto. Il che è come se in una industria automobilistica i modelli delle macchine e il loro assemblaggio fosse lasciato all’estro individuale degli ingegneri e delle maestranze.
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La nozione di “impresa editoriale” vorrebbe perpetuare siffatta anomalia basandosi, come si è detto, su uno stravolgimento dei principi basilari del nostro ordinamento, e cioè trasformando i servitori dell’art. 21 Cost. nei suoi padroni, cui sarebbe accordata non solo una immunità assimilabile a quella di cui all’art. 68 Cost., ma anche uno status lavorativo ignoto al resto del mondo. d) Quale direzione? Una società moderna – che nell’informazione e nella conoscenza trova i suoi fattori di maggiore valore – deve certamente prestare grande attenzione ai fenomeni comunicativi. Ma le basi sono antitetiche a quelle sulle quali si ergono i paladini dell’“impresa editoriale”. In primo luogo e sopra tutto vengono i diritti di tutti a scambiare idee e ad accedere alle fonti di conoscenza. Diritti che oggi – come mai prima nella storia dell’umanità – sono assicurati dalle reti di comunicazione elettronica. E il sistema giuridico
Tutti hanno il diritto a scambiare idee e ad accedere alle fonti di conoscenza. Diritto oggi assicurato dalle reti di comunicazione elettronica
questi diritti deve assicurare senza accordare piccoli e corporativi privilegi a una sparuta minoranza. In secondo luogo non possono crearsi discriminazioni fra i diversi mezzi attraverso i quali i singoli possono esprimersi e ricevere le altrui espressioni. Se mai dovesse essere accordato un qualche status differenziato dovrebbe essere non a favore dei mezzi che contribuiscono solo al lato passivo del diritto (cioè la stampa e la radiotelevisione, naturalmente unidirezionali), bensì di quelli che consentono interazione e partecipazione, cioè le moderne reti telematiche. In realtà, quel che occorrerebbe fare è liberare gli strumenti più antichi di 500, 100 o 50 anni di controlli amministrativi incompatibili con la libertà d’impresa. Se poi in questo contesto economico mondiale chiuderà qualche testata e saranno pre-pensionati dei giornalisti francamente è difficile pretendere che si versino più lacrime di quante se ne siano versate per la scomparsa dell’acquaiolo, del materassaio ambulante, dell’osteria con cucina dove si portavano gli spaghetti a cuocere, e dei tanti mestieri girovaghi. Per dirla parafrasando una battuta che piace tanto ai giornalisti “È lo sviluppo, bellezza!”. L’ingegno e l’impegno del giurista anzichè sprecarsi nell’escogitare leggi per la protezione dei piranha o delle iene in via di estinzione, po-
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L’impostura dell’“impresa editoriale” di Vincenzo Zeno-Zencovich
trebbe essere meglio impiegata ad analizzare la L. 416/81 (la c.d. legge sull’editoria, che qualcuno vorrebbe riesumare e rivitalizzare come uno zombie) per constatarne la radicale incompatibilità non solo con tutti i
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principi comunitari, ma anche con i diritti dei cittadini e dei contribuenti, i quali con le loro tasse continuano a finanziare chi davvero non ha alcun diritto per essere beneficiato dalle casse pubbliche.
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La guerra televisiva non è finita, la competizione si è allargata Il nascente sistema televisivo “tutto digitale” richiede flessibilità ma anche disciplina per assicurare a lungo termine un’ordinata transizione dal broadcasting lineare verso le reti a banda larga di nuova generazione.
on è finita la “guerra dei trent’anni” di cui hanno parlato in un bel saggio Franco Debenedetti e Antonio Pilati. È finito in Italia il mercato protetto che tutti i legislatori – salvo forse Maccanico impossibilitato peraltro a portare a compimento il suo tentativo – sinora avevano cercato di ingessare impedendo sul nascere o rinviando il più tardi possibile qualsiasi scelta di regolamentazione delle innovazioni tecnologiche nel frattempo intervenute, limitandosi poi a fotografare la situazione di mercato venutasi a creare. Nel 1960, a fronte dei primi tentativi di dar vita a un’emittenza pri-
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È finito in Italia il mercato protetto che tutti i legislatori avevano cercato di ingessare
vata, la Corte Costituzionale ribadisce il monopolio invitando la concessionaria di servizio pubblico ad assicurare un maggiore pluralismo. La Rai darà così vita a Tribuna Politica. Pur essendo tra le prime a sperimentare la televisione a colore sarà fra le ultime in Europa ad adottare lo standard PAL iniziando solo nel 1977 le trasmissioni a colori in ritardo di dieci anni sugli altri grandi paesi europei. All’inizio degli anni Settanta quando si va sviluppando oltre Oceano la televisione via cavo uccide sul nascere lo sviluppo di questa piattaforma imponendo il monopolio della Sip nella posa dei cavi e soprattutto l’obbligo sui nascenti circuiti di trasmettere un solo programma, costringendo in tal modo i primi operatori televisivi via cavo a abbandonare il cavo a profitto delle trasmissioni terrestri. Il gestore pubblico di telecomunicazioni si proporrà di realizzare un grande pia-
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no di cablaggio solo negli anni Novanta con una quindicina di anni di ritardo rispetto a quelli promossi dalla Germania e dalla Francia. Con le sentenze della Corte del 1974 che consentivano le trasmissioni via cavo in ambito locale e la ritrasmissione di programmi esteri l’Italia appare il laboratorio di una sorta di rivoluzione dei cento fiori, il primo grande paese continentale a sperimentare l’avvento di nuove emittenti al di fuori di quelle del servizio pubblico. Ma, dopo aver approvato una legge di Riforma del servizio pubblico fra le più innovative, – sottraendolo al controllo del Governo e trasferendone la sovranità al Parlamento – una terza Sentenza della Corte ribadisce due anni dopo il monopolio in ambito nazionale limitandosi a fotografare la situazione venutasi a creare con la nascita di centinaia di emittenti televisive terrestri in ambito locale e rinviando al legislatore il compito di approvare una legge di sistema. La terza rete La Rai negli anni Settanta rimane all’avanguardia nel progettare con il concorso delle Regioni – in base alla Legge di riforma – una terza rete territoriale all’avanguardia basata sul principio del decentramento ideativo e produttivo all’origine di un autentico federalismo televisivo ancora più avanzato rispetto a quello della Germania e delle Comunità Autonome nella nascente democrazia spagnola,
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ma sarà poi costretta – a fronte della concorrenza dei tre network commerciali che, in assenza di normativa, irradiano programmi ormai su tutto il territorio nazionale – a nazionalizzare a metà degli anni Ottanta la Terza Rete. I sostenitori del mantenimento del monopolio, rifiutando la proposta socialista di dar vita ad una Quarta Rete sul modello della Independent Television nel Regno Unito, impediranno così la regolamentazione dell’emittenza privata e così facendo subiranno l’irresistibile ascesa del gruppo televisivo commerciale che potrà in questo primo decennio beneficiare di tutte le opportunità offerte alla televisione commerciale dalle norme prescritte alla Rai a tutela della raccolta pubblicitaria per la carta stampata, senza dover rispondere – come negli Stati Uniti e negli altri Paesi europei dove nascono emittenti private a partire dalla metà degli anni Ottanta – a precisi capitolati e obblighi come ad esempio quello di assicurare l’informazione. L’Italia da laboratorio della libertà e del pluralismo diventa ben presto un malum exemplum di cui far tesoro. La Legge Mammì nel 1990 arriverà a fotografare l’esistente, ovve-
Negli anni ’70 la Rai progetta con le Regioni una terza rete territoriale origine di un autentico federalismo televisivo
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L’Italia da laboratorio delle libertà e del pluralismo diventa ben presto un malum exemplum di cui fare tesoro
utenti, in assenza di precise indicazioni di politica industriale, non farà che tirare la volata ai suoi concorrenti e Sky Italia potrà così produrre nella primavera 2009 la ripresa della finale della Coppa dei Campioni assegnata dalla FIFA al paese ospitante…
ro un sistema misto simmetricamente formato da un servizio pubblico con tre reti nazionali assegnate alle tre principali forze politiche del Paese e tre reti assegnate a un unico gruppo commerciale che a partire da questa data disporranno anche della diretta e dovranno coprire anche l’informazione attraverso proprie redazioni giornalistiche. I dispositivi antitrust si applicano anche per le altre piattaforme via cavo e via satellite e per la pay-tv. In questa situazione di scelte ritardate, la Rai mantiene un ruolo di apripista tecnologico sino alla fine della Prima Repubblica. Per prima assicura la propria presenza nella produzione cinematografica, dà vita a un consorzio europeo per le coproduzioni di fiction, sperimenta le nuove tecnologie di produzione ad alta definizione provenienti dal Sole Levante, denuncia come inutili nuovi standard di diffusione analogica dei segnali televisivi, mostrando in occasione dei mondiali di Italia 90 la superiorità delle tecnologie numeriche. Ma anche in questo caso a 20 anni di distanza, quando l’alta definizione diventa una tecnologia matura e i ricevitori risultano finalmente a costi sostenibili per gli
Monopolio e tv commerciale Le vicende della Seconda Repubblica – nonostante i tentativi di Maccanico di dar vita a un impianto organico di sistema che tenga conto degli effetti della rivoluzione digitale e della convergenza fra servizi di radiodiffusione circolare e servizi di telecomunicazioni capaci di veicolare su nuovi protocolli internet segnali radiotelevisivi, servizi telematici e servizi di telecomunicazione – continueranno a subire questo vizio di fondo di voler fotografare l’esistente e di voler disciplinare con finalità simmetriche emittenza televisiva pubblica ed emittenza commerciale terrestre senza capire il ruolo strategico della pay-tv e delle nascenti piattaforme multicanali digitali che vedono la luce a partire dalla seconda metà degli anni Novanta con la presenza di vari gruppi fra i quali quello francese Canal Plus allora leader nell’Europa continentale. Proseguirà dunque anche in questo primo decennio del Ventunesimo secolo la guerra fra un partito Rai, retaggio nostalgico del monopolio e di una concezione del pluralismo intesa unicamente in termini di equilibri ed equilibrismi di natura politica, e un
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partito favorevole alla televisione commerciale anch’esso preoccupato di salvare sin che si può la situazione esistente e scevro da qualsiasi preoccupazione di tutela del mercato e delle regole della concorrenza in assoluta posizione dominante nel mercato pubblicitario e su cui pende l’aggravante del conflitto di interesse dopo la discesa in campo di Berlusconi. Disarmi bilanciati Concentrando la battaglia politica su ipotesi di dimagrimento del duopolio mediante disarmi bilanciati fra Rai e Mediaset per favorire un improbabile terzo polo generalista terrestre, viene sottovalutata la forza propulsiva in termini di risorse ma anche a termine di quote di ascolto rappresentata dall’offerta multicanale che si produce con la formidabile ascesa dopo fusione fra le due piattaforme digitali satellitari a pagamento Stream e Tele Più e la nascita di Sky Italia di Rupert Murdoch che segnerà una svolta nella storia del sistema televisivo italiano. È definitivamente finito il duopolio televisivo generalista terrestre figlio di un mercato nazionale rimasto protetto e siamo ormai entrati in un sistema televisivo bi-piattaforma (radiodiffusione digitale terrestre e radiodiffusione digitale via satellite) formato da un triopolio ovvero da una nuova struttura bicefala asimmetrica. Essa è costituita da un lato da un vecchio duopolio formato da giganti nani come Rai e Mediaset costretti oltretut-
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La nascita di Sky Italia di Rupert Murdoch segna una svolta nella storia del sistema televisivo italiano to a fare i conti con il declino lento ma inesorabile degli ascolti della tv generalista, e uno fra i primi gruppi della comunicazione mondiale come News Corporation azionista di riferimento di Sky Italia, che ha sin qui potuto contare su una situazione di quasi assoluto monopolio nel mercato destinato a diventare preponderante nel settore televisivo, ovvero quello dei servizi a pagamento. Il 2009 segnerà probabilmente il sorpasso rispetto al mercato della pubblicità raccolta in televisione. In questo quadro solo pochi altri gruppi come ad esempio quelli provenienti dalle telecomunicazioni che investiranno nella banda larga e nelle reti di nuova generazione potranno avere un ruolo nel nuovo ambiente multimediale interattivo dove centrali sono destinati a diventare nel tempo i gestori di piattaforme con protocolli internet, mentre quelli provenienti dalla carta stampata potranno accedere ai nuovi mercati televisivi e multimediali a cominciare dal digitale terrestre con un ruolo importante per la crescita del pluralismo in ambito nazionale e locale, ma in termini imprenditoriali con un ruolo da comprimari nel nuovo sistema delle co-
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municazioni integrate. Murdoch è ormai da anni leader incontrastato nel settore televisivo a pagamento dove solo a partire dalla seconda metà di questo decennio – con l’avvento delle reti digitali terrestri Mediaset e Telecom Italia Media prima e oggi il gruppo svedese Dahlia – tentano di contrastarlo unitamente ad alcune nascenti piattaforme IPTV. La creazione di una nuova piattaforma televisiva digitale satellitare attorno a Rai e Mediaset e ad altri operatori televisivi presenti nella televisione digitale terrestre potrà forse ancora tentare di infastidire Sky Italia ma non impedirà al gruppo del magnate australiano di entrare a partire dal 2011 anche nel mercato televisivo terrestre, secondo quanto deciso dalla Commissione Europea al momento dell’autorizzazione alla fusione fra Tele Più e Stream, e di estendere la propria competizione anche al segmento della televisione generalista con la possibilità di incursioni anche nel campo delle televisioni locali dove potrebbe rilevare probabilmente nuove frequenze seguendo le gesta del suo illustre predecessore Silvio Berlusconi…
La creazione di una nuova piattaforma televisiva digitale satellitare non impedirà a Murdoch di entrare dal 2011 nel mercato tv terrestre
Triopolio asimmetrico Siamo dunque in presenza di un vero e proprio triopolio fortemente asimmetrico dove Murdoch è destinato a crescere beneficiando delle economie di scala derivanti dalla sua presenza in tutto il mondo e dalle sinergie di cui può disporre non solo nel campo dell’acquisizione dei diritti cinematografici e di quelli sportivi per i propri canali premium a pagamento, ma anche ad esempio in quello dell’informazione come vediamo bene dalla qualità dell’informazione proposta da Sky TG 24 e in nuovi generi come l’intrattenimento proposto da Sky One che potrebbe presto entrare a competere con le emittenti generaliste come avvenuto da Fox contro i tre network storici oltre Oceano. Non è più possibile dunque salvare l’esistente ma occorre ben governare i processi e i fenomeni che sono destinati a sconvolgere i vecchi assetti che volens nolens hanno tenuto nei primi tre decenni del sistema misto. Rai, Mediaset e pochi altri avranno la possibilità di contrastare Murdoch solo se sapranno rafforzare la propria offerta ad accesso libero sulla piattaforma digitale terrestre e su qualsiasi altra piattaforma dando vita a un’offerta appetibile in grado di rivolgersi a un pubblico generalista con offerte tematiche di qualità rivolte a bambini, donne, appassionati di sport, documentari e di altri generi che hanno fatto della televisione il grande medium presente nelle famiglie italiane.
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Fornitori e contenuti A regime, dopo lo spegnimento delle trasmissioni analogiche – in base alla Delibera dello scorso aprile approvata dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – disporranno su un totale di 21 reti nazionali SFN di almeno quattro frequenze a fronte delle tre per Telecom Italia Media, e di quella assegnata alle altre concessionarie nazionali Rete A, Retecapri, Europa Tv e Europa 7, mentre delle cinque rimanenti frequenze che verranno messe a gara e di cui tre riservate ai nuovi entranti, avranno la possibilità di contendersi le due rimanenti, sino ad arrivare a disporre di un massimo di cinque multiplex. Con quattro-cinque multiplex a disposizione, anche dovendo cedere il 40% della capacità trasmissiva dell’eventuale quinto multiplex a terzi, Rai e Mediaset, unitamente agli altri soggetti licenziatari delle frequenze potranno trasmettere un numero sufficientemente cospicuo di propri canali e di canali provenienti da altri editori, in grado di contrastare l’attuale strapotere di Murdoch nel segmento dell’offerta digitale via satellite dando vita anche a nuovi programmi trasmessi in alta definizione. Lo potranno fare solo se disporranno di maggiori risorse e se perseguiranno finalità diverse, ovvero se accantoneranno quella vecchia visione del duopolio generalista che le imprigionava in una competizione simmetrica come se il loro
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Mediaset deve poter competere con i nuovi enetranti, la Rai deve tornare a fare più e meglio servizio pubblico destino fosse il medesimo e medesime fossero le finalità. Oggi la competizione è fortemente asimmetrica a tutto favore di un soggetto – News Corporation – che opera in un mercato sempre più globale e vi è asimmetria anche nella regolamentazione delle diverse piattaforme. Più che difendere la presenza televisiva nelle frequenze del cosiddetto dividendo digitale che in Europa sono state assegnate agli operatori di telefonia mobile, sarebbe utile che i grandi editori televisivi italiani si interessassero al loro ruolo come fornitori di contenuti sia lineari sia non lineari nelle reti a larga banda di nuova generazione. Mentre Mediaset deve trovarsi – senza coperture politiche derivanti dall’irrisolta questione del conflitto di interesse – nelle condizioni di poter competere a tutto campo con i nuovi entranti a cominciare da Murdoch su tutti i segmenti del mercato televisivo con finalità di profitto (dal mercato pubblicitario a quello degli abbonati a canali a pagamento e nuovi servizi multimediali ad altissimo valore aggiunto), la Rai deve tornare a fare più e meglio servizio pubblico distinguendo nettamente le sue attività mission oriented finanziate
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dal canone, dalle attività di profitto che devono consentirle di continuare a competere sugli ascolti e garantire la sua funzione di coesione per l’intera comunità nazionale. La Rai dovrà dunque ritrovare le ragioni del suo essere servizio pubblico rideclinando la propria offerta generalista su un numero più ampio di canali superando i confini nazionali e al contempo assicurando un nuovo e oculato presidio del territorio come l’avevamo invitata a fare sin dal 1997 in un saggio in cui annunciavamo la fine della comunicazione di massa e il rischio di farsi emarginare dalla nuova Babele elettronica derivante dall’avvento di internet da un lato e delle piattaforme televisive digitali dall’altro. Sono passati dodici anni da allora ma crediamo che la Rai potrà vincere la propria scommessa solo se saprà rilanciare e riconfigurare i propri canali informativi, educativi e sportivi, e promuovere nuove offerte come Rai Storia che non si limitino allo sfruttamento del proprio archivio ma si iscrivano in una nuova linea produttiva originale che non si accontenta di affettare la vecchia televisione generalista. Contemporaneamente, in previsione anche della scadenza nel 2015
La Rai dovrà esaltare la propria missione di apripista nel campo della multimedialità
della propria Convenzione ventennale con lo Stato, la Rai dovrà esaltare la propria missione di apripista nel campo della multimedialità, avviando una convincente offerta di qualità nel campo dei servizi cross mediali non lineari a richiesta, seguendo quanto sta ormai facendo la BBC, cui è stato assegnato dal legislatore un ruolo importante nella costruzione di un Regno Unito digitale e cui verrà assegnato un altrettanto strategico ruolo nella transizione prevista nei prossimi decenni per assicurare un’ordinata migrazione dalle reti broadcast di radiodiffusione circolare terrestri e satellitari alle reti NGN di nuova generazione destinate a veicolare servizi integrati su protocolli IP. Non perdiamo anche questa volta, con la banda larga, l’occasione di governare un processo destinato ad avere un impatto sulle future generazioni. Temiamo infatti che – come avvenuto in passato per la costruzione degli impianti televisivi e per quelli di telefonia cellulare – una competizione fra diversi operatori di rete in un settore a costi elevatissimi e redditività molto differita, anziché fra tanti fornitori di servizi che dispongano di un’unica solida infrastruttura, rischi di creare a medio lungo termine ulteriore confusione e frammentazione, è invece la grande occasione per assicurare, come avvenuto ad esempio nel Regno Unito, un moderno reticolo elettronico, aperto alla concorrenza sui servizi che esso vei-
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cola e offre con diverse formule agli utenti, ma gestito da un’entità terza super partes come prezioso bene pubblico per la collettività. Bilancio delle infrastrutture La liberalizzazione in Europa non solo nella fornitura dei servizi, ma anche in quello della costruzione e della fornitura degli impianti di telecomunicazione nonché l’esistenza in Italia nel settore televisivo di un numero elevato di titolari di infrastrutture di reti di radiodiffusione in ambito locale, rendono particolarmente difficile se non impossibile l’idea di una “nazionalizzazione” delle infrastrutture di rete, come avvenuto 50 anni fa con l’energia elettrica. Pur tuttavia siamo convinti che l’auspicabile scorporo della rete fissa di accesso agli utenti da parte di Telecom Italia potrebbe aprire un processo di razionalizzazione molto più ampio che interessi anche l’universo televisivo e in particolare dello spettro radioelettrico, teso a conferire a un’Agenzia per lo Sviluppo delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ASTIC), se non la gestione delle infrastrutture perlomeno il loro coordinamento, promuovendo forme consortili fra i proprietari degli impianti che consentano in qualche modo allo Stato e agli Enti locali di tornare a essere legittimi proprietari di una risorsa preziosa e strategica come le frequenze. Nel set-
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Costruire un moderno, efficiente e capillare reticolo elettronico di infrastrutture a banda larga è un capitolo fondamentale per il nostro Paese tore elettrico l’esempio di Terna – Rete Elettrica Nazionale S.p.A. sembra particolarmente interessante in quanto tale società – nata in seno all’ENEL e oggi controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti – a dieci anni dalla sua costituzione risulta responsabile in Italia della trasmissione dell’energia elettrica sulla rete ad alta e altissima tensione su tutto il territorio nazionale, con oltre il 98% delle infrastrutture elettriche. La questione del rilancio delle infrastrutture delle reti di telecomunicazioni e delle modalità di costruzione di un moderno, robusto, efficace ed efficiente quanto pervasivo e capillare reticolo elettronico di infrastrutture a banda larga di nuova generazione NGN, diventa dunque un capitolo fondamentale della modernizzazione delle infrastrutture del nostro Paese, per evitare, come avvenuto nei trasporti ferroviari e autostradali, un’ulteriore crescita del divario con i Paesi più avanzati in un quadro al contempo sempre più globale ma che necessita un solido radicamento e collegamento in ambito territoriale.
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a storia della comunicazione è stata spesso “rivoluzionata” dai progressi tecnologici. Il giornalismo, in particolare, ha cambiato gran parte delle sue modalità allorché sono stati inventati: il telegrafo, la linotype, il televisore, il computer. Durante l’ultima parte del Novecento è arrivato il vento di internet, che ha affiancato agli strumenti tradizionali un metodo e un “ambiente” del tutto nuovi. La comunicazione via web sta facendo tremare il vecchio castello, in particolare i bastioni della carta stampata. Serve a poco profetizzare il futuro, immediato o più lontano. È in atto un riposizionamento, una fase in cui molti protagonisti – per non uscire di scena – sono costretti a rivedere il proprio ruolo. Si parla
È in atto un riposizionamento in cui molti protagonisti sono costretti a rivedere il proprio ruolo
molto del destino dei quotidiani, un po’ meno ad esempio di quello delle agenzie di stampa che, per la prima volta da quando sono state inventate, non sono più solo il tramite fra l’evento e le redazioni, ma cercano esse stesse di informare direttamente il cittadino. D’altra parte i telegiornali trovano competitori sempre più agguerriti nei siti web, forniti di sequenze video, immagini, interviste. Ferite dolorose La crisi che si è abbattuta sull’economia mondiale ha già inferto ferite dolorose al sistema dei media. I maggiori gruppi editoriali della carta stampata hanno annunciato tagli vistosi degli organici. All’origine di queste ristrutturazioni c’è la flessione della pubblicità (giù del 25-30 per cento), ma anche la volontà di produrre notiziari su carta, su video e sul web, utilizzando redazioni integrate e meno numerose. Giornalisti che fanno tutto, come consente il nuovo contratto di lavoro firmato con la Federazione della stampa. La
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multimedialità – dicono gli editori – deve aiutare a cambiare la “missione” e contemporaneamente a risparmiare. Il quadro dell’informazione giornalistica non sembra promettere nulla di buono. Ma la classe politica – quella che guida il paese o che spera di farlo – non appare granché interessata alla questione informazione. Sociologi e costituzionalisti spiegano che solo una maggiore consapevolezza fa realmente crescere la capacità di autodeterminazione delle popolazioni. Eppure per i governanti l’informazione appare poco più che un fastidio. I giornalisti e gli strumenti attraverso i quali le notizie sono diffuse sono considerati oggetti del desiderio, leve da controllare per ottenere più facilmente il consenso degli elettori. Il digitale terrestre L’ultima legge approvata, la Gasparri del 2004, non ha affatto eliminato il duopolio, come la Corte Costituzionale aveva imposto. Ha consentito invece che la pubblicità straripasse nel territorio televisivo, favorendo il competitore privato dal momento che l’azienda di stato ha limiti orari e giornalieri più rigidi. Il settore televisivo ha atteso la conversione al digitale terrestre come la panacea da tutti i mali, mentre comincia a essere chiaro che – a fronte di un effettivo
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miglioramento della qualità del segnale – non corrisponderà una moltiplicazione dei canali e una liberalizzazione dell’offerta, a parte la spesa che l’utente dovrà sopportare per l’acquisto del decoder. L’arrivo in Italia dell’offerta informativa di Murdoch non ha cambiato il quadro complessivo, anche se Rai e Mediaset, che sembravano disposti ad allentare la competizione fra loro (lo scambio dei dirigenti fra i due colossi era ormai frequente), ora sono in allarme. Durante gli ultimi 25 anni (decreti del governo Craxi del 1984) si è detto: “Il mercato fa da sé”. In pratica si è lasciato che un solo soggetto privato, le tv di Silvio Berlusconi, si contrapponesse ai canali della Rai. Altri imprenditori che hanno tentato di decollare, sono rimasti al palo, privi di ripetitori e, di conseguenza, di pubblicità sufficiente. Ne è scaturito un pluralismo televisivo zoppo, che i partiti hanno trasformato in lottizzazione estrema, in cui anche l’opposizione ha avuto le proprie (più o meno simboliche) seggioline. Il controllo dei partiti sulla Rai
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Colpisce li disinteresse delle forze politiche per la libertà ed autonomia dei giornalisti. La Freedom House ci pone tra gli ultimi in classifica è pressoché totale. Il giornalismo diviene così succube delle organizzazioni politiche, che nominano i propri rappresentanti alla guida delle testate e dei programmi, e rendono molto spesso di parte le trasmissioni giornalistiche, in evidente violazione dell’autonomia che dovrebbe essere assicurata ai giornalisti, ciascuno dei quali dovrebbe in piena coscienza svolgere il proprio compito. Anche leggi che miravano ad assicurare almeno parziale equidistanza, ad esempio quella della cosiddetta par condicio nei periodi elettorali, vengono violate in modo clamoroso, a discapito soprattutto delle piccole formazioni politiche, oscurate o ignorate. Colpisce il disinteresse delle forze politiche verso il tema della libertà e dell’autonomia dei giornalisti. La Freedom House pone l’Italia a uno degli ultimi posti nella classifica della libertà di stampa. Ciò sulla base sia dei potenti legami industriali, politici, lobbistici (ma anche quello con la chiesa cattolica), sia delle intimidazioni a cui
vengono sottoposti gli esponenti della categoria da parte di organizzazioni criminali e mafiose, soprattutto in alcune realtà locali. In tutti i settori dell’industria giornalistica (carta stampata, radio, tv, Internet) i giornalisti – che trovano lavoro con sempre maggiore difficoltà e sono tenuti al guinzaglio attraverso forme di collaborazione saltuaria e rapporti capestro – finiscono per rinunciare alla propria autonomia intellettuale, si adattano ad attuare una “linea politica” dettata dall’alto, che realizza gli obbiettivi del partito di controllo o dell’imprenditore che, attraverso i propri fiduciari, ha accettato di sostenere questa o quella formazione politica. Autonomia dei giornalisti Ciò è tanto più sconcertante in un paese in cui, nel 1963, il Parlamento intese – attraverso la legge che istituì l’Ordine professionale – dare ai giornalisti una organizzazione che garantisse loro almeno una parziale autonomia e autorevolezza. Lo Stato aveva ritenuto che ciò potesse favorire una condizione di libertà (imprescindibile) per coloro che avevano come obbiettivo (inderogabile) la ricerca della verità. I due aggettivi, non casuali, sono quelli previsti dall’articolo 2 della legge. I giornalisti italiani, grazie a una simile organizzazione – da molti osteggiata per le
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sue reminiscenze di carattere fascista – sono più liberi di quelli di altre nazioni? Certamente no. Si dirà che l’autonomia intellettuale è questione che riguarda la dirittura morale dei singoli e che non può essere garantita da norme pure obbligatorie. Ma gli atti parlamentari dell’epoca mostrano che secondo molti deputati (Guido Gonella per primo) la legge numero 69 avrebbe potuto facilitare la preparazione, la qualità, la libertà del lavoro giornalistico. Per questo si riteneva utile creare la professione, accanto all’attività libera e a quella dei pubblicisti. Il contratto nazionale A difendere l’autonomia ci ha provato non tanto l’Ordine (che ha svolto in minima parte solo la funzione deontologica e sanzionatoria) ma la Federazione della stampa, lo storico sindacato (unitario) dei giornalisti. Ciò è avvenuto attraverso norme contenute nei contratti di lavoro e, dunque, oggetto della trattativa con gli imprenditori. In particolare durante gli anni Settanta-Ottanta, la Fnsi ha ottenuto che il contratto nazionale comprendesse norme a difesa dei redattori (comitati di redazione, consultazioni, conoscenza dei piani editoriali, esposizione della linea politica, potere di togliere la firma…) riuscendo in parte a difendere la sfera intellettuale dei
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Il patto Fnsi Fieg rende licenziabili direttori e vicedirettori, con quali limiti alla loro libertà è facile immaginare redattori. La prevalenza dei rapporti a tempo indeterminato, ad esempio, dava ai singoli una almeno parziale tranquillità. Gli spiriti ribelli non facevano carriera, ma potevano assorbire le invadenze e le prepotenze, senza temere di perdere lo stipendio. È per questo che gli editori cercano ora di firmare solo contratti a termine, che rendono i redattori più malleabili. Non a caso il recente patto stipulato fra Fnsi e Fieg rende licenziabili i direttori e i vicedirettori, accomunati in tutto e per tutto ai dirigenti delle altre aziende. Con quali limiti alla loro libertà e autonomia è facile immaginare. Ciò trasforma il clima all’interno delle redazioni. L’articolo 6 del contratto dava al direttore un enorme potere. Che si giustificava con la necessità che il lavoro, frenetico come nessun altro, trovasse comunque, al più alto livello, una capacità decisionale forte. Però lo stesso articolo dava al direttore il compito di garantire proprio l’autonomia redazionale dalle interferenze esterne, prime fra tutte quelle, eventuali, dell’editore. Il quale non aveva
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accesso alla redazione, non era in contatto con i giornalisti, parlava solo con il direttore, che era il suo uomo di fiducia, ma non poteva condizionare il lavoro, gli articoli, i titoli. Storico è rimasto l’episodio (1994) in cui Silvio Berlusconi era pesantemente intervenuto nella riunione dei redattori del Giornale Nuovo, invitando i giornalisti ad appoggiare più chiaramente il suo movimento politico. Gesto che aveva provocato le immediate dimissioni del direttore, Indro Montanelli, che quel quotidiano aveva fondato e che non poteva tollerare una simile intrusione. I poteri del direttore, ecco un punto sul quale sarebbe possibile operare. La formulazione dell’articolo 6 non si giustifica più e occorrerebbe ripensare altre difese in favore del giornalista, come produttore d’opera intellettuale. Lo Stato interviene da alcuni anni per sostenere economicamente le aziende editoriali, con soldi a pioggia destinati a organizzazioni (partiti, associazioni, parrocchie, conventi…) che incassano non pochi danari. Altri, quasi incom-
Con Internet i giornalisti possono essere proprietari e gestire la reale libertà delle loro testate
prensibilmente, sono destinati anche alle testate maggiori – attraverso rimborsi delle spese per la carta e altri benefici – con una evidente manipolazione del mercato e della concorrenza. È un campo nel quale potrebbero essere reso obbligatorio, come condizione dell’elargizione, proprio il rispetto di norme a difesa dell’autonomia dei singoli operatori. Poteri di governance In Italia le poche cooperative di giornalisti hanno faticato sette camicie. Non si sono mai visti giornali nei quali una pluralità di associazioni (redattori, impiegati, lettori) fossero titolari dei poteri di governance. Come nei francesi Le Monde e Figaro. Allo stesso modo mai è stata sperimentata la strada della proprietà frazionata, che faccia scomparire la figura dell’editore. Internet cambia tutto, modifica la previsione. I giornalisti, in “ambiente web” possono diventare i titolari dell’impresa. Non c’è più bisogno di un capitale di rischio, che solo petrolieri e magnati possono permettersi. Negli Stati Uniti già molte firme prestigiose hanno lasciato le proprie testate e hanno fondato giornali informatici, nei quali operano liberi dalla pressione e dal controllo degli imprenditori, i quali – essendo i detentori del capitale – indirizzano e condizionano il contenuto delle informazioni. Con
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Internet: libertà e rischio d’impresa di Vittorio Roidi
internet, i giornalisti possono essere proprietari e gestire la reale libertà delle proprie testate. Naturalmente devono correre il rischio di impresa, offrire un prodotto di qualità, dimostrare ai cittadini che vale la pena connettersi con i loro siti. Un buon afflusso di pubblicità sarà indispensabile, ma non è escluso che una parte degli utenti accettino di pagare piccoli abbonamenti, pur di garantirsi un’informazione libera, più vicina alla verità. Il punto di partenza però deve essere il riconoscimento della peculiarità dell’azienda editoriale. Lo Stato deve dire che la merce offerta dalle imprese giornalistiche ha un carattere particolare. Perché esse non producono automobili, non vendono scarpe, ma notizie. Che sono qualcosa di diverso, una merce di interesse pubblico. Coloro che intendono produrre informazioni (accanto alle loro attività principali: il petrolio, le automobili, l’edilizia) devono
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Lo Stato deve dire che la merce offerta dalle imprse giornalistiche ha un carattere particolare: è merce di interesse pubblico accettare doveri particolari. Ciò affinché l’opera di informare possa essere attuata in modo più rigoroso, con personale specializzato e “autonomo”, rispetto alla condizione degli operatori di altri settori. La condizione di precarietà, sia economica, sia culturale, in cui operano i giornalisti discende invece dal prevalere di interessi ben differenti. Non il contenuto delle informazioni, ma gli obbiettivi economici e politici di coloro che proprio i giornalisti dovrebbero controllare. La domanda prioritaria che la comunità dei cittadini deve porsi è: l’informazione giornalistica è un’attività come le altre? E se ci appare diversa, in che modo intendiamo regolarla e proteggerla?
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Tecnologie e deontologia professionale
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efinire copernicana ed epocale la rivoluzione tecnologica in atto nel mondo dell’informazione potrà sembrare retorico ed enfatico. In realtà si tratta di una definizione quanto mai calzante, che interpreta efficacemente la metamorfosi che il giornalismo sta vivendo negli ultimi anni e fotografa lo slittamento dei paradigmi tradizionali del mondo dell’informazione verso frontiere inimmaginabili anche soltanto un lustro fa. Gli outcome di questo processo sono rintracciabili su almeno quattro versanti: quello del potenziamento tecnologico e infrastrutturale e delle dinamiche di mercato; quello dell’evoluzione contenutistica e tematica; quello delle regole giuridiche; quello della deontologia e dei nuovi profili professionali.
