LETTERE ALLO PSICOANALISTA
«Gentile professore, sono una giovane donna, ho un lavoro, una relazione eppure mi accorgo di essere ossessionata dalla vita degli altri. Faccio un uso smodato di Facebook cercando amici e amiche per vedere cosa fanno e soffrire nel vedere che sembrano avere una vita migliore o più serena della mia. Perché ho questa ossessione che non mi fa vivere bene le mie relazioni con l'altro? Grazie». Lettera firmata
LA VITA DEGLI ALTRI
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di Francesco Frigione
Gentile lettrice, la ringrazio per l’occasione che con la sua lettera mi offre di toccare un tema fondamentale della contemporaneità: il rapporto tra “mondo esterno” e “mondo interno” nella società iperconnessa. Lei racconta di essere giovane, di possedere un lavoro e di poter contare su una relazione sentimentale stabile; malgrado ciò non si sente soddisfatta: qualcosa la spinge a cercare ne «la vita degli altri» una risposta al suo desiderio di felicità, di cui le sembra, invece, che loro godano. Mi permetta di guardare all’orizzonte che la sua inquietudine indica: lei anela a una condizione in cui il senso delle cose non trova riscontro nel tipico giudizio di facciata “hai tutto: cosa vai cercando?”; l’angustia che prova la mette sulle tracce di qualcosa di sé, di un processo volto al compimento interiore, che attende una risposta. Solo che lo cerca in una dimensione che la confonde e la «fa soffrire», poiché da essa, così distorcente e sfuggente, non potrà mai ricevere un’adeguata risposta.
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Il suo dolore può oggi, però, indicarle la strada per una trasformazione psichica che attende di essere partorita, un’iniziazione a una dimensione più ricca, matura e profonda di sé.
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Mi torna in mente, per associazione con la sua espressione «la vita degli altri», la splendida pellicola di Florian Henckel von Donnersmarck (“Le vite degli altri”, 2006), che narra di un inflessibile capitano della STASI, la polizia segreta della DDR, al quale viene ordinato di spiare una coppia di noti artisti, per incastrarla e distruggerla.
Seguendone nascostamente la vita intima, però, il capitano Gerd Wiesler scopre una realtà opposta alla sua – desolata e triste - una realtà intrisa di sensibilità affettiva e di amore per la libertà e la cultura. Nell’uomo, fin qui inconsapevole ingranaggio di un sistema repressivo e persecutorio, si produce un cambio radicale: attraverso coloro che dovevano essere le sue prede egli intuisce di aver incontrato il nocciolo più profondo e vivo di se stesso, qualcosa di negletto e nascosto ai suoi stessi occhi, che lo entusiasma e commuove. Tenta di difenderlo, allora, dalla crudeltà e dall’infamia di un potere malefico, anche a costo di perdere tutto. Ed è in questo modo che egli riscatta la propria umanità.
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Ma nel suo caso, l’incontro con la comunità virtuale non l’aiuta, poiché il circuito gioioso che lì è in mostra in effetti non esiste, è un’illusione, una mistificazione, un esorcismo. Ciò che lei vagheggia appartiene, invece, alla sfera del suo desiderio personale, del quale esclusivamente lei detiene la chiave.
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Quello che descrive, dunque, è un rapporto con “le vite degli altri” mortifero, che non schiude a nulla. Non a caso adopera un termine riguardo a ciò: «ossessione». Come se ogni tentativo frustrato la inducesse a riprovare con più disperazione. È come se lei, ogni volta, sollecitasse l’attenzione di una persona amata che la respinge guardando sempre altrove.
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Il sostantivo “ossessione” ci parla infatti delle pratiche “ossidionali”, cioè le manovre con cui si mettevano sotto assedio le città. Vi trapela la forte tensione che lei sperimenta per la volontà insoddisfatta di fare breccia in un muro, da una parte, e dalla minaccia immanente e continua di essere violata nella propria serenità, dall’altra.
Ogni esperienza veramente erotica viene pertanto schiacciata dal peso di questo assedio, il godimento autentico è precluso nell’ossessione. Ad assediarla 7
è proprio la parte di sé ideale che lei non trova e che vede riflessa in questo magmatico “universo degli altri”.
Infatti, le esistenze virtuali a cui si rivolge confluiscono, confuse e seriali, in una sola indifferenziata entità collettiva, un tappeto di volti, voci, gesti, sull’istante eccitanti e ognuno all’apparenza meritevole di attenzione, ma presto deludenti, incapaci di recarle alcun conforto e gioia. Tutto quel che le rinviano è invece una beffarda mancanza: quella della felicità.
