NOSTALGIA E IDEALE

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LETTERE ALLO PSICOANALISTA

Gentile professore, dopo aver partecipato a un suo seminario sulla nostalgia, mi sono chiesta quale ruolo questo sentimento abbia nella mia vita, rispetto agli scopi sempre incalzanti che mi prefiggo e al mio senso di eterna insoddisfazione. Grazie al suo parlare di Ulisse, poi, ho ritrovato interesse e curiositĂ per quella figura, che era diventata per me soltanto uno sbiadito ricordo scolastico. Lettera firmata

NOSTALGIA E IDEALE Ulisse nel suo viaggio millenario verso l’individuazione

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di Francesco Frigione

Ulisse significa in Latino “l’irritato”. Si tratta dell’appellativo che Livio Andronico - il primo traduttore delle gesta dell’eroe omerico – gli attribuì per assonanza con l’originale greco “Odisseo”. Ma anche un altro motivo spinse il poeta tarantino (280 a.C. circa – 200 a.C. circa) a questa scelta: “Ulisse” si avvicinava infatti a uno dei tanti risvolti etimologici del nome ellenico, il verbo ὀδύσσομαι (“io sono odiato”), che nella sua forma attiva si rivela come “io odio”. Infatti, Ulisse è artefice dell’inganno realizzato dagli assedianti achei ai danni di Troia, importante centro dell’Asia Minore. Proprio attraverso un astuto riferimento iconico alla suprema divinità dei mari e dei terremoti Poseidone, che protegge la città, Ulisse - che sa odiare con la freddezza e l’acume tanto cari ad Atena - ha ingegnosamente suggerito ai compagni di edificare un grande cavallo di legno (animale sacro appunto al dio marino), nel quale si 2


sono nascosti cento tra i più valorosi dei combattenti greci; questi, una volta introdotta la scultura entro le mura nemiche, nottetempo aprono al resto del proprio esercito le porte della città e ne sterminano la popolazione maschile, violentano e mettono in ceppi le donne, depredano le ricchezze, bruciano e radono al suolo le case, i templi, i palazzi. Pertanto Odisseo sa come e quando indirizzare il suo odio, trattenendolo nel momento in cui potrebbe diventare impulso esasperato, ma esprimendolo con ferocia quando gli è consentito, come avviene nell’orgia di sangue del ventiduesimo capitolo del poema, in cui massacra i Proci, pretendenti della moglie Penelope.

Al contempo, egli è l’oggetto dell’odio incessante di Poseidone, al quale, durante il viaggio di ritorno a Itaca, acceca anche uno dei figli, il gigante antropofago Polifemo. L’avversione indissolubile e l’intimo rapporto che corre per tutta l’Odissea tra il suo protagonista e Poseidone acquisiscono un maggior spessore psicologico se approfondiamo le altre etimologie del nome “Odisseo”, oud-eis, ovvero l’essere “nessuno”, - così come l’eroe urla derisoriamente a Polifemo, dopo essere sfuggito alla sua ira omicida - e odos – ou, la “strada”, il percorso rituale e iniziatico, eseguito come una danza labirintica da Ulisse nel 3


poema e, addirittura, oltre quegli stessi confini, nell’arco di tutta la storia della cultura occidentale ...

Il fatidico nome “Odisseo”, inoltre, sembra provenire da quello dell’antico dio del mare della Caria, non a caso una regione anch’essa, come Troia, dell’ Asia Minore. La Caria fu conquistata dai popoli indoeuropei ellenici, che ne assimilarono alcuni aspetti culturali e religiosi, integrando il culto di Odisseo a quello di Poseidone. Ecco che ci imbattiamo in un conflitto storico, antropologico, religioso e politico che, generazione dopo generazione, è stato interiorizzato dagli individui di cultura greca, e da loro è stato trasmesso a noi: parlando psicologicamente, chi è Ulisse se non una potenza sotterranea e fluida e sfuggente come l’acqua (“dal multiforme ingegno” è il ricorrente epiteto che Omero gli riconosce), in eterno conflitto con se stessa? Essa, inizialmente pare dibattersi tra una forma arcaica rispondente a un pantheon pre-greco, di natura matriarcale, e una forma, la greca, più recente e appartenente a un pantheon schiettamente patriarcale. L’acquisizione di quest’ultima condizione ai danni della prima, conduce la figura di Ulisse nel dominio della nostalgia, lo spazio psichico dove, come indica l’etimologia greca, 4


prevale il “dolore del ritorno”, un sentimento potente al quale l’eroe non può sottrarsi, ma a cui deve trovare necessariamente una soluzione creativa, pena il regredire a una morte civile a una cecità e a una ferocia pre-storica. La soluzione di Ulisse consiste nel rivelarsi a se stesso, nell’iniziarsi: egli scopre di essere una creatura indomabilmente desiderosa di conoscenza, che si umanizza solo perfezionando la ricerca degli aspetti sconosciuti dell’amore e dell’odio.