La sudditanza dell’editoria on line nei riguardi della carta stampata è in via di superamento
Tecnologie, infrastrutture e mercato Nella storia dei media si è sempre assistito a progressivi affiancamenti di un nuovo mezzo a quelli già esistenti, ma mai a sostituzioni integrali. È verosimile che ciò possa accadere (e in parte si sta già verificando) anche per il giornalismo on line, che si sta caratterizzando per aver moltiplicato esponenzialmente il numero delle informazioni e delle opinioni. Le poderose “autostrade virtuali” dove scorrono fiumi di dati, testi, immagini, suoni, parole offrono all’utente modalità flessibili di personalizzazione dei percorsi di fruizione. La sudditanza dell’editoria on line nei riguardi della carta stampata è in via di superamento. Sembra lontana l’epoca del repurposing digitale, che si traduceva nel riversare in rete gli stessi contenuti della versione cartacea dei giornali. Il web in quel contesto si accreditava come mera vetrina alternativa al cartaceo, senza un’ulteriorità di senso interattivo. Circa dieci anni fa, secondo alcuni a partire dal 1998, anno del Sexgate negli Usa, internet comincia a svelare e dispiegare le sue
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infinite potenzialità ai fruitori dei prodotti giornalistici, offrendo una flessibilità sino ad allora insperata, nei termini di un coinvolgimento del lettore (bidirezionalità dei flussi informativi), di una multimedialità espansiva (varietà di registri linguistici e modalità giornalistiche), di una personalizzazione crescente (viene stravolta la teoria dell’agenda setting e la griglia delle priorità di lettura si determina a partire dalle scelte del navigatore, in un’ottica di incessante work in progress). Il lettore non è più destinatario passivo delle informazioni prodotte dalle redazioni, ma co-gestore, co-facitore delle notizie. Assume una leadership proattiva, tanto che si comincia a parlare di prosumer (a metà strada tra producer e consumer). Nuovi aggregatori di contenuti Nel punto 2) svolgeremo alcune considerazioni anche su questa evoluzione. Rispetto alle dinamiche di mercato, invece, si coglie, soprattutto al di là dell’Atlantico, un invecchiamento della carta stampata che appare inesorabile. L’informazione, sia cronaca che approfondimenti, passa attraverso nuovi aggregatori di contenuti e gli editori dei quotidiani (e periodici) cartacei più blasonati vivono una sorta di conversione spirituale verso l’editoria on line, quasi presaghi dell’ineluttabilità della fine della carta stampata. La profezia che fissa al 2043 la data dell’ultima
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copia cartacea del Wall Street Journal è l’ipostasi emblematica di questo scenario futuribile. E l’interrogativo circa la completa sostituzione dell’editoria cartacea con quella veicolata dalle tecnologie turba il sonno degli editori di tutto il mondo. Va detto che gli addetti ai lavori non sono così concordi nel vaticinare tale passaggio di consegne. Chi intona il de profundis ai giornali di carta appare sufficientemente controbilanciato da quanti propendono per una sorta di immortalità dei tradizionali strumenti di informazione, destinati, semmai, in questa seconda linea interpretativa e predittiva, a riconvertirsi in strumenti di approfondimento, con contenuti alternativi e in parte integrabili con quelli on line. D’altronde, non mancano esempi che sembrano accreditare tale versione. Il settimanale inglese Economist nel suo formato cartaceo continua a guadagnare copie e riesce a tenere sufficientemente a bada i suoi potenziali killer. In un’intervista al quotidiano “Il Foglio”, il 4 ottobre 2008, Alberto Rigotti, proprietario di E-Polis, quotidiano free press, dichiarava: <La
Chi intona il de profundis ai giornali di carta è controbilanciato da chi propende per l’immortalità dei tradizionali strumenti di informazione
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La contrazione degli utili delle imprese editoriali impone un nuovo modello di business anche alla carta stampata carta provoca piacere, ha un elemento estetico. È un prodotto artistico, come un libro, un’opera lirica. La carta è complementare con il virtuale. Sono due modi di comunicare che possono coesistere. Perché il virtuale è indefinito, la carta stampata è delimitata, si può conservare, rileggerla, sottolinearla. E poi la carta è localizzante, l’esatto opposto della globalizzazione, anonima e spersonalizzata. La stampa localizza le informazioni fino a renderle a misura della singola persona, non è dispersiva come Internet. Magari l’informazione finanziaria, piena di dati, si svilupperà soprattutto sul virtuale. Con più numeri, anche se con meno opinioni. Ma per gli approfondimenti ci sarà sempre la carta stampata>. Quanto sia attendibile tale scenario potrà dircelo solo la realtà dei fatti. Certo è che la contrazione degli utili delle imprese editoriali, tutt’altro che sfavillanti, impone un nuovo modello di business anche per la carta stampata. Una recente ricerca dell’Osservatorio europeo di giornalismo dell’Università della Svizzera Italiana (“Giornali e internet: come uscire dalla crisi?”, in ) si mostra scettica anche sulle capa-
cità dell’editoria on line di drenare pubblicità dal segmento cartaceo e di generare profitto. <Nonostante il notevole aumento dei lettori on line –si legge nella ricerca- la pubblicità non aumenta proporzionalmente. Anzi, gli incrementi sono poco significativi e la migrazione della pubblicità dalla carta all’on line è molto contenuta: il valore dell’investimento pubblicitario su web mediamente non supera il 10% dei ricavi complessivi dei giornali>. Editoria on line A supporto di tale ordine di considerazioni, constatiamo che la stampa americana ha visto contrarsi, tra il 2005 e il 2009, il volume delle inserzioni a pagamento da 16 a 5 miliardi di dollari. La struttura più agile delle imprese editoriali on line, sgravate dai costi di carta, stampa e distribuzione e con redazioni molto più snelle, non riesce in ogni caso a sopravvivere sul mercato senza un nuovo modello economico-imprenditoriale. Il magnate Rupert Murdoch sembra averlo compreso, tanto che si è detto intenzionato a estendere la formula a pagamento, oggi attiva sul Wall Street Journal, ad altri siti web dei giornali di proprietà di News Corporation. Ma come reagirebbe la community degli internauti ad una strategia di questo tipo? Si adeguerebbe a un sistema di accessi a pagamento, con alcuni contenuti generalisti fruibili gratuitamente e link specialistici e
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di approfondimento legati al versamento di un fee? Sarebbe così semplice mettere attorno ad un tavolo tutti i maggiori gruppi editoriali del mondo per concertare una strategia condivisa su questo punto, considerando il ruolo di Google e degli altri motori di ricerca? Il futuro della tv tradizionale Ma le nubi si addensano anche sul futuro della tv tradizionale, sempre meno indispensabile nella fruizione dei contenuti informativi e di intrattenimento. Va da sé che le industrie del settore vedranno fatalmente dimagrire i propri fatturati, nella misura in cui non individueranno strategie commerciali alternative. <La distribuzione dei contenuti basata su internet genera solo una frazione del flusso di cassa garantito dal modello tradizionale (abbonamenti ai servizi premium via cavo o via satellite + pubblicità sui canali in chiaro). Via via che l’audiovideo IP-based guadagnerà territorio, e non c’è modo di fermarlo, gli attuali costi strutturali del TV business diventeranno insostenibili, provocando la caduta degli odierni incumbent. Non c’è modo di tornare indietro, perché sono venuti meno tutti i fondamentali su cui poggiava il primato assoluto del tubo catodico nel fornire intrattenimento alla popolazione> (A. Materia, “NewTv: la tv disconessa, il morto vivente. Sorry, non esiste modo di salvare la vecchia industria televisi-
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Gli inserzionisti vorranno pagare sempre meno eriusciranno a pagare sempre meno va”, in). Anche nel campo televisivo, dunque, le tecnologie consentono percorsi di fruizione assolutamente flessibili, con palinsesti totalmente personalizzati, e incentivano il processo di polverizzazione dei contenuti informativi e di intrattenimento e la loro diluizione nel mare magnum dell’on-demand. E c’è da immaginare che il gigante Google, vista la recente integrazione con YouTube, finirà per raccogliere anche pubblicità televisiva, stravolgendo le attuali dinamiche di mercato. Le virtualità tecnologiche legate alle nuove piattaforme trasmissive stimoleranno un consistente abbassamento dei ricavi unitari dei singoli spot: gli inserzionisti vorranno pagare sempre meno e riusciranno a pagare sempre meno. A sopravvivere sul mercato saranno solo gli operatori della NewTv in grado di sostenere tale modello di organizzazione imprenditoriale basato su strutture di costo “leggere”. In termini di durata, il peso specifico dell’advertising nell’economia degli spazi mediatici aumenterà rispetto alla quota di contenuti informativi e di intrattenimento e si affermeranno altre forme di pubblicità, dalle sponsorizzazioni esclusive
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allo spleet screen al product placement. Sulla base di tale scenario, è prevedibile un futuro di lacrime e sangue per i maggiori gruppi televisivi nazionali nella misura in cui non riusciranno a proporre piattaforme di NewTv su scala continentale. Contenuti e temi La contrazione degli introiti pubblicitari si sta già traducendo e continuerà a tradursi in cure dimagranti per tutte le testate cartacee e in un impoverimento dei palinsesti di tutte le tv nazionali e locali. Per i giornali, inoltre, la riduzione dei contributi pubblici e delle agevolazioni fiscali e postali porterà anche ad una drastica riduzione della foliazione. Quest’ultima tendenza potrebbe paradossalmente rivelarsi positiva, nella misura in cui stimolerà una maggiore verifica delle notizie e un più accurato approfondimento delle stesse. Ma come e quanto l’innovazione tecnologica sta cambiando i contenuti dell’informazione? Si è detto che l’utente non è più fruitore passivo e che i confini tra emittente e ricevente, nell’editoria on line in larga parte
Il giornale on line è un’opera perennemente in fieri con la possibilità di “rinfrescare” costantemente i suoi contenuti rispetto alla carta stampata
evaporano. Il rapporto con il lettore si alimenta con i nuovi strumenti della community (e-mail, chat, forum), il bottom-up prevale sul top-down e il “potere” del navigatore è immediatamente incisivo rispetto alla gerarchizzazione delle notizie: gli articoli più cliccati influenzano le scelte di redazione, definiscono l’agenda, la filiera di produzione dei giornali on line è orizzontale. Tale meccanismo ha inoltre effetti di “targettizzazione” anche per quanto riguarda la pubblicità. Non a caso si sostiene che la pubblicità on line sia più efficace delle altre, poiché intercetta aspettative e bisogni più trasparenti, dichiarati e sondabili. Potremmo dunque sostenere che il modello di editoria on line che attualmente prevale è quello del market-driven journalism, schiavo della contaminazione commercio-notizia, con scelte giornalistiche influenzate dagli orientamenti dei consumatori e del mercato in generale. Quando si parla di giornalismo on line la declinazione ricorrente è quella del public journalism o quella del citizen journalism, che esalta la dimensione partecipativa e collaborativa giornalistautente nella negoziazione e definizione dei temi di interesse generale. Il processo di costruzione della notizia si alimenta al soffio di una condivisione che amplia i confini del campo giornalistico, stravolge i criteri di notiziabilità, trasforma in interattivo il processo di confezionamento delle notizie. E il blogging rappresenta l’evo-
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luzione naturale del public journalism, anche se sono in molti a considerare la blogosfera altra cosa rispetto al mondo dell’informazione. Nel giornalismo on line, i processi di newsmaking sono condizionati dall’assenza di limiti spaziali (su internet lo spazio delle notizie e degli approfondimenti, anche attraverso il sistema dei link, è tendenzialmente illimitato), dall’esigenza di tempestività degli aggiornamenti (il giornale on line non è mai un prodotto finito, ma un’opera perennemente in fieri e il suo valore aggiunto rispetto alla carta stampata risiede anche nella possibilità di “rinfrescare” costantemente i suoi contenuti), dall’apertura alla possibilità che l’utente stesso diventi una fonte di notizie, particolari, commenti, segnalazioni. Per i blog il discorso è un po’ diverso, perché si tratta spesso di diari on line, creati con spirito amatoriale da persone dall’identità riconoscibile o anche coperta, a volte, da nickname. L’essenza dei blog sono i cosiddetti post, cioè i commenti degli internauti. Il gestore del blog, il blogger, non svolge mansioni propriamente giornalistiche, non parla con le fonti, non fa cronaca. Normalmente parte da una notizia per commentarla, per muovere critiche, per esternare un punto di vista. Autorevolezza e credibilità non sempre vengono garantite, anche se ci sono casi di giornalisti che, per approfondire argomenti affrontati sui media tradizionali o su giornali on line, rinviano i lo-
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Il blogger non svolge mansioni giornalistiche, non parla con le fonti, non fa cronaca. Esterna un suo punto di vista ro lettori a propri blog nei quali sviluppano argomenti che, per mancanza di spazio o, a volte, anche per censure, non troverebbero spazio altrove. Ecco perché si parla, a proposito dei blog, di giornalismo residuale, che interpreta bisogni comunicativi ignorati dai media tradizionali. Ma sull’assimilabilità del blogging al giornalismo permangono forti dubbi. Informazione, diritto e nuove tecnologie L’avvento delle nuove tecnologie finirà per allargare o per comprimere gli spazi della democrazia dell’informazione? L’affermazione di una nuova “cittadinanza digitale” porta con sé la ridefinizione di molti diritti e doveri tradizionali e mette in scacco parte delle regole giuridiche consolidate. Non è tuttavia così automatico che la rivoluzione digitale in atto si traduca in una dilatazione applicativa del concetto di democrazia. Una concezione meramente quantitativa dei canali e delle opportunità di accesso alle reti di informazioni potrebbe risultare fuorviante, nella misura in cui tale overload non fosse supportato da processi infrastrutturali diffusi e uniformi
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e da interventi di alfabetizzazione massiccia e planetaria. Lasciarsi sedurre dall’incalzante innovazione tecnologica, senza preoccuparsi che essa impatti efficacemente sull’intera popolazione mondiale e sulle dinamiche di fruizione dei diritti fondamentali dell’uomo potrebbe risultare fatale. L’avvento di nuove forme di giornalismo, al di là degli strumenti, inaugura modelli inediti di relazioni interpersonali e declinazioni e configurazioni diverse dei diritti già esistenti, evidenziando il carattere anacronistico di alcune norme giuridiche in vigore. La disputa relativa al presunto obbligo di registrazione dei siti informativi on line esplosa all’indomani dell’emanazione della legge 7 marzo 2001, n.62 ne fu la spia. Anche sull’onda delle direttive europee che si sono succedute sul proscenio giuridico negli ultimi dieci anni, la regolamentazione nazionale di aspetti specifici relativi alla tutela della privacy, del diritto d’autore, delle fonti giornalistiche sta profondamente mutando. Emergono difficoltà spesso insormontabili nel garantire all’autore dell’opera giornalistica
È difficile garantire all’autore dell’opera giornalistica un’efficace difesa dei suoi diritti morali e patrimoniali rispetto al contenuto di un articolo
un’efficace difesa dei suoi diritti morali e patrimoniali rispetto al contenuto di un articolo, così come risulta ardua la difesa della riservatezza di parole, foto, immagini che in rete viaggiano spesso indisturbate e senza possibilità di controllo. Imputabilità e punibilità Rispetto alle esigenze di imputabilità e punibilità dei responsabili di eventuali reati, il diritto mostra armi spuntate. Si pensi ai casi, sempre più numerosi, di diffamazione on line e, in generale, agli episodi ricorrenti di lesioni della personalità di soggetti ai quali il diritto non è in grado di offrire efficaci strumenti di tutela (l’ultima frontiera del “diritto all’oblio” offre notevoli spunti di riflessione in questo senso). Per non parlare della neutralità della rete, sia nei termini di una parità di accesso a tutti gli strumenti tecnologici, sia nei termini di un accesso uguale per tutti alle informazioni che viaggiano in rete. A garantirla dovrà essere un quadro giuridico nazionale e sovranazionale rivolto ai colossi del settore (si pensi ai motori di ricerca che, attraverso filtri e selezioni di contenuti, di fatto orientano in modo non neutrale la navigazione degli utenti) e ai singoli governi, affinchè non incentivino solo alcune tecnologie a scapito di altre, imponendo in modo dirigistico percorsi di progresso e aggiornamento tecnologico per i cittadini.
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Deontologia e nuovi profili professionali dei giornalisti Sta cambiando il modo di fare informazione, le redazioni si stanno riorganizzando, la creazione di poli multimediali valorizza le sinergie, integra le professionalità, tratteggia una nuova figura di giornalista, con una robusta preparazione di base, una versatilità rispetto ai mezzi da utilizzare, una spiccata attitudine all’approfondimento, anche specialistico, delle notizie. Se prima la giornata tipo del giornalista era scandita dai tempi redazionali, oggi il giornalista vive una sorta di “tempo virtuale”, il suo lavoro si scioglie nel costante presente della rete, dominato dalla velocità e tempestività degli aggiornamenti, che spesso fa premio sull’accuratezza dei contenuti. La redazione come luogo fisico non è più così strategica, la figura del giornalista si delocalizza. Il giornalista è spesso chiamato a redigere un articolo per il cartaceo, ma anche per la versione on line e magari a comporre un testo da speakerare per la radio o la tv. Dev’essere sempre duttile e pronto a differenziare il taglio dei suoi contributi, per intercettare pubblici diversi. L’attività giornalistica non è più rigidamente confinata ad un solo medium. Un giornalista senza attitudine alla crossmedialità è destinato a rimanere fuori dal mercato. Il discorso vale anche per i giornalisti del mondo radiotelevisivo, che dovranno saper fare riprese, montaggio, ge-
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Un giornalista senza attitudine alla crossmedialità è destinato a rimanere fuori dal mercato nerare globalmente i prodotti che costituiscono il flusso del canale televisivo. Il nuovo contratto di lavoro giornalistico siglato qualche mese fa da giornalisti ed editori sembra pienamente consapevole di quest’evoluzione di scenario e la asseconda senza tentennamenti. E nella quantità tumultuosa di tali trasformazioni che fine fa la deontologia giornalistica? I doveri del giornalista rispetto alla verità dei fatti, all’interesse sociale delle notizie, alla tutela dei diritti dei protagonisti delle notizie, garantiti dalla Costituzione e dalle leggi vigenti, non rischiano di rimanere prigionieri nel recinto di un’inefficacia applicativa? Nell’immenso oceano dell’informazione on line come si distingueranno i giornalisti dai non giornalisti? Potrà davvero essere l’iscrizione ad un Ordine professionale la discriminante rispetto all’osservanza di quei doveri? Avremo un’informazione di serie A, certificata e documentata, fatta da giornalisti con dei doveri professionali e un’informazione-spazzatura priva di controlli e fatta da soggetti senza vincoli deontologici? La sfida è aperta, l’esito è ancora largamente imprevedibile.
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Editoria al bivio. La sfida dell’innovazione creativa sui contenuti
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onvegni, tavole rotonde e editoria specialistica costituiscono da una quindicina d’anni un vero e proprio teatro di discussione soprattutto del rapporto tra mercato e regole attorno ad ogni sospiro che viene dai laboratori dell’innovazione dell’ICT. Appena si coglie il barlume dell’obsolescenza di un prodotto, di un servizio, di una tecnologia che ha ottenuto la benedizione dei consumatori si apre il faticoso periplo – per città, per associazioni, per fiere e mostre, per partito – di quella consistente compagnia di giro che è animata dagli operatori di public affairs ma che allinea accademici, giornalisti, operatori finanziari, regolatori, politici, studiosi. E naturalmente professionisti della chiacchiera. Ben inteso si tratta di un contesto utile,
Intendendo internet come ambiente dell’interazione, il digitale prevarrà rispetto al cartaceo, al video e al radiofonico
che crea come si dice “cultura condivisa” e talvolta accorcia tal’altra allunga il brodo delle decisioni. Ora, e non da poco, è di scena la questione della sfida tra editoria tradizionale e digitale. Dopo aver prodotto annunci e profezie ultimative per qualche anno, l’ultimo giro pare stringa qualche vite attorno a decisioni non accademiche ma connesse ad opzioni delle imprese. Sovrastruttura Vero o falso problema? È chiaro che intendendo Internet non come strumento della comunicazione e dell’informazione, ma come ambiente dell’interazione, cioè come sovrastruttura alla comunicazione tradizionale, con essa sinergicamente connesso ma da essa distante rispetto ai nuovi contesti della multidimensionalità e interattività, è ovvio che il digitale prevarrà rispetto al cartaceo, al video e al radiofonico. La natura stessa della tecnologia e la capacità di riprodurre digitalmente i formati tradizionale pongono internet non come alternativa ai tradizionali canali dell’informazione,
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Editoria al bivio. La sfida dell’innovazione creativa sui contenuti di Stefano Rolando / Alessandro Papini
ma evoluzione naturalmente tecnologica degli stessi. Il che non comporta di per sè la scomparsa dei vecchi metodi. Ma impone riflessioni sugli scenari di riposizionamento degli investimenti correlati all’ambito editoriale. Pagare per leggere? Di qui l’articolato dibattito internazionale sul futuro dei grandi giornali, le dichiarazioni di disinvestimento sul cartaceo a fronte della crescita dei fatturati pubblicitari online. Ma anche i tentativi di conservare i privilegi di un’editoria, specie quella italo-cartacea, retta ormai con forte incidenza dei finanziamenti pubblici. Inutili sforzi, che non potranno che scontrarsi con scenari evolutivi che sono già stati capaci di varcare confini ben più arditi di quello nostrano, come dimostrano i casi delle informazioni di guerra dall’Afganistan, dell’aggiramento della censura attuata dal governo di Pechino e proprio in queste ore delle immagini della protesta in Iran. Un’informazione che scardina i cardini consuetudinari dei flussi comunicativi per approdare direttamente e in modo disintermediato sugli schermi di tutto il mondo, mostrando immagini, testi, audio e video spesso inediti, crudi, reali mai trasmessi dai media tradizionali. Ecco allora che la sfida dell’online non si gioca sui piani dei tradizionali contesti comunicativi e del-
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l’informazione, ma sui ben più sfidanti ambiti della creatività d’innovazione. È la tesi – per scendere sul posizionamento di alcuni importanti attori – di Keith Rupert Murdoch, editore e produttore australiano, naturalizzato americano, che pone – in vista dei suoi ottant’anni la sfida della ricerca di nuove economie capaci di sostenere nuove forme di informazione. A cominciare dalle nuove formule di pagamento dell’informazione giornalistica online che dal prossimo anno dovrebbero essere applicate non solo al Wall Street Journal (testata già peraltro piuttosto ben posizionata in termini di fatturato online), ma anche da tutti gli agli altri giornali del gruppo: dagli inglesi Times e Sun, al popolare New York Post. La formula vincente sembra quella già sperimentata con successo da Obama nella strategia di raccolta dei fondi a sostegno della costosissima campagna elettorale per la Casa Bianca: la formula, in sostanza, dei micropagamenti. Pochi spiccioli da tante persone, piuttosto che grossi investimenti da pochi finanziatori. Che in editoria corrisponderebbe nell’idea di Murdoch al
Editoria come iTunes: pochi spiccioli da tante persone, più che grossi finanziamenti da pochi finanziatori
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Rinnovare la piattaforma di finanziamento e interpretare le effettive necessità del cliente modello iTunes delle canzoni musicali, applicato agli articoli giornalistici. Pochi centesimi per leggere l’articolo d’interesse. Difficile dire se questa ipotesi avrà o meno successo. Fatto sta che la strada è quella di rinnovare la piattaforma di finanziamento del settore editoriale e inventare nuovi approcci al cliente capaci d’interpretarne le necessità effettive. La droga dei finanziamenti pubblici ha poco spazio (anche se questo caveat l’ho sentito anche dai primi giorni che – venti anni fa – ebbi il compito di amministrare quella competenza per dieci anni) e avrà vita breve in uno scenario economico dove le competizioni tra paesi stanno prendendo il sopravvento su quelle tra imprese. E dove dunque ogni leva d’investimento sarà sempre più orientata alla competitività, più che all’assistenza. L’argomento è stato ripreso da Carlo De Benedetti, a cui fa capo il gruppo Espresso-Repubblica, che in un recente articolo su Il Sole 24, ha “condiviso” alcune idee sul futuro dei giornali online, mettendo in evidenza due scenari che possono condurre al rilancio dei giornali online: da un lato quello delle piattaforme
intuitive, semplici e ricche di servizi e contenuti accessori (come iTunes), dall’altro i sistemi di micropagamenti con possibilità di revenue per gli autori (modello AppleStore). Come si vede il domino è assai veloce. In attesa di capire le prossime mosse dei maggiori player si potrebbe intanto ampliare un po’ la discussione su temi poco esplorati. Per esempio quello della qualità dei contenuti. Il modello editoriale Se il modello editoriale cambia, è altresì vero che con il cambiamento si modificano le logiche di consumo dell’informazione. Consumi che nelle città si mostrano plasticamente grazie alla quantità di fogli freepress sparsi per i marciapiedi e i vicoli di ogni media o grande metropoli. Consumi che su internet seguono canali “facili”, sul modello Google, incapaci di selezionare tra informazioni di qualità e informazione spazzatura. Si dirà che il problema si colloca nell’ambito della grande cornice della selezione naturale della specie. Ma lo stato della cattiva qualità della comunicazione circolante non può sempre avere l’alibi della “pulizia” naturale nei tempi lunghi. Tutto il sistema dell’editoria fibrilla. È di questi giorni il cambio della guardia della prima linea del gruppo Mondadori, sostanzialmente per difendere – come dice l’amministratore delegato Maurizio Costa – il “value for money” a fronte della rivo-
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luzione digitale. Su “The American Prospect” (maggio 2009) due studiosi che stanno contribuendo al dibattito sugli orientamenti del sistema – Steven Johnson (autore di The Invention of Air di prossima uscita per Penguin) e Paul Starr (professore a Princeton) si interrogano a fondo sul tema del crollo degli affari e dei profitti per capire se ciò anticipa un futuro cupo per il giornalismo di qualità o sulla possibilità di un rinascita sul web. Il citizen journalism La tesi “nessun giornalista tutti giornalisti” apre dinamiche di dibattito complesse. Perché se è vero che il giornalismo di qualità delle grandi testate internazionali è indiscusso, è altresì vero che le notizie via blog spesso anticipano – e per la verità talvolta integrano assenza di informazione – le più potenti macchine da news. E la logica Current TV, lanciata nel 2005 da Al Gore, del giornalismo peer to peer o 2.0, costruito dal pubblico all’interno di una cornice condivisa che non impone contenuti, ma li ordina per categorie. È il citizen journalism o l’attivismo digitale o la democrazia partecipativa dell’informazione o come la si voglia chiamare, che produce contenuti, sempre più spesso in formato video (VC2 – cioè “Video Creati dalla Comunità”) veloci e facilmente fruibili. Il 2.0 come democratizzazione del-
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Le notizie via blog anticipano spesso le più potenti macchine da news la rete intesa nella forma partecipativa della collaborazione degli utenti alla generazione dei contenuti. Tutti creano, nessuno distrugge e la rete si espande. Generando con ciò nuove criticità di banda, ma soprattutto nuove domande rispetto ai modelli di ricerca e visibilità dei contenuti. Poiché se un solo motore di ricerca detiene oltre il 70% del traffico di ricerca, allora forse un problema di digital monopolio anche sulla rete esiste. Poiché la possibilità di governare il posizionamento del contenuto sui nodi nevralgici della rete – che sono appunto i motori di ricerca, i nuovi contesti di 2.0 e i portali verticali – cioè la possibilità di accedere in qualità di creatore di contenuto alle porte d’ingresso alla rete porta con se domande importanti circa la prospettiva evolutiva del web. Un web certamente non governabile da un’unica mano (o da un’unica Spectra) ma i cui confini di libertà risultano variabili a seconda degli spazi di creatività di volta in volta generati. Sono le cosiddette killer application, che stravolgono, inaspettatamente le logiche consolidanti di Internet e aprono nuovi spazi di libera circolazione delle informazioni.
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È stato il caso di youtube, poi di skype, poi di twitter. E altri ne verranno a rigenerare ambienti di interazione mediata. È la partita dell’innovazione, creativa e tecnologica, che insieme trovano nell’ambiente internet il terreno di confronto. A questo tavolo dovranno sedersi i grandi editori (quando lanceranno questo genere di sfide anziché piantonare il Parlamento per rifinanziare vecchie normative sarà un bel giorno). Per comprendere e anticipare i nuovi scenari di innovazione e valutarne le potenzialità di applicazione ai propri business. In Italia il sistema appare ancora un po’ in ritardo (perché risente di una condizione di stallo del quadro normativo di sistema, come ha ben chiarito Enzo Cheli nel dossier “Politica&Comunicazioni” pubblicato nel fascicolo n. 3/2009 della nuova serie di Mondopoeraio) per il blocco che da troppi anni consente il perpetrarsi di uno status quo non particolarmente produttivo in termini di nuovi modelli di business legati ai contenuti dell’informazione. Non esiste una colpa oggettiva, ma
La digitalizzazione è parte integrante dei processi produttivi dell’editoria, multimediale o cartacea: eBook è solo il 2% del mercato librario
una varietà di interessi convergenti nello stallo. Che intercettano l’interesse associativo dei giornalisti, quello dei piccoli e grandi editori della carta stampata e dell’editoria televisiva, quelli del servizio pubblico radiotelevisivo. Ne emerge un quadro che paradossalmente valorizza sforzi di innovazione creativa soprattutto sul radiofonico, ancorando i formati tradizionali a vecchi schemi sempre meno interessanti sul piano delle nuove economie. Libri ed eBook In questa cornice anche il segmento librario dell’editoria apre uno sguardo non più solo impaurito e frenante di fronte ai processi digitali. La digitalizzazione – il nuovo management del settore comincia a integrare questo aspetto – è oggi parte integrante dei processi produttivi di gran parte dell’editoria, non solo multimediale ma anche tradizionale su cartaceo. Il mercato eBook (che, per carità, resta a quota 2% del mercato librario) ha tuttavia segnato un +228% di crescita ad aprile 2009 rispetto allo scorso anno, in cui la crescita era stata del 68,4%. Secondo un’indagine dell’Osservatorio Contenuti Digitali, infatti, il 4% (1.340.000 persone) degli consumatori è interessato alla lettura di libri e recensioni su Internet. Il 2% (677.000 persone) si informa e basa i propri acquisti sulle informazioni ricevute frequentando forum, chat o blog letterari, mentre
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un altro 2% (550.000 persone) lo fa leggendo le presentazioni sul sito della casa editrice o su una libreria online. Per spiegare tuttavia il gap imprenditoriale che ancora si evidenzia vi è chi ha osservato anche che più si cerca di forzare nel processo editoriale tradizionale il contenuto digitale, più aumentano i costi. “Attualmente ogni e-book è un’isola – scrivono i ricercatori dell’Università di Parma – e ciò dimostra l’immaturità spesso degli editori nel capire il supporto digitale. Consorzi come Crossref, che facilitano i collegamenti tra articoli nei periodici di diversi editori, ed altri servizi possibili sono eccezioni, che prospettano una fase successiva di evoluzione, ancora non avviata, in risposta alla domanda dei lettori” .
Stefano Lorando è professore di Politiche pubbliche per le comunicazioni, Segretario Generale della Fondazione dell’Università IULM e membro del Consiglio superiore delle Comunicazioni.
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Il traino vero lo ha fatto il settore musicale: di fronte all’involuzione ha scelto la via dell’innovazione In realtà l’innovazione sta finalmente cominciando a far percepire ciò che era più scenario convegnistico che must delle aziende, cioè complessi fenomeni di convergenza che integrano non solo consumi e tecnologie ma anche filosofie evolutive dei mercati. Forse il traino vero è stato fatto dal settore musicale che di fronte all’involuzione (costi/fruizioni) ha scelto la via dell’innovazione per migliorare e non per peggiorare la qualità.
Alessandro Papini è docente e coordinatore del Master in Management della comunicazione sociale, politica e istituzionale presso Università IULM.
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Il nuovo rapporto tra regole ed informazione nell’era digitale
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l diritto si pone tradizionalmente nei confronti dell’informazione avendo come paradigma quello della stampa su supporto fisico. Non è un caso che l’attuale legge italiana sulla stampa rechi come data l’anno di entrata in vigore della Costituzione Repubblicana. Nonostante aggiornamenti in anni relativamente recenti, la legge sulla stampa non tiene il passo rispetto all’evoluzione tumultuosa di fenomeni di informazione digitale che sembrano mettere in discussione in profondità il rapporto tra regole ed informazione nelle tradizionali modalità in cui questo si esplica. Cambiano infatti alcuni “fondamentali” dell’informazione, meccanismi che incidono talmente in profondità sulle modalità con cui è possibile diffondere notizie da richiedere un nuovo tipo di regolamentazio-
Occorre una disciplina più agile dell’informazione “occasionale” o dell’uso occasionale della notizia
ne: un adeguamento delle regole preesistenti non sarebbe sufficiente. Come noto, la stampa fonda le sue regole sulla libertà di manifestazione del pensiero con ogni mezzo, tutelata dall’art. 21 della Carta Costituzionale. Libertà di comunicazione Le enormi possibilità tecnologiche che hanno potenziato la possibilità del singolo individuo di essere “fonte di notizie” in prima persona, portano la dottrina giuridica a parlare di una sorta di evoluzione della libertà dell’art. 21 in una vera e propria “libertà di comunicazione”: di inviare messaggi, utilizzare tecnologie di comunicazione, accedere alle nuove tecnologie. La teoria appare fondata e l’evoluzione del principio dell’art. 21 trae ulteriore forza costituzionale dall’essere conforme a vari principi “comunitari” (quindi aventi forza superiore alla legge ordinaria) in materia delle comunicazioni elettroniche. Queste, pur brevi, considerazioni evidenziano ancor più come l’assetto pre-esistente della regolamentazione sia inadeguato.
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Quali dunque le implicazioni di una tale evoluzione sulle regole preesistenti? Occorre un ripensamento che tenga conto della possibilità di un tipo di comunicazione sempre più “istantanea” e priva di intermediazioni “editoriali” o, per meglio dire, dove l’editore può coincidere con la totalità delle figure coinvolte nel processo: fonte, giornalista, responsabile e distributore. Occorre una disciplina più agile dell’informazione “occasionale” o dell’uso occasionale della notizia, in particolare per quanto riguarda un prezioso strumento come il diritto di rettifica, che certo deve esistere ma non può arrivare a scontrarsi frontalmente con il sopra descritto principio della libertà di comunicazione. Testate tematiche Sino a ora, il dibattito al riguardo si incentrava sulla necessità – o meno – di registrare la testata telematica dei vari siti Internet. Tale tema è oggetto di molte approfondite trattazioni, di casi giurisprudenziali e di frequenti quesiti ai professionisti del settore. Una ricognizione dello stato corrente dell’informazione su Internet sembra però denotare la necessità di andare oltre il paradigma della “testata telematica”; dare informazione senza presupporre che una possibilità di revisione, selezione e edizione in ogni caso esista, senza costruire la
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notizia nell’ambito di una periodicità e di una linea editoriale e, dunque, senza poterla incanalare nell’ambito di una responsabilità del direttore e del giornalista. La possibilità di pubblicare direttamente ed instantaneamente, attraverso portali, social network, blog, quotidiani online, webzines ed altre forme di diffusione SMS, riprese video amatoriali, e-mail, post, fotografie, audio e ogni altro materiale – anche fornito da utenti che giornalisti non sono – risponde a una modalità disaggregata di informazione che non è totalmente compatibile con la concezione di “testata giornalistica”. L’attuale disciplina, infatti, vede nella “testata” un aggregatore editoriale su base territoriale. Questa caratteristica viene oggi sovente a mancare e la “virtualità” di una registrazione di “testata telematica” non sembra idonea a colmare tale lacuna. Un servizio di informazione diffusa via SMS/MMS facenti capo a una serie di siti diversi, sparsi nel mondo, dove dovrebbe registrare una testata? Come gestire una rettifica di notizie svolte in tale modali-
Un servizio di informazione diffusa via SMS/MMS, con siti sparsi nel mondo, dove dovrebbe registrare una testata?
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La norma per risolvere situazioni collegate all’abuso della libertà di comunicazione deve basarsi sulla collaborazione dell’intera filiera internet tà? E, anche per i periodici online, registrare presso un Tribunale “territoriale” non risolve. Infatti, troppo spesso si trovano periodici online, ospitati da providers extraterritoriali e che non si preoccupano di adempiere a registrazioni territoriali di testata. Anche per tali motivi, tentativi di arginare tali problemi con norme repressive non sono destinati al successo. Un esempio si è visto con un emendamento anti-Facebook introdotto nel pacchetto sicurezza e prontamente ritirato a seguito di vibrate proteste. In base a quanto era stato previsto, il Ministro dell’interno, in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria, avrebbe potuto disporre, per delitti di “istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi” o per delitti di “apologia di reato in via telematica sulla rete internet”, l’interruzione dell’attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari. I fornitori dei servizi di connettività alla rete internet, avrebbero avuto 24 ore
per provvedere, pena una sanzione da 50.000 a 250.000 euro. Tale norma non colpiva nel segno. Andava a intevenire sul “trasportatore” (fornitore di connettività), con ordini e sanzioni, per problematiche inerenti l’attività del trasportato (fornitore di servizi a valore aggiunto). Era come se per una notizia diffusa sui quotidiani si sanzionassero gli edicolanti cui era stato distribuito il quotidiano e non il direttore dello stesso e, in via subordinata, l’editore. Questo tipo di approccio denota i risultati, a volte paradossali, delle applicazioni di logiche tradizionali alle dinamiche di internet. Identificare i siti Il tipo di norma che può risolvere situazioni come quelle collegate all’eventuale abuso della libertà di comunicazione deve essere basata sulla trasparenza e sulla collaborazione tra gli attori della filiera internet. Obblighi di trasparenza per i siti ed i servizi a contenuto informativo sono fondamentali. I siti e servizi di informazione evoluti che offrono informazione attraverso reti di informazione elettronica devono/dovrebbero offrire ai fruitori dell’informazione stessa un “punto di contatto” e alcuni dati convenzionali identificativi. Questo principio – di civiltà prima che di diritto – dovrebbe costituire la base della “nuova” regolamentazione dell’informazione online.
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Il problema attuale è che, per come funziona al momento la rete internet, anche soggetti che non offrono identificazione alcuna hanno gli stessi “diritti di cittadinanza” di internet. Il diritto di cittadinanza fondamentale su internet è la possibilità di essere trovati da chi cerca qualcosa e lo strumento, come universalmente noto, sono i motori di ricerca (brutta traduzione italiana del termine inglese “search engines”). Nuove regole Basterebbe stabilire che i siti e i servizi che non si identificano non devono essere indicizzati dai search engines e ciò si potrebbe fare tecnologicamente con sufficiente facilità, stabilendo che informazioni sull’identificazione debbano essere contenute in un “tag” leggibile dalle ricerche di Google, Yahoo e similari e riportato assieme al link. Se manca l’indicazione del responsabile della notizia o del responsabile del sito, verrebbe omessa l’indicazione nel risultato della ricerca. Una tale soluzione, si badi, non minerebbe la (pretesa) neutralità dei “motori di ricerca”: essi riporterebbero indicazioni sulla responsabilità fornite dai siti terzi. Tuttavia, fornirebbero sempre ricerche complete di indicazione sulla responsabilità/punto di contatto. La regolamentazione sulla base dell’identificazione inizia a fare brec-
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Sembra ragionevole richiedere che ogni blog esponga un punto di contatto per segnalazioni ed un responsabile individuale cia nel campo delle nuove tecnologie: la “nuova” televisione ha ricevuto nuove regole che contengono l’obbligo di identificare il servizio televisivo, lineare ed a richiesta, nei confronti del consumatore. Sono contenute nella riforma della Direttiva TV senza frontiere del 2007. Nell’affrontare questi temi vengono certamente alla mente le polemiche scatenate dal tentativo, anche quello fallito, di regolamentare i “blog” assimilandoli al “prodotto editoriale”. Anche quel tentativo era sbagliato nel metodo, in quanto ispirato ai principi regolatori della stampa tradizionale. Sembra però ragionevole richiedere che ogni blog possa “esporre” un punto di contatto per segnalazioni e segnalare il soggetto responsabile individuale dei post sul blog medesimo. Questo non vuol dire che il soggetto che si segnala come gestore del blog debba perciò assumersi la responsabilità di ogni post effettuato dai frequentatori del blog. Questi ultimi saranno responsa-
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bili, a titolo individuale, delle proprie affermazioni. La precondizione è che vi sia, anche qui, una modalità per risalire alla loro identità. Sarebbe cioè necessario un sistema che garantisse l’anonimato, fino ad una richiesta di rivelazione dell’identità da parte dell’autorità giudiziaria, senza possibilità di inviare post in tutto e per tutto anonimi o, peggio, con credenziali false. Un tale sistema non è attualmente regolato e la firma digitale non è utile a tali fini. In questo caso il compito del legislatore e dell’azione politica che il legislatore muove è quello di promuovere l’adattamento della norma, in maniera che essa diventi “ponte” tra la realtà tecnologica, che non si può fermare nella sua macro-evoluzione, e il sistema dell’ordinamento. Occorre andare “oltre” la presenza di sole “testate” giornalistiche e creare una categoria ibrida che si adatti alla realtà fenomenica della rete. Spiace constatare che tale tipologia di azione non è la consuetudine del legislatore italiano. La carat-
Compito del legislatore e dell’azione politica è promuovere l’adattamento della norma tra realtà tecnologica e sistema dell’ordinamento
teristica, passata ed attuale, della politica legislativa italiana sembra infatti volta ad individuare i tratti caratteristici delle più recenti forme di pubblicazione “online”, non per trovare strumenti regolamentari proporzionali ed adeguati integrandole – per così dire – nel sistema delle regole; l’intento sembra solo quello repressivo di estendere alle nuove forme sanzioni che, tuttavia, nascono ad altri fini e non si prestano, pertanto al nuovo uso. Rete senza censura Il tema da fronteggiare, a rischio di ripetere un’affermazione ormai banale, è quello della stessa struttura di Internet: la “rete delle reti” è progettata per non essere bloccata o censurata da alcuno, e funzionare anche a fronte di eventi estremi. Dunque, prevedere misure “minime” di filtraggio e censura è quasi impossibile. Queste sono gli indici da tenere presente nel considerare il rapporto tra regole ed informazione nell’era digitale e questo è il motivo per cui regolamentazioni non basate sui principi di autoregolamentazione, trasparenza e responsabilizzazione di chi immette l’informazione in rete non potranno essere efficaci, a prescindere dall’entità della sanzione. Queste considerazioni valgono anche per l’applicazione della nuova norma sul diritto di rettifica contenuta nel DDL Intercettazioni ed approvata l’11 giugno 2009.
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In base a tale norma per i siti informatici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono e la mancata pubblicazione espone ad una sanzione pecuniaria di rilevante ammontare. Ora, la dichiarazione di “siti informatici” sembra da chiarire. Si è visto che la definizione di “testata giornalistica telematica” non è più adeguata a coprire l’intero arco dei servizi di informazione presenti online ma, d’altro canto, la definizione “siti informatici” è eccessivamen-
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Il tema da fronteggiare è la struttura stessa di Internet, progettata per non essere bloccata o censurata da alcuno te ampia e non si comprende, ad esempio, se i blog siano ricompresi in essa o meno. Si auspica dunque che una questione che, potrebbe essere di vitale importanza per la sopravvivenza di alcune “voci” online, che potrebbero cessare in quanto non in grado di assicurare la necessaria vigilanza da richieste di rettifica “improvvise”, sia dunque presto chiarita.
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Riflessioni minime sui sintomi di crisi della convergenza multimediale
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opinione comunemente ricevuta e storicamente attestata che la problematica di maggior rilievo concernente il sistema dei mezzi di comunicazione di massa trova il suo epicentro nella difficile combinazione tra la libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost. e la libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., nel senso cioè che quando la prima si eserciti attraverso strumenti di non diretta o comunque facile disponibilità ma richieda un’organizzazione di tipo imprenditoriale con l’impiego di cospicue risorse finanziarie o, per di più, l’utilizzazione di beni difficilmente reperibili, la seconda finisca col fare aggio sull’altra determinandone una compressione nell’ambito soggettivo di
L’introduzione dello standard digitale ha rotto l’antico tabù della scarsità fisica delle frequenze
esplicazione, con grave, benché per taluni aspetti inevitabile, nocumento all’effettiva attuazione dei principi cardinali di pluralismo e di concorrenza. La ricerca dei punti di equilibrio e di raccordo tra le due libertà costituzionali in tendenziale conflitto è stata particolarmente difficile sul terreno della radiotelevisione, dove si è registrata una lunga e faticosa evoluzione dalla riserva statale con il conseguente monopolio in forma di servizio pubblico all’apertura del mercato e alla regolazione di questo mediante presidi antitrust di incerta tenuta. Scarsità fisica Le tappe evolutive sono state marcate da interventi della Corte Costituzionale e poi, spesso tardivamente, da provvedimenti legislativi, gli uni e gli altri però stimolati e in qualche misura imposti dal progresso tecnologico che ha via via dischiuso l’accesso allo spettro radioelettrico, inizialmente configurato come hortus clausus per effetto della “scarsità fisica” delle fre-
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quenze determinata dall’uso dello standard analogico, non ancora corretto dall’adozione di soluzioni tecniche intese a ottimizzarne l’impiego e a ridurne gli sprechi. Prima la razionalizzazione delle risorse frequenziali terrestri e poi l’uso dei satelliti geostazionari e dei cavi coassiali o in fibre ottiche ed infine, decisivamente, l’introduzione dello standard digitale hanno rotto l’antico tabù della scarsità fisica delle frequenze, a lungo predicata anche quando non era più in concreto sussistente, e hanno abbattuto le barriere tecnologiche che fino ad allora si frapponevano all’ingresso nel mercato radiotelevisivo. Anelasticità pubblicitaria A ciò si aggiunga, nel corso degli ultimi lustri, da una parte l’irruzione della telefonia mobile ad uso radiotelevisivo e, dall’altra, l’eterogenesi dei fini impressa alla piattaforma internet che, abbandonata l’originaria vocazione di servizio in circoli categoriali chiusi, si è dapprima globalizzata in uno spazio aperto e disimpegnato da vincoli proprietari e commerciali, all’insegna dello spontaneismo libertario, e si è poi consolidata, attraverso un passaggio di tipo ancillare o parassitario rispetto ai tradizionali mezzi di diffusione dei prodotti audiovisivi, in un sistema a questi alternativo.