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La moltitudine indifferenziata degli “amici” di Facebook, in effetti non le indica alcun “Altro”, nulla che la rimandi al suo proprio segreto essere, al suo specifico daimon, che attende risposta nell’ombra.
Lei si affaccia da una finestra virtuale e non scorge che il suo desiderio riflesso in mille specchi, “proiettato” sullo sconfinato mare degli “altri”. Più osserva gli altri e più si smarrisce.
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Nell’opera teatrale A porte chiuse (1944), Jean Paul Sartre affermava: «l’inferno sono gli altri»! Alludeva al dolore che comporta lo scontro con le coscienze altrui; ma noi, oggi, in un mondo di connessioni tecnologiche costanti e superflue, che cancellano l’esperienza intima e profonda del contatto e si prestano a mille manipolazioni, possiamo attribuire all’espressione un valore inverso: oggi ci danniamo per l’inconsistenza della coscienza degli altri, per l’inutilità di comunicare con loro, perché i nostri sensi saturi di immagini non trovano nulla, perché l’altro non ci rimanda al mistero che noi stessi siamo.
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Gli “amici” di Facebook, o di Instagram, di What’s up ecc., non sono persone con le quali realmente scambiare amore e dolore, stima e comprensione, essi diventano, per la realtà del mezzo e aldilà delle loro effettive qualità personali, meandri di un labirinto, dal quale bisogna uscire, come Teseo, rinvenendo il proprio personale “filo di Arianna”.
Il questi casi, il lavoro psicologico rappresenta lo strumento di eccellenza per realizzare l’obiettivo di riappropriazione della propria esistenza.
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Nei termini della psicologia di Jung, infatti, spesso la soluzione a questo genere di problema consiste a bilanciare gli eccessi imposti dall’orientamento “estroverso”, il quale indirizza l’individuo verso ciò che è percepibile nell’immediatezza del mondo esterno, o verso quanto è omologato da un’approvazione sociale indiscussa e conformista.
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Questa disposizione, da sola, raramente conduce ad una effettiva realizzazione umana e inganna gli individui promettendogli riparo dal dolore del conflitto con la dimensione collettiva. L’estroversione, lasciata alla guida incontrastata della personalità, la piega al puro adattamento al mondo così come si presenta. È un errore tragico. Ma è facile cadervi, poiché nella nostra cultura, l’approccio “introverso” - imperniato sull’accentuata soggettività dell’esperienza e del pensiero - viene considerato al pari di un misfatto o per lo meno di un difetto, un fattore di inferiorità psichica.
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Il lavoro terapeutico rappresenta allora uno spazio di condivisione, dove l’analizzando/a si addestra a lottare contro il pregiudizio degli altri e la parte piÚ superficiale e spaventata di sÊ.
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La” profondità” non è, di fatti, una realtà preesistente alla quale attingere, ma una prospettiva che si adotta rispetto all’esperienza, aggiornandola costantemente, un tipo di sguardo creativo e poetico sulla realtà, nel quale si esprime lo stile assolutamente unico del soggetto, che combatte contro il terrore della propria vulnerabilità e il “fantasma” dell’abbandono affettivo e sociale.
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Man mano che egli/ella scoprono il senso di sicurezza che assicura l’inclinarsi verso la profondità , sfuggono alla morsa dei comportamenti compulsivi, al peso delle costrizioni, allo stritolamento delle angosce fantasmatiche.
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Ascoltare con sollecitudine le voci del “mondo interno” scioglie dunque gli individui dalla ripetitività dei comportamenti e dal conformismo del pensiero, spingendoli alla scoperta di relazioni affettive, intellettuali, etiche, spirituali veramente nuove. Non è il clamore esteriore, la vistosità degli atti, che in quel caso assume importanza, ma la convinta, serena, salda approvazione che viene dall’interiorità del Sé. Senza dubbio l’approccio psicoanalitico, così poco appariscente, così legato alla sfera dell’intimo e dell’invisibile, rappresenta l’esatto opposto dei valori della cultura dominante, dove la comunicazione perde il suo senso di scambio di ricchezze immateriali (cum munera, in latino), capace di erotizzare e spiritualizzare l’incontro con l’altro, e viene sospinta a forza da un sapere tecnologico dispotico al godimento immediato e nell’imbuto 17
del profitto materiale. Ma proprio per questo, oggi più che mai, l’approccio profondo appare salvifico per il soggetto, che soffre nel piegarsi al “pensiero unico” di un mondo robotizzato, a un’immaginazione codificata e catalogata dai motori di ricerca e dalle piattaforme virtuali, le quali esigono che sia snodo sempre acceso di un consumo potenzialmente infinito.
Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. 18
Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
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