Il suo cammino all’indietro verso Itaca implica in realtà un cammino in avanti verso l’ignoto, e la sua nostalgia di un porto sicuro contiene esattamente l’opposto: la propulsione ad abbandonarlo per un altro approdo. Ulisse si affaccia all’abisso della realtà dell’uomo interamente proiettato nella storia e nel divenire; reca in sé un tormento, figlio della sua Ybris, come definivano gli antichi la smisurata ambizione, la folle smania di procedere, tappa dopo tappa, verso l’assoluto. Una volta tornato in patria, quando potrebbe finalmente riposare dalle sue lunghe fatiche, invece, con un pugno di compagni, deciderà di riprendere il mare, esattamente come gli aveva predetto negli inferi il veggente Tiresia.

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Ed è in questo orizzonte di dannato titanico e che s’inscrive la figura dell’Ulisse dantesco, il quale tiene la sua “orazion picciola” ai compagni” per incitarli a spingersi oltre ogni limite, fino a che essi arriveranno a scorgere la smisurata montagna del Purgatorio, ossia i fondamenti della creazione divina stessa, della natura spirituale e sovrumana, oltre cui diventa esperibile la grazia del principio immobile, la scaturigine di tutto ciò che è caduco, transeunte, fenomenico: Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza (Dante Alighieri, Commedia, Inferno, canto XXVI, vv. 118 – 120).

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A questo polo ultimo del desiderio, a questo Eden, però, il Dio di Dante non concederà all’eroe di accedere, facendolo miseramente naufragare; segno che questa aspirazione umana, se ne rivela da una parte l’essenza straordinaria, ne mostra anche il limite strutturale, il suo aspetto critico. Lo stesso che impone alla coscienza il sentimento della nostalgia. Questo sentimento, a sua volta, origina dal desiderio di ricongiungersi a una totalità miticamente perduta, preverbale e pre-storica, la cui assenza distrugge e richiama, attraverso una seduzione meravigliosa o letale, a seconda di come l’essere umano si rapporta al suo canto di sirena.

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Tutta

l’esistenza

psicologica

dell’individuo

si

consuma

in

un

viaggio

d’iniziazione verso la scoperta della propria effettiva natura, dunque: esso parte dalle acque materne per confluire nei fiumi dell’Averno.

Nell’Ade l’uomo scopre la propria realtà psichica, il valore e allo stesso tempo l’inconcretezza delle immagini che lo muovono interiormente, come accade a Ulisse che per tre volte cerca di stringere tra le dita l’ombra della madre scomparsa, ritrovandosi a palpare soltanto il vuoto di una larva. In ciò consiste l’eccezionale apprendistato iniziatico dell’eroe: nel buio dell’Erebo, egli impara a riconoscere le immagini psichiche, andando aldilà dell’apparenza concreta, delle contingenze e dell’immediato. Sarà non a caso l’unico degli eroi achei a potersi ricongiungere felicemente a quanti aveva lasciato: il vecchio padre Laerte, il figlio Telemaco e la moglie Penelope.

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Tutto ciò gli sarebbe stato impossibile senza il congiungimento con l’Anima, che nel poema trova la sua collocazione in isole sconosciute: Calipso (“Colei che nasconde”) e Circe, innanzitutto, anch’esse oceanine, divinità marine e rappresentanti la duplicità del potere del femminile: donatore di vita e di morte. Senza l’incontro erotico con queste potenze all’eroe non sarebbe sfuggito ai pericoli di altre entità distruttive femminili, come le Sirene e i mostri paralleli di Scilla e Cariddi. Le isole sono luoghi dove, a livello archetipico, si proietta la dimensione ideale dell’anima, proprio per il loro porsi aldilà dalle rotte più consumate dalla quotidianità storica. Il mare che le contorna è come un grembo pregno di eros. Contemporaneamente l’isolamento dal mondo, la chiusura viene a rappresentare, nella fantasia dell’essere umano, un limite soffocante, come quello che può provare una vita che non riesce a emergere dalla sua condizione di feto, che non può sfuggire alla morsa di una materia cieca e sorda ai suoi bisogni evolutivi.

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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.

Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it

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