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Senonché, mentre venivano via via a realizzarsi condizioni ottimali dal punto di vista delle risorse tecniche per la “popolazione” del mercato, sul versante delle risorse finanziarie indispensabili a sorreggere l’incremento, per così dire, demografico, si registrava una sostanziale anelasticità degli introiti pubblicitari, moderatamente compensata dai proventi della pay tv e della pay per view, ferma restando in termini reali la “posta” di sistema rappresentata dal canone di abbonamento alla radiotelevisione, il cui gettito, pur destinato a finanziare in parte il servizio pubblico radiotelevisivo, giustifica il minor ricavo pubblicitario consentito a quest’ultimo, liberando così risorse contendibili dagli altri operatori del mercato. In questa situazione si pone, dunque, o si ripropone, ancorché in diverso contesto, un problema di perequazione nell’allocazione delle risorse finanziarie generate dal mercato, attraverso strumenti di regolazione ex ante che meglio soddisfino le esigenze di equilibrio fino a oggi affidate al funziona-
Si ripropone un problema di perequazione nell’allocazione delle risorse finanziarie generate dal mercato
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Evitare fenomeni di cannibalizzazione e garantire uno sviluppo sostenibile delle diverse piattaforme mento del S.I.C. (Sistema Integrato della Comunicazione), previsto dalla Legge Gasparri e poi dal Testo Unico della Radiotelevisione. In questa direzione sembrano muoversi, al momento solo a livello esplorativo di consultazione, l’AGCom e la Commissione delle Comunità Europee, con particolare riferimento alla rilevanza dei mezzi di comunicazione on line negli assetti del mercato o dei mercati delle reti e dei contenuti audiovisivi. La prima ha approcciato il tema con l’indagine conoscitiva del 2006 sul Mercato 18, alla ricerca di una configurazione da dare alle reti a larga banda e in generale alle tecnologie utilizzate per la trasmissione di programmi televisivi su protocollo IP e ha successivamente esplorato l’impatto di questi mezzi sul mercato della commercializzazione dei diritti audiovisivi sportivi, avviando, con delibera n. 140/09/CONS un procedimento istruttorio per l’individuazione delle piattaforme emergenti, tra le quali l’IPTV. La seconda è intervenuta con la comunicazione 2007 - 836 del 3
gennaio 2008 al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni sui contenuti creativi on line nel mercato unico. È presto per prevedere quali saranno le linee della regolamentazione prossima ventura ma appare presumibile che esse si indirizzino verso il superamento della logica del sistema integrato per individuare distinti mercati di riferimento con l’approntamento di idonei congegni atti a evitare fenomeni di cannibalizzazione e a garantire uno sviluppo sostenibile delle diverse piattaforme in equilibrio dinamico, al tempo stesso introducendo elementi di trasparenza nei mercati a monte e a valle a protezione degli utenti finali, i quali vanno tenuti indenni nella misura del possibile dalle conseguenze confusorie che, in nome della loro libertà di scelta e di autodeterminazione nel costruirsi per composizione musiva i propri personali palinsesti, possono derivare dalla sovrapposizione delle offerte su diverse piattaforme replicanti a opera di uno stesso editore o di altri editori in rapporto famulativo quando non parassitario. Convergenze plurimediali È auspicabile che in questa prospettiva di riordinamento si ponga la dovuta attenzione al mercato
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dell’informazione consentendo integrazioni e convergenze plurimediali, per fasi o per filiere, intese alla riduzione dei costi e, per questa via, alla valorizzazione dei ricavi, dei quali non può certo garan-
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tirsi l’incremento e così, per l’ulteriore effetto, alla marginalizzazione dell’intervento sussidiario pubblico o degli editori mecenati (che non sono comunque demoni da esorcizzare).
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Ritorno al futuro: informazione, stampa, TV e nuove tecnologie
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ell’epoca della new information age, identificata come passaggio dalla vecchia era industriale a quella, per usare le parole di Castells, informazionale, sancita dalla diffusione dei computer e delle reti, i rapporti che intercorrono tra media tradizionali, nuove tecnologie e nuovi media rappresentano questioni assolutamente rilevanti, per le implicazioni che essi intrattengono con i processi di trasformazione sociale, di comunicazione, di organizzazione del lavoro. Ciò spiega come questo tema abbia giustamente guadagnato una crescente rilevanza nel dibattito pubblico e nelle sedi decisionali. In particolare, la capillare diffusione delle tecnologie informatiche e telematiche, che ha agito come forte fattore di cambiamento nella cultura e nella società, ha investi-
Il Web non è più un fenomeno da élite: più di un miliardo di indirizzi email nel mondo, 20 milioni in Italia
to il mondo dell’informazione, con riferimento sia alla struttura, che alle modalità operative. È evidente che il passaggio da internet alla banda larga, dal satellitare al digitale terrestre, abbia inciso in maniera decisiva, per alcuni addirittura rivoluzionaria, sui processi di comunicazione e sulla strutturazione che l’informazione sta assumendo, provocando profonde trasformazioni. Basti pensare che la comunicazione attraverso il web non è più un fenomeno di élite. Ha subito una massificazione, tanto che oggi si contano nel mondo più di un miliardo di indirizzi e-mail; in Italia più di 20 milioni. Da quando nel 1969 vennero stabiliti i primi due nodi di internet ad oggi, il Net si è imposto come medium, moltiplicando esponenzialmente le proprie possibilità, tanto da aver soppiantato alcune forme di comunicazione tradizionali come la posta e il fax, al punto da far dipendere per certi settori come l’hi-tech, che hanno a che fare con l’innovazione e lo sviluppo tecnologico ad alta connettività, i livelli di produttività e competitività dall’accesso al know how tecnologico
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che si riesce ad ottenere. L’Internet Divide diviene condizione necessaria per lo sviluppo di intere economie e perché si possa parlare di democrazia elettronica. Lo confermano le dichiarazioni del Viceministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani, che ha assicurato lo scorso 25 giugno che saranno disponibili 1,5 Mld di euro per lo sviluppo delle infrastrutture della banda larga, necessario per la Next Generation Network, una rete ultraveloce per realizzare la convergenza di tutte le informazioni e servizi, e per superare entro il 2012 il Digital Divide, partendo da un gap del 13% della popolazione. In questa direzione va inteso il progetto dell’Unione degli industriali e delle imprese di Roma per la diffusione della banda larga nella capitale, fondamentale driver di sviluppo che renderà Roma la prima città d’Europa interamente cablata. È con il web 2.0 che si modifica la logica di utilizzazione della rete, determinando un passaggio rivoluzionario che realizza la compresenza di modelli comunicativi verticali ed orizzontali e avvera l’interattività: agli utenti viene concessa la possibilità di generare contenuti propri ed editarli. Non più, quindi, semplici navigatori di siti creati da altri. È questa stessa nuova possibilità che, stabilendo in potenza per ognuno di noi l’opportunità di essere costruttori di informazione, soggetti interattivi, sancisce la disintermediazione nel
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processo comunicativo, con importanti ricadute per l’informazione. Grazie alle potenzialità delle ICT, quali l’economicità dei costi, l’assenza di confini, la velocità di trasmissione sia sincrona come nel caso della chat, sia asincrona come per l’email, si apre l’Era dei contenuti users generated. Un evento spartiacque che modifica i paradigmi comunicativi e con essi le strutture profonde di senso, responsabili di influenzare in maniera determinante la visione del mondo e per conseguenza l’operare dei singoli individui e delle comunità che in esso agiscono. Wikipedia, Google, Youtube, Myspace, Flicker, Blogger, Twitter, questi i più noti, oltre agli innumerevoli forum di discussione ed ai newsgroup, i cosiddetti “salotti” virtuali, agiscono in modo da creare una fonte di informazione concorrente, esautorando il potere dei media tradizionali, perché assurgono a spazi di aggregazione, talvolta molto potenti, in cui è possibile stabilire flussi comunicativi diretti ed immediati tra soggetti, acquisire gratuitamente informazioni senza la funzione degli storyteller, scambiare conoscenze. La Rete diviene allora
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La mancanza di responsabilità di tipo giuridico fa sì che contenuti generalisti non controllati assurgano a fonti di informazione un contenitore virtuale di contenuti ed idee, un immenso luogo di condivisione, di partecipazione e di dialogo, che comunica in modo autonomo, seguendo proprie dinamiche e finalità. Ma ciò pone un importante problema di veridicità delle informazioni contenute e disponibili nella rete, relativamente alla certezza e all’autorevolezza delle fonti. In rete non vi è, infatti, alcuna garanzia di identità, necessaria dal momento che una fonte non è attendibile se non è riconoscibile; né vi è garanzia di controllo sulla pubblicabilità delle notizie, salvo recentemente alcune fattispecie di reato come la pedo-pornografia online. La mancanza di responsabilità di tipo giuridico fa sì che contenuti generalisti, spesso di dubbia qualità, generati dalla voice of mouth libera da qualsivoglia controllo, assurgano a fonti di informazione, con ricadute di ordine etico, sociale e culturale assai gravi, anche per i media tradizionali. È così che queste nuove forme di comunicazione, caratterizzate dalla dinamicità dei contenuti, dalla flessibilità della struttura nella quale sono impaginati, dalla
velocità che riduce i tempi legati alla produzione e distribuzione delle informazioni, raggiungendo immediatamente milioni di utenti in qualsiasi parte del mondo, purché si disponga di una connessione, mettono in crisi il tradizionale monopolio dei mezzi di informazione. È giusto dire, di contro, che il digitale terrestre, la banda larga e le comunicazioni elettroniche di nuova generazione vengono oggi ritenute alcune delle infrastrutture necessarie a guidare lo sviluppo, insieme alla liberalizzazione dei mercati per attivare l’azione della concorrenza, superando la tentazione di politiche protezionistiche e di tutela di interessi consolidati, a detrimento dei consumatori. In tal senso si sono espressi recentemente il Consiglio delle Telecomunicazioni dell’Unione Europea e il Commissario preposto alla Società dell’Informazione e dei Media, ricordando che le telecomunicazioni costituiscono una reale opportunità per l’Europa nonché un fattore di crescita di primaria importanza, dato il contesto attuale di crisi: un migliore utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione permetterebbe di guadagnare un mezzo punto di crescita, ovvero la metà del differenziale di crescita tra Europa e Stati Uniti, nel corso degli ultimi dodici anni. Con ciò le nuove tecnologie informatiche e telematiche, per le quali appare evidente la necessità di un quadro di regole certe che siano ri-
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spettate, che non ledano la libertà della rete ma che tutelino parimenti la privacy, il diritto all’informazione e quello alla libera manifestazione del proprio pensiero, avrebbero quindi un ruolo di motore per la ripresa dell’economia, oltre ad assolvere alla funzione di libera circolazione delle informazioni. Innegabile, infatti, il ruolo svolto dai nuovi media con la rivolta di Teheran, allorché violando la censura, continuano a rendere possibile la circolazione delle notizie anche quando alcuni ordinamenti non lo permettano. In Iran in questi giorni sono state utilizzate tecnologie per censurare, controllare, sorvegliare il traffico internet e telefonico. Bloccati sms, chiusi siti, controllata la posta elettronica, oscurate le televisioni private; eppure, proprio grazie alle nuove tecnologie come twitter, popolare social network, o Youtube, piattaforma per editare contenuti audio-video, le informazioni sono riuscite a superare la censura e, rilanciate dalle nostre testate, sono arrivate in tempo reale fino a noi. Eppure, come si è detto in apertura, proprio le potenzialità di queste stesse nuove tecnologie ha prodotto esiti marcati nel sistema dell’informazione. Innanzitutto la carta stampata ha perso importanti quote di provviste finanziarie a favore delle edizioni online e della free press, relativamente ad alcuni ordini di motivi. Il web con la sua diffusione capillare ha reso possibile per milioni
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Un migliore utilizzo delle tecnologie dell’informazione permetterebbe di guadagnare un mezzo punto di crescita di utenti l’accesso libero alle notizie. Le edizioni online, selezionando e gerarchizzando le informazioni, in modo da fornire un quadro esaustivo degli accadimenti su scala mondiale, hanno sottratto importanti quote di mercato alla carta stampata. Allo stesso modo la free press, acquistando quote di mercato significative, grazie alla gratuità dell’informazione e alla capillare distribuzione, ha ulteriormente contribuito a ridurre il gettito pubblicitario della carta stampata. In sostanza gli investimenti pubblicitari si sono spostati sull’editoria elettronica e la free press, a discapito della stampa tradizionale quotidiana e periodica ed in parte minore della televisione, considerata ancora territorio d’elezione della pubblicità, che individuava fino a tutti gli anni Novanta nel mezzo televisivo il contesto comunicativo più adatto alle proprie finalità e modalità espressive. Su questa linea i dati della Nielsen Media Research secondo cui, in relazione al primo quadrimestre del 2009, gli investimenti pubblicitari sui mezzi di informazione tradizionale, rispetto allo stesso periodo del 2008, continuano a segnare una flessione.
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La contrazione per la tv è infatti pari al -15,3%, mentre per la carta stampata è del -25,6%. In controtendenza il web con una crescita del +6,7%. Quanto alla radio, già indebolita dalla televisione, ha dovuto reinventarsi come mezzo specializzato e tematico, destinato a target precisi di utenti. La televisione ha invece mostrato maggiore capacità di resistenza, operando una trasformazione da broadcasting, caratterizzato da poche reti televisive con contenuti generalisti, a narrowcasting, con decine di programmi a scelta accessibili tramite tv digitale, satellitare e via cavo, aprendo la strada alla piena integrabilità con l’online. Quanto fin qui detto ci spinge ad interrogarci su quale sia il futuro dell’informazione e soprattutto della carta stampata. Quest’anno secondo la Federazione Nazionale della Stampa ci sarebbero tra i 500 e i 600 redattori in esubero nelle redazioni di quotidiani, periodici ed agenzie, su un totale di circa 10.000 giornalisti. E nel 2010 potrebbero toccare quota 800/1.000, senza contare il blocco del turn over come già annunciato dal Sole 24 Ore. In media si parla di tagli da parte delle case editrici tra il 25 e il 35% dei propri organici per il prossimo biennio, il che evidenzia la crisi che ha
Si parla di tagli da parte delle case editrici tra il 25 e 35% dei propri organici
ormai investito frontalmente la stampa italiana. Al di là dei tagli e del blocco delle assunzioni, al di là di strategie di marketing che puntano sui collaterali (cd, dvd, libri) per sostenere le tirature, verosimilmente i giornali dovranno trovare nuove forme di sostentamento, esponendosi al rischio di speculazioni portatrici di interessi particolari, o pericolose concentrazioni editoriali, che andrebbero a scapito dell’indipendenza e della qualità dell’informazione. Sempre che poi non si ritorni a massicce forme di finanziamento pubblico, che riproporrebbero lo spettro delle forti sperequazioni e delle lottizzazioni. Per altro verso c’è la proposta di Rupert Murdoch di rendere tutti i contenuti online prelevabili a pagamento, per tutelare il valore delle informazioni prodotte, come recentemente fatto dall’Economist, che ha proposto un abbonamento alla community del giornale, con contenuti speciali destinati ai soli iscritti. Ciò potrebbe costituire una soluzione, a patto che vi siano contenuti di qualità ed esclusivi e formule di pagamento semplici, sicure ed immediate. Occorre ricordare che in tal senso le esperienze di successo sono state poche. La più nota, quella del Wall Street Journal. Allo stato attuale, a fronte del mare magnum di informazioni reperibili in rete e dell’offerta sempre più concorrenziale dei canali televisivi tematici, che fanno prospettare tempi duri per i giornali, sia-
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no essi di carta o elettronici, occorre riguadagnare la qualità dei contenuti, grazie ad un giornalismo di inchiesta, capace di ricercare notizie, di scavare nei fatti, di appurare personalmente le fonti, al di là della selezione e spesso della rielaborazione operata dai contenuti delle agenzie di stampa, la cosiddetta deskizzazione, che ha portato gli articoli ad una mimesi imbarazzante. Una stampa che non rinunci più alla sua funzione di watchdog dei poteri forti, che sia libera, al servizio dei lettori e dell’informazione. Soltanto la qualità dei contenuti, unitamente alla responsabilità di ciò che si scrive, possono costituire un nuovo vantaggio competitivo rispetto ad un’informazione, sia pure a buon mercato, ma dai contenuti poveri e generalisti, sulla cui veridicità non vi è alcuna garanzia. In una parola riconquistare il rapporto di fiducia con il lettore. In tal senso l’handicap costituito dai tempi di produzione e di distribuzione della carta stampata, potrebbe essere compensato solo con notizie esclusive, inchieste e dossier ricchi di approfondimenti, che siano di stimolo alla riflessione, per aiutare nella comprensione della complessità in cui viviamo. E ancora, creare uno spazio di pubblicabilità delle notizie o dei commenti prodotti dai lettori: ciò consentirebbe di interessare lettori che sono abituati ad interagire con il giornale, disponendo di un
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Occorre riguadagnare la qualità dei contenuti: una stampa che non rinunci ad essere i lwatchdog dei poteri forti, libera al servizio dei lettori continuo strumento di analisi della domanda. Sono tutti elementi che possono creare un forte fattore differenziale, un vantaggio competitivo rispetto all’informazione sul web. Pena ciò che è accaduto al Seattle Post Intelligencer, che non riuscendo più a sostenere i costi della carta e della distribuzione a causa della perdita di introiti pubblicitari, a quasi 150 anni dalla sua fondazione, ha dovuto chiudere l’edizione cartacea, tagliando 145 giornalisti e mantenendo solo 20 redattori per aggiornare i contenuti del sito, con grave danno per la qualità dell’informazione. Alla luce di quanto detto, la compresenza della stampa online, con contenuti snelli, continuamente aggiornati e facili da reperire, e di una carta stampata, caratterizzata da un giornalismo di inchiesta, ricco di analisi, commenti, approfondimenti e povero di falsi scoop, potrebbe risultare un salvavita per i giornali. Parafrasando il titolo di un famoso film, forse è giunta l’ora di un Ritorno al futuro: quello per intenderci del giornalismo vecchio stile, libero e inattaccabile.
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uella dell’innovazione tecnologica è ormai una categoria dominante tanto nel discorso scientifico quanto nel dibattito politico, ed è entrata prepotentemente anche nel linguaggio comune. A questo livello essa si offre come significante unico di processi che nella realtà attengono a settori diversi dell’attività e della conoscenza umana. Un esito quest’ultimo che è dipeso in gran parte dalla rappresentazione dell’innovazione restituita dai mezzi di comunicazione, allo stesso tempo “attori” e “soggetti narranti” del cambiamento. È chiaro, infatti, che l’innovazione interessa i media nella misura in cui essa diventa il paradigma tecnologico, politico, economico e culturale della società contemporanea andando a so-
I media, vecchi e nuovi, hanno costruito la propria identità e il proprio ruolo culturale presentandosi all’opinione pubblica come “specchio dei tempi nuovi”
stituire, o se vogliamo a specificare in chiave materialistica, una visione più ampia ma inesorabilmente usurata di progresso. In questo contesto, i media – vecchi e nuovi – hanno progressivamente costruito la propria identità e il proprio ruolo culturale presentandosi all’opinione pubblica come “specchio dei tempi nuovi”. Il concetto di innovazione Un’indagine filosofica sui sistemi valoriali associati al paradigma dell’innovazione tecnologica sarebbe molto utile in vista di una maggiore comprensione del modo in cui da essi si irradiano i diversi campi di forza che animano il dibattito politicoculturale di oggi. Da un punto di vista schiettamente politico, sarebbe poi interessante indagare le tracce che, nel corso del tempo, il concetto di innovazione ha lasciato nei discorsi dei vari soggetti in gioco per verificare l’ipotesi che laddove esso sia stato utilizzato con più frequenza e con enfasi positiva si siano anche profondamente radicati i presupposti del consenso. Tuttavia, la riflessione sulle implicazioni politiche
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non può prescindere dalla definizione di ciò che effettivamente s’intende per innovazione tecnologica. E qui l’oggetto di indagine rischia di diventare eccessivamente ampio, a meno di non voler circoscrivere l’analisi a quel fenomeno che ha investito principalmente le tecnologie dell’informazione e della comunicazione mutandone definitivamente lo status e il ruolo all’interno della società: la convergenza al digitale. Processo di accumulazione L’avvento dell’era digitale ha avuto due ordini di conseguenze: il primo riguarda i mezzi dell’informazione e della comunicazione considerati singolarmente. Si tratta allora di vedere come il passaggio al digitale abbia “trasformato” ciascun medium nelle sue dimensioni fondamentali: a) il mezzo, ovvero la tecnologia utilizzata e le forme della proprietà, della produzione e della distribuzione; b) il messaggio, ovvero i contenuti; c) la relazione tra mittente/i e destinatario/i. Il secondo ordine di conseguenze riguarda invece il rapporto reciproco tra i diversi media. È risaputo che le tecnologie della comunicazione si sviluppano secondo un processo cumulativo: ogni nuova tecnologia, cioè, non si sostituisce a quelle precedenti ma si aggiunge ad esse, andando a soddisfare bisogni e desideri differenti. Così internet non si è sostituita ai mezzi di informazione e di comunicazione tradizionali, ma si
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è aggiunta a essi pur differenziandosene profondamente nelle modalità comunicative. Tuttavia l’avvento della tecnologia digitale ha anche introdotto una novità assoluta in questo processo di accumulazione e cioè il venir meno del rapporto di separatezza tra i media. Se in passato ciascun mezzo ha potuto mantenere con relativa facilità la propria identità distintiva e la propria indipendenza, nell’era della convergenza al digitale i contesti di fruizione si fanno sempre più indifferenziati e il rapporto tra i soggetti della comunicazione sempre più improntato ai tratti della reciprocità e dell’interattività. Il carattere di simultaneità dei linguaggi che caratterizza la rete ne fa un contenitore unico tutt’altro che neutro, al punto che essa si definisce come potente alleato di ciascun mezzo, ma anche come suo competitor. In questo scenario, Stampa, Radio e Televisione sono chiamate a reinventare il proprio rapporto con il pubblico, e cioè a “narrare” la propria trasformazione, ri-affermando un’originalità non più scontata. Dal punto di vista tecnologico, i media tradizionali si sono trovati di fronte a due possibili alternative: quella della trasformazione, attraver-
Internet non si è sostituita ai mezzi di informazione ma si è aggiunta ad essi
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La tv continua a mantenere una posizione centrale nel panorama dei consumi mediali, grazie agli elementi di continuità con il passato so l’utilizzo della tecnologia digitale (tv e radio digitali) e quella di una migrazione sulla rete (IPTV; radio online; quotidiani online). La prima soluzione, pur nella sperimentazione di nuove forme di offerta, ha consentito alla radio e alla televisione di mantenere la propria identità e, pertanto, può essere considerata come un’evoluzione interna a tali mezzi. La seconda soluzione, invece, nel liquidare la separazione tra i contesti di fruizione, sembra prefigurare una loro commistione con la rete. Limitandoci all’analisi del contesto italiano, il passaggio al digitale può essere descritto come un processo che, procedendo per avventure tecnologiche dagli esiti più o meno entusiasmanti, ha visto l’industria televisiva cimentarsi insieme alle grandi industrie di telecomunicazione con la tv via cavo prima e con il satellite e il digitale terrestre poi. Tuttavia, se dal piano tecnologico e industriale ci si sposta su quello del linguaggio, dei contenuti e delle modalità di fruizione, non si avrà alcuna difficoltà a riconoscere che la televisione rimane un mezzo sostanzialmente distinto dalla rete.
Interattività televisiva Una delle qualità che maggiormente distinguono i nuovi media, e cioè l’interattività, è stata spesso attribuita anche alla tv digitale contribuendo a diffondere l’idea di un pubblico meno passivo di quanto non sia stato fino ad oggi quello della tv analogica e generalista. Nella pratica, invece, l’interattività televisiva è qualcosa di molto distante dall’idea di un mezzo agito, oltre che fruito, qual è nei fatti internet. Essa, infatti, si riduce semplicemente alla possibilità da parte dello spettatore di selezionare un contenuto da una lista di proposte, senza che egli possa in alcun modo interagire con il contenuto stesso o con la fonte della comunicazione. D’altra parte viene restituita allo spettatore l’impressione di contribuire attivamente alla costruzione del messaggio mediante strategie discorsive come quella del televoto e degli sms da casa. Lo stesso ragionamento vale per l’intertestualità. Tale caratteristica riferita ai nuovi contenuti digitali descrive una fruizione nonlineare, articolata in una serie di scelte e collegamenti tra testi diversi, nonché una modalità interpretativa che implica una serie di rimandi a significati esterni al testo stesso. Tuttavia, quando viene trasferita al linguaggio televisivo, essa diventa pura autoreferenzialità: un flusso continuo di riferimenti tra programmi e personaggi, confezionato ad arte come probabile humus vi-
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tae delle conversazioni online, oltre che di quelle face to face. Interattività e intertestualità Come si vede, la televisione continua a mantenere una posizione centrale nel panorama dei consumi mediali – e conseguentemente anche all’interno del mercato pubblicitario – grazie agli elementi di continuità con il passato, più che ai presunti elementi di novità: una continuità che investe sia i contenuti sia il rapporto con lo spettatore. I primi, poco o per nulla interattivi – e forse proprio per questo – hanno mantenuto lo status di “grandi narrazioni” capaci di filtrare la realtà attraverso le maglie del mito e di costruire un immaginario condiviso al quale, difficilmente, può sostituirsi il fitto e plurale groviglio di discorsi che circolano sulla rete. Quanto al secondo aspetto, invece, risulta vincente la scelta di ri-definire costantemente il patto comunicativo con i propri spettatori mantenendo però costante la promessa centrale: quella di un mezzo che, più e meglio degli altri – sia nella sua versione generalista che in quella tematica – ha accompagnato, narrandola, l’evoluzione dei gusti e delle abitudini degli individui e della società. La formula dell’intrattenimento, divenuto ormai meta-genere televisivo per eccellenza, ha contribuito a radicare nel pubblico il senso di un mezzo che si presta ad una fruizione in-attiva, intendendo
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Il vantaggio competitivo della radio si deve al suo pluralismo e alla possibilità di essere fruita in viaggio con questa espressione non certo un atteggiamento passivo quanto piuttosto ricettivo e rilassato. La vicenda della radio mostra con maggiore evidenza il coesistere dei diversi esiti possibili della convergenza al digitale. Se la scelta della migrazione online è apparsa quella più facilmente realizzabile nel breve periodo, successivamente si sono manifestate diverse perplessità sui contributi reali che tale soluzione avrebbe apportato all’identità del mezzo radiofonico. A ben guardare, infatti, interattività e intertestualità sono due caratteristiche che possono essere rintracciate nel rapporto con il mezzo sin dall’avvento delle radio commerciali. Entrambe si sono declinate nel costante coinvolgimento del pubblico ora nella costruzione delle playlist di brani musicali, ora in conversazioni con il conduttore o con un personaggio in studio, contribuendo alla definizione della radio come mezzo fatto con, oltre che per il pubblico. Ci si chiede allora se anche l’identità della radio non debba essere ri-definita nella conservazione: d’altra parte, è stata questa la strada che ha consentito al mezzo di mantenere la propria autonomia a
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dispetto del potere economico-culturale, indubbiamente maggiore, conquistato dalla televisione e dal web. In questa prospettiva, al di là della dimensione multimediale resa possibile dal passaggio al digitale, il vantaggio competitivo della radio rispetto agli altri mezzi continuerebbe a risiedere su due caratteristiche tradizionalmente ad essa associate: la possibilità di essere fruita in viaggio e, soprattutto, il suo pluralismo, ossia la numerosità delle emittenti sia a livello nazionale che in ambito locale. Il fenomeno della convergenza al digitale riferito alla comunicazione radio-televisiva può quindi essere letto come una trasformazione intrinseca al mezzo, che implica la sottolineatura enfatica di quegli aspetti della comunicazione broadcast (unoa-molti) in grado di soddisfare bisogni e abitudini che ancora permangono nell’epoca della comunicazione partecipata. Diverso è il caso dei quotidiani online che, in quanto parte integrante del web, si definiscono come altro rispetto alla stampa tradizionale ponendosi perfino in concorren-
Si afferma un concetto di informazione costruita dal basso, condivisa e partecipata, e di nuove forme di linguaggio giornalistico
za con essa. La prima conseguenza per il giornalismo tradizionale è che viene a cadere uno dei pilastri del suo potere e cioè l’accesso esclusivo alle fonti. La possibilità di consultare direttamente online documenti di ogni tipo rende la rete non soltanto un potente mezzo di informazione, ma anche un utile strumento di verifica delle informazioni: sia di quelle che circolano sul web, sia di quelle veicolate da altri mezzi. Blog e approfondimento La seconda conseguenza è l’affermarsi di un concetto di informazione costruita dal basso – dunque condivisa e partecipata – e, con essa, di nuove forme di linguaggio giornalistico. I quotidiani online sono solo uno dei tanti strumenti attraverso cui è possibile fare giornalismo sul web: spesso, per esempio, le notizie viaggiano attraverso i social network con largo anticipo rispetto ai principali quotidiani e notiziari. Eppure immediatezza e aggiornamento continuo non sono le uniche prerogative del giornalismo online. A dispetto di quanti gli attribuiscono una mancanza di approfondimento, si sta affermando nella pratica dei quotidiani online con esperienza più consolidata un uso originale dei blog come strumento di approfondimento collaborativo: un concetto questo che a mio parere apre ampi margini di riflessione sul nesso tra informazione e democrazia nell’epoca della rete.
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Fare informazione La domanda centrale che bisogna porsi, allora, non è tanto se e in che modo la stampa tradizionale potrà sopravvivere, al pari della radio e della televisione, al tumultuoso evolversi dei processi comunicativi e di produzione della conoscenza, quanto piuttosto quali sono le conseguenze profonde di questa evoluzione sul fare informazione. In altri termini non si deve correre il rischio, passando dai media elettronici al medium stampa, e cioè dalla dimensione della comunicazione a quella dell’informazione, di pensare ancora a quest’ultima come un processo unidirezionale e di natura prevalentemente pedagogica. Nell’epoca del sapere collaborativo e condiviso, infatti, la funzione di acculturazione tradizionalmente attribuita alla stampa appare definitivamente logorata al pari del ruolo di strumento prioritario di trasmissione della conoscenza un tempo riconosciuto al libro. Se un tempo la conoscenza veniva appunto trasmessa e cioè mediata da diversi punti di vista (più o meno trasparenti), salvo poi essere ricomposta in una sintesi (più o meno autonoma) affidata al soggetto, oggi quest’ultimo viene coinvolto attivamente in un continuo processo di produzione, revisione e condivisione del(i) sapere(i). Allo stesso modo, in un contesto in cui le identità e le appartenenze si fanno sempre più mobili e diasporiche, viene meno la funzione
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Nell’epoca del sapere collaborativo e condiviso la funzione di acculturazione attribuita tradizionalmente alla stampa appare definitivamente logorata di identificazione a una determinata cultura socio-politica attraverso il mezzo e la rappresentazione della realtà che esso propone. Essendo così venuti a mancare i pilastri su cui si fondava il patto comunicativo con il pubblico, non rimane che ripensare tale patto alla luce delle nuove connotazioni che accompagnano il concetto di informazione. A differenza dei media elettronici, la stampa non potrà fare a meno di ri-fondare la propria identità strutturandola attorno ai valori e alle modalità comunicative che caratterizzano la società della conoscenza. Questo non vuol dire che i quotidiani tradizionali saranno definitivamente soppiantati dalla loro versione online, ma piuttosto che si rende necessario un processo di integrazione sia a livello di proprietà sia a livello di lavoro giornalistico sia, infine, a livello di contenuti. Nella pratica ciò si traduce in una proficua interrelazione tra i due supporti: quello cartaceo destinato ad una fruizione rilassata che si realizza nella durata; quello online destinato a
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un approfondimento collaborativo, partecipato e arricchito dalle infinite possibilità di rimandi a testi e contenuti variamente collegati alla notizia. A ben guardare è proprio il concetto di approfondimento a proporsi come trait d’union fra i due livelli di fruizione che, lungi dall’essere in contrapposizione, si offrono come modalità complementari di uno stesso processo di acquisizione delle informazioni. Una volta ri-definito il concetto di lettore alla luce di queste osservazioni, sarà dunque possibile sperimentare un linguaggio giornalistico nuovo che possa realizzarsi in processi produttivi e redazionali complementari, sfruttando la possibilità di rimandi intertestuali tra i due supporti. Il quotidiano, dunque, diventa un ipermedia alla cui produzione, distribuzione e fruizione sono connesse logiche industriali, routines professionali, competenze e abitudini di lettura nuove e ancora da indagare. Nell’epoca delle sperimentazioni cross-mediali tutto questo non è certo molto lontano da venire: già si assiste alle prime sperimentazioni e, con esse, alle prime riflessioni sulle
Il quotidiano diventa un ipermedia alla cui produzione, distribuzione e fruizione sono connesse logiche ancora da indagare
possibili conseguenze di questa evoluzione sui processi democratici. La relazione tra i due fenomeni si colloca su due livelli: quello dell’accesso alle informazioni e quello del rapporto tra proprietà e giornalisti. La partecipazione Riguardo al primo aspetto, risulta evidente che in una società in cui il sapere e la conoscenza sono risorse strategiche fondamentali sia per i singoli che per i gruppi, i tradizionali diritti a informare e ad essere informati si caricano di nuovi importanti significati che sconfinano nella sfera di senso di un altro concetto: quello di partecipazione. In questo contesto, il nesso implicito tra cross-medialità e concentrazione della proprietà nel settore dell’informazione solleva forti interrogativi – sia a livello locale che a livello globale – sulle reali possibilità di un’informazione pluralista. In secondo luogo, si ripropone la questione del digital divide, e cioè delle profonde differenze che ancora permangono rispetto alla possibilità di connettersi alla rete. Tali rischi, a mio parere, sono bilanciati dalle opportunità di ridefinire il rapporto tra proprietà del mezzo di comunicazione e professione giornalistica che derivano dal processo di integrazione descritto sopra. Se è vero che anche nell’era digitale il ruolo del giornalista rimane quello di selezionare le notizie e di
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valutarne l’attendibilità attraverso la classificazione delle fonti, oggi questo lavoro si inserisce in modo sempre più evidente all’interno di un processo informativo di tipo bottomup nel quale, cioè, il materiale da selezionare, classificare e raccontare viene dal basso ed è facilmente condiviso. In questo contesto, la funzione e il lavoro del giornalista si radicano nelle pratiche comunicative che sono alla base dei flussi di informazione online. Ma non solo. Essi vanno a inserirsi all’interno di quei processi di interazione e di aggregazione comunitaria che ormai sono riconosciuti come caratteristici della comunicazione mediata dal computer. Ne deriva un ruolo professionale nuovo per il quale, probabilmente, le connessioni con il basso sono destinate a diventare sempre più determinanti rispetto al tradizionale rapporto con l’editore.
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Per il giornalista le connessioni con il basso sono destinate a diventare sempre più determinanti rispetto al rapporto con l’editore Come si vede le promesse implicite sono molte e allettanti, ma sarà compito della legislazione nazionale e internazionale in materia di comunicazione garantire lo sviluppo di dinamiche professionali e di impresa favorevoli alla progressiva democratizzazione dei processi di produzione e diffusione delle informazioni, prestando molta attenzione a non soffocarne le potenzialità in nome di principi tradizionali che a fatica si impongono alla dimensione partecipativa che caratterizza positivamente i media digitali.
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M assimo De Angelis
L’informazione nell’era dell’abbondanza trasmissiva
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urgen Habermas, nel suo “Storia e critica dell’opinione pubblica” (Laterza, 1971), raccontava il sorgere dell’opinione pubblica liberale e della stessa società civile moderna nei salotti borghesi, e poi nei caffè e nei club. Da questo punto di vista si potrebbe interpretare l’odierno fenomeno di Facebook come contemporaneo salotto universale di massa, incubatore di una opinione pubblica postelettronica. Allora, la nuova effervescenza borghese incrociava un analogo attivismo pubblico dello Stato – aggiunge Habermas – parallelo e connesso alla creazione di nuovi e lontani mercati. La stampa fu la “forza dirompente”, egli scrive, in questo processo. Poi venne la radio, infine la televisione. Non c’è dubbio però che oggi l’apertura tendenzialmente globale dei mercati da un lato, la rivoluzione
Facebook come salotto universale di massa, incubatore di un’opinione pubblica postelettronica
microelettronica dall’altro, hanno creato le premesse di una rivoluzione analoga ma assai più potente di quella del Sei-Settecento. Se infatti già nei secoli scorsi si venivano allentando le barriere tra pubblico e privato e tra sfera della comunicazione e dell’attività produttiva (lavoro e interazione secondo la terminologia habermasiana), oggi quelle barriere sembrano in procinto di essere spazzate via del tutto. È questo il succo più universale e anche più problematico, a mio avviso, dell’innovazione comunicativa degli ultimi venti/trent’anni. Divergenze parallele Questo movimento, naturalmente, si abbatte sullo stesso mondo dell’informazione. Cresce l’importanza della velocità e continuità della notizia (il tempo reale) e la sua pervasività (indiscreto e gossip). E naturalmente cresce anche enormemente il monte di informazione riservata (a poteri legali o meno). I riflessi di questo movimento sul sistema informativo sono brucianti innanzitutto per la carta stampata,
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che appare in crisi e chiamata a una radicale ricollocazione. In parte essa è spinta a competere con gli altri mezzi di comunicazione e a contaminarsi con essi sulla via dell’online. Col rischio, però, di snaturarsi. A mio avviso la trincea del grande quotidiano generalista, per come oggi lo conosciamo, è alla lunga indifendibile. Più fecondo seguire alcune altre direttrici: 1) contrapporre alla rapidità (terreno su cui non è possibile competere con gli altri mass media) l’approfondimento e l’ autorevolezza dell’informazione. Ancora oggi in molti giornali europei vi sono giornalisti che lavorano anche due settimane su un pezzo. Dubito che ve ne siano molti da noi. 2) L’approfondimento e l’autorevolezza si sposano con la specializzazione; anche qui sarebbe necessario invertire un trend alla poliedricità eccessiva progressivamente invalso, insieme all’accelerazione del lavoro giornalistico, negli ultimi decenni. 3) Per questa via il mondo della carta stampata, gli stessi giornali potrebbero riscoprire un ruolo anche formativo, sussidiario agli istituti educativi. Un ruolo potenzialmente sterminato. Quante aperture culturali dei maggiori giornali – naturalmente è un paradosso, ma fino a un certo punto – surrogano già oggi la lettura di un libro o la partecipazione a un convegno? Insomma quel che penso possa giovare alla carta stampata sia un processo
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di divergenze parallele rispetto ai mezzi di comunicazione audiovisivi. Il contrario, mi rendo conto, di quanto pare oggi per lo più avvenire. 4) Accanto a quotidiani come questi, d’opinione, di informazione d’eccellenza e con aspirazioni culturali e formative, c’è spazio, a mio avviso, oltre che per prodotti tematici (a cominciare dal quotidiano sportivo) anche per prodotti pluritematici ma dal target ben definito: chessò, una rivista che metta insieme sport, musica, viaggi, high tech per un pubblico giovane e così via. Un rulo conteso Ritengo, da questo punto di vista, che il sostegno pubblico all’informazione di carta sia oggi più indispensabile di prima anche se esso va sempre mantenuto in dimensioni non ipertrofiche. Che sia qualcosa non solo di economicamente ma di socialmente e civilmente dovuto. Credo però che gli attuali sussidi andrebbero tendenzialmente azzerati e se ne dovrebbero creare di nuovi fondati su una logica di verifica e flessibilità (forse temporaneità), su nuovi criteri e parametri legati a eccellenza e
Accanto a quotidiani d’opinione, di informazione e culturali, c’è spazio anche per prodotti pluritematici dal target ben definito
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Con il digitale terrestre e satellitare, si passa da una fase di relativa limitatezza di potenzialità trasmissiva a una fase di abbondanza sussidiarietà alla formazione, e a specialismi ritenuti utili alla coesione sociale e alla crescita culturale. Veniamo alla televisione. Se essa toglie spazio alla carta stampata e, come si è visto, la costringerà presumibilmente a ricollocarsi anche radicalmente, essa è a sua volta insidiata da mezzi quali il web e il telefonino. Tuttavia, a mio avviso, in questo campo, se non per un aspetto peraltro rilevante di cui dirò tra poco, si esagera nel vedere rischi imminenti di contendibilità del ruolo oggi svolto dalla tv. Adesso e ancora a lungo, soprattutto dal punto di vista dell’informazione ma non solo, si può parlare, negli altri mezzi, di servizi con una componente informativa: flash o strisciate di notizie via web o cellulare, immagini con brevi commenti, sms etc., ma non certo di televisione o giornalismo. Vi è in questi mezzi maggiore interattività, questo è vero, ma essa crescerà anche col digitale in televisione. La convergenza di rete produrrà novità in continuazione e tuttavia credo sia utile fissare alcuni punti e alcune distinzioni. Indubbiamente già oggi e sempre di più e più rapidamente nel preve-
dibile futuro (anche se siamo in un campo già mediamente maturo e in alcuni segmenti saturo), crescerà la concorrenza tra tecnologie e piattaforme trasmissive e insieme aumenterà la loro capacità trasmissiva. Insomma col digitale terrestre e satellitare, col cavo a fianco dell’etere, si passa da una fase di relativa limitatezza di potenzialità trasmissiva a una fase di abbondanza. Questo è il primo dato certo e la novità fondamentale. Un secondo dato praticamente certo e già verificabile è la tendenza dei principali broadcaster a stare su tutte le piattaforme e mezzi trasmissivi e a farsi la concorrenza su ciascuno di essi. Crescerà insomma la concorrenza tra e nelle piattaforme. Ritengo anche in proposito e tra parentesi che il servizio pubblico finirà con l’accedere almeno alla pay per view se non alla pay tv. Ma tutto ciò porterà a una frantumazione di messaggi e contenuti e a una moltiplicazione delle loro fonti? Per i numeri importanti io non lo credo. Né per la programmazione generale né per quella informativa in particolare. Insomma, come negli anni Settanta antenna libera non mise capo ai cento fiori ma a una concentrazione, così credo che anche oggi i players grandi resteranno pochi accanto, certo, a una pluralità di soggetti piccoli e, soprattutto, a una maggiore ricchezza (anche qualitativa?) locale. La maggior ricchezza di spazi trasmissivi apre infat-
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ti alla questione della quantità e qualità dei prodotti offerti e ai loro costi. Insomma dato uno spazio non è detto che esso possa essere occupato da prodotti appetibili e comunque prodotti appetibili comportano costi che solo in pochi possono permettersi. Controllo della concentrazione C’è un aspetto, cui facevo prima riferimento, che potrebbe mutare in parte queste previsioni: la pubblicità e cioè la principale leva di risorse finanziarie. Naturalmente la pubblicità seguirà i grandi numeri di attenzione e di ascolto, però qui non va affatto sottovalutata la sua pervasività di ogni angolo della grande rete, che potrebbe creare delle significative dissimmetrie e insomma creare qualche imprevisto dispiacere ai principali broadcaster. Lasciamo stare la attuale grande crisi che penalizza tutti (ma forse non tutti allo stesso modo); il problema è vedere, dopo, i diagrammi di allocazione delle risorse tra i diversi mezzi. Resta il fatto, a mio parere, che il problema un po’ dovunque sarà il controllo della tendenza alla concentrazione non il pericolo di una eccessiva dispersione. Se quanto detto sinora è vero, la concorrenza che attende la tv è una concorrenza essenzialmente interna, tra broadcaster, su tutte le piattaforme e magari su tutte le modalità d’accesso. Ma che cosa si può prevedere
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I players grandi resteranno pochi accanto ad una pluralità di soggetti piccoli e ad una maggiore ricchezza locale allora a proposito dell’informazione? Io penso che, salvo interventi calmieratori, l’informazione televisiva continuerà a subire e forse a veder crescere un certo condizionamento della pubblicità, cioè dell’audience che porta al ritmo, alla spettacolarizzazione anche quando questi possono andare a discapito di una informazione equilibrata e più ricca. In secondo luogo, l’informazione televisiva non potrà che secondare la spinta al tempo reale e alla pervasività che le nuove tecnologie quasi impongono al mondo dell’informazione. Questo dovrebbe rendere sempre più obbligata la via del canale informativo a nastro secondo il modello americano Fox e Cnn e oggi in Italia presente con Sky Tg 24 e Rai news 24. In prospettiva si può pensare che esso sia destinato a togliere spazio ai tradizionali telegiornali presenti sulle reti generaliste e anche ad assorbire quote di altri generi informativi (talk show, interviste, inchieste etc.). Questa tendenza la ritengo assai probabile; non è però facilmente quantificabile nei tempi e nella massa di spostamento di audience, e quindi è difficile prevedere se essa potrà por-
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tare a una crisi del modello della rete generalista e in esso del telegiornale. O se ancora vi sarà separazione tra rete generalista e informazione. La questione del futuro della tv generalista apre una discussione di fondo anzi forse, per certi aspetti, la discussione di fondo sulla tv o quantomeno sulla sua mission, passata e ventura. Forse anche la televisione, come negli anni Ottanta la scuola, dovrà andare oltre la nozione di massa, distinguere tra quantità di pubblico e massa (scuola di massa, pubblico di massa) e riarticolare la sua offerta. E’ comunque prevedibile che i canali generalisti avranno un tendenziale restringimento del bacino di utenza ma non un decadimento e quelli tematici o di genere una diffusione crescente ma non tale da sovvertire l’assetto attuale. Si tratta di ipotesi naturalmente, in cui è più fondata la tendenza che non la rapidità e la carica del mutamento. Ma c’è un altro aspetto interessante che potrebbe riguardare l’informazione televisiva. E’ possibile e sarebbe auspicabile che l’abbondanza di spazio trasmissivo venga utilizzata per una programmazione inter-
La concorrenza che attende la Tv è essenzialmente interna, tra broadcaster, su tutte le piattaforme e modalità di accesso
nazionale, innanzitutto europea. Da questo punto di vista siamo oggi indietro. Sorprendentemente indietro anche per uno sguardo realista. Eppure i risultati in termini di coesione sociale, civile, economica e politica potrebbero essere incalcolabili. Conoscenza e comprensione Per quel che riguarda l’Italia è prevedibile a auspicabile inoltre un potenziamento delle trasmissioni televisive verso l’altra sponda del Mediterraneo. Immediatamente evidente è l’utilità politica e istituzionale, la possibilità di aprire canali preziosi di informazione, conoscenza e reciproca comprensione. Ma anche dal punto di vista culturale, religioso ed economico le potenzialità sarebbero enormi. Senza aggiungere che un potenziamento di canali televisivi rivolti al mondo arabo potrebbe avere anche un effetto assai positivo nei riguardi della popolazione di origine araba immigrata in Italia. Tutto ciò riguarda in primo luogo il servizio pubblico ma non esclusivamente esso. In genere l’informazione internazionale potrebbe trovare l’interesse di operatori industriali, turistici, dei trasporti. E insomma di tutte le componenti nazionali interessate e portate a fare sistema. Un solo esempio. Credo che un canale tematico sul turismo in Italia potrebbe consorziare interessi e istituzioni diverse e costituire una atout non priva di significato per il nostro tes-
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suto produttivo. Questo solo per accennare al fatto che, come si diceva all’inizio, l’informazione può e deve, nell’era dell’abbondanza trasmissiva e dell’interattività, sempre più puntare insieme al locale e al globale da un lato e dall’altro concepirsi sempre più come informazione non solo o prevalentemente politica ma integrata: politica, istituzioni, cultura, economia, valori e interessi.
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L’informazione può e deve sempre più puntare al locale e al globale da un lato e dall’altro concepirsi come infomazione integrata
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Una partita competitiva tra business e nuovi modelli culturali
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supplementi economici di due dei principali quotidiani italiani presentavano nello stesso giorno di fine giungo due notizie diverse, ma “convergenti”: l’accordo tra Telecom, Wind e Fastweb, i principali operatori di telecomunicazione, per costituire una nuova associazione ed uno studio internazionale che affronta il tema del futuro dei quotidiani e del loro rapporto con la rete. La nuova associazione (Aiptv, sorta sul modello di quanto é stato fatto per il digitale terrestre con Dgtv) si pone come primo obiettivo quello di mettere sul mercato un decoder unico che vada bene per tutti e tre gli operatori. Una decisione che riflette nei fatti la scelta strategica degli operatori di considerare internet come una piattaforma di distribuzione del segnale
La digitalizzazione del segnale tv sta rompendo l’ultima barriera tra il mondo del web e quello del broadcaster
televisivo che possa in un futuro non lontano rivendicare pari dignità con il satellite ed il digitale terrestre. Il commento è tutto contenuto nell’occhiello: la digitalizzazione del segnale televisivo sta rompendo l’ultima barriera tra il mondo del web e quello dei broadcaster. La seconda notizia, oltre a riprendere il tema divenuto ormai classico, di come la carta stampata può uscire da una crisi che dura ormai da anni e come può affrontare il suo futuro, pone il problema di quali risorse veicolare per garantire uno sviluppo dell’informazione sul web. Queste due notizie che appunto ho definito convergenti pur riferendosi a due mondi che fino a non molti anni fa apparivano distanti e incomunicabili, come le telecomunicazioni e la carta stampata, mettono l’accento sul processo di convergenza tecnologica in rapida evoluzione e sui modelli di business innovativi che devono essere messi in campo per far fronte al cambiamento. Il punto di partenza di questa trasformazione nasce dallo sviluppo
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delle tecnologie, in particolare dall’applicazione delle tecniche digitali ai mezzi di comunicazione. Un’evoluzione tecnologica straordinaria, in un mondo a crescita esponenziale dove i computer diventano sempre più piccoli e sempre più potenti. La grande trasformazione Quando nel dopoguerra furono, grazie al piano Marshall, portati in Italia i primi calcolatori elettronici le cui dimensioni erano simili a quelle di un armadio, solo alcuni “visionari” potevano immaginare l’evoluzione futura. Per anni un computer serviva migliaia di utilizzatori. Il passaggio ad un solo computer per persona, che al momento del lancio da parte di Bill Gates negli anni Settanta appariva ai più un’ennesima visione, oltre ad aver fatto la fortuna del suo ideatore, ha cambiato la nostra vita. Così come la stanno cambiando i numerosi piccoli oggetti che tutti noi usiamo o addirittura indossiamo, dal telefonino all’orologio. Un futuro di tanti oggetti con i quali poter essere raggiunti da vari contenuti che possono essere gli stessi veicolati solo in modo diverso, oppure gli stessi adattati per i vari oggetti o meglio costruiti ad hoc per ogni singolo apparato. Questa grande trasformazione sta investendo la televisione, il suo modo di essere vista, le modalità di fruizione, i contenuti, il ruolo degli ope-
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ratori economici ed i modelli di business: in sostanza lo sviluppo tecnologico è una forte spinta al cambiamento dei consumi e del mercato. Il passaggio dalla trasmissione analogica alla trasmissione digitale, unitamente allo sviluppo di internet, ha introdotto questo grande cambiamento. La trasformazione di un segnale da analogico a digitale, dal latino digito, non è altro che una rappresentazione del segnale in un linguaggio più semplice che può essere più facilmente riprodotto e trasportato. Questo fatto mette in luce una caratteristica intrinseca del segnale digitale rispetto a quello analogico: un segnale che permette di passare da un versione ad alta densità di informazioni e quindi di alta qualità e formato a segnale di qualità inferiore, adattando il contenuto alle diverse reti di distribuzione, attraverso tecniche di compressione del segnale stesso. La possibilità quindi di trasmettere lo stesso contenuto su piattaforme diverse sta cambiando lo scenario della fruizione. La televisione classica quella nota come “sofa-tv” sta registrando
Per anni un computer serviva migliaia di utilizzatori. Il passaggio a un solo pc per persona ha cambiato la nostra vita
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La “hand Tv” che ci arriva tramite il telefonino, sta riscontrando un aumento dell’utilizzo del video sul cellulare un forte aumento dei canali offerti sia attraverso il satellite, che attraverso il digitale terrestre, che attraverso l’Iptv. A giugno di questo anno l’offerta di Sky è di 180 canali tematici e pay per view ai quali vanno aggiunti i canali audio tematici e radio digitali, oltre a quelli free trasmessi sulla piattaforma satellitare da Rai e Mediaset. L’offerta sul digitale terrestre affianca ai 13 canali visibili anche in analogico 19 canali appositamente realizzati per il digitale e 33 canali pay per view, oltre a quelli locali. La televisione via internet registra, come si diceva all’inizio, un fermento da parte dei principali operatori di telecomunicazione. La televisione che si fruisce stando seduti con i gomiti su una scrivania, la cosiddetta “desk tv”, registra diverse strategie da parte dei player tradizionali: la Rai ha messo a punto un’offerta ad hoc costruita per il web; Mediaset sta sperimentando interessanti forme di pay per view che consentono di vedere parte dei programmi trasmessi o alcuni contenuti premium; Sky sta utilizzando il web soprattutto come ca-
nale di supporto della sua offerta complessiva e di promozione. Dopo un avvio faticoso la “hand tv”, la televisione che ci arriva in movimento, tramite il telefonino, grazie alla diffusione del web in mobilità sta riscontrando un aumento dell’utilizzo del video sul cellulare. Un’altra forma di fruizione che si sta sempre più diffondendo soprattutto nelle grandi città è la televisione che fa riferimento ai circuiti indoor, la televisione della metropolitana, degli aeroporti, dei mezzi pubblici. Nata come servizio agli utenti ha assunto via via le caratteristiche di una vera e propria televisione, con contenuti informativi più generali. Ruolo “iperattivo” Una forma di fruizione che vede il consumatore spaziare da un ruolo “iperattivo”, scegliendo attraverso il telecomando o il mouse quel determinato programma, anzi quello spezzone particolare di video, ad un ruolo di “preda”, inseguito dal video “l’informazione dove sei” come annuncia la televisione della Metropolitana Milanese. All’interno di questo ventaglio mantiene ancora ben saldo il suo ruolo la visione classica: quel programma a quella determinata ora davanti al televisore nel salotto o nella cucina di casa. Questo cambiamento, reso possibile dalla nuova tecnologia digitale e dalle nuove reti di trasmissio-
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ne del segnale, sta ovviamente modificando il mercato e induce al cambiamento gli operatori. Il valore del mercato dei media digitali rappresenta ormai circa un quarto del valore di tutto il mercato dei media. Anche in questo caso la parte del leone la fa la televisione, dove la competizione si sta ora concentrando sui contenuti pay. Lo sviluppo della competizione si è fatta più rapida, senza che i tradizionali player cedessero il campo. Basti pensare che per sancire il passaggio dal monopolio del servizio pubblico al duopolio pubblico/privato si è dovuta attendere una quindicina d’anni – dalla nascita delle prime televisioni private, nel 1976 alla legge Mammì nel 1990 – mentre il terzo competitor, la televisione satellitare Sky, ha raggiunto dal punto di vista delle risorse il valore degli altri due nel giro di meno di un quinquennio – dalla nascita nel 2003 ai dati del 2008. Un mercato, inizialmente concentrato sul canone e sulla pubblicità, è fortemente cresciuto per la parte pay. È quindi sul terreno dei contenuti a pagamento, che si sta giocando in modo aggressivo la partita competitiva, senza ovviamente abbandonare il campo della pubblicità. I set top box Uno sviluppo del mercato che sta riguardando la parte produttiva degli apparati, che ha certamente un
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Sul terreno dei contenuti a pagamento si gioca in modo aggressivo la partita competitiva grande rilievo e che nell’occasione del digitale il nostro paese ha assecondato favorendo lo sviluppo delle capacità produttive delle aziende a differenza di quanto era avvenuto con l’introduzione del colore, momento in cui una sottovalutazione politica del problema creò un danno notevole ed in alcuni casi irreversibile alla nostra industria degli apparati. La diffusione e la produzione dei set top box universali multipiattaforma, oltre a consentire la fruizione sul normale schermo televisivo dei canali fruibili via terrestre o satellite o web sarà un’ulteriore sviluppo sia tecnologico che produttivo. Ovviamente la fase di transizione vedrà una coesistenza sia per le capacità di spesa ed innovazione dei consumatori ma soprattutto per i tempi ancora incerti della competizione commerciale e dei necessari accordi per questo sviluppo. La cosa più interessante da rilevare è il cambiamento in atto negli operatori tradizionali ed il ruolo crescente di nuove tipologie di operatori economici. Mediaset sembra giocare una partita a tutto campo, utilizzando tutte le piattaforme disponibili, con
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un mix di contenuti free e pay; la Rai, attingendo al suo ricchissimo patrimonio, sta sperimentando nuovi canali tematici sul digitale terrestre e si sta posizionando con forza come fornitore di contenuti per la tv via internet e per il web, ovviamente il suo ruolo di servizio pubblico non le permette di entrare nella competizione per il mercato pay; Sky sta differenziando sempre più la sua offerta; le principali compagnie di telecomunicazioni, da Telecom a Fastweb a Wind stanno ragionando su investimenti sia sulla fibra ottica che sulla rete in rame per poter sviluppare la banda larga e proporsi come canale competitivo per il transito di contenuti video. Questo solo per riassumere i comportamenti dei player tradizionali, consapevoli del ruolo che i produttori di contenuti stanno sempre più assumendo con strategie differenti. Disney Italia propone canali molto selezionati e mirati per fasce di età: animazioni, grandi film e produzioni originali, spesso realizzate nel nostro paese con l’intento di aderire alla realtà, adatte ai minori e veicolate su tutte le piattaforme. Endemol, che ha
La Tv via Web si arricchisce di nuove esperienze che vanno dal legame al territorio a portali a grande diffusione
nei format di fiction e di intrattenimento il suo core business, senza rinunciare ad incursioni in altri campi, vende a tutti i broadcaster e negli ultimi anni, oltre ai prodotti per la televisione tradizionale, ha ideato prodotti adattando i contenuti per le diverse piattaforme e insieme alla YAM 112003, società del gruppo, sviluppa produzioni specifiche per i new media. La società infatti gestisce e realizza Bonsai Tv, il canale giovani per la Alice Tv, con prodotti dai 30 secondi ai 10 minuti. Improntata alla realizzazione e produzione di progetti di comunicazione cross mediale multipiattaforma, è anche l’attività di Neo Network, la digital entertainment company del gruppo Magnolia. Gruppi editoriali tradizionali sono entrati in questo nuovo mercato: il gruppo l’Espresso che ha portato tutti i brand su internet con un’offerta di contenuti molto interattiva che vede la partecipazione degli utenti e che fa del www.repubblica.it il sito di informazione più diffuso in Italia; RCS che ha dedicato una società allo sviluppo delle attività di RCS quotidiani sui media digitali. La televisione via web si arricchisce ogni giorno di nuove esperienze che vanno dal legame al territorio, ripercorrendo idee del passato, come C6tv che vuole riprendere l’idea di una televisione su e per Milano, a portali a grande diffusione mondiale come MSN dispo-
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nibile in più di 40 mercati e più di 20 lingue che propone video con notizie, intrattenimento e sport fino a You Tube, il portale di video sharing ed a Tv Net che integra le potenzialità ed i vantaggi della televisione e del web. A fianco di queste realtà altri soggetti imprenditoriali hanno sviluppato un ruolo importante nella crescita della televisione digitale; società come IBM che, proprio per la comprimibilità caratteristica del segnale digitale, sviluppa soluzioni per distribuire sulle infrastrutture disponibili i vari contenuti, utilizzando un know how che non poteva avere sviluppi con la trasmissione analogica; oppure Cisco che ha creduto nelle soluzioni integrate su banda larga che comportano la piena convergenza su strutture di rete internet diventando il partner tecnologico per i principali operatori Iptv. Una competizione dura, che partendo dallo sviluppo tecnologico si gioca sul piano tecnologico, dei modelli di business, dell’individuazione e creazione di modelli culturali. Regole e mercato Tutto questo impone una riflessione sulle regole al fine di incoraggiare lo sviluppo del mercato e nel contempo favorire la competizione ed il pluralismo dei soggetti, garantendo la tutela dei diritti fondamentali della persona. Le norme
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Le norme a tutela della concorrenza non possono essere che un mix flessibile tra i vari segmenti del mercato e la loro interdipendenza antitrust hanno avuto un’evoluzione piuttosto lenta nel nostro paese e quasi sempre hanno di fatto sancito una realtà già consolidata. Ricordavo prima che per giungere al superamento del monopolio e ad una prima tutela del pluralismo, si è dovuto attendere gli anni Novanta con la legge Mammì, che ha basato le sue scelte su un mix che da una parte limitava il numero di reti di cui un soggetto poteva disporre ed una separazione tra generi – quotidiani, tv – e dall’altra operava sull’affollamento pubblicitario con l’obiettivo di porre un limite al flusso di risorse che poteva convergere sui vari media. Questa impostazione ha rivelato nel tempo la sua parziale incapacità a seguire lo sviluppo del mercato, tanto che la successiva legge di sistema, ha proposto il SIC – Sistema integrato delle comunicazioni – come paniere sul quale calcolare i limiti antitrust ed un divieto alle posizioni dominanti in ogni singolo mercato che compone il SIC. Oggi con la presenza di una
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molteplicità di piattaforme sulle quali veicolare i diversi contenuti, le norme a tutela della concorrenza non possono che essere un mix flessibile tra i vari segmenti del mercato e la loro interdipendenza, con una visione che travalica sempre più i confini nazionali e che può che essere affrontata da Autorità indipendenti con funzioni regolatorie, in grado di intervenire con competenza e rapidità di fronte a fenomeni sempre più rapidi e nuovi. Ma il terreno per certi aspetti più preoccupante mi pare essere quello della tutela dei diritti immateriali, da quello del diritto di autore a quelli fondamentali delle persone ed in particolare dei più deboli come i minori. Oggi le norme a tutela del pubblico più fragile, i bambini, sono strutturate sulla televisione tradizionale, tanto che persino la legge Gasparri, che pur aveva colto lo sviluppo innovativo dei media, parla di trasmissioni che, “anche in relazione all’orario di trasmissione”, possono nuocere allo sviluppo fisico, psichico o morale dei mi-
L’ampia fruibilità di contenuti su mezzi diversi rilancia la responsabilità educativa dei genitori, dei produttori e degli operatori
nori, o che presentano scene di violenza gratuita o insistita o efferata o pornografiche. Quanto è inadeguato nella nostra esperienza quotidiana quel richiamo alle fasce orarie! Da qui la necessità, se si vogliono cogliere le opportunità delle nuove tecnologie e dei nuovi media, di poter scegliere i programmi più adatti richiamando lo sviluppo di dispositivi tecnologici che consentano una fruizione consapevole, quali filtri e modalità di programmazione. Senza affidare tutto alla tecnologia nella consapevolezza che una maggiore offerta richiede una sempre maggiore responsabilità dell’adulto: la fruibilità più ampia di tutti i contenuti su mezzi diversi ed in momenti diversi rilancia la responsabilità educativa dei genitori in primo luogo, di tutti gli educatori e non ultima dei produttori e degli operatori. Il tema della tutela di uno dei diritti fondamentali della persona quale la propria privacy appare molto complesso. Qualche giorno fa, cercando con mio marito su uno dei principali siti un’indicazione stradale ci siamo trovati sulle sdraio del giardino della nostra casa di campagna. Un fazzoletto di terra fortunatamente di nessun interesse per altri che noi, ma la sensazione di vivere senza rete è stata forte. Ho citato questo piccolo esempio per non riferirmi a recenti episodi che hanno riguardato persone ben più note ed esposte di noi, per chiudere
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queste brevi note sulla televisione del futuro con un piccolo grido di allarme: vorrei che mio nipote con-
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tinuasse a trovare nel vocabolario la parola privacy e che ne gustasse il significato.
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Una nuova informazione a cominciare dai Blog
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ggi il web fa parte della nostra società ed è difficile pensare ad un mondo senza connessioni, informazioni, notizie, che viaggiano praticamente in tempo reale. I blogger, i nuovi portali di informazione, i video diffusi nella rete sono fenomeni di informazione dal basso che stanno mettendo a dura prova i classici giornali su carta e che hanno modificato il modo con cui operavano le grandi agenzie di stampa. Come cambia il modo di comunicare così cambia la professione del giornalista che diventa anche videoreporter, esperto di impaginazione multimediale e non solo scrittore e cronista. Il passaggio dalla carta stampata alle versioni online sembra un fatto certo. I vantaggi che fanno propendere a questa scelta sono un
Non esiste un modello di business per l’editoria su Internet per l’incertezza con cui i grandi editori interpretano questa novità
insieme di semplicità e ampiezza distributiva, nonché fattori di pura economicità. L’editoria diciamo cartacea è in crisi per gli alti costi che deve affrontare mentre internet offre dei sicuri vantaggi economici. La carta vincente Un aspetto fondamentale dell’informazione su internet è l’immediatezza con la quale si può essere raggiunti.e si può diffondere la notizia e ciò rappresenta la carta vincente dell’informazione. Sui fattori di mera economicità regna una certa confusione in quanto non esiste un modello di business per l’editoria su internet anche a causa dell’incertezza con cui i grandi gruppi editoriali hanno interpretato questa novità. Si va dall’idea di chi vorrebbe i contenuti gratuiti da chi li preferirebbe a pagamento, da chi vorrebbe contenuti specifici per internet da chi preferisce che questi derivino dalla versione cartacea, oppure da chi preferirebbe ancora contenuti provenienti dal basso, dalla gente comune, rispetto a contenuti creati da professionisti.
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Una nuova informazione a cominciare dai Blog di Antonio Landolfi
A tal proposito ha destato particolari polemiche ciò che ha dichiarato Rupert Murdoch secondo cui i giornali online dovrebbero essere a pagamento o si rischia il fallimento. Pagare le notizie Murdoch, proprietario di uno dei pochi giornali americani che fa pagare l’accesso alle proprie notizie sul web, ha dichiarato che “anche gli altri quotidiani dovranno iniziare a fare lo stesso se vogliono sopravvivere” e che “la pubblicità online, in cui molti editori Usa confidano per controbilanciare la riduzione delle entrate provenienti dalla pubblicità sulle versioni cartacee, non basterà a coprire i costi”. “La gente – continua Murdoch – legge le notizie gratis su internet, questo deve cambiare”. Inoltre ha indicato come esempio il maggior rivale del Wall Street Journal negli Stati Uniti, il New York Times. Il Times ha uno dei siti web più famosi tra i quotidiani americani, ma nonostante questo non riesce a coprire i costi con la pubblicità online, ha spiegato. Quello che però appare indubbio è che il rapporto costi/benefici (non quello costi/ricavi) sia molto favorevole alla pubblicazione di contenuti elettronici rispetto a cartacei. Certamente permette l’integrazione con diversi media (audio, animazioni, filmati, collegamenti ipertestuali etc.) e con tipici strumenti utili ai lettori in quanto comunità d’utenti.
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Più importante ancora consente un grandissimo abbattimento in termini di investimenti e capitali necessari per avviare un’attività di pubblicazione di contenuti. Questo porta conseguentemente ad una facilità di accesso e quindi ad una maggiore liberalità dell’informazione. Naturalmente questa liberalizzazione rischia un eccesso di informazioni e incertezza sulla qualità a cui si può ovviare con il “marchio”, cioè scrivendo per conto di una testata autorevole, oltre che ad avere un editore ed un direttore importante che garantisca quello che si scrive. Negli anni ’90 internet ha cominciato la sua evoluzione e sono nati siti come American On Line e i loro servizi online offrendo una nuova informazione come fattore principale tra i vari contenuti. I guadagni però servirono per ricoprire i costi delle infrastrutture. Il primo vero giornale elettronico nacque nel 1992. Il suo nome era Mercury Center che pose le basi per quelli che oggi sono i social networks, dove tutti possono scrivere le proprie opinioni che vengono commentate creando una comunità. Nel
Il rapporto costi/benefici è molto favorevole alla pubblicazione di contenuti elettronici rispetto ai cartacei
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Giornalisti e politici utilizzano il blog per pubblicare le proprie opinioni 1996 anche in Italia diversi giornali hanno pubblicato la loro versione online ma il loro andamento è stato incostante. Nel frattempo solo nel 1997 nasce negli Stati Uniti per poi migrare anche in Italia il fenomeno dei blog, importante perché è un particolare giornalismo che si basa sull’interattività e la personalizzazione Blog sta per weblog che in italiano si traduce “traccia su rete”. La sua funzione principale è quella di costruire un diario online. Un blog è di solito un sito su cui vengono pubblicati periodicamente dei post (contributi testuali, fotografici o audiovisivi) ad opera di uno o più autori. Ciò che distingue i blog importanti da quelli insignificanti è l’autore e il valore degli argomenti e dei contenuti proposti. Gran parte dei blog permette l’intervento dei lettori che possono “postare” i propri commenti e punti di vista sugli articoli dell’autore. Tutti possono costruire un blog senza conoscere alcun linguaggio di programmazione e permettono a chiunque possieda una connessione internet di creare velocemente e senza troppe difficoltà un sito in cui
pubblicare opinioni e informazioni, tutto ciò in completa autonomia. I Blog sono luoghi dove si può convivere con altri utenti e dove si annotano i pensieri come una specie di diario personale dove chiunque può scrivere idee e riflessioni. Attraverso i blog si incontrano persone fisicamente lontane ma spesso vicine ai propri punti di vista, gusti e ideali e con queste si scambiano pensieri,opinioni su svariate situazioni. Redattori online Molti giornalisti, cavalcando l’onda della tecnologia utilizzano blog per pubblicare le proprie opinioni sui vari argomenti, così come molti politici per stare a contatto con i cittadini. Conoscere la nuova tecnologia e avere più conoscenza di ciò per cui lavorano. Raramente si recano nel luogo in cui avvengono i fatti, utilizzano frequentemente molte fonti avendone disponibilità senza spostarsi dalla scrivania; ricercano news e le selezionano per l’inserimento in rete. Si pongono come guida per l’utente creando un percorso di lettura. I redattori online ricoprono ruoli che prima rimanevano separati in figure professionali distinte che utilizzano il gergo del web, conoscono gli strumenti informatici impiegando tecnologie multimediali e hanno nozioni di web marketing. Il Web si percepisce diversamen-
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te dal quotidiano acquistato e i giornalisti on-line devono cercare di creare un giornalismo che dia contemporaneamente servizi e notizie. Uno dei grandi vantaggi di internet è che si possono leggere notizie nel momento in cui si presenta la necessità. Gli articoli possono essere conservati e consultabili mediante vari tipi di ricerche e possono essere creati database consultabili a pagamento o gratuitamente. Utenza e notizie Se questo è il quadro delle nuove tecnologie che determinano un diverso tipo di informazione (alcuni dicono migliore, altri peggiore di quella che ha resistito sino agli anni ’80 e ’90) e soprattutto, ma questo non è il tema che dobbiamo affrontare, un nuovo tipo di giornalismo-giornalista, anche per la televisione nascono problemi. In tanto per l’abbondanza di programmi che potranno essere visti con il passaggi al digitale e poi con l’integrabilità con l’online. Se a fare da padrone alla nuova informazione tecnologica è la rapidità della diffusione della notizia, per la televisione il percorso si preannuncia in salita. Per stare al passo coi tempi dovrà puntare molto sull’innovazione tecnologica e su un forte impegno finanziario e produttivo. Le dirette sul territorio comportano impegni di non poco conto.
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Se la Tv vuole restare sul mercato l’unica strada è stare sulle notizie ed interagire con esse Del resto quanto accaduto alla carta stampata, in evidente crisi economica e di lettori, ricadrà su quelle televisioni che non sapranno stare al passo coi tempi. L’utenza richiede soprattutto di stare sulle notizie e di interagire con esse sia che si tratti di politica, di cronaca, di sport e di spettacolo. E questo di conseguenza ha dei costi. Ma se si vuole restare sul mercato questa è l’unica strada percorribile. Un dato deve far riflettere: la televisione, quella di qualità e forte economicamente, non appare in difficoltà e tuttavia se si tengono presenti i dati relativi agli ascolti si può capire che questo mezzo ormai non appaga un’utenza giovane che punta decisamente, dopo aver lasciato quotidiani e settimanali cartacei, al computer e al salvifico ‘internet’. Certo in Italia la popolazione non è tra le più giovani e almeno per due lustri non ci saranno ricadute pesanti sull’audience ma poi i nodi verranno al pettine e se non si comincia sin da ora a puntare ad un nuovo modo di ‘fare’ e di ‘diffondere’ informazione assisteremo al progressivo calo di telespettatori anche in presenza di canali di nicchia sempre
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più specialistici per andare incontro alle esigenze del ‘mercato’. Per evitare la crisi del mondo delle TV occorre, ripeto, impegnare sin da ora ingenti risorse economiche ma ne vale la pena perché si aprono ampi spazi per gli investimenti pubblicitari, che tendono al momento a privilegiare l’informazione da ‘computer’ o meglio da ‘internet’. È persino un luogo comune, ormai, mettere in risalto l’accelerazione dell’innovazione tecnologica nel corso dell’ultimo ventennio. Ma a questo proposito c’è qualcosa di più da porre in evidenza. Rispetto ai tempi della Prima e della Seconda rivoluzione industriale, s’è andato cancellando pressoché del tutto, negli ultimi due decenni, quel differenziale tra scoperta scientifica e sua applicazione tecnica che Schumpeter rilevava essere una connotazione della modernità capitalistica. Oggigiorno il rapporto tra ricerca di base e ricerca applicata, specie nei processi di produzione di beni immateriali, è talmente interrelato da far sì che l’applicazione tecnica
Il fenomeno informatico produce effetti sociali e politici in forma massiva e globalizzata, del tutto incomparabili con il passato
diventa un “work in progress” dell’innovazione scientifica. Ne consegue che il ritmo dei mutamenti generazionali dei nuovi prodotti è talmente incalzante da diventare incessante la sostituzione di beni con altri beni similari ma arricchiti di nuove potenzialità realizzate in un tempo molto rapido. La storia recente e attuale dell’innovazione informatica e comunicativa è connotata da questa interazione. Fenomeno che produce effetti sociali e politici in forma massiva e globalizzata del tutto incomparabili con il passato. Immaginario e realtà Da un lato si genera l’effetto della sovrapposizione di un immaginario collettivo sulla realtà degli eventi rappresentati, attraverso nuovi strumenti, su suoi fruitori, con effetti di disinformazione difficilmente reversibili, che comportano il diffondersi di tendenze populistiche eterodirette e difficilmente ribaltabili o arginabili. Dall’altra permettono però per un uso interattivo a rapidissima diffusione da parte di soggetti alternativi, che appare evidente in una serie di eventi di segno diverso. Citiamo ad esempio, le mobilitazioni di movimenti di piazza dei “no global” (che ho descritto dettagliatamente nel mio libro “Global si, global no”). Oppure, l’uso degli stessi strumenti e di altri a essi aggiunti per le manifestazioni dei riformisti in Iran, con cui questi ultimi servendosi de-
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gli ultimi perfezionamenti di tali strumenti, sono riusciti ad informare lâ&#x20AC;&#x2122;opinione pubblica internazionale scavalcando i divieti del regime. Per non parlare della continua con-
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trapposizione che si verifica in Cina tra organi repressivi e dissidenti, che sempre piĂš numerosi riescono a comunicare le loro critiche e le loro ragioni.
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L’informazione, stampa e TV, e le nuove tecnologie Domande rivolte a una serie di esponenti politici. Le risposte pervenute entro il termine di chiusura in tipografia: Paolo Gentiloni, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Gasparri, Gaetano Quagliariello e Italo Bocchino
Pol.is: Come evitare che l’intento, anche politico, di difendere “l’indipendenza” della carta stampata comporti il consolidamento, per un verso, dell’editore mecenate, portatore di forti interessi non editoriali; o, per altro verso, di una prassi di corposi sussidi pubblici o, peggio, della rafforzata coesistenza di queste due figure? Paolo Gentiloni: Il quadro dell’informazione italiana per quel che riguarda la carta stampata ha una base di partenza certamente positiva. Nonostante la scarsa diffusione quantitativa infatti i giornali in Italia rappresentano una realtà articolata, plurale in cui sono presenti le più diverse tendenze culturali e in cui giornali ad alta diffusione convivono con giornali di nicchia e giornali locali. Questo pluralismo è diventato nei fatti, assai più che il modello dell’editore
puro, garanzia di libertà e indipendenza della stampa. Pochissimi infatti sono gli editori puri in senso classico ma la grande diversificazione dell’offerta finisce per offrire un quadro complessivo di indipendenza. Non mi nascondo tuttavia che le difficoltà economiche, sia quelle strutturali ossia legate alla crisi mondiale dei giornali, sia quelle congiunturali legate alla crisi economica, minacciano questo quadro. È cronaca di questi mesi che gli editori dei giornali, che in genere sono imprenditori o Banche, sono alle prese con una doppia difficoltà: i bilanci in rosso di giornali e le problematicità più generali delle loro attività imprenditoriale e finanziaria. C’è il rischio che di fronte a questa doppia difficoltà aumenti a dismisura il potere di condizionamento del Governo e se il Governo è il gover-
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no del proprietario della Tv commerciale questa potenziale maggiore influenza sulla carta stampata mette a rischio il pluralismo dell’informazione. Quanto al sostegno pubblico alla carta stampata va detto che si tratta di un sostegno del tutto marginale se si escludono i giornali di partito e di proprietà di cooperative. La misura più rilevante per tutta la stampa è il sostegno pubblico alle tariffe per la spedizione in abbonamento postale. Non dico che si tratti di riprodurre modelli ben più corposi di sostegno pubblico alla stampa, ma non c’è dubbio che è assai difficile immaginare che la transizione in corso possa andare avanti senza un minino di accompagnamento da parte dello Stato. Si parla da mesi di convocare gli stati generali dell’informazione: quando si svolgeranno è indispensabile che si dia vita a un fondo per sostenere i giornali nella transizione verso internet, visti gli indispensabili processi di ristrutturazione che essa comporta. Fabrizio Cicchitto: Il problema, per evitare questo rischio, è capire se, e come, l’imprenditore della carta stampata può avvantaggiarsi facendo leva sull’on line e, in una ottica d’impresa, tenendo conto del rapporto costi-ricavi, fino a che punto il supporto cartaceo in prospettiva è integrabile con l’on line. Nella realizzazione di questo percorso deve es-
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sere, inoltre, rinvigorita l’indipendenza e la libertà d’informazione facendo particolare attenzione all’impatto sull’organizzazione e sulla figura del giornalista, anche perché in questo quadro il giornalista locale può essere rivitalizzato. Maurizio Gasparri: L’informazione e la carta stampata in particolare stanno affrontando una crisi che per alcuni versi è legata alla congiuntura internazionale. Per altri, invece, è comunemente ritenuta una crisi strutturale. I giornali non si vendono o si vendono molto poco. I telegiornali sono seguiti ma c’è un’ampia letteratura sulla qualità della fruizione, più simile ad un rumore di sottofondo che accompagna altre attività che non una ricezione attenta e consapevole del messaggio. I dati Audiradio, che monitorano gli ascolti radiofonici, sono in caduta: vincono le radio commerciali che limitano all’osso il contenuto di news e puntano quasi esclusivamente sull’intrattenimento musicale. In questo scenario, la vita della carta stampata è inevitabilmente legata alla volontà di un editore, che investe ancora soldi, che tiene in moto le rotative coadiuvato dai cospicui interventi statali (i contributi per la carta stampata), paga i giornalisti e preserva così il pluralismo e soprattutto la qualità dell’informazione. Inutile girarci intorno. L’editore mecenate e lo Stato sono due figure
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inalienabili per la sopravvivenza dei quotidiani stessi. Il rischio, se venisse a mancarne anche solo una, sarebbe la progressiva scomparsa di qualche testata. Ed allora sì che ci sarebbe il pericolo di una stampa non più libera e ‘indipendente’, ma di regime intesa come espressione unica del potere, sia esso di un solo editore o di un solo governo. In Italia, nonostante la crisi strutturale che interessa per oltre il 70 per cento l’informazione su carta, questo è un pericolo relativo. Abbiamo editori, di destra e di sinistra, che continuano a investire e pubblicare giornali. Ed abbiamo contributi statali indispensabili per garantire i livelli occupazionali. Presto ci sarà un tavolo tecnico per stabilire come saranno assegnati i 20 milioni di euro stanziati dal governo per i sussidi all’occupazione, cioè quelli relativi ai prepensionamenti. Ritengo, quindi, che nel nostro paese questo tipo di realtà resterà salda ancora per tanto. E se il pericolo è che l’editore possa perseguire, attraverso il giornale, uno scopo che non sia propriamente commerciale ma di carattere politico, l’unica soluzione è puntare a garantire il pluralismo delle voci. Una riflessione interna è comunque indispensabile. Il governo ha già ipotizzato che dopo la conclusione del tavolo tecnico sui prepensionamenti dei giornalisti, dovrà convocare gli stati generali dell’editoria e dell’informazione.
Gaetano Quagliariello: “Il ‘prodotto informazione’ ha una sua peculiarità e un valore particolare legato alla funzione insostituibile che la formazione della pubblica opinione riveste in un sistema democratico, e al suo essere un bene costituzionalmente protetto. Ciononostante, non si può non tener conto del fatto che quello della carta stampata è pur sempre un mercato, soggetto dunque alle regole e alle dinamiche di tutti gli altri mercati. In esso si muovono interessi forti e per lo più legittimi. Se in un’impresa a fortissimo rischio e a scarsa redditività come quella editoriale si cimentano operatori con interessi ‘non editoriali’ non c’è dunque da scandalizzarsi. Anzi, ben vengano. Purché tutto ciò avvenga in maniera trasparente, e senza che tali operatori si sentano investiti o si autoinvestano di missioni salvifiche e sacrali. Saranno poi i lettori, scegliendo in edicola quale giornale acquistare, a premiare le testate che avranno meritato la loro fiducia e a sanzionare i ‘mascheramenti’ di chi, cimentandosi nell’editoria, dimostrerà di perseguire altri scopi. Per quanto riguarda invece i sussidi pubblici, si tratta di un argomento di cui in questo periodo si sta discutendo molto, persino in America, per salvare i giornali da una crisi di dimensioni devastanti. In Italia tali sussidi esistono già, e mantengono in vita numerose testate giornalistiche. Anche in questo caso il principio cardine
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dev’essere quello della trasparenza: parametri oggettivi per l’accesso ai contributi, e pubblicità dell’elenco dei beneficiari. In questo modo, sarebbe impraticabile da parte di chiunque la tentazione di farne un uso improprio”. Italo Bocchino: Ci sono dinamiche di mercato che lo Stato pur volendo non può contrastare. In caso contrario, il rischio è di sostituire gli interessi dell’Editore privato con quelli dell’Editore pubblico, con differenze difficilmente riscontrabili da un punto di vista della libertà dell’informazione e del pluralismo. Non credo che la soluzione sia lo Stato editore e quindi il giornale “di Stato”. In tale direzione abbiamo esperienze non proprio esaltanti in tutti i campi delle attività economiche del nostro Paese: penso al famoso “panettone di Stato”. Luigi Sturzo diceva “Lo Stato è per definizione inabile a gestire una semplice bottega di ciabattino». Non vedo come possa essere un buon editore. Credo piuttosto che abbiamo bisogno di una maggiore trasparenza riguardo la proprietà dei giornali. Questa è l’unica soluzione praticabile per garantire al lettore, all’utente finale, una visione chiara sulla linea editoriale del giornale. Il giornale e i giornalisti possono essere indipendenti a prescindere dall’identità dell’editore. La cosa importante è che il giornale riesca a vendere copie e
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ampliare la propria fetta di mercato. Questa è la garanzia maggiore di indipendenza. Cosa che non potremmo avere con lo Stato editore.
Pol.is: Il cartaceo e l’on-line sono integrabili in un’ottica d’impresa, con vantaggi, rispetto alla situazione odierna, per il rapporto tra costi e ricavi? Paolo Gentiloni: L’integrazione tra quotidiani tradizionali e edizioni online è inevitabile. Come accade da tempo negli Stati Uniti anche in Italia avremo sempre più direzioni e redazioni unificate che svilupperanno sia gli aggiornamenti continui online che l’edizione destinata alla stampa. Difficile dire però se questa tendenza inevitabile produrrà vantaggi economici. Lo sviluppo dell’informazione online è straordinario ma non ha ancora trovato risorse sufficienti di pubblicità o di abbonamenti per compensare il possibile calo dei ricavi offline. Fabrizio Cicchitto: Premesso che ci troviamo ancora in un territorio in parte inesplorato, nel quale non sono inviduabili modelli di business consolidati e di certa efficacia, le indicazioni prevalenti ci inducono a ritenere che la possibilità di integrazione debba passare attraverso lo sviluppo dei due mezzi con la specializzazione e la valorizzazione delle ri-
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spettive caratteristiche. Ciò deve significare completezza, approfondimenti e analisi per quanto riguarda la carta stampata, e tempestività, velocità e frequenza di aggiornamento dell’informazione per l’online. Basti vedere il successo (e anche la rilevanza politica, come sta succedendo in Iran) di uno strumento immediato come Twitter. Sul web, inoltre, un valore aggiunto sempre più rilevante è costituito dall’interazione con gli utenti, attraverso la partecipazione dei lettori che con strumenti di vario tipo contribuiscono (con i forum ad esempio) all’elaborazione di idee, di sondaggi certo non scientifici ma rappresentativi di una certa fascia sociale. L’integrazione di fatto è avvenuta in alcuni siti italiani attraverso lo sviluppo simultaneo di tecnologie diverse che hanno consentito, e credo con successo, la creazione di veri e propri “ugc”, gli user generated content (foto, video, e in generale contenuti inviati dagli utenti). Penso ai siti dei principali quotidiani italiani, alcuni anni fa replica delle notizie contenute sul giornale cartaceo in edicola, e che invece dal giornale si sono via via smarcati, lanciando le notizie on line prima, per poi svilupparle anche con reportage fotografici e infine con servizi di tipo televisivo. A queste hanno collegato la possibilità per gli utenti di aggiungere loro documenti o esprimere opinioni. C’è un rischio in termini di qua-
lità, ma certo la massa d’informazioni è aumentata. Come possono le aziende ottimizzare quanto sta avvenendo? In un’ottica d’impresa, le sinergie possibili sembrano in questo momento essere prevalentemente quelle della condivisione del know how e delle strutture amministrative e organizzative in generale all’interno delle aziende editoriali. Anche dal punto di vista pubblicitario sono possibili benefici, con l’offerta agli inserzionisti di diversi strumenti di comunicazione con target potenzialmente diversi e diversa possibilità di fruizione, sfruttando soprattutto l’interattività che permette il web. Maurizio Gasparri: Superare la crisi del settore, ed ottimizzare quindi il rapporto tra costi e ricavi, vuol dire ripensare al giornalismo in termini diversi, di multimedialità. Editori, giornalisti e stampatori sono d’accordo: il quotidiano non morirà. Ma per permettere che questo non accada sarà necessario puntare sui contenuti, sulla qualità. Il crollo delle vendite, la fuga progressiva degli investimenti pubblicitari fa premere l’acceleratore su questo processo di mutamento, che spinge a imboccare la strada dell’innovazione, a cominciare dall’integrazione carta-web. Questa può essere la via d’uscita dall’impasse. Il web è una sfida ed una grande opportunità anche per le testate storiche che ormai hanno formato una nuova, grande e cliccatissima
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comunità. Restano aperti due problemi non secondari dell’integrazione carta-web. Il primo: la qualità delle informazioni. Fatta eccezione per i portali delle testate storiche e naturalmente per quelli delle agenzie di stampa, c’è da interrogarsi sulla veridicità delle fonti di informazione. Internet è una giungla di notizie, non tutte attendibili. Il secondo: il costo dell’informazione. Finora, a parte il costo della connessione, l’accesso alla rete è sostanzialmente gratuito. Taluni quotidiani, soprattutto quelli radicati solo sul territorio, necessitano di un abbonamento per accedere alla versione cartacea prima di un dato orario. Ma questa prassi è comunque un’eccezione. Resta comunque aperta l’ipotesi che alcuni servizi su internet vadano pagati. Se ne sta discutendo, ma ritengo che l’anima del commercio, e la linfa della carta stampata come di internet, resti la pubblicità. Credo si debba puntare su nuove politiche di incentivazione degli inserzionisti, non essere così rigidi con i tetti pubblicitari, aprire alla concorrenza. Altre soluzioni sono praticabili, ma ritengo meno efficaci. La soluzione più vicina è comunque quella del modello ibrido. In Gran Bretagna, ad esempio, il Guardian mantiene la formula ‘free’, con accesso gratuito alle news, l’Indipendent, invece, sembra voglia mettere a pagamento alcune sezioni. Quanto alla Spagna, El Mundo resta legato alla formula tut-
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to gratis, mentre El Pais chiede un abbonamento per la consultazione dell’archivio. Gaetano Quagliariello: “La diffusione esponenziale del web e la sempre crescente reperibilità delle notizie online impone agli operatori del settore una profonda riflessione strategica e di prospettiva. Fino ad oggi l’integrazione fra giornali cartacei e siti web ha senz’altro allargato il raggio degli ‘utenti della notizia’, e ampliato il bacino potenziale dei lettori dei quotidiani. Ma non sembra esserne derivato un beneficio in termini di costi. Anzi, in molti casi i cospicui investimenti effettuati sul web, e la riduzione delle copie cartacee vendute in edicola che ne è derivata, non sono stati neanche lontanamente compensati in termini di introiti pubblicitari. Non si tratta di un problema soltanto italiano: ovunque nel mondo si è alla ricerca di un modello economico che sostenga questa integrazione, razionalizzando i costi e massimizzando i benefici in termini di ricavi e di diffusione. Ma nessuno l’ha ancora trovato. Piuttosto, credo che sia interessante osservare un nuovo fenomeno, ossia la nascita dei primi quotidiani interamente online. Ho avuto la fortuna di veder nascere e svilupparsi, da una riflessione maturata in seno alla Fondazione Magna Carta, il quotidiano L’Occidentale (), nazionale quanto a copertura informa-
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tiva, e generalista con alcuni settori di particolare specializzazione. In due anni di vita L’Occidentale ha avuto un trend di crescita costante, oggi si attesta attorno ai 30mila contatti unici al giorno, e il dato è in crescita. Dal punto di vista di cui stiamo discutendo, osservare la tipologia di utenza del quotidiano e il comportamento dei lettori è stato molto interessante. C’è stata una fase iniziale di ‘accreditamento’, in cui L’Occidentale ha dovuto conquistare sul campo una sorta di patente di attendibilità, superando le iniziali e naturali diffidenze dovute alla grande quantità di informazioni talvolta incontrollate che circolano su internet. A distanza di due anni, L’Occidentale si è accreditato e può contare su un’utenza ‘affezionata’, qualificata e con un altissimo tasso di fidelizzazione. Dal punto di vista della sua realizzazione, la redazione giornalistica del quotidiano ha adottato fin dall’inizio un metodo ‘partecipativo’, aperto al contributo dei lettori che in diversi casi sono diventati collaboratori. Un altro caso interessante è quello di , giornale online americano che ha sperimentato una forma particolare di integrazione con l’editoria cartacea. Presente quotidianamente sul web, nei giorni in cui il Congresso americano è riunito thepolitico.com viene distribuito in forma cartacea nella sola città di Washington nei pressi dei Palazzi istituzionali e delle sedi di attività
politica. Grazie alla raccolta pubblicitaria ottenuta in questo modo, l’edizione cartacea viene interamente finanziata, e gli introiti aggiuntivi aiutano a coprire le spese dell’edizione online. Credo che sul web per i prodotti giornalistici vi sia una prateria da esplorare. E credo anche che, prima o poi, sia opportuno pensare di allargare la platea di potenziali fruitori dei contributi per l’editoria anche a questo tipo di testate, sempre in base a rigorosi criteri di certificazione e trasparenza”. Italo Bocchino: Ci sono esperienze positive in giro per il mondo. Il web può essere un modo innovativo e più ampio per far conoscere i contenuti cartacei. E soprattutto sul web i giornalisti possono pubblicare tutta una serie di riflessioni, di diverso taglio e sui temi più disparati che difficilmente troverebbero spazio sulla carta stampata. Inoltre i lettori on-line sono maggiori di quelli che comprano il giornale. Il Corriere della Sera, giusto per fare un esempio, ha più lettori on-line. Credo che una sinergia sia possibile. E sia anche conveniente. Gli introiti che la pubblicità on-line può garantire alle testate è una frontiera a tutt’oggi solo parzialmente esplorata. È una potenzialità che va sfruttata fino in fondo, per garantire al giornale-impresa risorse altrimenti non reperibili solo attraverso la pubblicità sul cartaceo. Non è una novità che la pubblicità com-
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merciale stia puntando dritta sul web. Semplicemente perché l’informazione sul web raggiunge sempre più persone e quindi “pesa” sempre di più.
Pol.is: In un’ottica diversa, tenuto conto del notevole abbassamento della soglia di ingresso nel mercato anche dell’informazione consentito dalle tecnologie telematiche, è possibile prospettare un frazionamento e un maggior radicamento locale del processo informativo? Paolo Gentiloni: L’informazione locale è cruciale in tutto il mondo e la sua realtà italiana ha una particolarità in più perché noi abbiamo oltre ai quotidiani locali una rete di televisioni che è assente in gran parte d’Europa. Questa informazione locale resisterà meglio e più a lungo di quella generalista alla penetrazione di internet e non escludo che l’informazione locale online possa trovare prima o meglio di quella nazionale modelli di ricavi soddisfacenti. È difficile far pagare l’informazione generalista a chi naviga online e può attingere a centinaia di fonti. Forse è possibile farlo con l’informazione locale prodotta da fonti esclusive e ben radicate nel territorio. Fabrizio Cicchitto: Ritengo che sia possibile. La moltiplicazione di siti definibili genericamente d’informa-
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zione è in atto e in tutto il mondo. Tale proliferazione si articola poi in siti specializzati sulle tematiche più varie fino alla microspecializzazione settoriale e geografica (per esempio, siti di appassionati di meteorologia focalizzati su un certo territorio o addirittura di amanti dei temporali). Dall’altro lato, la relativamente bassa soglia di accesso al web, consente la nascita di veri e propri strumenti di informazione online anche su base locale svincolati dalle esistenti aziende editoriali. Si tratta di esperienze relativamente recenti, che dovranno superare l’esame del tempo e del mercato: per consolidare una presenza professionale e affidabile al punto di conquistarsi e mantenere un proprio pubblico, sarà ineludibile il passaggio da gruppi basati sull’entusiasmo e sul volontariato a realtà strutturate dal punto di vista industriale, con relativi investimenti, strutture commerciali e amministrative. A quel punto la soglia di accesso tenderà di nuovo ad alzarsi e probabilmente assisteremo nel tempo a una selezione naturale che farà uscire dall’irrilevanza una schiera limitata di soggetti. Altro discorso, invece, per quanto riguarda mezzi d’informazione quali blog e social network (primo fra tutti Facebook, un vero e proprio fenomeno di massa), che possono essere usati come strumenti molto efficaci per la capacità che hanno di utilizzare la Rete stessa come punto di for-
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za, grazie al passaparola tra utenti, i quali tendono ad amplificare e diffondere su internet i contenuti o le “campagne d’opinione” che condividono. Si potrebbe ancora parlare a lungo dei processi in atto nel mondo dell’informazione online (per esempio per quanto riguarda i siti di associazioni, partiti, consumatori), ma in generale è evidente che il web ha consentito a milioni di cittadini, singolarmente o organizzati in gruppi, di accedere al mondo dell’informazione e di esprimere idee e opinioni con grande facilità. Maurizio Gasparri: Non ci sono barriere di accesso alla rete. Allo stesso tempo, chiunque può creare un sito internet, registrare un dominio, gestire le informazioni che desidera a piacimento. Indubbiamente il web può rappresentare un grande mezzo per divulgare ed accogliere notizie altrimenti inaccessibili. Una partita tutta da giocare soprattutto per le piccole realtà locali, siano esse testate giornalistiche legate ad una provincia o addirittura ad una micro realtà come un municipio o un quartiere. Oltre all’abbassamento della soglia di ingresso alle nuove tecnologie dell’informazione, ritengo sia utile ricordare anche l’interazione tra le varie tecnologie, la possibilità di rilancio dell’una rispetto alle altre. Questa è la vera integrazione. Ricorrere al web per alcune noti-
zie e rimandare alla carta stampata per gli approfondimenti. Va quindi ripensato il modo di gestire e divulgare le informazioni, basato su step successivi ma integrati. Gaetano Quagliariello: “Negli Stati Uniti d’America, che solitamente anticipano di una decina d’anni tutti i trend, compresi quelli che riguardano il settore dell’editoria, si sta verificando proprio questo fenomeno: le testate che godono di un migliore stato di salute sono proprio quelle locali, o addirittura quelle iperlocali che hanno come bacino di ferimento piccole città o persino singoli quartieri, e la stampa cosiddetta ‘etnica’, che si rivolge ai principali gruppi di immigrazione ed è scritta nella loro lingua d’origine. Lo stesso vale per quanto riguarda i siti web di informazione. In Italia il fenomeno della free press - per quanto già in affanno per carenza di pubblicità locale e per eccessiva concorrenza - e le discrete performance della stampa locale sembrano andare nella stessa direzione”. Italo Bocchino: Oggi l’informazione è in presa diretta. Ergo, la notizia arriva prima attraverso i nuovi canali che sui giornali tradizionali. La notizia del terremoto in Abruzzo è circolata in tempo reale su Twitter e solo dopo ore sui siti web nazionali e il giorno dopo sulla grande stampa. E ovviamente va considerato che
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l’informazione locale, quella che sta sul territorio, in quanto tale arriva prima sul “pezzo”. Il fenomeno del lettore che compra il quotidiano nazionale insieme a quello locale non è una novità. Così come è importante il fenomeno in espansione delle redazioni locali dei grandi giornali, i quali se si apriranno ai nuovi mezzi di informazione potranno offrire un prodotto di qualità e ancora più vicino al lettore “locale”, aiutando così la penetrazione della grande testata nazionale anche in provincia.
Pol.is: Tali considerazioni sono trasferibili al mondo televisivo, tenuto conto sia dell’abbondanza di canali trasmissivi sia della piena integrabilità con l’on-line provocate dal passaggio della TV al “tutto digitale”? Paolo Gentiloni: La rete sta cambiando l’informazione. Arricchendola e rendendola più libera. La rete è il futuro della televisione. L’evoluzione alla quale stiamo assistendo, di un’offerta Tv su diverse piattaforme e con moltissimi canali, non si fermerà allo stadio attuale del digitale terrestre. Sarà la diffusione stessa della banda larga, assieme a nuove applicazioni tecnologiche in particolare per decoder e telecomandi, a creare le condizioni per la tappa successiva rispetto al digitale terrestre. Entro dieci anni è probabile che la televisione su protocollo internet,
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con la sua offerta pressoché illimitata diventi dominante. In questo contesto gli odierni editori televisivi dovranno fare i conti con una vera e propria rivoluzione che metterà in discussione il modello che si basa sugli introiti da advertising nella Tv generalista. Mi auguro che il servizio pubblico accetti la sfida di internet, sulla scia dell’esempio della BBC, e riscopra in rete i suoi valori di televisione gratuita, libera e di qualità. Fabrizio Cicchitto: Solo in minima parte. Fioriscono già le cosiddette webtv, le tv su internet, ma di certo in questo caso il tasso di professionalità e di organizzazione richiesto per l’accesso è notevolmente superiore alla semplice tenuta di un blog. Parliamo sempre di esperienze significative, che abbiano una rilevanza sul territorio o un certo pubblico. E per precisare meglio, dobbiamo dunque distinguere tra lo studente che mette su Youtube un video girato in classe con il telefonino da realtà organizzate e strutturate, nel senso che dicevamo a proposito dei siti web. Costruire un palinsesto, produrre e montare contenuti video, realizzare una Tv dunque, richiede risorse più ingenti, di fatto investimenti analoghi a quelli richiesti per mettere in piedi una vera e propria Tv, di quelle che siamo soliti ricevere nel televisore di casa . I dati odierni ci danno qualche indicazione, che dovrà
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essere confermata nel tempo. Le Web Tv nascono con palinsesti mirati, quasi come canali monotematici, nel senso che l’argomento è circoscritto a un settore di interesse; oppure è circoscritta la realtà geografica, e così nascono le WebTv di quartiere. Tali iniziative possono usufruire dell’illimitatezza del web rispetto al mondo delle frequenze, finora chiuso perché limitato. Naturalmente un discorso diverso riguarda le realtà imprenditoriali strutturate, che potranno invece approfittare dell’integrazione permessa dal digitale in generale e dall’apertura del mondo televisivo consentita dal digitale terrestre che, come detto, ha liberato frequenze in un settore finora molto chiuso e di difficile accesso. Anche qui probabilmente si assisterà all’utilizzo di più mezzi per raggiungere in ogni momento il proprio pubblico: così il canale televisivo classico già propone su web la propria programmazione, e in futuro, con il progressivo abbassamento dei costi, avremo un diffuso accesso ai canali tv dal telefonino. Questo in parte già avviene e i dati ci dicono che sarà sempre più frequente la Tv che raggiunge i suoi utenti in ogni luogo con mezzi diversi. Maurizio Gasparri: Entro il 2012 le trasmissioni televisive avverranno esclusivamente in tecnologia digitale. È la tv del futuro: migliore quali-
tà di immagine e suono, moltiplicazione dell’offerta, gratuita ed a pagamento, con un bouquet di canali molto più vasto, interattività. L’avvento del digitale determina in sé un’espansione del mercato. Questa tecnologia è la via per ridurre il ruolo dei potentati e combattere gli oligopoli, perché permetterà di ampliare la base dei concorrenti. Già nel disegno di legge di riforma del sistema radiotelevisivo, attuale legge 112/2004 o legge Gasparri, l’intento era quello di sbloccare gli intrecci fra mondo della tv e carta stampata. E di questa forma di ‘liberalizzazione’ siamo convinti possano trarre giovamento non solo i grandi network, ma anche i piccoli, le televisioni locali e private, che grazie alla mia legge hanno trovato sostentamento. La disciplina, infatti, consente di ampliare l’area di irradiazione e di aumentare le risorse attraverso l’incremento dei tetti pubblicitari di trasmissione quotidiana. Resta inteso che mai come nel caso del digitale, il mezzo è il messaggio. Ma la sopravvivenza in questo settore, e di conseguenza il pluralismo, si raggiunge con proposte serie, capaci di alzare il livello di qualità dei programmi. Le emittenti locali, proprio per il loro radicamento sul territorio, rappresentano un insostituibile strumento di dibattito. Il passaggio al digitale rappresenta un’opzione tecnologico-culturale sulla modernizzazione del paese, una risposta ai proble-
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mi di pluralismo presenti nell’industria dell’informazione. Ritengo che le potenzialità del mezzo siano enormi per lo sviluppo della società, ma che siano ancora ampiamente sott’utilizzate. Il digitale non è solo televisione, ma può anche essere e-government, servizi e programmi di lavoro, educazione a distanza con un notevole abbattimento di costi. Gaetano Quagliariello: “Nel campo della televisione è ancora tutto in movimento. Sinceramente mi sembra troppo presto per dire come si fermeranno le bocce. Né è possibile stabilire automatiche analogie: la tipologia di ‘prodotto’ televisivo prevede modalità e tempi di fruizione del tutto differenti rispetto a un testo scritto, ma al contempo i sistemi tecnologici di interfaccia sono più simili a quelli utilizzati per navigare in Rete. Insomma, credo che si tratti di questioni simili ma al tempo stesso molto peculiari l’una rispetto all’altra. In ogni caso, per quanto riguarda il settore televisivo siamo davanti ad una grande apertura tecnologica e di mercato che lascerà disoccupate le prefiche del duopolio, sempre pronte a stracciarsi le vesti”. Italo Bocchino: La TV di Al Gore è un fenomeno di nicchia ma che ha individuato una strada da percorrere. Con le nuove tecnologie televisive avremo una convergenza sempre maggiore tra TV e Web. Il tutto
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con un’offerta sempre maggiore, questa sì capace di superare il duopolio e dare all’utente una possibilità di scelta praticamente infinita. Il mercato ancora una volta dimostrerà di essere il vero garante del pluralismo.
Pol.is: Per quanto riguarda i flussi di risorse finanziarie che alimentano i media, l’obiettivo di riaffermare l’onerosità dell’informazione rispetto alla gratuità prima introdotta dalla TV commerciale e poi fatta dilagare dal Web può trovare applicazione al di fuori del recinto della stampa specializzata? Può essere portato avanti efficacemente da singoli operatori pur grandi come Murdoch o è necessario il coinvolgimento di tutto il mercato della produzione dell’informazione (compreso quello televisivo)? Paolo Gentiloni: Di certo c’è la trasformazione in atto nei modelli di ricavi dei media. Assai meno certo è l’approdo che questa trasformazione avrà. L’incertezza deriva naturalmente dall’incognita circa i ricavi ottenibili in rete. Alle grandi storie di successo, come quella dei motori di ricerca, la rete infatti alterna storie incompiute – penso ai ricavi ancora molto limitati dei social network – e veri e propri vicoli ciechi come il tentativo di riprodurre online i modelli di ricavi dei quotidiani tradizionali. I fatturati assicurati dal mix tra
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vendite, abbonamenti e pubblicità non sono paragonabili a quelli offerti dalla pubblicità online e dagli esperimenti spesso fallimentari di abbonamenti o di micro pagamenti per le edizioni online. E questo nonostante i numeri delle edizioni online dei quotidiani siano ormai perfettamente comparabili con la diffusione delle copie stampate. Come sarà dunque il futuro dei giornali? Nelle edizioni stampate è probabile una graduale tendenza alla riduzione della diffusione che sarà sempre più una diffusione di qualità, destinata all’establishment e sostenuta da inserzioni pubblicitarie. D’altro canto è probabile un incremento della free press. Il modello tipicamente italiano del giornale di qualità ad alta tiratura potrebbe soffrire in modo rilevante per questa duplice tendenza. Online i giornali vivranno della autorevolezza e riconoscibilità di brand delle loro testate e dovranno trovare un nuovo equilibrio tra costi e ricavi. Cambiamenti altrettanto radicali si annunciano nell’offerta televisiva. Anche qui con un mix di certezza e incognite. Certo è il declino della pubblicità come fonte dominante di finanziamento della Tv generalista e la contestuale crescita di modelli a pagamento che tenderanno sempre più ad accaparrarsi i contenuti premium sottraendoli alla Tv gratuita per tutti. E qui, tra parentesi, torna prepotente il ruolo del servizio
pubblico che grazie al finanziamento pubblico deve continuare a garantire qualità della Tv gratuita per tutti. Meno chiaro è il modello di ricavi che avrà il sistema televisivo nell’era della piena affermazione del protocollo internet. Con ogni probabilità assisteremo al declino dell’editore Tv verticalmente integrato, ossia proprietario delle reti e produttore in proprio di contenuti. Il gioco dei ricavi sarà principalmente fra due attori: da un lato le piattaforme, le infrastrutture di Tlc, in grado di offrire connessioni in banda larga e dall’altro i produttori di contenuti in grado di riempire queste piattaforme di offerte, servizi e intrattenimento. Fabrizio Cicchitto: Gli imprenditori dell’informazione si interrogano ma la soluzione non sembra vicina. L’abitudine degli utenti a ricevere gratuitamente contenuti è ormai consolidata, e certo non sarà facile invertire la tendenza. Gli utenti hanno ormai pienamente accettato che il corrispettivo per il gratis è la pubblicità, e ritengono che questo sia il prezzo da pagare. Accettano il patto sancito oltre trent’anni fa, con la nascita delle cosiddette Tv private commerciali, ed è difficile dire se mai ci sarà una rivoluzione dei costumi, di questo si tratta, perché un utente paghi in modo diretto per potere assistere a un telegiornale. Il pagamento diretto per un evento
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è avvenuto finora per quelli che vengono definiti contenuti “di pregio”, per la massa di persone interessate, come il calcio in diretta. In questo caso, e moderatamente per i film in prima visione, gli utenti paganti aumentano sia sul satellite di Murdoch che sulle piattaforme del digitale terrestre. Non esiste dunque la ricetta, ma ritengo che tentativi isolati di far pagare agli utenti contenuti generalisti di cui esiste sovrabbondanza sul mercato (come le news, per intenderci), non avrebbero grandi possibilità di successo. In questo caso sarebbe certo necessario il coinvolgimento di tutto il sistema per trovare una formula efficace. Maurizio Gasparri: Il finanziamento dell’industria dell’informazione passa per diversi canali: la pubblicità, il canone, i contributi pubblici, investimenti privati. Da ministro delle Comunicazioni mi è stato subito chiaro che in Italia esistono gruppi editoriali troppo piccoli rispetto alla concorrenza internazionale. Per mantenerli in vita, la principale fonte di approvvigionamento è la pubblicità, ma certo non per tutti. Gli inserzionisti pagano in base agli ascolti che fa un programma. E un programma o un film fa ascolti se ci si investe sopra, se si paga. Un circolo vizioso che ha esposto molte imprese, soprattutto quelle piccole e sminuzzate, al rischio di non regge-
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re il confronto ed accettare una sorta di colonizzazione da parte dei colossi stranieri. Da qui uno dei principi ispiratori della legge di riforma del sistema radiotelevisivo tutt’ora vigente: evitare di condannare le nostre imprese dell’informazione al nanismo. Oggi è più facile per gli imprenditori italiani competere in Italia e nel mondo. Gli editori di giornali, infatti, possono diventare proprietari di televisioni o viceversa. Questa considerazione è fondamentale perché, con un po’ di coraggio imprenditoriale in più, consentirebbe di trasformare integralmente il pianeta dell’editoria, destinato ad ampliarsi. Il tutto collegato con l’avvento del digitale terrestre, che ovviamente comporta una moltiplicazione dei canali nazionali ‘occupabili’. Ed è chiaro che avere più canali vuol dire avere più editori. È già avvenuto per il Gruppo Espresso che ha acquistato Rete A. La7 è controllata da Telecom che a sua volta si è inserita anche nel settore delle agenzie di informazione. La questione dei flussi di risorse finanziarie, quindi, è evidentemente non esauribile puntando su un’unica fonte, ma il mercato, l’evoluzione tecnologica, impongono che sia l’intero sistema dell’informazione ad essere coinvolto. Gaetano Quagliariello: “Mi riallaccio a quanto detto fino ad ora: un modello di sostenibilità economica per l’industria delle news non è an-
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cora stato trovato. La grande mole di informazioni reperibili gratuitamente su internet è una realtà con la quale bisogna fare i conti. Chi ha provato a non considerarla ha fallito. Naturalmente, fanno eccezione i casi in cui i contenuti informativi rappresentano un tale valore aggiunto da indurre l’utente a pagare, come nel caso dell’informazione economica specializzata. Anche in questo caso, dunque, la sfida è aperta. Una delle ipotesi in campo è coprire parte delle spese aumentando il prezzo dei servizi che sono già a pagamento, ad esempio incrementando i costi di connessione. Un’altra ipotesi è quella di immaginare un modello di revenue sharing. Il panorama è comunque in continua evoluzione. Per dirla con Mogol, lo scopriremo solo vivendo”. Italo Bocchino: In Italia prima con
Tele+, poi con Sky e oggi con Mediaset Premium stiamo assistendo ad un fenomeno noto da decenni in America, ma da noi appena agli albori. Eppure oggi la TV satellitare è in espansione. Perché gli utenti hanno esigenze e richieste talmente varie che la TV pubblica e/o quella commerciale non possono soddisfare. Non solo, ma con la globalizzazione, l’esigenza di un’informazione a livello globale ha reso la TV satellitare strumento indispensabile. Per cui credo che il modello dell’informazione “onerosa” sia destinata a una rapida espansione. Ovviamente il piccolo operatore di provincia non può reggere un confronto con potenze multinazionali come Murdoch, ma sinergie commerciali e industriali tra i nostri operatori nazionali possono dare anche al nostro Paese una voce importante sul palcoscenico globale.
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Ripensare il mondo, una sollecitazione critica
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a vostra è una nota che parte da una ispirazione “di governo”, da un senso di “responsabilità civile”, da una tradizione di “dignità professionale” e da una sincera “cultura dell’innovazione”. Lungi da me sottovalutare o, peggio, disprezzare l’intento che traluce dai vostri interrogativi, ma è proprio la mia convinzione sulla bontà del vostro impegno a farmi pretendere da voi non qualcosa di più ma di diverso. Non l’atteso ma l’inatteso. Direi persino: non il credibile ma l’incredibile. Detto in poche parole: la vostra nota, sicuramente stesa con buone ragioni e nobili intenzioni, tenta di porre alcuni quesiti in modo oggettivo – aperto a una pluralità di visioni, ipotesi, problemi, scelte – e tuttavia a me pare cadere in una apertura solo apparente. Una apertura, cioè, che al massimo può consentirci di restare chiusi negli stessi confini in cui da tempo è bloccata ogni azione riformatrice. Dei quesiti che ponete, mi disturba allora la cornice riformista? No, assolutamente. Anzi: da riformista
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radicale quale ho continuato a sentirmi sin dalla mia prima professione di “operaismo” (e del resto, a volere essere sensati, che altro avrebbe potuto essere una “scienza operaia”?), sono sempre più convinto che – quando più tradizioni riformiste arrivano al culmine del loro fallimento e, da fattori di equilibrio, si trasformano in diretti o indiretti fattori di rischio e massimo disagio – non vuole dire che è fallito il “fare riformista”. E non vuol dire che, allora, bisogna diventare rivoluzionari o tornare conservatori. No: vuole dire soltanto che sbagliato – o scaduto, adulterato, “impazzito” alla maniera della maionese – è il “campo” su cui si pretende di agire attraverso la dimensione di una politica riformista. Il riformismo è fatto per una realtà di per sé violenta e irriducibi-
Il riformismo è fatto per una realtà di per sé violenta e irriducibile. Non è fatto per una realtà inventata a proprio comodo
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Il merito delle teste pensanti dell’ISIMM è consistito nel dare costante ospitalità a posizioni divergenti e spesso ritenute eretiche nei luoghi di potere vecchi e nuovi del nostro sistema le. Non è fatto per una realtà inventata a proprio comodo. Una tragica svista Questa è la tragica svista che sta mettendo in pericolo estremo il Paese ad opera delle politiche italiane di destra, di centro e di sinistra. Tutte politiche che restano inchiodate agli attrezzi mentali, espressivi, emotivi, istituzionali e sociali di cui esse si servono e ai quali restano appese, invece di guardare la realtà che proprio di quegli attrezzi dovrebbe indicare l’uso più appropriato e utile al nostro “buon vivere” di essere viventi. Ci si scontra su quale debba essere la posizione, il ruolo, l’azione politica da assumere nei confronti del capitale o del mercato o dei consumi o del potere o della giustizia, ma in sostanza lo scontro non è a partire da una ridefinizione di tutte queste emergenze della contemporaneità. Ci si schiera contro o a favore di qualcosa che più o meno tutti pensiamo allo stesso modo: contro o a favore del capitale, del mercato, dei
consumi, del potere, della giustizia in nome di una stessa idea di capitale, mercato, consumi, potere, giustizia. Sto parlando al singolare e mi sto rivolgendo al “voi” che mi pare intuire dietro la sintetica traccia di discussione elaborata dalla redazione di “Polis”. Si tratta di un “voi” più vasto e dominante del solito: più istituzionale. Pol.is e Isimm Quindi il “voi” con il quale qui intendo dialogare rivela da parte mia una posizione più intransigente e perlomeno distaccata rispetto alla consuetudine amicale di quel “voinoi” che da molto tempo mi tiene legato all’ISIMM. Vincolo, appunto, dovuto innanzi tutto alla sua costante “apertura”. Questa apertura ha fatto dell’ISIMM un luogo di discussione unico lungo tutto il “dopoguerra politico” subentrato al collasso socialista, in questi anni di crisi profonda del pensiero istituzionale ma anche di strabilianti mutazioni tecnologiche e antropologiche. L’ISIMM ha saputo percepire queste eccezionali innovazioni della vita quotidiana a tal punto da accogliere e valorizzare al suo interno una piccola truppa di giovani studiosi davvero eccentrica rispetto alle tradizioni politiche che hanno fatto da matrice e ambiente alla sua nascita, ponendosi come un monumento da salvaguardare e da non lasciare in
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mani sbagliate. Non che siano mancati in tutti questi anni motivi di dissenso su contenuti e scelte. Ma il merito delle teste pensanti dell’ISIMM – innanzi tutto Manca e Fichera, essi stessi non poco diversi tra loro ma comunque ambedue di eccezionale portata politica, professionale e culturale – è consistito proprio nel dare costante ospitalità a posizioni divergenti e spesso a posizioni ritenute eretiche nei luoghi di potere vecchi e nuovi del nostro sistema nazionale. È anche vero, tuttavia, che quando si resta legati dai vincoli affettivi di una lunga amicizia diventa assai difficile raggiungere un aperto scontro di posizioni. E si sorvola su questioni che altrove sarebbero oggetto di una cruenta disputa e di una invalicabile frattura. È dunque per questo che, nel “voi” di cui qui mi sto servendo, ho deciso di continuare a parlare agli amici dell’ISIMM, avendo tuttavia in testa anche e soprattutto altre figure del dibattito pubblico italiano, figure che ritengo assai più compromesse e che amo assai meno frequentare. Insomma intendo parlare all’ISIMM, ma intendo farlo soprattutto perché “suocera intenda”. Ri-pensare l’innovazione Cominciamo dal carattere delle domande. I temi da voi evocati a mio avviso soffrono del forte legame di solidarietà ideologica che avete nei
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Bisogna abbandonare la mentalità in cui abitano gli operatori e i professionisti delle istituzioni e della politica! confronti dei soggetti in campo: le imprese di comunicazione (pubbliche e private), i professionisti della comunicazione (manager, giornalisti e pubblicisti), le innovazioni della comunicazione (media generalisti e personal media), i flussi e nodi del mercato (dalla grande distribuzione alle agenzie), gli attori sociali (istituzioni, partiti, lettori, spettatori, utenti di rete). Ho detto “solidarietà ideologica”, dovrei parlare piuttosto di pura e semplice “solidarietà culturale”. Penso, invece, che oggi vi sia bisogno di spezzare questa solidarietà. La quale – pensateci – alla fin fine non è altro che il risultato di una pesante stratificazione di privilegi sociali, di interessi di ceto, professionali, corporativi, di gusti e stili di vita. Tra me e un professionista o intellettuale o docente di qualsiasi vocazione politica, ideologica o anche semplicemente culturale – fosse anche agli antipodi del mio pensiero e sentimento – c’è una distanza, differenza, incompatibilità assai inferiori a quelle che si spalancano tra me e chi vive la vita ordinaria delle cose quotidiane (là dove dolore, felicità, vita, morte, deside-
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rio sono soltanto e null’altro che dolore, felicità, vita, morte, desiderio). Credo che la traccia mentale da cui partire per rispondere ai vostri quesiti dovrebbe fondarsi su un ordine di ragionamenti interamente “dislocato” rispetto alle nostre consuetudini culturali (nostre: il “noi” che ci viene da una automatica accettazione dell’eredità di valori, credenze e privilegi che la democrazia – così da tanto in punto di morte – ci ha lasciato). Nel vostro schema non riesco più a orientarmi. Forse è un mio limite (in effetti, vengono qui poste questioni di cui non sono un esperto) o forse è limitata l’ottica con cui ragionate. Mi pare, ad esempio, che le questioni riguardanti l’innovazione digitale risultino – nel quadro mediatico che presupponete – assai pregiudicate da questioni ancora troppo impigliate nelle dicotomie ideologiche tipiche dei vecchi sistemi mediali. Sullo sfondo, mi sembrerebbe dunque necessario rimettere per prima cosa in discussione gli stereotipi che sono andati sempre più distinguendo i valori espressi in questi anni a proposito della stampa e della TV. In base a
È da tempo evidente il grumo di connivenza tra sistema politico, proprietà dei media e qualità professionale
questi stereotipi, la stampa viene fatta passare come garanzia di democrazia e la TV, invece, come fattore di persuasione e controllo. E attenzione! Tutti questi pregiudizi galleggiano su arretrate ma tuttavia ancora potenti teorizzazioni: su cosa intendiamo per capitale e dunque – giunti alla fine del tempo moderno della cittadinanza – per società capitalista, per consumo, per conflitto, per democrazia, per libertà, per soggettività. Fuori della politica È ancora possibile ragionare di strategie e tattiche per il futuro senza avere a disposizione nessuna altra analisi, nessun altro concetto e nessun altro valore che non siano incastrati nell’anima e nella struttura delle strategie e delle tattiche già consumate nel nostro passato e di cui continuiamo a servirci per obbligo e insieme inerzia? È ancora possibile cercare di conseguire dei fini, attuare dei progetti, essendo scaduto il significato dei fini per cui, in un lungo arco di decenni, abbiamo esaurito il nostro sapere professionale e la nostra immaginazione? Possibile trovare ancora una “distinzione” in ciò che, adesso, risulta un evidente, insolubile amalgama? Mi pare infatti che sia ormai da tempo evidente – oltre che pienamente operante – il grumo di connivenza tra sistema politico (gli attori che agiscono sulla/nella presupposta libertà di stam-
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pa non sono solo i singoli leader di partito, ma l’intero sistema dei rapporti di potere, palesi e occulti, di cui i partiti stessi sono soltanto una componente, magari persino residuale), proprietà dei media (diretta e indiretta, fisica e finanziaria, pubblica e privata, ma – in una società dei consumi – comunque forma di dominio in tutto sovrana sulla sfera materiale e ancor più su quella simbolica dei rapporti sociali) e qualità professionale (poiché nella qualità di un professionista – giornalista o scienziato o intellettuale o manager o altro che sia – sono incarnate estetiche, politiche e etiche che agiscono nel profondo e che, proprio in virtù del loro mondo remoto, espanso tra persona e ambiente, presente e passato, ragione e sensi, pesano sul lavoro e sui comportamenti degli apparati assai più di quanto possano pesare le deontologie professionali o le norme giuridiche). Vediamo allora se per una volta mi riesce di essere chiaro sino in fondo. La stima e l’amicizia che nutro per voi mi impongono di uscire alla scoperto con più decisione. Ecco quindi una mia dichiarazione immediata: voi dovete decidervi ad abbandonare il mondo delle istituzioni e della politica! Meglio (meno apocalittico, meno paradossale, più praticabile): voi dovete abbandonare la mentalità in cui abitano gli operatori e i professionisti delle istituzioni e della politica! Detto in al-
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tre parole (forse già più vicine a una possibile argomentazione): voi, per fare ricerca ovvero elaborare contenuti e strategie di azione sulle cose del mondo, dovete – proprio perché delle cose del mondo vi sentite responsabili – decidere di esiliarvi dai modelli precostituiti dalle teorie e dalle tecniche tuttora correnti, tuttora in uso nelle mediazioni sociali dei conflitti di potere. Detto in modo più giornalistico: il problema non è più schierarsi a destra o a sinistra, essere “buonisti” o radicali, rivoluzionari o riformisti; questa è tutta “roba da ridere”, roba da “principi e ballerine”; il problema è individuare, tra i tanti possibili, il mondo in cui abbia un senso lavorare ad una “causa”; il problema è che, a forza di esercitare il conflitto sul nulla, siamo diventati un nulla. Detto, infine, in termini più propositivi: credo che, aumentando sino al massimo la distanza tra ciò che pensate e ciò che il sistema delle nostre professioni e dei nostri rapporti sociali costringe a fare, voi potreste comunque agire assai meglio il livello di responsabilità istituzionale che vi prefiggete. Vale a dire che è meglio dovere fare ciò che non si pensa
È meglio dover fare ciò che non si pensa piuttosto che rinunciare a pensare ciò che si fa
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Il problema dell’attualità in cui l’essere umano abita è quello di interrogarsi nuovamente sul mondo delle cose a partire da esse piuttosto che rinunciare a pensare ciò che si fa: può sempre accadere che una routine pratica – senza senso, pericolosa, dannosa – possa godere di un qualche anche minimo correttivo se eseguita con tutta la distanza e ostilità di un sapere radicalmente “altro”. Nello spirito della tragedia invece che della commedia. Ripartire dal mondo che abitiamo In forma più saggistica: l’universo delle politiche in campo ormai è composto da niente altro che pesanti concrezioni storiche e sociali di interessi materiali e spirituali decisi a sopravvivere alla crisi e spesso alla catastrofe dei loro fondamenti originari. I territori della politica (poiché la politica è qualcosa di ben più penetrante, minuto, informale delle sue più vistose e trasparenti pratiche istituzionali) sono composti e scomposti da sfere di interesse in continua ebollizione, ovvero forme di potere che sempre meno riescono a mascherare la loro violenza, diretta e/o indiretta, consapevole e/o inconsapevole, necessaria e/o gratuita. Ancora (ed è la cosa più da capire, la cosa di cui più convincersi): l’ef-
ficacia o l’inefficacia, di questi grumi cancerogeni di vita sociale trapassata da se stessa, dipende più di sempre dall’immagine di cui queste derive della politica si ammantano o meglio… che “cavano fuori” da se stesse. Le politiche ora in lizza sono sempre più estetiche e mode, etichette, stili di vita, comportamenti psicosomatici individuali e collettivi, scorie di memorie, ideologie, visioni, mondi immaginari: distrazioni, aberrazioni, perdizioni del sé e dell’altro. Il problema della contemporaneità ovvero dell’attualità in cui l’essere umano abita è dunque quello di interrogarsi nuovamente sul mondo delle cose a partire da esse. La farsa sociale in cui sta precipitando la tragedia umana – pur così pienamente rivelata dalla modernità per mezzo di se stessa – consiste nel fatto che le classi dirigenti, se così possono essere ancora definite, hanno smesso di interrogarsi sulle cose di cui dovrebbero essere e sentirsi responsabili. Hanno smesso di pensare il mondo ritenendo che alle arti della politica – alle tecniche del potere e dell’amministrazione – possa bastare il mondo come è stato e continua ad essere pensato dalla stessa cultura moderna “di regime” che ha alimentato gli ultimi due secoli di conflitti sociali. Abitiamo un mondo che ci ostiniamo a volere diverso da se stesso o magari più uguale a se stesso ma che, proprio a ragione di
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questa ostinazione umana, si va facendo sempre più sconosciuto ai suoi vertici e sempre più tumultuoso nelle sue viscere. Abbiamo la presunzione di inventare mondi nuovi ma
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non riusciamo a inventare nuovi strumenti di interpretazione dell’unico mondo di cui disponiamo dall’inizio e che dall’inizio ha continuato ad abitarci.
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ommentare le elezioni europee? L’esercizio dovrebbe essere accompagnato da tali e tante cautele da risultare paradossalmente irrilevante. Diciamo, in sintesi, che si tratta di una “elezione” del tutto anomala: nel senso che non si vota né per un governo né per una maggioranza; e nemmeno per una politica, e, al limite, nemmeno per una persona. Cominciamo dal “governo”: qui i cittadini dei vari stati europei esprimevano, nel loro voto, un giudizio sui comportamenti del proprio mentre ignoravano completamente quelli dell’esecutivo europeo, a partire dal suo presidente; anche perché il tema è stato quasi completamente assente nelle varie campagne elettorali.
I cittadini europei hanno espresso un giudizio sul comportamento del proprio governo, ignorando completamente quelli dell’esecutivo europeo
Diciamo “quasi” perché il partito socialista francese aveva tentato di innovare in materia, proponendo ai partiti fratelli (e, se la cosa avesse avuto seguito, anche ad altre formazioni del centro sinistra) una campagna elettorale comune all’insegna del “no” a Barroso. L’iniziativa aveva, ben s’intende, un valore essenzialmente strumentale in chiave di politica interna; corrispondendo all’insistenza, oramai quasi patetica, di rifarsi una verginità di “sinistra pura e dura” e “antiliberale”, così da guarire i socialisti dalla sindrome della sconfitta da cui erano afflitti dal 2002 (fallimento di Jospin alle presidenziali). Sia come sia, non aveva alcuna possibilità di essere accolta. E per ragioni, insieme, istituzionali e politiche. Formalmente, è vero, lo stesso Barroso – come tutti i componenti della commissione- dovrà essere sottoposto al “voto di conferma” del parlamento europeo secondo uno schema molto simile a quello praticato negli Stati Uniti. Un passaggio, in sé, tutt’altro che scontato e che può riservare delle sorprese ( vedi il
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caso Buttiglione). Ma, nella sostanza, poi, la nomina del presidente e dei commissari è frutto di un giuoco tutto interno ai vari governi: un giuoco praticato secondo una sorta di “ manuale Cencelli” in cui, tutto sommato, i fattori personali e quelli legati alle esigenze dei vari stati nazionali e alla loro capacità di pressione contano più delle affiliazioni politiche. E allora, in sintesi, Barroso sarà confermato non perché rappresenterà la formazione di maggioranza relativa; ma perché la sua gestione sarà stata apprezzata – o meglio non apertamente contestata – dai governi che contano (tra l’altro di diversa colorazione politica: sinistra, centro destra, grande coalizione…). Socialismo/liberismo Nella sostanza, poi, la crociata, insieme bipolare e antiliberale, proposta dalla sinistra francese, è stata rifiutata per ragioni più profonde. Ragioni che riflettono, insieme, le divisioni esistenti nello stesso campo socialista e la natura del modello europeo realizzato nel corso del tempo. Detto in altre parole, la contrapposizione frontale socialismo/liberismo viene rifiutata non solo perché lo stesso movimento socialista è ancora diviso al suo interno nel giudizio sulla globalizzazione; o perché gli orientamenti delle varie formazioni (socialiste ma non solo) sono e saranno sempre fortemente influenzate da condi-
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zionamenti di tipo nazionale ( pensiamo a questioni come l’ingresso della Turchia, i rapporti con la Russia, l’atteggiamento nei confronti del conflitto arabo-israeliano e così via); ma anche e soprattutto perché il bipolarismo con i suoi paradigmi ( “ o di qua o di la” ; “ c’è una maggioranza e c’è un’opposizione”) non è stato, almeno sino ad ora, il modello di riferimento della costruzione europea e quindi dell’azione dello stesso parlamento di Strasburgo. A far crescere l’Europa, e cioè l’Europa possibile, non sono stati, per dirla tutta, le passioni politiche e i voti di maggioranza. Ma, al contrario, la paziente ricerca del consenso tra i governi e le forze politiche partecipi dell’operazione; nel caso specifico, tra cattolici, liberali e socialisti. Rimanevano, certo, i contrasti tra i partiti fondatori; ma, se vogliamo, questi contrasti vertevano e vertono tuttora più su questioni diciamo così di “società” (laicità, diritti delle minoranze e così via) che su temi economico-sociali o d’indirizzo politico e non sono stati sinora tali da sovrapporsi, cancellandolo, a
A far crescere l’Europa è stata la ricerca del consenso tra governi e forze politiche, tra cattolici, liberali e socialisti
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L’elettore europeo non ha votato né per un governo né per una maggioranza, e neanche per delle politiche e dei nomi quello fondamentale che divide i moderati dagli estremisti o più esattamente i difensori dell’Europa com’è da quelli che la contestano radicalmente in nome di un’ Europa che non esiste. Parliamo, naturalmente, del quadro esistente. Anche se si tratta di un quadro destinato a mutare: il passaggio dall’Europa dell’economia e delle regole a quello dell’Europa politica non è per nulla scontato; e in questo apparente vuoto di prospettiva lo spazio e l’influenza dei contestatori è destinato a crescere fortemente, come dimostrato proprio dalle ultime elezioni. Ciò che ci premeva di sottolineare in premessa è, comunque, che oggi come oggi l’elettore europeo non ha votato né per un governo né per una maggioranza. Semplice aggiungere, a questo punto, che non ha votato nemmeno per delle politiche e per dei nomi. Non ha votato per delle politiche perché non gli è stato richiesto di farlo: che si trattasse di quote latte o di politica agricola, di progetti energetici o di rapporti con la Russia o con la Turchia, di Afghanistan come d’interventi umanitari. In que-
sto vuoto abbiamo avuto partiti europeisti o euroscettici ma nessun partito seriamente europeo. Né in Italia né altrove. Non ha votato per dei nomi – al di là della possibilità o meno di esprimere preferenze- perché è mancato il requisito fondamentale di quella cosa assai seria che è il voto di scambio. “ Io ti voto, noi ti votiamo, ma tu dovrai impegnarti su questo o su quello”. “Con me in Europa”, dicevano molti manifesti; ben sapendo che, una volta traversati felicemente i confini, la separazione sarà invece totale; nel senso che non importerà a nessuno, a partire dai rispettivi elettori, di quello che faranno o non faranno i deputati a Strasburgo. Sondaggio di opinione In sintesi, una consultazione molto singolare. Che ha pochissimo a che fare con un’elezione e moltissimo, invece, con un sondaggio di opinione. Nel caso specifico, un sondaggio sull’interesse generico per l’ Europa (percentuale dei votanti); sul governo e sulla “direzione delle cose” nel proprio Paese ( voto – sanzione oppure no); e per finire, sulla crisi in atto, sulle sue cause generali e sui suoi più immediati e visibili rimedi. Un sondaggio di opinione: anzi la sommatoria di ventisette siffatte operazioni; perché tutte condotte in una logica e in una cornice strettamente nazionali.
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“Tutto ciò premesso”, in base a quali parametri valutare i risultati? E quali previsioni era lecito formulare? Cominciamo a sgombrare il terreno dalla questione della partecipazione al voto. Questa si è costantemente abbassata dal ‘79 ad oggi: in controtendenza rispetto all’accrescimento dei poteri del Parlamento europeo; ma “in fase” rispetto alla crescente consapevolezza che di un sondaggio di opinione si trattava; e che ai sondaggi di opinione ( come ai referendum) si può liberamente decidere se rispondere oppure no ( anche perché non ci sono premi in palio…) Effetto crisi In questo senso era lecito prevedere (anche per la presenza, mai così consistente, dei Paesi dell’ est dove la partecipazione è comunque nettamente più bassa) un ulteriore e netto calo; anche come possibile segnale di protesta. E, invece, siamo scesi di appena due punti; e, date le circostanze è andata di lusso. Allora, l’ “effetto crisi” da valutare è quello che si è manifestato con il voto. Con il senno di prima questo avrebbe dovuto evolvere in tre precise direzioni. L’ effetto antigoverno avrebbe dovuto favorire i socialisti rispetto ai popolari. Così erano andate le cose nel 2004: allora la protesta aveva colpito in modo massiccio le grandi social-democrazie
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La partecipazione al voto si è abbassata rispetto all’accrescimento dei poteri del Parlamento europeo al potere – tedesche, inglesi e, in minor misura, scandinave – gonfiando conseguentemente la percentuale dei popolari. Ora, nel 2009, era impensabile che le prime calassero ulteriormente: mentre la destra al potere in Francia e in Italia, come in altri diciannove dei ventisette Paesi dell’Unione era lì per essere colpita. Era dunque logico, nel senno di prima che i socialisti diventassero il primo partito dell’ Unione ( la loro distanza dai popolari era inferiore ai trenta seggi). Come poteva essere anche nella logica delle cose che la protesta contro la “ globalizzazione liberista” trovasse sfogo in due direzioni: favorendo la sinistra radicale rispetto a quella moderata e la contestazione sociale rispetto a quella identitaria all’interno della loro comune crescita. Di fatto, le cose sono andate in tutt’altro modo. Primo, l’effetto antigoverno è stato selettivo. La destra era, come si è detto, al potere in ventuno su ventisette stati, ma non è stata affatto punita per questo, con la sola eccezione della Grecia, mentre la contestazione ha punito i socialisti al potere: in modo devastante in Gran Bretagna e Ungheria, più
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contenuto in Spagna, Portogallo, Austria e Germania. Così nell’insieme lo scarto tra popolari e socialisti (i primi depurati dai conservatori inglesi, i secondi dal Pd) è oggi di ben oltre 100 deputati. I primi stanno intorno al 35%, i secondi a poco più del 20 %. Diciamo, allora, che il disegno che, almeno teoricamente, doveva essere portato avanti dal Pse – il socialismo europeo come risposta di sinistra alla crisi scatenata dal fallimento del “modello anglosassone” – non si è affatto materializzato. Forse perché oggettivamente mai uscito dal campo delle buone intenzioni e delle formulazioni di principio; in ogni caso perché le formazioni che pretendevano d’incarnarlo – vedi, in particolare, i socialisti francesi – non apparivano credibili nel loro ruolo. Più in generale, a non risultare credibile è stata l’alternativa di sinistra con i suoi connotati più o meno marcatamente anticapitalistici. Se il Pse perde circa 60/70 seggi, la sinistra radicale non ne conquista nessuno: nell’insieme l’area scende da un terzo a un quarto dei seggi di Strasburgo.
Se il Pse perde 60/70 seggi, la sinistra radicale non ne conquista nessuno. Ad avere il vento in poppa è la spinta populista
E questo, ricordiamolo sempre, nel pieno corso di una crisi che avrebbe dovuto rafforzarne decisamente le prospettive. In sintesi, quindi, è mancato qualsiasi spostamento a sinistra: nessun travaso di voti dai popolari verso i socialisti; e crescita pressoché impercettibile della sinistra radicale a spese di quella moderata. E, dunque, ha vinto il centrodestra. Ma quale centrodestra? Diciamolo subito: l’area che fa riferimento oggi al partito popolare ha a che fare assai meno di prima con il mondo cattolico liberale-sociale o con il mondo moderato-conservatore. Insomma, con quell’arco di forze che in un clima di “concordia discors” con le socialdemocrazie portò pure avanti con loro e nel corso di decenni il processo d’integrazione europea. Identità europea Oggi, ad aver il vento in poppa è invece la spinta populista, esterna ma anche interna allo stesso partito popolare (che, non a caso, si limita a mantenere le sue posizioni). Una spinta, perciò ostile, in nome degli interessi degli Stati sovrani, all’approfondimento della costruzione comunitaria; ma anche contraria, in nome di un’autoproclamata “identità europea”, al suo allargamento, presente, passato e futuro. A rappresentarne l’istanza a Strasburgo non saranno soltanto i partiti “nazionali” ( con una consi-
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stenza parlamentare, tanto per capirsi, pressoché doppia di quella della sinistra radicale) ma anche, e soprattutto, componenti importanti dello stesso Ppe. E non parliamo soltanto di quelle dell’Europa centro-orientale (uniformemente euroscettiche con l’unica eccezione dei liberali polacchi); ma anche di consistenti componenti dei partiti occidentali (e in particolare di quelli italiani e francesi, per tacere della Gran Bretagna, la cui area di centrodestra è totalmente schierata su posizioni ostili a Bruxelles). Uno scontro a lungo termine E, allora, il discrimine fondamentale oggi e, tendenzialmente, ancor più nel futuro non è tra progressisti e conservatori o tra socialità e ortodossia di mercato. È, piuttosto, tra una sinistra (o più esattamente, un centro sinistra ) internazionalista e la grande area populistico- identitaria: in uno scontro in cui la nuova destra può oggi far ricorso e apparentemente senza problemi, ai riferimenti storici del suo avversario (lo Stato, la spesa pubblica, la regolamentazione economica), essendo, tra l’altro, in concorrenza con lui per la conquista dello stesso bacino elettorale (la classe operaia e i ceti economicamente e culturalmente più svantaggiati). Uno scontro – come si dicevadestinato a prolungarsi nel corso dei
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Il discrimine è tra una sinistra internazionalista e la grande area populistico-identitaria prossimi anni, interessando tutta la futura stagione politica dell’Europa. Ma è comunque certo che il primo “round” è stato vinto dalle forze populiste. Il fatto è che i socialisti sono oggi a metà del guado. E, se vogliamo, proprio per i limiti del loro internazionalismo. In questo campo si è fatto, insieme, troppo e troppo poco. Da una parte si è abbracciata una globalizzazione vista come fumo agli occhi da buona parte del tradizionale popolo di sinistra: ma senza disporre, politicamente ma anche culturalmente, di strategie suscettibili di governarla efficacemente. La situazione è stata descritta con grandissima efficacia da Cesare Pinelli nel precedente numero della nostra rivista con considerazioni cui non c’è nulla da togliere o da aggiungere. Si andrà avanti ? La cosa è auspicabile: ma tutt’altro che certa. A favore della linea internazionalista ci sono, comunque, elementari esigenze di politica delle alleanze. A chi si appoggeranno, infatti, i circa 160 deputati europei aderenti al Pse nel portare avanti il proprio disegno politico?
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Ai poco più che trenta esponenti della sinistra “comunista” o radicale, oltretutto eletti su di una piattaforma fortemente polemica nei confronti dei socialdemocratici accusati di una sorta di “ mutazione genetica”? Oppure cercheranno dialoghi e convergenze con gli assai più consistenti gruppi liberal-democratico ( circa 80 deputati) o verde ( circa 50), questi ultimi in forte crescita laddove hanno esplicitamente scelto una piattaforma radicalmente diversa da quella che abbiamo tristemente conosciuto in Italia? La domanda dovrebbe contenere in sé la sua risposta. Dopo tutto, liberali e verdi hanno, anche sull’integrazione e sulle proiezioni internazionali di un’ Europa aperta, punti di vista simili a quelli dei socialisti. Per chiudere, la destra identitaria: un nome generico per descrivere una nebulosa assai ampia e perciò dai connotati e dai confini abbastanza indeterminati. Un’ area in sicura crescita: la terza in ordine d’importanza, dopo popolari e socialisti. Ma che unisce forze tra loro diverse se non mutualmente incompatibili: dai conservatori inglesi ai nazional-fa-
La destra identitaria, un’area in sicura crescita: la terza in ordine d’importanza dopo popolari e socialisti
scisti romeni; dai regionalisti moderati ai nazionalisti etnici più estremi. Il che rende assai problematiche non solo azioni comuni ma anche il mantenimento di una qualche identità di gruppo. Capacità di condizionamento Stiamo parlando però di un’area che, a differenza di quella della sinistra radicale è, nei fatti, più concorrente che antagonista rispetto a quella che la circonda. E, infatti, i sentimenti che l’accomunano – l’ostilità all’Europa così com’è e al processo d’integrazione sopranazionale così come quella nei confronti dell’immigrazione – trovano echi sempre più consistenti all’interno del gruppo popolare e, con questo, una forte capacità di condizionamento. E, allora, in assenza di una concreta alternativa “internazionalista” (non ancora, purtroppo, all’ordine del giorno), c’è il rischio che il centro destra insegua i populisti sul loro stesso terreno; magari senza essere in grado di neutralizzarne la minaccia politica. E l’ Italia? Delle elezioni italiane non è il caso di parlare qui salvo per ricordare – ma molto brevemente – ciò che le accomuna o viceversa le allontana dallo scenario che abbiamo sommariamente descritto. Simile l’esito: tenuta del centro destra già maggioritario, caduta del suo antagonista “democratico”, rafforzamento della destra populista maggiore rispetto a quello della sini-
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stra antagonista. Totalmente diverso, invece, nella natura dei protagonisti. A mancare allâ&#x20AC;&#x2122;appello non sono, infatti, soltanto i socialisti ma anche i due altri possibili protagoni-
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sti del centro sinistra europeo: liberali e verdi. Si dirĂ che essi ricompariranno presto: magari in una figura che li rappresenti tutti. Attendiamo, allora, fiduciosi il miracolo.
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L’Europ@ a modello di internet “Ponendo l’intelligenza alla periferia invece che il controllo al centro, il modello di internet ha creato una piattaforma per l’innovazione” Vinton Cerf
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uando si partecipa ai seminari e alle riunioni su tematiche europee, che hanno a che fare con le amministrazioni locali dei paesi comunitari, oppure agli incontri degli organismi dei network internazionali, si incontrano tante persone brillanti, si incontrano tante persone attive con pochi capelli bianchi, ma con tante capacità, cultura, idee e pensieri. Poi, però, quando torni al “centro” (e per centro intendo qualunque luogo decisionale), torni ad incontrare la solita classe dirigente politico amministrativa di sempre. Ti chiedi allo-
Da una parte c’è lo Stato dell’Europa con il suo sistema di governo. Dall’altra ci sono i territori, gli enti locali
ra qual’è il mondo reale e quello produttivo, creativo. E ti chiedi allora se l’enunciato di Cerf non sia applicabile non solo al mondo di internet, ma anche a quello politico. Principio di sussidarietà Oggi dove nascono le idee, il pensiero? Bella domanda a cui non sarò certo io a provare a rispondere, ma vorrei tuttavia provare a schematizzare ed ad applicare il paradigma Cerf alla situazione presente. Da una parte c’è lo Stato dell’Europa (come lo Stato Italia) con il suo sistema di governo, di leggi, di regole, di burocrazia, che con un secco meccanismo TOP DOWN fa le leggi, le politiche, le azioni di governo. Dall’altra parte ci sono i territori, gli enti locali che nell’ambito delle politiche sovraistituzionali fanno le loro azioni. I network territoriali o tematici cercano di costruire quin-
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L’Europ@ a modello di internet di Lorenza Bonaccorsi
di un meccanismo BOTTOM UP per portare le istanze locali al centro. Ma funziona questo meccanismo? E, se funziona, ha utilità effettiva per le necessità dei territori? Ma questo principio di sussidiarietà su cui si basa l’Europa che vuol dire? Non sarà che oggi nel 2010 sia solo una grande SCUSA per tenere in piedi un’istituzione che fa fatica a stare dietro a dove va l’Europ@ vera… Che sia una grandissima scusa per poter affermare che l’Europa è una istituzione che si basa sui territori, che parte da lì, che orienta le sue politiche di aiuto in quella direzione, ecc. Ma dove sta il punto di incontro tra centro e periferia ? L’europa reale Gran parte dei funzionari europei nei loro interventi di presentazione di programmi, seminari, ricerche ecc. hanno l’ossessione di ripetere decine di volte la parola “concreto”. Come se devono inculcarti il convincimento che quello che fanno ha concretezza, è concreto. Ma mentre le parole scorrono, la sensazione che si ha è esattamente quella contraria: non c’è nulla di concreto, ci sono tante versioni di documenti, tanti format da rispettare e form di domande da compilare, siti internet con date di scadenze da controllare e tante call da seguire. Ma manca una visione, una attinenza con la realtà. Questo inverno abbiamo assistito alle presentazioni di vari pro-
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grammi da parte di tante Direzioni Generali, bene: fuori dalle stanze infuriava una delle peggiori crisi internazionali della storia del dopoguerra, dentro le stanze si parlava di moduli da compilare…. Sono convinta che non esiste una formula magica e che nessuno la custodisce da nessuna parte, credo però che sia il tempo di ammettere che il meccanismo così non funziona. Penso anche all’altra categoria sbandierata sempre negli stessi consessi: luoghi multilivello e multidecisionali, ecco l’altra parola di cui siamo sempre pieni. Il popolo dell’Europa ha da poco eletto un nuovo Parlamento. Nelle prossime settimane si dovrà scegliere un nuovo Commissario. I prossimi cinque anni di questo Parlamento e della prossima Commissione saranno di importanza fondamentale per la storia economica europea. Dovranno farci pensare da europei e uscire da una crisi di portata planetaria. E ricostruire la fiducia nei mercati, nei consumatori, ricreare posti di lavoro perché l’Europa reale è l’Europa mercato e spazio unico. E questa Europa ha bisogno di più in-
I prossimi 5 anni, Parlamento e Commissione dovranno farci pensare da europei e farci uscire dalla crisi planetaria
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Aprire una grande riflessione europea: una piattaforma per l’innovazione dell’istituzione Europa frastrutture, di più tecnologie, di più ricerca e di più creatività. L’Europ@ a cui pensiamo ha bisogno di più RETI, ha bisogno di porre l’intelligenza alla periferia, per ripartire da quella periferia, da quel glocale che tenendo assieme concetti macro però abbia una specificità territoriale vera e non imposta da parametri e misure e tempi definiti da chissà
quali stanze dei bottoni nel migliore dei casi e nel peggiore da qualche zelante funzionario. E allora prendiamo un po’ di quello che internet ci ha insegnato, mettiamo un po’ più di “user generated contents” in questi modelli europei, mettiamo un po’ più di network aperti, social piuttosto che organismi verticisti. La tecnologia, l’intelligenza ce lo permettono. Apriamo una grande riflessione europea su questo: una piattaforma per l’innovazione dell’istituzione Europa. Perché la vecchia Europa se lo merita. E la ricetta forse, la possiamo cercare in quel tanto che il modello internet ci ha dimostrato fino ad ora.
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La profondità delle apparenze: metafore della serialità televisiva A Massimo Fichera Che quelle regioni barbare, dove la terra è madre di mostri, potessero albergare nel loro seno una città illustre, parve a tutti inconcepibile. Jorge Luis Borges, L’immortale
el bel mezzo di una trasformazione culturale e tecnologica che ci condurrà ben presto a modelli di consumo audiovisivo inediti rispetto alle nostre consuetudini davanti alla televisione, il piccolo schermo, in attesa del suo destino e per arginarne gli effetti più critici, continua a incantare il pubblico affinando in modo sempre più elaborato il suo ultimo e più convincente contenuto: le serie televisive. La redazione di Pol.is – Immaginario ha scelto per voi di descrivere e interpretare i titoli di maggiore successo e interesse presentati dall’industria culturale americana, tentando di svelare cosa questi esprimono in termini simbolici e per quale motivo – ragioni e passioni – stabiliscono un rapporto di intima complicità con il pubblico, sino a giungere a forme di adorazione o a fenomeni di identificazione da parte della platea nei confronti dei protagonisti di turno. Con un linguaggio accessibile e contemporaneamente strumenti teorici ben consolidati, gli autori delle pagine che seguono abbozzano le forme immaginarie e affettive da cui House, Dexter, le Casalinghe disperate e altri epigoni della serialità americana sfociano e di cui contribuiscono a evidenziare l’urgenza e l’emergenza sociali. Ciò che traspare nel fondo di siffatte apparenze è una coeren-
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La profondità delle apparenze: figure della serialità televisiva di Vincenzo Susca
te trama simbolica che rivela in modo emblematico l’attualità di etiche ed estetiche a lungo marginalizzate nell’ambito della nostra cultura, con particolare riferimento al suo versante cosiddetto “alto”. La tematizzazione che in esse si dipana mostra nel modo più crudo e verace possibile che l’ombra, il male, l’effimero e i capricci del corpo, malgrado lo sforzo politico-culturale teso ad evacuarne o bonificarne le tracce nell’ambito delle nostre società, irrigano in modo prorompente e rinnovato la vita quotidiana, tanto nella sua dimensione sensibile, quanto nel suo universo immaginario. Seguendo e ricomponendo attentamente il filo rosso che percorre gli articoli presentati, siamo tutti chiamati al compito di auto-osservarci nella nostra figura di spettatori attratti dalle narrazioni proposte, interrogandoci sul segreto legame che si instaura tra noi e i protagonisti delle serie. Una volta svelato il mistero, seppure in modo approssimativo, come sempre accade quando si vuole decriptare l’insondabile, saremo forse in grado di suggerire la strada, i simboli, le relazioni e persino le politiche che ci prepariamo a percorrere o, semplicemente, di cui avvertiamo il fascino.
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Il mostro dal volto umano. La tragedia di Dexter Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c'è altro mezzo per essere qui. Philip Roth, La macchia umana
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a vita di Dexter Morgan è battezzata nel sangue, segnata dal sangue e inseguita dall’ossessione e dal fascino inquietante del sangue. Abile ematologo al servizio del dipartimento di polizia di Miami durante il giorno, il protagonista della serie televisiva prodotta dalla Showtime, ideata da James Manos, ispirata dal romanzo di Jeff Lindsay La mano sinistra di Dio e interpretata magistralmente da Michael C. Hall, conduce a latere una vita da serial killer. Un caso di doppia identità in cui l’alter ego dell’uomo comune non è più l’eroe, come fino a qualche
La verità più profonda di Dexter è custodita nell’ombra della sua pulsione omicida
tempo fa le rappresentazioni dell’industria culturale, in sintonia con le strutture simboliche dell’immaginario collettivo, raccontavano, ma l’assassino, un mostro dal volto umano. Potremmo sostenere che qui è l’identità notturna del personaggio, nel suo aspetto più spietato, a costituire la sua autentica realtà e ad instaurare una sordida complicità con il pubblico. La verità più profonda di Dexter è custodita nell’ombra della sua pulsione omicida, un istinto viscerale sistematizzato e applicato in modo scientifico grazie a una formazione professionale volta a servire le istituzioni e il bene pubblico. Lo stesso bagaglio di sapere e abilità nel saper fare di cui il Nostro dispone al fine di analizzare le scene dei delitti nell’obiettivo di svelarne la trama, le armi utilizzate e i responsabili, è adoperato parallelamente per delin-
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quere ed occultare i propri crimini. Tale cruda dinamica di reversibilità ci sussurra l’indifferenza dei fini di fronte al tripudio dei mezzi tecnoscientifici, a ricordare la fatale autonomia, al di là del bene e del male, di cui una qualsiasi creatura, oggetto, organo o disciplina che sia, dispone nel momento in cui è messa al mondo. Il mito di Frankenstein La serie attualizza il mito del demone plasmato dall’ingenuo ottimismo del dottor Frankenstein, convinto di poter articolare a proprio piacimento l’equilibrio tra la morte e la vita. Illuso dall’ebbrezza della propria sapienza scientifica e incalzato dall’ideale di dispensare magnifiche sorti all’umanità, il Dottore prima dà luce a una creatura elaborata tramite la ricomposizione di diversi organi di cadaveri sepolti, poi, di fronte alla sua natura obbrobriosa, preso atto del suo desiderio ostinato di vivere e di riprodursi, sceglie di ucciderla convinto di avere il diritto di sterminare ciò che ha introdotto nel mondo. Come sappiamo, sarà poi il demone – metafora di ogni oggetto e soggetto moderno emancipatosi bruscamente dai fini per cui è stato creato – a seminare morte nell’esistenza del suo ingeneroso padre e della sua famiglia. Abbozzato lo sfondo simbolico che presiede alla narrazione in questione, descriviamone ora i dettagli:
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Harry, stimato poliziotto, trova Dexter in un camion quando, ancora fanciullo, aveva appena assistito inerme all’efferato omicidio di sua mamma. Decide di prelevarlo e di divenirne il padre adottivo. L’evento rappresenta la lancinante ferita su cui l’identità del protagonista si forgia e perverte, tanto da inibirne in seguito l’espressione sana di emozioni e passioni. Dexter, infatti, interdice per autodifesa, come forma di sopravvivenza, ogni vagito di affettività che non sia mortifero, teso a vendicare l’omicidio materno. Harry scopre ben presto la pulsione violenta del proprio figlio adottivo, osservando il cinismo con cui si rapporta agli animali. Mosso da tutti i suoi buoni sentimenti, istruito dalla morale istituzionale e dall’appartenenza professionale alle forze di polizia, si impegna a dargli un codice di vita, che il ragazzo ricorderà sempre come “il codice di Harry”, insegnandogli ad incanalare la sua aggressività verso i cattivi, nei confronti di quanti lo meritino per avere infranto la legge.
La serie attualizza il mito del demone plasmato dall’ingenuo ottimismo del dottor Frankenstein, illuso di poter articolare a proprio piacimento l’equilibrio tra la morte e la vita
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Dexter è gettato nella barbarie dal buon senso del padre-poliziotto, convinto di poter arginare la violenza del figlio dirigendola verso un buon uso, insegnandogli ad uccidere per il bene Morale e barbarie Si tratta, a ben vedere, della stessa logica dicotomica e manicheista che ha attraversato i diversi universalismi della storia e del pensiero moderni, ideologie fondate su un principio cardinale del bene in nome del quale il male – ovvero ciò che è contrario alla realizzazione completa del loro piano progettuale – deve essere evacuato ed estirpato. Poco importano le declinazioni prese da tale figura maledetta, incarnata di volta in volta, a seconda dell’ideologia o della religione in voga, nei peccatori della carne, negli eretici del canone religioso, nei padroni capitalisti, nei fannulloni, nelle streghe, negli operai pigri, negli ebrei, negli handicappati; ciò che conta è la costituzione di un paradigma di vita, di cultura e di credo assurto a feticcio, per compiere il quale è necessario annichilire qualsiasi sua alternativa reale o potenziale. La retta via della fede, e più tardi quella della ragione, implicano il dovere di sradicare il male, di scioglie-
re qualsiasi nodo, di stendere ogni piega che si frappone tra la teoria e la sua realizzazione, tra il progetto e il suo raggiungimento, tra l’ideale elaborato e la realtà nel suo aspetto più vissuto, nell’intimo intreccio che in essa si tesse tra i corpi e l’immaginario, tra i sensi e i sogni. Appare qui pertinente rievocare il monito di Walter Benjamin secondo cui “ogni civiltà deriva da un atto di barbarie”. Verso tale barbarie Dexter è gettato dal buon senso del padre-poliziotto, convinto di poter arginare la violenza del figlio dirigendola verso un buon uso, insegnandogli quindi ad uccidere per il bene. È la sua morale a trasformare un bambino turbato in un criminale, così come sono i mezzi tecnici e scientifici dispiegati ed affinati dalle istituzioni democratiche a prepararlo finemente all’arte di uccidere. Dexter è così, nella fiction, un effetto perverso dei dispositivi culturali e scientifici moderni così come lo sono, nella realtà, le bombe umanitarie, la tortura di Stato, gli ordigni atomici e persino, a suo tempo, i campi di concentramento, le prigioni e gli istituti psichiatrici di cura, di cui sia Michel Fouacult, sia Hannah Arendt hanno mostrato la continuità con le trame della modernità occidentale. La mano oscura dello Stato Non a caso, la sua attività, in uno stato di emblematica confusione tutta contemporanea tra lavoro e
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non-lavoro, dovere e passione, si concentra sulla carne e sul sangue, assurti al più sommo ruolo di valori etici e di icone estetiche. Dexter graffia e incide corpi, li scarnifica e ne riduce in brandelli gli organi prima di gettarli in mare per occultarli. Il trattamento punitivo che egli dedica ai criminali di turno, con tanto di premessa morale e di metodo scientifico scrupoloso, allude agli interventi operati dalle istituzioni moderne sul corpo degli anomici o dei diversi – criminali, pazzi, immigrati clandestini, prigionieri di guerra… – per riabilitarli, rimetterli a norma o punirli del peccato commesso. In questo senso, la storia della fiction non solo e non tanto materializza la mano sinistra di Dio, cristallizzando piuttosto in modo esemplare la mano profonda e oscura dello Stato. Dexter archivia, perfeziona e completa la persecuzione dei delinquenti avviata dalle forze di polizia, chiudendo il cerchio della punizione sbarazzandosi delle procedure utili a rendere presentabile e clean l’operazione. Spoglia il diritto della sua corteccia ideologica, ne smaschera l’ipocrisia e applica nel modo più verace e sfacciato possibile, tramite un parossismo rivelatore, il dettame di fondo: sopprimere il male in nome della norma. Le sue prede sono prevalentemente personaggi ricercati dalla polizia, di cui accede alle informazioni tramite i server del Dipartimento dove presta servizio. Ap-
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La scrupolosa azione dell’ematologo-serial killer rappresenta il compimento parossistico del principio della conoscenza elaborato dai poteri e dai saperi moderni plicando la sua sentenza, egli non fa altro che anticipare la prassi burocratica che conduce i colpevoli di omicidio alla sedia elettrica. Reversibilità La sua pena capitale riduce la distanza dei corpi, così come quella identitaria, tra lo Stato nella sua versione di boia e il criminale, azzerando lo spazio e le barriere che consentono, tramite la mediazione del diritto e delle sue procedure, da un lato di distinguere i ruoli tra il primo e il secondo, dall’altro di non “sporcare le mani” del potere, delegando alla tecnologia l’esecuzione finale. Dexter viola tale artificio teorico e metodologico. Pur agendo sottobosco in suo nome, come suo discendente e specialista, si rende reo di infrangerne l’edificio civile e democratico, ponendo scandalosamente l’istituzione di fronte alla propria più ripugnante oscenità, all’indicibilità della tortura che quotidianamente infligge all’altro da sé. La sua figura mima l’andirivieni tra il bene e il male, la reversibilità tra l’immagine dello Stato e
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quella dell’assassino, manifestando in modo tanto sincero quanto cinico l’azione che il primo intraprende sul corpo del secondo per conoscerlo prima e punirlo o rettificarlo in seguito. La scrupolosa azione dell’ematologo-serial killer rappresenta il compimento parossistico del principio della conoscenza elaborato dai poteri e dai saperi moderni nell’obiettivo di articolare il mondo, l’alterità naturale, ecologica e umana, secondo il proprio paradigma di emancipazione, riducendo tutto a propria immagine e somiglianza. L’incisione che Dexter compie sulla pelle delle proprie vittime, la cura da egli manifestata nella vivisezione del corpo altrui, propongono in maniera esacerbata e caricaturale il procedimento dell’azione scientifica verso la conoscenza e la manipolazione della materia organica e inorganica al fine del controllo e della riduzione della complessità. Il serial killer, d’altra parte, è l’archetipo del tipo metropolitano che, spaesato e intimorito al cospetto di un magma incomprensibile di segni e presenze umane
Il trattamento punitivo che Dexter dedica ai criminali allude agli interventi operati dalle istituzioni moderne sul corpo degli anomici o dei diversi
ad egli ignote, uccide per ridurre la complessità del mondo e analizzarlo sino in fondo. In questo senso, il protagonista della serie giunge sino a sfiorare e rivoltare le viscere delle proprie prede, equiparando in modo inquietante il luogo del delitto a un laboratorio scientifico e viceversa, come se, in fondo, non vi fosse alcuna soluzione di continuità tra la conoscenza profonda dell’altro e la sua uccisione e tortura, sfociando infine – come accade ai cadaveri gettati dal Nostro negli abissi dell’oceano – nel suo occultamento, metafora della definitiva evacuazione. Il codice di Harry Vi è qui l’espressione di una pulsione sadica, che sconfina dal principio dell’utilità e della missione civile per appagare una sorta di turpe voluttà sessuale, a conferma del parallelo suggerito da Georges Bataille tra le radici antropologiche dell’erotismo e la morte. Ferito com’è dal delitto perpetrato ai danni di sua madre nell’infanzia, modellato dall’educazione paterna, istruito dalle scuole di specializzazione in cui ha imparato ad esaminare il sangue, Dexter non trova altro modo di liberare le proprie passioni carnali che non sia la mortificazione della carne altrui. Ciò solo gli procura il godimento dei sensi e la soddisfazione dello spirito, elementi mal celati dall’alibi di punire i colpevoli con cui l’ematologo giustifica velleita-
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riamente a se stesso i propri atti indecenti. La sua sessualità è impacciata, congelata, sospesa dallo spettro del crimine subito e di quelli perpetrati sotto forma di vendetta nel nome del codice paterno, che puntata dopo puntata svela tutte le sue contraddizioni sino a rivelare, accanto agli effetti perversi prodotti, anche la sua friabile impalcatura di base. L’ideale di Harry, come il protagonista scopre nel corso della seconda stagione, si infrange allorché, di fronte all’immagine del figlio nell’atto di disseminare la sua prima vittima umana, il poliziotto, prima colto da una reazione viscerale disturbata, preda della vergogna e dei rimorsi sceglierà pochi giorni dopo di suicidarsi. Da questo momento in poi, Dexter non ha più complici né persone con cui condividere la sua pulsione maledetta. La sua personalità si sdoppia quindi in modo inconciliabile, senza alcuna continuità possibile tra la versione candida del bravo ragazzo e quella criminale del serial killer. La condanna della maschera Lila è l’unica persona che scorge la mostruosità aleggiante in Dexter e che appare pronta ad accettarla e a convivervi. Si tratta, non a caso, della sola donna in grado di scatenare le sue voluttà sessuali tanto da fargli abbandonare la languida fidanzata Rita e i suoi bambini, ai quali da tempo si è consacrato come nell’am-
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La tragica storia di Dexter è il riflesso roboante dei nostri tempi, sospesi tra l’esultanza edonistica e lo spettro dell’apocalissi, permeati dal sentimento della gioia tragica di dionisiaca memoria
bito di una causa missionaria. La conturbante bruna è tuttavia una psicopatica tormentata dalle sue ossessioni e pronta a delinquere nel modo più efferato al fine di trattenere a sé il compagno. Tanto la sua presenza scompiglia la doppia vita di Dexter e ne mette a repentaglio l’azione e la distinzione tra un volto e un altro, che il protagonista dovrà sbarazzarsene, seppellendo così, dopo averlo fatto già con il fratello – un altro serial killer, ma senza codice etico – l’ultima persona che può riconoscerlo e amarlo per quello che è. A partire da questo punto, ogni speranza di riconciliare la sua doppia vita in una cornice più trasparente e serena, senza le maschere che lo inchiodano allo scialbo candore diurno e alla puntigliosa efferatezza notturna, si dissipa. Il messaggio è qui chiaro: solo uno psicopatico – una delle tante figure metaforiche dell’anomia e dell’alterità rispetto alle norme cultura-
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li moderne – è in grado di comprendere e di accettare la mostruosità di Dexter. Eppure tale barlume di comprensione, finanche di complicità, aveva spinto il protagonista a interrompere i suoi delitti e a scoprire i piaceri della carne tramite rapporti sessuali finalmente appassionanti e non meccanici come quelli esperiti con Rita. Gioia tragica Per via di una provocante iperbole, la serie riporta con flagranza e fa risuonare nel pubblico la lancinante difficoltà da tutti sentita nella nostra civiltà a garantire pari dignità di esistenza alle diverse sfaccettature che compongono la nostra personalità, intimati come siamo a mantenere coerentemente l’identità assegnataci e ad agire di conseguenza. L’oscillazione tra il bene e il male non è qui altro che una polarizzazione estrema utile a evocare la natura contraddittoria dei sentimenti che, nonostante il fantasma dell’identità, ci abitano, con quanto ciò comporta in termini di pena nel dover intimare il silenzio ad uno di essi. Volendo controllare, educare e dirigere la pulsione violenta di Dexter, Harry ha
Dexter risveglia e legittima il groviglio torbido della nostra coscienza e del nostro inconscio
generato un serial killer (così come, secondo diverse modulazioni, gli istituti di cura psichiatrica hanno agito nei confronti del fratello del protagonista). Dominare il male e ammaestrarlo a fin di bene corrisponde qui a rinforzarlo e ad intensificarne l’impatto sul mondo e la recrudescenza. Sembra piuttosto auspicabile, suggerisce in controluce la serie, aderendo alle sensibilità emergenti dallo spirito del tempo, omeopatizzare, integrare in modo più umile il male che ci abita senza volerlo estirpare o governare, rinunciando al paradigma del controllo, dell’educazione forzata e dell’agire strumentale su di esso. Prima di essere ammaestrato dal padre , infatti, Dexter non era un assassino, ma solo un bambino turbato. Siamo qui condotti nel cuore della tragedia, così come tragico, senza una soluzione, è il destino di Dexter, riflesso roboante dei nostri tempi sospesi tra l’esultanza edonistica e lo spettro dell’apocalissi, permeati dal sentimento della gioia tragica di dionisiaca memoria. Per questo ci investiamo e proiettiamo con passione nelle trame chiaroscure della vita quotidiana dell’ematologo di Miami, animati da un’empatia di fondo nei suoi confronti, se non da un’indicibile compiacenza. La sua parte oscura tesse un legame, instaura un rapporto privilegiato con le nostre piccole e grandi mostruosità, le libera dalla vergogna e dall’isola-
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mento, erigendole al ruolo di sostanza magica che assicura l’identificazione e la fusione del pubblico. Una congiunzione sostenuta dalla condivisione di essenze basse, di impulsi selvaggi, di sensibilità al limite della civiltà e oltre il regime del politicamente corretto. Dexter risveglia e in qualche modo legittima tutto il
groviglio torbido della nostra coscienza e del nostro inconscio, al di là del bene e del male, accogliendo la coincidentia oppositorum di cui tutti siamo fatti e che solo l’illusione e l’ideologia dell’identità e di ogni universalismo hanno occultato. Come un cadavere, generando cadaveri e mostri.
Vincenzo Susca è docente di sociologia dell’immaginario all’Università Paris Descartes Sorbonne. Collabora con l’Università IULM di Milano. Direttore editoriale dei “Cahiers européens de l’imaginaire”.
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La morte e il suo doppio. Six feet under e il filo di Atropo gni puntata di Six feet under prende avvio da una morte. La scena si apre con una fine improvvisa, inaspettata, spesso grottesca; poi una schermata bianca, il nome del defunto in caratteri lapidari, data di nascita e data di morte. Chi muore è sempre impreparato, colpito alle spalle da una sorte che non sospetta: per questo le va incontro senza timore, come guidato da una mano invisibile. Facendo parlare direttamente Atropo, Wisława Szymborska le consente di scagionarsi dall’accusa di essere la Parca che gode della fama peggiore: «grossa esagerazione, poetessa mia. / Cloto tesse il filo della vita, / ma quel filo è sottile, / non è difficile tagliarlo» (Intervista con Atropo). Il viewer non si faccia illusioni, né provi a recriminare: la morte è dietro l’an-
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Cloto tesse il filo della vita, ma quel filo è sottile, non è difficile tagliarlo
golo perché la vita è fragile, troppo esile il filo che la sostiene. Morire se stessi Nei primi fotogrammi della sigla, due mani unite si disgiungono. Sullo sfondo, un albero. Solo. A fine sigla, lo stesso albero, e sei piedi sotto terra, la sagoma di una bara. Morte come separazione, dunque; come spazio di solitudine e silenzio; come confine che delimita un dentro e un fuori, che divide chi va da chi resta. Non così, almeno secondo Maurice Blanchot (Lo spazio letterario): «Fare della morte la mia morte non è dunque più, ora, rimanere io fin nella morte, ma […] espormi ad essa, non più escluderla ma includerla, guardarla come mia, leggerla come la mia verità segreta». Rendere una morte la mia morte non consiste nel rimanere se stessi fino all’ultimo respiro, ma nell’includere la morte nella vita, esponendosi alla prospettiva che essa origina. Guardare la morte significa, allora, guardare con gli occhi della morte. E non così per i Fisher. Per loro –
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ha scritto recentemente Leonardo Buonomo (I Soprano e gli altri, «Acoma» 36) – «la morte è di casa»: Nathaniel, Ruth e i loro tre figli – Nate, David e Claire – gestiscono un’impresa di onoranze funebri nella stessa casa dove abitano. Si tratta di un’impresa all inclusive, dalla ricomposizione del corpo del defunto all’accoglienza di parenti e amici durante il rito funerario. La morte è sempre sotto i loro occhi, perché i Fisher vivono (e guadagnano!) della morte altrui, curando in ogni dettaglio quello che dovrebbe essere un rituale di addio. Ma la morte è sempre anche nei loro occhi, nonostante i tentativi di confinarla e di occultarla: la divisione della casa tra un piano abitativo ed uno lavorativo, il processo di imbalsamazione e di ricostruzione che riporta il defunto alla condizione precedente al decesso non bastano. Quando Nathaniel muore, la morte che i Fisher avevano sempre cercato di tenere a distanza, guardandola come fonte di lavoro e reddito, invade la loro casa e il loro sguardo sul mondo, alterandone la percezione. Resurrezioni I morti tornano a visitare i Fisher, incarnandone aspirazioni e paure nascoste, portando alla luce la loro «verità segreta»: il bisogno di spiritualità di Nate, il conflitto tra omosessualità e istinto di paternità di David, l’anelito artistico di Claire, l’insofferenza di Ruth per il ruolo di
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madre e nutrice. Non si tratta ovviamente di revenants, ma – si passi il termine sfacciatamente psicanalitico – di proiezioni di sé generate dall’assunzione di uno sguardo di morte. Il morto è, dunque, il doppio del vivo, lo specchio di quei pensieri che non trovano spazio nell’esistenza reale, di quelle parti di sé che potrebbero non nascere mai. Il fuori si riprende il dentro, vi scava una nicchia, rode come un tarlo. Anche la struttura del singolo episodio – che inizia da una fine – e la drastica riduzione della trama di puntata a vantaggio dell’arco narrativo lungo sembrano andare in questa direzione: la morte fisica di per sé non ha rilevanza; ciò che conta è la prospettiva che essa apre ai viventi, la traccia che essa incide nelle loro storie. Doppi di morte Il primo a “tornare” è proprio il padre Nathaniel. Il suo sguardo guida i principali snodi narrativi della serie, che scandiscono la fasi del percorso di formazione dei personaggi, sempre osservati a ridosso di zone di morte, nella ricerca discontinua della loro identità. In apertura della terza stagione, è lui che mostra al figlio Nate, sottoposto a una difficile ope-
Sei ancora vivo. Che cos’è in fondo un po’ di dolore?
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Sentirsi parte dell’universo, non forellino invisibile, ma «docile fibra» razione al cervello, i suoi possibili futuri in universi paralleli tra i quali egli dovrà scegliere. Quando Nate gli chiede: «tu dimmi solo se sono morto, sì o no?», il padre risponde: «Sì … e no. In un posto sei morto, in un altro sei vivo. In certi posti non sei mai esistito». Diventare se stessi, suggerisce Nathaniel, significa rinunciare a possibili doppi di sé, a tutte le vite che vorremmo vivere. E nell’ultima puntata della quarta stagione, è sempre Nathaniel ad indicare a David, che non riesce a superare la paura provocata in lui da un aggressore che lo aveva sequestrato e cosparso di benzina, la differenza tra vivere e sentirsi vivi. Nath.: «Ti aggrappi al dolore come se valesse qualcosa. Non vale un cazzo: liberatene». Dav.: «Va bene, che cosa devo fare?». Nath.: «Puoi fare quello che ti pare, somaro, sei ancora vivo. Che cos’è in fondo un po’ di dolore?». Dav.: «Non può essere così semplice». Nath.: «E se invece lo fosse?». Eppure David sembra aver ragione, e la domanda finale del padre suona come una lontana, per quanto irrinunciabile, speranza: quella di vincere finalmente le proprie paure per nascere alla vita.
Abbracciare la paura Per tutta la quinta e ultima stagione di Six feet under, la paura tormenta David al punto da non consentirgli di vivere serenamente la paternità conquistata con fatica insieme al suo compagno Keith. David si vede costretto ad allontanarsi dalla sua casa, dai figli che ha adottato, dal suo compagno. In un museo di scienze naturali, Keith gli chiederà: «allora sei pronto per tornare a casa?». Non appena David risponde di sì, appare ai suoi occhi l’immagine del suo aggressore, col volto coperto da un cappuccio rosso. Non basta a David averlo affrontato in carcere, fuori di sé. Deve sconfiggerlo in sogno, nella puntata che chiude la serie, vincendo ciò che egli rappresenta dentro di sé, e per giunta di fronte a suo padre, che glielo scaglia contro ghignando. David si lancia sul suo aggressore, lo disarma ed è pronto ad ucciderlo, ma quando gli scopre il volto, si accorge – come accade a William Wilson nel celebre racconto di Edgar Allan Poe – che l’aggressore non è altri che se stesso, la proiezione terrifica delle sue paure: la paura di essere padre, e di voler essere un padre gay; la paura di non poter tornare dai figli adottivi, e quella di tornarci e non essere in grado di crescerli; la paura che la sua morte li renda soli, proprio come la morte del padre Nathaniel aveva reso solo lui. Nel sogno, David abbraccia se stesso, come a sanare una volta per tutte la ferita di
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chi sente configgere in sé l’identità gay con quella di padre. Ogni personaggio della serie sembra aver bisogno del proprio doppio, morto o vivo che sia. Ne ha bisogno per far emergere parti di sé che rischiano di rimanere sepolte, ma anche per mortificare eccessi di vita e di libertà: se è vero che Ruth ha bisogno della sorella Sara, più disinibita di lei, per liberare – o almeno provarci – la propria sessualità e svincolarsi dal ruolo di madre, specularmente Sara ha bisogno della moralità di Ruth per disintossicarsi, per impedire che l’abuso di alcol e droghe la uccida. La specularità tra Ruth e Sara è segnalata allo spettatore mediante un evidente particolare fisico: tutte le volte che Ruth accede alla libertà che ha sempre sognato, i suoi capelli sono sciolti come quelli della sorella. Nell’ultima puntata della serie, Ruth va ad abitare nella casa di Sara, pranza con le sue amiche mentre la sorella è altrove; ne prende, dunque, letteralmente (oltre che metaforicamente!) il posto, ne assume più o meno consapevolmente l’identità. I suoi capelli brillano liberi alla luce del sole. Seconda nascita Nella puntata che apre la quinta stagione di Six feet under una donna sulla quarantina rivela alla sua analista di non riuscire a comunicare ciò che sente alle persone che ama; questo la rende «isolata, invisibile come
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Morire e nascere, guardare con nuovi occhi ed essere se stessi convergono nello stesso piano metaforico, in una grande allegoria della vita. un forellino nel tessuto dell’universo». L’analista le consiglia di esprimere ciò che prova, domandandole che cosa potrebbe succederle di peggio che sentirsi così. Ma è ovvio: morire! La donna inizia ad aprirsi con i suoi cari, e tutto sembra filare liscio fin quando prova a parlare al suo fidanzato, che in preda all’ira, la spintona. La donna si ritrova con un alare per il fuoco conficcato in un occhio, morta; lui la osserva e urla: «ma che ti è saltato in mente?». L’episodio sembra essere concepito da Alan Ball, la mente di Six feet under, per portare allo scoperto la tensione bipolare che innerva tutta la serie e indicare con chiarezza al viewer una nuova prospettiva: la facilità con cui si muore apre gli occhi sulla difficoltà di nascere, sia biologicamente (si pensi agli aborti di Claire e di Brenda, la compagna di Nate), sia sul piano esistenziale. La donna sulla quarantina voleva nascere, ecco che cosa le era saltato in mente: di sentirsi parte dell’universo, non forellino invisibile, ma «docile fibra».
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Il filo sottile che Atropo non ha difficoltà a spezzare, diventa un filo fin troppo tenace, il resistente (e soffocante!) cordone ombelicale che i Fisher faticano a recidere. Nascere è difficile perché, ammetterà Nate, «la vita è terrificante». Alla cieca volontà della Parca di rendere la morte una morte qualsiasi, i Fisher oppongono il tentativo di diventare ciò che sono, affrontando i loro doppi di morte, esponendosi al rischio (mortale, appunto) di appropriarsi della loro vita. Nell’ultima puntata della serie, lo spettatore assiste alla faticosa nascita della figlia di Nate e Brenda. Appena nata, la bambina non respira. L’inquadratura alterna le immagini di difficoltà respiratoria della neonata e l’apprensione della madre: «Perché non piange? Dove la portate?». Segue l’usuale schermata bianca, che annuncia la morte. Ma questa volta lo spettatore rimane spiazzato: accanto al nome, Willa Fisher Chenowith, figura solo la data di nascita. A volte, scrive Šestov nelle Révélations de la mort (1922), «avviene che l’Angelo della Morte, nell’apparire all’uomo per potarsene via l’anima, si accorga di essere sopraggiunto troppo presto. […] L’angelo
A voler immortalare il passato si rischia di mortificarsi in esso
sfiora la sua anima, non gli si mostra neppure; ma prima di dipartirsene, gli lascia furtivamente altri due occhi degli innumerevoli di cui è coperto. E allora l’uomo comincia a vedere, all’improvviso, oltre a ciò che vedono gli altri uomini e vede egli stesso con i suoi vecchi occhi, cose del tutto nuove». Guardando la neonata, Ruth domanda a Brenda, quasi a passarle (per liberarsene, finalmente) il testimone della maternità: «hai visto gli occhi? Sembra che veda molto di più di ciò che vediamo noi». Morire e nascere, guardare con nuovi occhi ed essere se stessi convergono nello stesso piano metaforico, in una grande allegoria della vita: non sfugga a chi ha seguito (o seguirà) la serie che la nascita biologica di Willa è anche il punto di partenza della nascita, altrettanto faticosa, di Brenda come madre. Nate è sottoposto a una seconda operazione e muore. La sua morte apre gli occhi a Claire sul suo bisogno di staccarsi dal nucleo familiare e tentare di divenire l’artista che ha sempre desiderato essere. Claire tentenna sulla porta prima di salutare i suoi familiari, vorrebbe scattare loro una foto, ma Nate le appare affianco dando voce ai suoi pensieri, quelli che la costante e iterata visione della morte ha maturato in lei: «Quello è il tuo passato; non verrà niente sulla foto», come a dire che a voler immortalare il passato si rischia di mortificarsi in esso. Claire parte per il
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suo viaggio. Mentre scorrono una ad una le morti di tutti i personaggi della serie (Claire inclusa), la sua macchina morde l’asfalto, l’inquadratura si allarga e stacca su una strada che si perde lontano. Separandosi dalla
sua famiglia, Claire recide il cordone ombelicale che la teneva imbrigliata, rischiando di soffocarla. Non a caso, quando la madre la sprona a partire, Claire piange. È il pianto del primo respiro.
Andrea Malagamba è dottore di ricerca in Studi di storia letteraria e linguistica italiana e cultore della materia presso l’Università di Roma “La Sapienza”.
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Giuseppe Cascione g.cascione@scienz epolitiche.uniba.it
Emotion versus Reason. La filosofia di House o non sono un tv eater. Qual è, allora, la ragione per cui la serie tv “House M.D.“ mi ha così colpito? Probabilmente è per via del fatto che credo sia un prodotto filosofico. House fa filosofia. Questo non è, o almeno, non credo che sia il motivo del suo successo e della sua popolarità. In effetti sembra si sia aggiudicato la palma della serie tv più amata per il secondo anno consecutivo, e non per via del suo ‘carattere filosofico’. Credo. Probabilmente è amato dal pubblico per molte altre ragioni. Ad esempio è un uomo forte, deciso, in tempi in cui il senso di insicurezza sembra essere insormontabile per chiunque. Ad esempio ha
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“Cosa mi colpisce di lui? Niente, di lui. Mi interessa però immaginare che questo medico di un ospedale americano sia, in realtà, un filosofo sotto mentite spoglie”
sempre ragione, finisce sempre per aver ragione, il che è sempre uno dei più rilevanti fattori di successo, ovviamente. Inoltre è uno di quei contro-eroi a cui da qualche tempo lo show-biz americano ci ha abituati, eroi dei tempi di crisi, gente che cammina on the wild side. Ma io non sono un sociologo e neanche un esperto di comunicazioni di massa o un ‘massmediologo’(!). Quindi non mi interessa questo aspetto di House. Sono piuttosto un modesto studioso di filosofia colpito da questo medico che, in effetti, ‘buca lo schermo’. Cosa mi colpisce di lui? Niente, di lui. Mi interessa però immaginare che questo medico di un ospedale americano sia, in realtà, un filosofo sotto mentite spoglie, tenti, insomma, di proporci un suo proprio sistema filosofico, ancorché frammentario. La sceneggiatura di House M.D. è una sorta di ‘Enciclopedia filosofica in compendio’ aggiornata al terzo millennio. Mi piace leggerlo così, questo personaggio, come un grande esemplificatore di frammenti filosofici, apparentemente poco coe-
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renti, ma, in trasparenza, piuttosto efficaci nel prospettarci situazioni in cui la filosofia è al lavoro. Mente versus corpo Il presupposto per l’azione di House e per la sua teorizzazione filosofica è che vi sia, nella realtà degli individui, una sviluppata polarità tra mente e corpo. Il presupposto è autenticamente cartesiano, alcuni dicono che questo sia il paradigma filosofico che sta alla base della modernità. Non a caso House è un medico radicale, uno che è convinto che tutte le spiegazioni dei nostri stati di disagio riposino nella sfera fisiologica. Un meccanicista convinto che ha in totale disprezzo una disciplina come la psicologia e che rifiuta e ridicolizza tutte le diagnosi basate sul paradigma ‘psicosomatico’. Allo stesso modo di tutti i grandi pensatori barocchi, quelli che hanno, più di ogni altro nella storia della filosofia, sistematizzato il presupposto della scissione mente/corpo, anche House produce una teoria frammentaria delle passioni. La teoria housiana delle passioni House oscilla continuamente tra le passioni della mente e le passioni del corpo. In effetti, come Spinoza, cerca di tenersi in equilibrio tra le due polarità. A differenza di altri, tuttavia, egli non divide le passioni tristi da quelle felici sulla base di un criterio ontologico – cioè basandosi sul fatto che alcune passioni siano di per
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sé tristi o felici – ma sulla base di un criterio, per così dire, quantitativo. Non ci sono, cioè, passioni tristi, ma tutte le passioni possono essere perseguite in modo auto lesivo, dunque triste. L’espressione “I’m miserable” (Io sono infelice) rappresenta lo sfondo su cui il personaggio House si muove, il vero background della sua esperienza umana. L’abuso di alcool o di sesso o di stupefacenti non sono che un modo per controbilanciare quantitativamente l’infelicità della propria condizione esistenziale. Pertanto, sono passioni felici, proprio perché tentano di ristabilire quella neutralità che rappresenta, per House, l’unica condizione a suo modo ‘felice’ dell’uomo. L’altra caratteristica del rapporto di House con le passioni (proprie) è di tipo nietzscheano. Anche House fa del proprio corpo un ‘campo di battaglia’. Spesso sperimenta su se stesso le soluzioni terapeutiche legate alle patologie di cui egli stesso è schiavo. Tenta di spingere sempre più in là il limite della propria conoscenza usando il modo più diretto possi-
“L'altra caratteristica del rapporto di House con le passioni (proprie) è di tipo nietzscheano. Anche House fa del proprio corpo un 'campo di battaglia'”
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“Contro la religione, anzi, contro Dio, House ingaggia una continua battaglia. Egli lotta contro la superstizione” bile, cioè facendo diventare il proprio corpo – ai limiti della scissione – il banco di prova delle ipotesi della propria mente. Non è solo sul piano terapeutico che House svolge questa pratica di abuso della propria ‘res extensa’, ma anche sul piano del proprio stile di vita. Essere al di là delle passioni abusando di esse è necessario per House, a tal punto da non rinunciare agli oppiacei per timore di non riuscire più a controbilanciare lo strapotere della propria mente. Un’ultima considerazione. Si è spesso parlato – e a giusta ragione – della forte somiglianza tra House e Sherlock Holmes, il personaggio di Conan Doyle. Una delle caratteristiche che sottolineano questa somiglianza è l’assonante connubio tra Holmes/Watson e House/Wilson. Le similitudini tra le due coppie di personaggi sono state messe in evidenza più volte, ma vorrei aggiungere una considerazione. In realtà, nel caso House/Wilson, più che di una coppia di personaggi, parlerei, nella chiave di ciò che ho affermato sopra, di un solo personaggio. È come se in realtà House e Wilson esemplificassero, ognuno in modo radicale, quel-
la doppia tendenza che si impone nella modernità tra passioni e ragione. La quarta stagione si conclude con un doppio episodio House’s Head e Wilson’s Heart, in cui tuttavia la narrazione è unica. Insomma, non è possibile immaginare House senza Wilson, perché Wilson è un pezzo fondamentale della dialettica Emozioni/Ragione e senza di lui, l’equilibrio (mentale) di House salta. La medicina come scienza rigorosa Questa neutralità che House ricerca gli è necessaria. Per poter esercitare la propria professione al meglio, House deve riuscire a produrre ipotesi oggettivamente efficaci. L’essenza stessa della scienza sta nel tentativo di produrre soggettivamente paradigmi di funzionamento che abbiamo una validità oggettiva (=più oggettiva che sia possibile). Ma per dare corpo a questo progetto House deve mantenere uno stato di neutralità mentale, una ‘atarassia’ che lo metta in condizione di decidere, senza indulgere verso la parte passionale e corporea e le sue distorte proiezioni. Frammenti di un discorso anti-amoroso Nel quadro di questo distacco dalle passioni del corpo, House non può che rinunciare, in via del tutto preliminare, al mantenimento di un rapporto erotico con gli altri. L’amore, in tutte le sue possibili sfumature, produce fantasmi di cui la mente
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non riesce a liberarsi e che la condizionano verso una valutazione non oggettiva e razionale degli stati di cose. Le scelte compiute sotto l’influenza di questa pericolosa passione del corpo sono invariabilmente inquinate, pertanto non solo sono inutili, ma anche controproducenti. House versus Eros House conduce una fiera battaglia contro l’amore. Il rifiuto di venire a contatto con i pazienti ed i loro familiari è senza dubbio legato a questa strategia tesa a mantenere la purezza della decisione diagnostica/speculativa. Il paziente è vittima della passione più pericolosa di tutte, la paura di morire, passione in grado di invalidare qualsiasi pensiero, qualsiasi decisione. Pertanto i pazienti mentono. La menzogna non è il frutto della malvagità, ma della volontà di ‘perseverare in esse proprio’, di cui ogni singolarità è vittima. House deve mantenersi indenne dal virus erotico anche sul terreno della propria vita privata. La consacrazione della propria esistenza al fine di ascendere, attraverso questo gioco sul filo del rasoio tra la perdita della ragione (follia) e la perdita del corpo (morte), verso una conoscenza più autentica, non ammette relazioni erotiche. House vs. God Ma esiste un’altra passione, devastante quanto l’eros, cioè la fede reli-
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La fede religiosa, come l’amore, travolge la ragione; come l’amore serve a esorcizzare la paura di morire giosa. Anch’essa, come l’amore, travolge la ragione; anch’essa, come l’amore, serve ad esorcizzare la paura di morire. Contro la religione, anzi, contro Dio, House ingaggia una continua battaglia. Anzi, egli lotta contro la superstizione, cioè l’idea che le risposte ai problemi mondani vengano prodotte in una dimensione trascendente. Questa dislocazione indebolisce la ragione nella sua capacità di produrre risposte utili, almeno parzialmente. In fondo la religione, come l’amore, impedisce di salvare vite, quindi è nemica della vita.
L’insonnia della ragione genera mostri House è dunque un razionalista. Un filosofo che cerca tutte le risposte alle proprie domande sul terreno della logica razionale, accettando anche i limiti che la ragione, indiscutibilmente, presenta su diversi terreni. Nonostante sia del tutto insufficiente, pure la ragione è l’unico strumento che sia minimamente all’altezza dei problemi umani. Tuttavia, House non attribuisce troppa importanza
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alla ragione in se, quanto alla capacità della nostra parte razionale di tenerci in equilibrio tra le due derive possibili. Eppure, anche in questo equilibrio difficile, esiste un limite. Quando questo limite viene varcato i problemi che la ragione dovrebbe aiutare a superare, si aggravano.
st’ultimo è sempre un corpo individuato, soggettivo. Come ci accorgiamo dunque che il Vicodin diventa passione triste se il linguaggio, nella sua natura convenzionale, non riesce a render conto di alcuna comprensione esterna del vissuto soggettivo? Ci vogliono prove.
Vicodinologia Il Vicodin serve ad House per riappropriarsi della propria neutralità compromessa continuamente dal dolore. Non possiamo stabilire esattamente in che misura l’uso del Vicodin dipenda dal dolore oppure esso abbia assunto le proporzioni di un abuso, trasformando la passione felice dell’uso terapeutico della droga, nella passione triste della dipendenza. Non possiamo farlo perché – dice House – l’esperienza del dolore è un’esperienza totalmente soggettiva. Essa non è comprensibile ad altri perché è una passione del corpo, del proprio corpo, connessa, pertanto al vissuto di chi la prova. Per quanto il linguaggio permetta la comunicazione, esso tuttavia degenera in fraintendimento quando si trova di fronte alle passioni del corpo, perché que-
Allucinazioni La prima prova/sintomo della degenerazione mentale, della follia housiana è rappresentato dagli stati di allucinazione. Il riscontro oggettivo è facile, in questo caso, poiché basta verificare l’esistenza reale di ciò che la nostra mente vede. All’inizio del percorso filosofico di House, le allucinazioni – che allora potevano essere meglio definite come ‘visioni’ – erano parzialmente utili a risolvere i puzzles. La capacità housiana più sviluppata, in fondo, è l’immaginazione, che, quando è ben indirizzata razionalmente, gli permette di vedere cose che ad altri sfuggono. Vedere la realtà liberandosi dei luoghi comuni, che ne limitano l’analisi oggettiva, in questo consiste gran parte del metodo di House. Ma le allucinazioni non hanno riscontri oggettivi, perché sono prodotti della mente, sono stati soggettivi che si producono attraverso il patologico sdoppiamento della mente da se stessa. In fondo sono i crampi mentali di una mente insonne, che troppo a lungo è rimasta ferma, ripiegata su se stessa, a produrre le allucinazioni.
La capacità housiana più sviluppata è l’immaginazione che gli permette di vedere cose che ad altri sfuggono
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La passione della ragione L’esercizio della ragione serve ad House, in origine, per contrastare le passioni. Tuttavia, ai suoi limiti estremi, questo esercizio trasforma la ragione in passione. Quando questo avviene, vengono meno anche le capacità di resistenza della mente nella propria difesa da se stessa. La ragione, dunque, si trasforma nel proprio contrario. È questo che accade ad House nell’ultima puntata della quinta serie ed è questo che lo spinge – nello stesso modo di un altro filosofo che, come lui, si era avventurato in un percorso filosofico estremo, Nietzsche – ad entrare nel territorio della follia. Ma la storia è appena agli inizi.
Bibliografia di riferimento Andrew Holtz, I casi del Dr. House (titolo originale The Medical Science of House, M.D.), Edizione Sperling & Kupfer, 2007.
“L'esercizio della ragione serve ad House, in origine, per contrastare le passioni. Ai suoi limiti estremi, questo esercizio trasforma la ragione in passione”
Blitris, La filosofia del Dr. House. Etica, logica ed epistemologia di un eroe televisivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2007. Igor Vazzaz, Giovanni Vannini, Dr. House a test. Edizione Alpha Test, collana Quante ne sai?, 2008. Giuseppe Cascione, Zoppicando con il dr. House. Tractatus Vicodin-philosophicus. Progedit, collana Università, 2008. Carlo Valerio Bellieni, Andrea Bechi, Dr. House MD. Follia e fascino di un cult movie. Edizione Cantagalli, 2009.
Giuseppe Calcione è ricercatore di filosofia politica presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari.
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I Soprano. L’estetica quotidiana del male David Chase riesce a guardare dritto negli occhi il male, per descriverlo nella sua agghiacciante normalità" D. Del Pozzo, Ai Confini della realtà
Tony Soprano, un boss in psicanalisi I Soprano hanno sconvolto i luoghi comuni del politically correct più di ogni altra serie fantascientifica e postmoderna, ed il segreto è nella rappresentazione della banalità del male, o meglio della normalità dell’eccesso e del trasgredire. Gli eventi caratterizzanti l’attività mafiosa della famiglia Soprano, sono solo un contesto funzionale per narrare le vicende intime ed i pro-
Tony Soprano è squisitamente un eroe tragico, figura eroica e dannata, combattuta in dualismi irrisolvibili, che creano in lui scompensi psichici
cessi introspettivi di Tony, capofamiglia e boss indiscusso del New Jersey, dove funge da rappresentante delle cosche newyorchesi. Tony Soprano è squisitamente un eroe tragico, figura eroica e dannata, potente ma fragile, ricca di contraddizioni, combattuta in dualismi irrisolvibili, che creano in lui scompensi psichici. Fin dall’inizio si nota il rapporto contrastato con la madre, donna severa e poco affettuosa, che arriverà ad ordire un attentato ai suoi danni, scongiurato da Tony. Edipo non basta a giustificare tale ambigua relazione, anzi paradossalmente sembra quasi che Tony stimi poco la madre e trovi conforto nel ricordo del padre, vecchio boss morto. Anche lo zio Junior, anziano ma determinato capofamiglia è d’intralcio all’ascesa di Tony nelle gerarchie malavitose, e sarà lui stesso in preda ad una follia senile, a sparare al boss,
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che entrato in coma si salverà per poi affrontare una lunga degenza. Lo stereotipo della famiglia italiana viene messo in discussione, così da luogo intimo e rifugio sicuro, si trasforma essa stessa in minaccia costante. Ciò costringerà Tony ad allontanare e addirittura uccidere alcuni familiari, compreso l’amato nipote che sembrava predestinato a succederlo, prima di rimanere vittima di un uso spasmodico di droghe che lo porteranno al delirio onnipotente di voler sostituire Tony. Il rapporto di Tony con le donne, si snoda nei percorsi incrociati con la moglie Carmela e la psicanalista Jennifer Melfi, la madre e le amanti. Con ognuna di loro Tony sembra non riuscire ad essere se stesso pienamente, rispondendo forse alla frattura originaria fra essere e dover essere, che lo rende ambiguo in ogni aspetto della propria esistenza. La moglie è l’angelo del focolare, archetipo della mamma-moglie italiana, che tutto fa e nulla domanda, matriarcale nella gestione della domus, disinteressata a tutto ciò che riguarda affari e mondo esterno. Uno dei momenti più interessanti è stato il temporaneo allontanamento di Carmela da Tony, punito per i suoi continui tradimenti, che la porterà fra le braccia di un professore del figlio Anthony, ricreando l’antico conflitto natura/cultura, istinto/razionalità, forza/intelligenza.
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I due archetipi incarnati da Tony e dal Professore, mettono Carmela dinanzi una scelta esistenziale, ed alla fine accorgendosi di essere stata plagiata dal professore tramite promesse e romanticismi da letteratura di circostanza, capirà l’immoralità insita anche nell’apparente verità della cultura e del sapere. Allo stesso modo è ambiguo il rapporto fra Tony e la sua psicanalista, il vero nodo del serial. Tony è in cura presso la psicanalista, Jennifer Melfi, per guarire dalle sue crisi e dai suoi attacchi di panico. Il rapporto professionale è minato dall’amore che progressivamente Tony si accorge di provare per la donna, sentimento che è mentale ma soprattutto fisico, quasi fosse un tentativo immaginario di piegare il raziocinio di lei agli istinti primordiali che fin dalla sua struttura fisica, Tony trasfigura. La stessa psicologa si troverà in modo speculare al boss, a dover scegliere tra l’istinto e la ragione, quando in seguito ad uno stupro all’uscita del suo studio, pro-
Il Tony Soprano che in casa sta in accappatoio e che fuori gira sempre armato di pistola non evoca il sembiante del mafioso, ma quello del mostro dalla doppia personalità
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“I soprano” ci fanno credere che fra “spaghetti e mandolino” il crimine è un lavoro come un altro verà sulla sua pelle l’inefficienza e l’inutilità delle istituzioni nel difenderla e nel punire il colpevole, e sarà tentata a farsi vendetta tramite il suo corteggiatore/paziente Tony. Tale richiesta di aiuto, si sublimerà solo in un sogno, dove Tony rappresentato come un cane di grossa taglia punirà, sbranandolo, lo stupratore. Jennifer resisterà alla tentazione di giustizia privata, salvata dalle sue convinzioni, seppur momentaneamente traballanti. Un momento chiave della serie è il coma di Tony, in seguito allo sparo dell’ormai semidemente zio Junior. Il suo “viaggio” fra vita e morte, regalerà momenti di delirio onirico molto intensi, in cui sogna di vivere una vita normale, da semplice commerciante, esplicitando la propria natura socievole e sensibile. Tale esperienza lo cambierà molto, umanizzandolo, ma per riaffrontare la realtà ed impersonare il ruolo che gli compete nel “sistema sociale”, si vedrà costretto a (ri)forzare la sua nuova identità per riprendere le redini delle famiglie. In una puntata a causa degli psicofarmaci che è costretto ad assumere, avrà un’allucinazione protratta,
di una donna (Maria Grazia Cucinotta), che gli racconta di essersi trasferita per qualche giorno nella casa confinante quella di Tony. Il boss la invita a cena, dove si intrattiene con la donna, che come lui proviene da Avellino, ascoltando sognante i racconti sulle bellezze della lontana terra campana d’origine. Il ruolo di tale donna sembra quello di una Penelope che narra dell’Itaca all’eroe triste Tony, che in un trionfo dell’elemento Ctono, prende coscienza del profondo ed inconscio divario nato in lui fra radici spirituali e radici familiari, enfatizzando le prime a discapito delle ultime (Mater Terra vs Mater Familae). L’Immaginario dei Soprano nel suo Anagramma Quando si fanno gli anagrammi le possibili combinazioni sono proporzionali all’ampiezza della parola o frase da anagrammare. Ovvio. Le soluzioni più in vista sono legate ad un filo logico con la frase che si sta anagrammando e/o con il suo universo di riferimento, o almeno così è nel mio caso. Nel trovare gli anagrammi del nome del protagonista: “TONI SOPRANO” è stato interessante scoprire come quelli venuti fuori siano legati irreversibilmente all’immaginario del serial: PORTO INSANO, NON SAPORITO, TONI NO SPARO, NON RIPOSATO.
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Porto insano Il porto insano è il New Jersey, terra di italoamericani che delinquono, dei clan, dei siciliani, dei napoletani, dei calabresi. La lingua più parlata è il “Brookolino” un inglese cadenzato italian style (per informazioni chiedete a New York), ville sontuose, grandi fuoristrada e italian restaurant ogni due isolati. Porto perché vi attraccano le famiglie che “ce l’hanno fatta”, quelle che contano, che dopo la gavetta, hanno scalato la piramide e raggiunto posizioni di potere ingenti. Insano perché ciò che hanno fatto, peraltro anche bene, non è propriamente quello che si dice un lavoro pulito. Ma questa è storia nota a tutti tranne che al giudice della corte suprema Samuel Alito jr che ha fatto una pubblica accusa (durante una conferenza all’università del New Jersey) alla HBO (la major che produce i Soprano) accusandola di aver arrecato danno di immagine alla comunità italoamericana del New Jersey in quanto stereotipata – secondo il giudice di chiara origine italica (toh, il cognome finisce per vocale) – come “tendente alla criminalità di tipo associativo”.
Nei Soprano l’elemento conviviale è rito decisionale: decidere la morte altrui
Non saporito Il concetto è legato al cibo: continui banchetti, ricevimenti, talvolta un matrimonio molto più spesso un funerale. L’elemento conviviale, a differenza di alcuni film come quelli di
Tony no sparo Colpi di pistola. Raramente esplosi da Tony, lui è il boss e per quanto possibile evita sempre di sporcarsi le mani. Molto spesso ci pensa Paulie, è lui il killer, la mano, ma la decisio-
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Ozpetek in cui funge da collante cerimoniale, filtro di socializzazione, nei Soprano è rito decisionale. Il cibo, il buon cibo italiano è anche un vizio. Così come è un vizio per gli uomini del serial decidere durante questi banchetti della vita o della morte degli invitati, a seguito di un pubblico sgarbo, di un saluto meno caloroso del solito, di un gesto equivoco. Le donne invece vivono l’elemento conviviale come autocelebrazione dello status socio economico raggiunto grazie alle nefandezze dei mariti, il tutto condito da un italianissimo gusto alla critica dei costumi altrui, in una forma di razzismo estetico. Quasi sempre il cibo non è all’altezza della situazione, la cugina Maria ha il vestito dell’anno scorso e la figlia di Rosa ha la scollatura troppo evidente. Tutte cose che sommate alla pasta, alle polpette e alla pizza fanno molto Italia, anzi Italia in America.
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ne, sempre e spesso anche la voluptas sono del boss. L’impresa di smaltimento funziona così, i materiali vengono gettati e smaltiti a volte assieme ai corpi delle vittime delle “stagioni di pulizia”. Ma Tony non è spietato, ha un briciolo di umanità, poi sta male e si pente. La verità a stento celata è il tentativo di creare un mito del boss dal volto umano, relegando al retroscena le scelte personalistiche e spietate che vengono sempre e comunque dall’indiscusso capo, Tony Soprano. Non riposato È lui, Tony, il boss che non riposa mai. Stressato e in preda all’ansia è costretto ad andare in analisi per sopperire alle sue crisi di panico. È un boss messo in discussione dalla doppia famiglia, quella carnale e quella criminale, quella degli affetti e quella degli affari. Nessuno sa della psichiatra, sarebbe la fine. Come ammettere di essere un debole sapendo che un debole non può comandare. Il Tony Soprano che in casa sta in accappatoio e che fuori gira sempre armato di pistola non evoca il sembiante del mafioso, ma quello del
Tony, il boss che non riposa mai messo in discussione dalla doppia famiglia, la carnale e la criminale
mostro dalla doppia personalità, dello schizofrenico mister Hyde insomma: il che giustificherebbe le sue sedute dalla dottoressa Jennifer Melfi, sennonché il suo mal di vivere è dovuto alla sua difficoltà di essere “uno e bino”, come qualsiasi essere umano diverso da Dio o Batman. La Famiglia o le Famiglie? La morale subliminale del serial comincia a delinearsi allorché Tony viene posto dinnanzi un’ardua scelta: gli affari o gli affetti? Che poi è la stessa cosa che dire il padre-marito o il boss? L’apice lo si raggiunge quando il figlio Anthony fino a quel momento totalmente avulso sia alla vita affaristica che a quella scolastica e in compenso appassionato fruitore di playstation (un ragazzo nella media no?) viene esortato dal padre a trovarsi un lavoro. La risposta che al padre più che come una disobbedienza adolescenziale, suona come un affronto al boss, spinge Tony a sfondare con un casco il parabrezza dell’automobile del proprio figlio a cui intima afferrandolo per la gola: “Anthony…non mi provocare!Domani alle sei e trenta ti voglio fuori di casa!” Partito preso. Gli affari e non gli affetti, la famiglia criminale e non quella carnale. Come biasimarlo, in fondo nel clan ha sempre avuto un ruolo di comando che in casa non è mai riuscito a conquistare e se “u cu-
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mannàri è miegghju du fùttiri” allora ecco che tutto si carica di senso. In questa direzione sembrano andare l’omicidio dell’amato nipote Christofer Multisanti, rivelatosi spia dell’Fbi, ed il massacro di un molestatore della figlia, in cui Tony dà l’impressione di volere reintegrare il proprio stato di capoboss oltraggiato piuttosto che quello di padre omicida per gelosia. Del resto Tony ha odiato fino alla morte la madre, ha pensato pure di ammazzare zio Junior che dal canto suo non ha esitato a sparargli per ucciderlo architettando la sua eliminazione per il bene della famiglia, ha coperto la sorella omicida del proprio marito per solo orgoglio, ha ucciso soci, amici, lontani parenti: una ecatombe perpetrata in uno spirito di regolamento di conti teso a mantenere il grado di boss, qualità prevalente rispetto a quella di padre e parente. Ma è un’illusione. Perché nella mafia il concetto di doppia famiglia non esiste, sono l’una legata inscindibilmente all’altra, e per la transitività non può avvelenarsi l’una sen-
Guerino Nuccio Bovalino è dottorando di ricerca in Comunicazione e Nuove Tecnologie all’Università IULM di Milano.
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Ambientato nel sud d’Italia, Tony avrebbe tentato di salvare gli affetti piuttosto che gli affari za che l’altra ne resti contaminata. “I soprano” ci fanno credere che fra “spaghetti e mandolino” il crimine è un lavoro come un altro, con la possibilità di tenere separate casa e bottega. Probabilmente nell’America di oggi è facile e conveniente sacrificare in nome del profitto legami e legalità ed evincere i sensi di colpa espiandoli con qualche seduta dal primo psicoanalista pronto a darci l’assoluzione. Non in Italia però. Ambientato in un qualsiasi posto del sud della nostra penisola Tony avrebbe cercato con ogni forza di consolidare il suo ruolo in casa e poi quello in cosca e in ogni caso avrebbe tentato di salvare gli affetti piuttosto che gli affari. Come dire, ad ognuno il suo, anzi: il prete ai peccatori e lo psichiatra ai pazzi.
Cesare Furfaro è laureato in scienze della Comunicazione.
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Federico Tarquini federico.tarquini@iulm.it
Desperate Housewives: piccolo mondo postmoderno esperate Housewives è un prodotto televisivo di assoluto interesse ai fini di una riflessione sul rapporto tra media e dinamiche contemporanee dell’abitare. La serie televisiva prodotta dalla Touchstone Television e ideata da Marc Cherry offre un numero considerevole di spunti rispetto a diverse branche dell’indagine sociologica e mediologica. I temi che la caratterizzano coincidono con quelli che da sempre animano il dibattito delle scienze sociali: periferia, devianza, differenze di genere, lavoro, classe sociale. L’attrazione che genera Desperate Housewives, e che ci spinge a proporre una riflessione di questo tipo, sta
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Desperate Housewives ci consegna una narrazione probabilmente capace di spiegare alcuni dei processi più significativi in gestazione nel mondo contemporaneo
nel suo dipingere tali categorie con sfumature del tutto contrastanti dall’idea resa dalle tradizioni scientifiche che le hanno prese in esame. Volendo allargare la prospettiva d’indagine su questa serie è immediatamente evidente come essa rappresenti un curioso ed interessante “figlio illegittimo” dei numerosi prodotti culturali che, dalla nascita della metropoli moderna, hanno posto al centro della propria narrazione la vita in periferia. Per brevità ci limitiamo ad affermare che Desperate Housewives, se messo in comparazione con le produzioni culturali delle tradizioni citate, ci consegna una narrazione probabilmente capace di spiegare alcuni dei processi più significativi in gestazione nel mondo contemporaneo. A tal proposito si proporrà una breve analisi dei due temi centrali nella narrazione di questa serie televisiva, e altrettanto per le scienze sociali: periferia e peccato Periferia. Hic sunt leones “Sul cavalcavia della stazione Tiburtina due ragazzi spingevano un carretto con
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sopra delle poltrone. Era mattina, e sul ponte i vecchi autobus, quello per Monte Sacro, quello per Tiburtino III, quello per Settecamini, e il 409 che voltava subito sotto il ponte, giù per Casal Bertone e l’Acqua Bulicante, verso Porta Furba, cambiavano marcia raschiando in mezzo alla folla, fra i tricicli e i carretti degli stracciaroli, le biciclette dei pischelli ei birroccioni rossi dei burini che se ne tornavano calmi calmi dai mercati verso gli orti della periferia. Anche i marciapiedi scrostati ai lati del ponte erano tutti pieni di gente: colonne di operai, di sfaccendati, di madri di famiglia scese dal tram al Portonaccio, proprio sotto i muraglioni del Verano e che trascinavano le borse piene di carciofi e cotiche, verso le casupole di via Tiburtina, o verso qualche grattacielo, costruito da poco, tra i rottami, in mezzo ai cantieri, ai depositi di ferri vecchi e di legname, alle grosse fabbriche di Fiorentine o della Romana Compensati…” La periferia è stata, sin dalla sua nascita, uno degli elementi della città moderna maggiormente “pensati”. Il numero considerevole di prodotti culturali conservati nelle biblioteche, videoteche ed altri dispositivi della memoria collettiva, ci permettono di proporre tale affermazione, mettendoci inoltre nella condizione di percepire il peso di tali operazioni cognitive, ovvero pensiero e memoria. Pensare la periferia ci svela il meccanismo, e l’inclinazione verticale dei poteri che hanno preso in carico tale necessità, consegnandoci il progetto – nell’accezione che gli viene confe-
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rito in architettura – di città che gli stessi incarnavano nella dialettica centro-periferia. Pensare la periferia da parte degli amministratori locali, degli urbanisti, dei sociologi ed urbanisti, ma anche da parte delle elite colte degli intellettuali, ha partorito l’immaginario capace di ammantare il vissuto di tali luoghi, o, in ultima istanza, di definire l’essere periferico. Il passo tratto da Ragazzi di Vita di Pier Paolo Pasolini ci offre una porzione di vita della periferia romana. Ciò ci permette di comprendere quanto e come fosse determinante il rapporto dialettico con centro del mondo moderno, e come quest’ultimo abbia imposto le sue leggi sui luoghi ad esso periferici. La poetica del sottoproletariato espressa da Pasolini si muove intorno alle figure e agli straniamenti creati dal conflitto tra città storica e campagna, oltre che dai processi di modernizzazione, sintetizzando tutti i significati che tale conflitto ha rappresentato in quel dato periodo storico. È questa, più di altre, l’immagine di periferia che si è imposta nel contesto italiano, al di là delle valutazioni di merito su essa che i tanti
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Non è né la miseria dei poveri né la boria dei ricchi a generare i segreti di Wisteria Lane, semmai tali misteri sono determinati da dinamiche del sentire autori che si sono misurati con essa le hanno destinato È dunque di grande interesse comparare la natura e i connotati di tale immaginario della periferia con l’immagine che di essa viene proposta da Desperate Housewives. È interessante proprio nella misura in cui la periferia, dentro la tradizione saggistica italiana, ha svolto il ruolo di soggetto e oggetto della vita che in essa si esprimeva. La periferia descritta da Desperate Housewives è certamente diversa da tale tradizione, non tanto per le differenze che facilmente possono risultare evidenti, tra tutte l’estrazione socio-economica dei protagonisti e l’estetica dei luoghi, quanto per il venir meno della dialettica centro-periferia come fonte e fine di qualsiasi significato espresso da essa. Wisteria Lane è una periferia che vive al di là del suo rapporto con il centro. Provocatoriamente potremmo affermare che il centro le è totalmente indifferente. Ai fini della narrazione è evidente la rilevanza di tale elemento, poiché esso finisce per caratterizzare le “storie di vita” tratteggiate dalla fiction televisiva. Storie che
dunque vivono oltre le problematiche e le miserie che la lontananza dal centro potevano comportare per il Tiburtino III descritto da Pasolini. Non si tratta neanche dell’inversione di tale prospettiva. Desperate Housewives non sembra descrivere una periferia inversa a quella pasoliniana, cioè ricca sicura e felice, forte del proprio livello socio-economico e di quei standard di ricchezza che fanno la felicità. Come per il suo rapporto con il centro, Wisteria Lane vive un altrove dove le dinamiche del lavoro, e in generale del capitale, non determinano i propri regimi di vita. Così anche il lavoro sembra essere indifferente, o perlopiù accessorio, alle quattro protagoniste di Desperate Housewives, che generalmente ne hanno un’esperienza saltuaria. Esempio massimo ne è il caso di Bree Hodge e dei suoi libri di cucina ed economia domestica. L’altrove dove si svolge il serial è appunto Wisteria Lane, periferia immaginaria della città inesistente di Fairview. Esso determina delle storie di vita, quelle delle quattro protagoniste e delle loro famiglie, sospese rispetto alla cadenza del tempo lavorativo, e non per questo risolte semplicemente nel lusso del non lavoro che la ricchezza può concedere, ne tanto meno schiacciate dall’anomia del loro quartiere di periferia. L’altrove di Wisteria Lane è semplicemente uno spazio regolato dal sentire e dagli umori dei suoi abitanti, ma che non si traduce né in poetiche della periferia, né in critiche di essa.
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Peccato-delitto Il tema del peccato, così come si è visto per quello della periferia, è al centro della narrazione proposta da Desperate Housewives. Già dalla sigla iniziale s’intuisce quanto tale tema determini lo svolgersi degli eventi. L’animazione che introduce ogni puntata si conclude con un’immagine delle quattro protagoniste sotto l’albero del peccato nell’atto di tenere la famigerata mela. E così il peccato, o nella sua accezione mondana il delitto, entra nella vita di tutte le protagoniste e delle persone che orbitano intorno ad esse. Anche la voce narrante che apre e chiude ogni puntata è lì a ricordarci come il peccato sia la fonte di questo serial. La figura del narratore, anch’essa ripescata nelle tradizioni colte europee, appartiene ad un’altra amica del quartetto protagonista suicidatasi nella prima puntata proprio in ragione di un omicidio mai dichiarato. Da lì in poi lo spirito di Mary Alice Young aleggia a Wisteria Lane commentando e introducendo le peripezie delle sue amiche. Così come è stato per il tema della periferia anche il tema del peccato è uno dei tòpoi maggiormente ricorrenti sia nelle tradizioni dell’indagine sociale sia nelle produzioni dell’industria culturale. Possiamo addirittura sostenere che il tema del peccato, ancor più di quello della periferia, è presente nelle narrazioni umane fin dalla nascita dell’uomo stesso. Ci sembra opportuno parlare di
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Il tema del peccato è presente nelle narrazioni umane fino dalla nascita dell’uomo stesso peccato, e non di delitto, rispetto a questo serial proprio perché l’immagine che di esso viene resa non ha a che fare con causalità rintracciabili nelle dimensioni socio-economiche del luogo dove si svolge la narrazione, né tanto meno nelle devianze criminali, figlie dell’intensificazione della vita nervosa, che può patire la mente malata di qualche serial killer. Parliamo di peccato perché le vicissitudini che si susseguono a Wisteria Lane sono sempre determinate da una colpa originale, o da una predisposizione caratteriale dei vari protagonisti, che in maniera ciclica ritornano a gettare nell’inquietudine le quattro amiche e i loro cari. Stupisce il modo in cui omicidi, relazioni extraconiugali, vendette ed altri tipi di reati, entrino ed escano dalla vita delle protagoniste, e del piccolo centro che tradizione vuole sicuro e pacifico. Dinamica, quest’ultima, lontana sia dal ruolo punitivo della legge e delle istituzioni, che dal peso della pressione sociale che nei piccoli centri determina l’inclusione o l’esclusione nel tessuto sociale (Durkheim). Risulta perciò complicato interpretare questo tema con gli strumenti propri al diritto e all’indagine sociale. Ci sembra perciò evidente che questa so-
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luzione narrativa discosti Desperate Housewives dalla gran parte dei testi e dai prodotti che con essa condividono ambientazione e tema, poiché la dinamica che regola gli eventi delittuosi o le devianze risulta essere immanente all’esistenza dei protagonisti di questa serie televisiva, perciò oltre le giustificazioni socio-economiche che generalmente determinano storie simili (si pensi a tutti i generi televisivi e cinematografici costruiti intorno al tema del delitto). In altre parole non è né la miseria dei poveri né la boria dei ricchi a generare i segreti di Wisteria Lane, semmai tali misteri sono determinati da dinamiche del sentire, dalle ragioni del corpo, o dall’istinto carnale che ci rende dipendenti o attratti da un amante o da un componente della nostra famiglia. Il legame sociale descritto in Desperate Housewives è, quindi, di tipo religioso, in ragione di ciò ci sembra maggiormente opportuno parlare di peccato e non di delitto. La metropoli che implode, ovvero lo spazio senza tempo “Vedere Manhattan, dall’alto del 110° piano del World Trade Center. Avvolta
Stupisce il modo in cui omicidi, relazioni extra coniugali, vendette, entrano ed escono dalla vita delle protagoniste
nella bruma sospinta dai venti, l’isola urbana, un mare in mezzo al mare, fa svettare i grattacieli di Wall Street, s’infossa verso Greenwich, riemerge nuovamente fra le creste di Midtown, si placa a Central Park e s’increspa infine oltre Harlem. È un ondata di linee verticali. Un’agitazione che si arresta, per un attimo, al nostro sguardo. La massa gigantesca s’immobilizza sotto i nostri occhi. Si tramuta in una testurologia dove coincidono gli estremi dell’ambizione e del degrado, le contrazioni brutali di razze e stili, i contrasti tra i palazzi edificati solo ieri, e già ridotti a pattumiere, e le irruzioni urbane della luce che sbarrano lo spazio. A differenza di Roma, New York non ha mai imparato l’arte d’invecchiare giocando su tutti i passati. Il suo presente s’inventa, di ora in ora, nell’atto di gettare l’acquisito e di sfidare il futuro”. La sospensione descritta da questo passo di Michel De Certeau è il frammento di tempo e la porzione di spazio che resta invalicabile tra il lettore e il testo scritto. La dittatura del potere onnivedente del panoptico si perpetua nella figura del WTC che nella sua prospettiva totale e totalitaria guarda il quotidiano dall’alto, mantenendo il privilegio di “vedere di più” così come poteva lo schiavo uscito dalla caverna. In basso c’è la nuda vita con le sue trame composte da frammenti di traiettorie costantemente nell’atto di comporre storie molteplici senza autori né spettatori. In basso c’è la vita delle casalinghe disperate. La critica di De Certeau in sinte-
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si s’interessa di dimostrare che “vi è un’estraneità del quotidiano, sfuggente alle totalizzazioni immaginarie dell’occhio”, e che dunque il significato del presente sia rintracciabile anche nel “non sapere” che tali trame molteplici ogni giorno ripropongono sotto lo sguardo panoptico del potere, ormai scevre dall’organizzazione geografica dello spazio. È qui che bisogna leggere l’implosione di tutti i modelli di città che le nostre tradizioni colte ci hanno tramandato – dalla città di Dio alla metropoli ottocentesca – ed è su questa soglia che si pone il significato profondo di Desperate Housewives. Ammettendo che “gli usi dello spazio ordiscono in effetti le determinazioni della vita sociale” possiamo accorgerci che quanto sostenuto intorno ai temi della periferia e del peccato rispetto a Desperate Housewives rappresenti il punto di collisione tra gli statuti conoscitivi e gli esercizi del potere legati al medium della scrittura e l’emergenza delle forme anti-scritturali capaci di dare nuovo significato all’abitare contemporaneo (Abruzzese). E che dunque il “tempo nuovo” che annuncia questa svolta sia simboleggiato, in parte, da questa serie televisiva e dal suo modo di descrivere le relazioni so-
Il serial Tv è il punto di collisione tra gli statuti conoscitivi e l’emergenza delle forme anti-scritturali capaci di dare nuovo significato all’abitare contemporaneo” ciali agite nell’immaginaria periferia di Wisteria Lane. Desperate Housewives incarna proprio questa collisione, poiché dentro il dispositivo televisivo – già di per sé simbolo di tale dinamica – si propone una rappresentazione della vita reale che, nonostante mantenga l’obbligo della sceneggiatura simbolo del potere proiettivo della scrittura, lascia spazio all’emergere delle istanze psicosomatiche ed esperienziali caratteristiche del linguaggio dei new media, e delle loro dimensioni spazio-temporali.
Riferimenti Bibliografici Pasolini P., Ragazzi di Vita, Garzanti Libri, Milano, 2009 De Certeau M., (1990), L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001
Federico Tarquini è dottorando di ricerca presso l’Università IULM di Milano e l’Università Sorbonne di Parigi.
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Gossip girl: giovani risucchiati dalla rete here has she been? It’s Serena... & Who am I? That’s a secret I’ll never tell... You know you love me... XOXO Gossip Girl! Lo skyline di New York fatto di mille luci su uno sfondo nero si mostra nel suo codice digitale e inizia un nuovo episodio di Gossip Girl. C’è molto di Matrix in questa apertura e non potrebbe essere altrimenti perché il canovaccio del racconto è giocato sul doppio registro della metropoli e delle reti digitali. I media hanno risucchiato la realtà e non c’è più modo di comprendere quale sia la matrice. In fondo non c’interessa molto distinguere tra la copia e l’originale, tra il vero e il falso; quello che ci attrae è “la vita scandalosa dell’élite di Manhattan” e per conoscerla dobbiamo affidarci a una blogger misteriosa, Gossip Girl, a cui tutti i giovani dell’ Upper East Side
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Il blog di Gossip Girl è il luogo che crea il legame
inviano informazioni sui propri coetanei e su cui tutti contano per esserne informati. Ogni episodio si apre su New York con la camera che indugia sui simboli della città che dopo anni di riprese hollywoodiane, dopo sei stagioni di Sex and the City, dopo le cronache giornalistiche, sono divenute patrimonio comune. Anche quelli che non hanno mai messo piede negli Stati Uniti hanno l’impressione di essere stati mille volte in quel parco centrale, aver corso con l’ipod alle orecchie, incontrato un amico e bevuto con lui un caffè in quegli enormi bicchieri fumanti. I media mondo Poi si entra nelle case dei protagonisti che appartengono a due mondi diversi: i giovani rampolli dell’isola e i cittadini di Brooklyn; straricchi i primi, più naives i secondi. Ma come in ogni serie che si rispetti esiste un punto di raccordo, da dove nascono tutti gli intrighi, il luogo che, come direbbe Michel Maffesoli, crea il legame: la scuola.
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Ricchi e “poveri” si ritrovano nella stessa scuola, il metaverso che permette l’incontro e il confronto di culture che l’architettura della metropoli e la sua organizzazione economica tengono separate. Se ci fermassimo a questa considerazione Gossip Girl non sarebbe diversa dagli altri cult dello stesso genere come Beverly Hills, Dawson’s Creek, The O.C., e invece chi li conosce non può aver ignorato la discontinuità che proprio questa serie segna nel confronto con le precedenti. Sebbene si ritrovino gli elementi topici di un teen drama, i rapporti d’amicizia, il conflitto con i genitori, il difficile inserimento nelle istituzioni educative, l’amore, e molti altri, per la prima volta questi rapporti sono mediatizzati, si diffondono e invadono lo spazio dei media. La vita materiale e quella nelle piattaforme comunicative s’intrecciano fino a corrispondere. Nessuno dei protagonisti, salvo i genitori che appartengono a una generazione diversa, possono vivere senza il proprio telefonino o senza il computer, senza essere connessi. Nell’episodio diciassette della seconda serie, questo dato emerge in maniera fin troppo evidente. La preside della scuola annuncia a tutti i ragazzi che stanno facendo ingresso nel liceo che l’uso dei cellulari non è più consentito nell’edificio scolastico e tutti gli studenti rimangono esterrefatti, pensando di essere finiti in un brutto sogno.
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Stanno per essere disconnessi dalla propria vita. La scena successiva si apre nel bagno delle ragazze con una studentessa in crisi di astinenza da cellulare, che simula di digitare i tasti di un telefono colpendo solamente aria. I media digitali sono protagonisti a tutti gli effetti della storia, perché rappresentano il territorio in cui essa ha luogo. La rete ha lo stesso valore della metropoli nell’organizzare delle vite dei protagonisti, non si avverte la distinzione tra realtà e virtualità, perché tutto ciò che attiene al virtuale produce effetti terribilmente materiali. Il sito di Gossip Girl viene abitato così come si abitano le strade dell’isola. Ecco quindi il secondo ambiente che produce significato: la rete. In questo luogo, ancor più che nella scuola, i posizionamenti dei soggetti non contano, le identità si frantumano e ciascuno è libero di muoversi nei flussi comunicativi. I media e New York ricoprono in questa serie il ruolo di mondi immersivi, luoghi totalizzanti in cui si fa
I media digitali hanno lo stesso valore della metropoli nelle vite dei protagonisti, non c’è distinzione tra realtà e virtualità
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Dan è ammantato dell’aura, un po’ noiosa, da bravo ragazzo, una sorta di residuo del passato che scompare di fronte alla forza immaginifica di Chuck esperienza di una vita totale, che non ha bisogno di un altrove, dell’esterno, dell’aperto. Dimensioni autosufficienti che sembrano proteggere e allo stesso tempo isolare i propri abitanti. Non ci sono contatti né contaminazioni esterne: un ambiente immunizzato, in cui la vita può esprimesi nella sua piena potenza, senza paura di contagio. Anche gli Humpry, sebbene provengano da Brooklyn, sono abitanti legittimi del medesimo ambiente, sono quella piccola dose virale che il sistema è pronto ad assumere per produrre gli anticorpi necessari. Sono accettati perché non mettono a repentaglio la sicurezza del sistema. Tra nuovi e vecchi giovani Se per la prima volta in una serie televisiva i mezzi di comunicazione assumono un ruolo fondamentale, fino a divenire uno dei tanti protagonisti, il merito è senza dubbio dello straordinario autore, Josh Schwartz, che per dare una rappresentazione corretta degli adolescenti di oggi non avrebbe potuto esimersi dal prendere in considerazione la loro
vita simbiotica con i mezzi di comunicazione. L’ingresso dei personal media nella quotidianità produce una catena di alterazioni nei rapporti umani. In questa serie, ad esempio, sembra scomparire completamente il dispositivo del segreto, che da sempre costituisce un meccanismo vincente nella scrittura di un prodotto audiovisivo. Nel caso di Gossip Girl il blog porta alla ribalta qualsiasi retroscena privato dei protagonisti imponendo una sincerità immediata nei rapporti interpersonali. Per questo i dialoghi hanno spesso una brutalità e una violenza non riscontrabili nelle altre serie televisive, perché la realtà digitale incalza quella materiale e le impone un’accelerazione che rende inutile qualsiasi filtro e fa svanire ogni freno inibitore. Sono lontanissimi i tempi cadenzati di Dawson e Joey, intrappolati nell’irrisolta confusione adolescenziale; a Serena e Blair basta il tempo di un sms per innamorarsi, e un cocktail per dire addio ai sogni di una vita. Gossip Girl racconta anche un altro tipo di cambiamento, messo in scena dal rapporto dialettico che s’instaura tra due figure paradigmatiche: Dan Humphrey e Chuck Bass. Il primo è il figlio di un ex cantante rock, abita in un open space a Brooklyn, ama la lettura e i film d’autore, è introverso, e per questo Gossip Girl lo ha soprannominato “ragazzo
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solitario”. Chuck è un dandy newyorkese, il mito della sua sciarpa lo precede. È il figlio di un magnate dell’edilizia, abita nella suite di un Hotel dal lusso scintillante, adora il divertimento, lo sfarzo, la perversione. Dan è ammantato dell’aura, un po’ noiosa, da bravo ragazzo che fa sempre la cosa giusta, una sorta di residuo del passato che scompare di fronte alla forza immaginifica di Chuck: in costante movimento con la sua limousine frequentata sempre da signorine ben disposte, pronto a perdersi nei meandri del puro piacere. Se Dan è l’ultimo erede di una tradizione ben chiara, quella che nasce con Ricky, passa per Brandon e arriva a Lucas; Chuck è un punto zero nella narrazione televisiva, un epifenomeno. Il suo personaggio è un animale inferocito che prende a morsi la vita, la sevizia e la lascia morente, per decidere, eventualmente, di salvarla, ma sempre e solo per il puro divertimento. Chuck vive secondo un’etica instabile che non si fonda su nessuna morale. È imprevedibile e per questo affascinante. Sebbene la ricchezza e lo stile di vita dissoluto sembrano essere due elementi fondamentali del racconto, l’attenzione non è mai puntata sulle differenze di classe, probabilmente perché la vera ricchezza è data dalla possibilità di vivere a New York e quella di essere always on. Il lusso e i divertimenti sono vissuti con molta naturalezza, senza essere
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I teen drama s’innestano in un meccanismo in cui ciascun medium contribuisce a inserire un tassello nell'infinito puzzle dell'immaginario dell'amore ostentati. In questo Gossip Girl si distingue nettamente da un’altra serie che le è contemporanea 90210, in cui sia studenti che studentesse indossano abiti vistosamente griffati, dando la sensazione di non essere a Los Angeles ma lungo un litorale italiano! I giovani di Gossip Girl sono tutti figli della stessa metropoli, degli stessi ambienti, delle stesse abitudini. Non ci sono personaggi esterni, outsider che possono contaminare il loro stile di vita portando alla ribalta un modello alternativo. In assenza di un occhio in-educato alle loro estetiche, i comportamenti sono spontanei. Non c’è alcun bisogno di affermare una diversità che non sia già inscritta nei propri corpi spettacolari. L’educazione sentimentale Gli immaginari che un teen drama riesce a produrre sono infiniti, perché raccontando la quotidianità degli adolescenti tocca ogni aspetto del vivere umano. Così Gossip Girl è stata in grado di riscrive la grammatica dei giovani di oggi e lo ha fatto
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proprio utilizzando un modello, gli Humphrey, che rappresentano una famiglia “normale” come lo sono stati i Cunningham, i Walsh, i Leare, i Cohen, a cui hanno contrapposto i giovani dell’Upper East Side, che vivono in assenza delle rispettive famiglie. Non conoscono i rapporti verticali tra genitori e figli e ignorano qualsiasi riferimento a modelli valoriali. Quello su cui Gossip Girl non è riuscita invece a intervenire in maniera rivoluzionaria è l’immaginario dell’amore, quello che per molti riesce a orientare, più di ogni altro, la propria vita. I teen drama s’innestano in un meccanismo in cui ciascun medium contribuisce a inserire un tassello nell’infinito puzzle dell’immaginario dell’amore. Così diviene impossibile pensare di poter vivere una storia originale, qualcosa che non sia mai stato scritto prima, perché abitiamo uno spazio striato (Deleuze), in cui le strade percorribili sono quelle tracciate dall’industria culturale. La nostra educazione sentimentale è demandata ai media che ci in-formano: che siano state favole, romanzi di formazione, la grande narrazione biblica, il cinema o le se-
L'industria culturale è un'estensione della nostra mente che amplifica la capacità di reverie
rie televisive, non vi è dubbio che nelle storie d’amore che ciascuno vive è rinvenibile un frammento che abbiamo voluto in quel modo, per corrispondere ai modelli che ci hanno insegnato ad amare. Tutto questo dovrebbe spingerci a domandarci se siamo capaci di sognare (a occhi aperti) qualcosa che non conosciamo. La prova che a questa domanda si debba rispondere in maniera negativa proviene dal fatto che se l’industria culturale è un grande sistema che produce sogni collettivi, questi sogni si sono sempre incarnati in dei corpi umani, conoscibili e riconoscibili. Non siamo dunque capaci di sognare protagonisti inumani, e vale lo stesso per le storie che creiamo nella nostra mente. Anch’esse limitate all’esperienza diretta o veicolata dalle grandi narrazioni mediali. In questo senso l’industria culturale funziona come un’estensione della mente che amplifica la nostra capacità di reverie. Regime notturno Così quando sogniamo (a occhi aperti) prima di addormentarci, in macchina, seduti alla scrivania, produciamo uno sforzo che è solo in minima parte intimo e individuale, perché quello che stiamo facendo altro non è che prendere in prestito una narrazione, a cui abbiamo assistito come spettatori, farla nostra e affezionarci ad essa come fosse un’idea che vive in sé, autonoma e
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trascendente. Ma dopo avere consumato tanti rapporti passionali, raccontati nei modi più diversi, lo spazio di autonomia nella costruzione della propria storia è saturo. Potremmo remixare i comportamenti dei personaggi a cui ci siamo affezionati per ricreare situazioni nuove, ma saremo sempre tentati di andare a pescare in quella bolla che ingloba le nostre vite e che chiamiamo immaginario collettivo. Così il giorno che faremo una follia per amore penseremo inevitabilmente a Peacy che s’innamora della ragazza del suo migliore amico, Joey, e per vivere la sua storia d’amore la trascina nell’oceano per un irripetibile viaggio a bordo di una barca che ha fatalmente chia-
Quando sogniamo ad occhi aperti... prendiamo a prestito una narrazione a cui abbiamo assistito mato True love. E se ci innamorassimo imprudentemente di un’amica di famiglia non avremo bisogno di un ipod per essere ossessionati da quel ritornello: And here’s to you, Mrs. Robinson Jesus loves you more than you will know (Wo, wo, wo). God bless you please, Mrs. Robinson Heaven holds a place for those who pray (hey, hey, hey).
Tito Vagni dottorando di ricerca in Comunicazione e nuove tecnologie presso l’Università IULM di Milano e in Sciences Humaines et Sociales preso l’Université Paris Descartes, Sorbonne. Si occupa di cultura pop, immaginario politico, nuovi media.
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Dalla storia all’attualità Tito Vagni intervista Daniela Cardini
i solito un’intervista inizia dalle sfumature per poi gettarsi nel cuore del tema affrontato. Le propongo un processo inverso, partendo dalla domanda-chiave utile a render conto ai nostri lettori del piano monografico scelto da Pol.is, Immaginario: che cos’è secondo lei, nel modo in cui ha studiato il fenomeno negli ultimi anni della sua carriera universitaria, una serie televisiva? Le serie televisive sono secondo me definibili come prodotti tipicamente statunitensi. Non riproporrei la vecchia distinzione tra serial e serie, quella secondo cui il serial è articolato in episodi chiusi (un esempio potrebbe essere il Tenente Colombo), mentre la serie è a puntate aperte. Questa distinzione è datata e non tiene più per le nuove serie che utilizzano in maniera indistinta i due modelli. Oggi la distinzione più significativa è quella tra telefilm e serie. Nel nostro paese si è sempre parlato di tele-
film; dalla comparsa di questo prodotto seriale nei palinsesti italiani, avvenuta intorno alla fine degli anni Settanta, si parlava di telefilm per identificare un prodotto che stava a metà tra il cinema e la TV, come la serie d’importazione Bonanza, mentre i prodotti nostrani sono stati da sempre chiamati fiction. Il telefilm identifica un prodotto di importazione molto connotato dal punto di vista temporale. Telefim è quel prodotto d’importazione che nasce negli anni ‘60-‘70 e arriva fino a una prima parte degli anni ‘80. L’idea di serie è molto più moderna e attuale. Se domandassimo a degli adolescenti parlerebbero tutti di serie e quasi nessuno di telefilm. Il telefilm ha un portato che identifica un’appartenenza generazionale molto specifica, probabilmente potrebbero essere i genitori di quegli stessi ragazzi a parlare di telefilm.
il telefilm ha un portato che identifica un’intera generazione
L’industria culturale italiana sembra aver prediletto da sempre dei racconti a sfondo amoroso. Si potrebbe quasi individuare un filo rosa che par-
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Intervista a Daniela Cardini a cura di Tito Vagni
te da Carolina Invernizio e arriva ai Cesaroni. Negli altri paesi europei, penso in particolare a Francia e Inghilterra, i prodotti seriali hanno sempre esplorato le questioni sociali. Come si spiega questa distinzione? Esiste una differenza ed è molto profonda. I fattori che potrebbero spiegarla sono molteplici. Il realismo della fiction anglosassone, di tipo europeo, ha delle radici che possono aver a che fare con un ruolo diverso delle Trade Union, un ruolo diverso dell’impegno sociale e anche del ruolo della politica. Così come la serialità francese ha un’attenzione al particolare che però non è quasi mai pettegolezzo, o lo è molto raramente; è più analisi di situazioni sociali che non racconto di situazioni sociali con degli occhiali rosa, e queste, se vogliamo fare una ricostruzione storico-sociale veloce, sono le istanze della rivoluzione francese che si trascinano fino ai giorni nostri. E anche l’idea del feuilleton o del romanzo a puntate di Dickens, l’idea quindi di serialità francese e anglosassone, nascono da una radice interessante, non necessariamente centrate sul rosa. In Italia invece accade l’inverso e le ragioni sono molteplici. Una potrebbe essere che in mancanza di un’unità politica, di un paese coeso, di istanze realmente unificanti, il terreno più semplice per incontrarsi fosse quello delle relazioni: relazioni tra uomo e donna, questioni peraltro attraversate da istanze morali che coinvolgeva-
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no anche la Chiesa e il Cattolicesimo. Poi, ovviamente l’appeal di queste storie su un pubblico analfabeta, con poca scolarità e con poca presa sulla politica è molto alto. Del resto la consapevolezza sociale non è un’istanza che contraddistingue gli italiani. Quello che però mi sentirei di dire è che forse tra il nostro paese e gli altri che citava è la funzione sociale del pettegolezzo a essere diversa. Nel senso che nella cultura anglosassone e nella sua traduzione in ambito televisivo il pettegolezzo non occupa lo stesso spazio che occupa in Italia, o meglio ha una sua esplicitazione in certi canali e certa stampa, ma forse non ne fuoriesce. Mentre nel nostro paese il pettegolezzo pervade ogni ambito perché forse non ha un suo ambito di pertinenza mediatica. In Gran Bretagna il tabloid svolge questa funzione, esso è il luogo del pettegolezzo, che non deve essere stigmatizzato perché ha anche una sua funzione sociale in quanto è una straordinaria modalità di passaggio delle informazioni, di costruzione della morale e di circolazione dei valori. Non ha soltanto caratteristiche negative, ma in contesti diversi dal no-
L’appeal delle storie amorose è molto alto su un pubblico analfabeta, con poca scolarità e presa politica
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Dopo Dallas il sistema televisivo italiano acquisisce un modello televisivo mutuato dagli Stati Uniti stro ha ambiti di circolazione e codificazione specifici. Nei palinsesti di tutto il mondo dominano da un lato le serie di provenienza statunitense e dall’altra serie autoctone, non esistendo un prodotto europeo capace di attrarre una audience transeuropea. Secondo lei le ragioni vanno ascritte a quello che alcuni definiscono imperialismo culturale? Se prendiamo in considerazione gli anni ’80 sono convinta che sia stata un’epoca caratterizzata da un vero e proprio dominio culturale. C’è un linguaggio che attraverso le serie e i film americani s’impone. Personalmente lo faccio partire da quando Dallas entra nel nostro orizzonte culturale, perché dietro quel prodotto sta una logica televisiva che fino a quel momento non era mai esistita, una logica commerciale. In quel momento il sistema televisivo italiano acquisisce un modello televisivo che non ci apparteneva e che viene mutuato dagli Stati Uniti. Però è altrettanto vero che l’imperialismo culturale relativo alle serie odierne non ha più molto senso, perché c’è un processo d’incorporazione, di vera e propria di-
gestione dei contenuti statunitensi. È palese la difficoltà con la quale abbiamo accettato di avere dei grossi debiti con la cultura statunitense; a tal proposito dovremmo ricordare che la serialità televisiva statunitense nasce dal cinema di Hollywood, quindi dal cinema di consumo, ed è a quel modello a cui noi dobbiamo far riferimento quando parliamo di imperialismo culturale televisivo. Il nostro errore è quello di vedere una contrapposizione televisione/cinema che non ha ragione di essere, perché almeno le origini della serialità a cui noi siamo abituati è molto più cinematografica che radiofonica o televisiva. La grande forza della serialità americana sta proprio in questo. Beautiful ad esempio è visto come l’emblema della serialità deteriore proveniente dagli Stati Uniti. Nel mio libro dedicato alla serialità televisiva ho tentato di spiegare come invece esso sia un prodotto pensato per l’esportazione. Beautiful è un prodotto che nel mercato americano non funziona, ma è riuscito a raggiungere il suo scopo visto che la messa in onda quotidiana è vista da duecentocinquanta milioni di persone nel mondo, che non dobbiamo considerare degli idioti, perché sono mossi da ragioni profonde che spiegano il loro interesse per un prodotto culturale del genere. Poter arrivare a produrre un oggetto così trasversale, depurato da connotazioni locali, ma comunque rappresentativo di un modello, è
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Intervista a Daniela Cardini a cura di Tito Vagni
un’operazione di tutto rispetto dal punto di vista di chi studia queste cose. Poi ciascuno è libero di esprimere il proprio giudizio, che però appartiene al gusto soggettivo.
La serie non è più un racconto con un inizio e una fine, ma è un magma che si realizza su più vettori
Fino a questo momento abbiamo parlato di televisione e di serialità, ma il modo di fruire questi prodotti da parte dei giovani, che sono i maggiori consumatori di serie televisive, rischia di mettere in crisi alcuni punti fermi del nostro ragionamento. Cosa cambia nella serialità con la massiccia diffusione di internet? Per me la novità dei supporti che consentono una diversa fruizione sta proprio in una differente forma testuale. Oggi la serie non è più fruibile con le logiche di un palinsesto generalista, con un appuntamento cadenzato, ma deve essere fruita come un testo completo. Si scarica l’intera serie e se ne fa indigestione. In Italia possiamo scaricare delle serie televisive sapendo che nel paese d’origine sono molto avanti, e abbiamo la certezza di avere ancora molto da vedere. È molto interessante, invece, quello che accade negli USA. Lì una volta che la serie si è conclusa si affermano delle modalità bulimiche di copertura di questi vuoti determinate dal fatto che se lo spettatore non consuma quella serie perché è oggettivamente finita cerca immediatamente qualcosa che le assomiglia molto o che possa soddisfarlo alla stessa maniera. Questo, dal punto di vista della produzione e dell’incontro tra do-
manda e offerta è straordinario. È un meccanismo che genera una serie incredibile di spinoff, di contaminazioni, è un magma creativo formidabile. Il cambio di testualità che ho appena descritto è stato definito da Stefania Carini con l’epressione “testo espanso”, io preferisco parlare di “testo flusso”. La serie non può più essere considerata un testo discreto, un racconto con un inizio e una fine, ma è un magma, un flusso in cui la segmentazione tipica della serialità non avviene più in un’unica dimensione lineare, realizzandosi invece su più vettori. Una serie può essere proiettata avanti nel tempo, si può collegare un episodio con quelli precedenti o con altre serie, lo si può rivedere infinite volte, ecc. Lo spettatore continua a costruire il proprio testo che non è soltanto una serie, un’unica stagione o una puntata; è un processo potenzialmente infinito, che cela però l’ossessione dalla necessità di chiudere questa esperienza. È come se lo spettatore fosse il protagonista di un gioco di ruolo e ciascuna serie lo chiamasse a esperienze e competenze molteplici. Le modalità di fruizione assomigliano molto alle sessioni di gioco, è come se lo spettatore ogni
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qual volta si pone di fronte ad una serie non solo fruisce di una serie ma anche di tutte quelle possibile che le stanno intorno. Tutto questo meccanismo la televisione tradizionale non riesce a darlo più, è relegata ad un ruolo di ri-visione di episodi o serie che ho già visto molte volte e molto tempo prima. Come spiega l’attenzione che molti intellettuali dedicano oggi alla serialità televisiva, mettendo un po’ da parte un’altra grande forma narrativa come il cinema? Personalmente mi occupo di serialità da molto tempo, ma è vero che oggi c’è una moda che coinvolge le serie televisive. Nell’ultimo periodo registro un aumento dell’attenzione nei confronti della serialità che secondo me è proporzionale all’aumento della qualità dei prodotti. La seconda età dell’oro delle serie televisive statunitensi, quello che stiamo vedendo oggi con i vari Lost, Desperate Housewives, Grace anatomy, ha un momento d’inizio che coincide grossomodo con la fine degli anni ‘90 e l’inizio del 2000. È un periodo caratterizzato da una straordinaria vitalità produttiva e da una qualità mai
Le serie di nuova generazione esplorano territori fino a poco fa appannaggio del cinema
avuta prima. Questo grazie soprattutto al fatto che negli Stati Uniti le serie televisive sono prodotte dagli stessi attori che producono cinema e musica, e una tale sinergia ha contribuito all’aumento di qualità dei prodotti che tecnicamente hanno degli elementi di pregio che in televisione non sempre si sono visti: sono utilizzati degli attori ottimi, contrattualizzati per il cinema ma che non lavorano più, e con loro tecnici, registi, costumisti presi dal cinema. La ragione di questo passaggio è molto semplice: il cinema non è tanto redditizio quanto lo è la televisione. Anche da un punto di vista della produzione d’immaginario, le serie di nuove generazione esplora dei territori fino a poco tempo fa appannaggio del cinema. Il corpo, il sesso, la morte, in tutte le sue forme e manifestazioni possibili, l’ironia e l’esorcizzazione della morte, la cosmesi, il tentativo di renderla fruibile. Nel libro a cui sta lavorando individua alcune serie archetipali su cui si innestano tutte le serie successive. Quali sono queste serie e secondo quali criteri le ha scelte? Credo che le serie di questa seconda golden age di cui tutti parlano, anche chi della fiction fino a qualche anno fa non voleva neanche sentir parlare, e definiscono questi prodotti come delle opere d’arte, siano realmente prodotti di qualità. Ma quello che a me preme sottolineare è che
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questi prodotti incensati dalla critica, anche da quella più highbrow, hanno delle radici profondissime che partono da un periodo collocabile intorno agli inizi degli anni ’90, circa venti anni fa, quando invece gli stessi osservatori rispetto a quei prodotti storcevano il naso. Io parlo di Dallas in primo luogo, che è la madre di tutte le serie. Il suo avvento ha modificato radicalmente tutti i nostri palinsesti. Twin Peaks è invece la prima serie d’autore, la prima volta in cui il cinema si sporca le mani in maniera decisa con la televisione o meglio, David Lynch decide che può fare bene la televisione quanto il cinema. La televisione d’autore è un ossimoro e con Twin Peaks viene fuori molto bene perché anch’esso è un ossimoro: c’è dentro di tutto, il protagonista è molto strano, è un detective che ricorre alla science fiction. Poi c’è ER che ha rivoluzionato il medical drama, cambiando alcuni codici e, in particolare, facendo vedere i corpi, la malattia: un effetto realtà determinato da situazioni tecniche molto precise. ER svela il privato del medico, ma soprattutto il malato, il corpo. E poi Beverly Hills che è stata la prima soap per ragazzi. Quindi un genere pensato per delle casalinghe – se sono mai esistite – si trasla in un contesto generazionale totalmente differente, dando visibilità a questa generazione. La quinta serie di cui parlo è Sex and the city che ha
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Le serie di questa seconda golden age sono realmente prodotti di qualità avuto il merito di portare in televisione il linguaggio delle relazioni tra uomo e donna. Molto importanti sono stati anche i Simpson. Dopo i Simpson niente è più stato uguale, l’idea è stata geniale. Per scegliere queste sei mi sono basata sul grado d’innovazione, quanto hanno innovato rispetto a quelle che le hanno precedute. Qualsiasi serie della nuova ondata ha nelle sei serie il proprio genitore, mentre per quanto vogliamo scavare non troveremo mai i genitori di quelle sei.
Daniela Cardini Docente di Teoria e tecniche del linguaggio televisivo presso l’Università IULM di Milano. Ha collaborato alla realizzazione di numerosi progetti di ricerca sui temi della comunicazione televisiva, del consumo mediale e dei processi comunicativi. Attualmente lavora sul tema della serialità nei media, con particolare attenzione ai rapporti tra aspetti produttivi e narratività nel linguaggio televisivo. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Letture sulla televisione (2007), La lunga serialità televisiva. Origini e modelli (2004).
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NUOVA SERIE
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- anno 2 - n° 3 - luglio/agosto 2009
pol.is per la riforma della politica e delle istituzioni
per la riforma della politica e delle istituzioni
ALBERTO ABRUZZESE – Università IULM di Milano ROBERTO ALIBONI – Vice Presidente Istituto Affari Internazionali SEBASTIANO BAGNARA – Università degli Studi di Sassari-Alghero LUCIANO BENADUSI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” SARA BENTIVEGNA – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ALBERTO BENZONI – Politologo ITALO BOCCHINO – Deputato al Parlamento LORENZA BONACCORSI – Regione Lazio GUERINO NUCCIO BOVALINO – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano DANIELA CARDINI – Università IULM di Milano GIUSEPPE CASCIONE – Ricercatore Università di Bari ROBERT CASTRUCCI – Assegnista di Ricerca, Università degli Studi Roma Tre FABRIZIO CICCHITTO – Presidente del Gruppo Popolo della Libertà alla Camera MASSIMO DE ANGELIS – Politologo RUBENS ESPOSITO – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” SERENA FERRARA– Ricercatrice, Laureata in Scienze della Comunicazione CESARE FURFARO – Ricercatore, Laureato in Scienze della Comunicazione MAURIZIO GASPARRI – Presidente del Gruppo Popolo della Libertà al Senato PAOLO GENTILONI – Deputato al Parlamento ANTONIO LANDOLFI – Presidente della Fondazione Giacomo Mancini ANDREA MALAGAMBA – Dottore di Ricerca Università degli Studi di Roma “La Sapienza” PAOLO MANCINI – Università degli Studi di Perugia MAURO MICCIO – Università degli Studi Roma Tre ALESSANDRO PAPINI – Università IULM di Milano EUGENIO PROSPERETTI – Avvocato, Dottore di Ricerca Università di Roma Tor Vergata GAETANO QUAGLIARIELLO – Senatore della Repubblica RUBEN RAZZANTE – Università Cattolica di Milano VITTORIO ROIDI – Giornalista STEFANO ROLANDO – Università IULM di Milano PAOLO ROMANI – Vice Ministro alle Comunicazioni MARIA LUISA SANGIORGIO – Corecom Lombardia SERGIO SCALPELLI – Vice Direttore Pol.is FRANCO SIRCANA – Vice Direttore Pol.is BRUNO SOMALVICO – Associazione InfoCivica VINCENZO SUSCA – Università di Parigi “La Sorbonne” FEDERICO TARQUINI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano TITO VAGNI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano VINCENZO ZENO-ZENCOVICH – Università degli Studi Roma Tre
Direttore Enrico Manca
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Paolo Romani Paolo Gentiloni Fabrizio Cicchitto Maurizio Gasparri Gaetano Quagliariello Italo Bocchino Alberto Abruzzese Paolo Mancini Vincenzo Zeno-Zencovich Ruben Razzante Maria Luisa Sangiorgio Mauro Miccio Vincenzo Susca Giuseppe Cascione
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ISBN 978-88-95923-31-4
€ 15,00 www.bevivinoeditore.it - www.pickwick.it
www.pol-is.it Spedizione di stampe in abbonamento postale di cui alla lettera C) del comma 2 dell’art. 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 862