LETTERE ALLO PSICOANALISTA
Gentile Professore, sono un tifoso del Napoli e lunedì ho esultato per la vittoria che ha portato la mia squadra in testa alla classifica; non accadeva da venticinque anni, cioè dai tempi di Maradona e del secondo storico scudetto. Nella partita con l’Inter, però, ho visto qualcosa che mi ha suscitato una certa inquietudine: in vantaggio di due goal e in undici contro dieci, per l’espulsione di un avversario, il Napoli ha perso terreno e fiducia, rischiando seriamente di farsi raggiungere. Le dichiarazioni di esperti commentatori e del bravissimo allenatore Sarri, intervistato nel dopopartita, mi hanno confermato che la squadra ha avuto paura di ritrovarsi così in alto e di perdere tutto, e proprio per questo ha sbandato. Essendo lei uno psicologo che lavora con i gruppi, cosa mi sa dire in proposito? Lettera firmata
SUCCESSO E PAURA DELLA SCONFITTA
di Francesco Frigione 1
È difficile parlare di un gruppo del quale non si ha direttamente il polso, per cui, nel farlo, rischio di compromettermi con affermazioni o troppo caute o troppo imprudenti; eppure l’argomento è stimolante e io accetto la “sfida” che lei mi lancia.
Ho assistito anch’io alla partita vinta dal Napoli sull’Inter e, in generale, concordo con la sua opinione e con quella dell’allenatore Sarri, sebbene sia lecito pensare che anche lui si sia lasciato intimorire dalla prospettiva di perdere il vantaggio e abbia involontariamente accresciuto l’ansia dei propri giocatori con dei cambi estremamente difensivi, compiuti quando la squadra aveva cominciato a smarrirsi. Questo accadeva dopo un lungo periodo di dominio del Napoli sull’avversario e mentre l’Internazionale dimostrava, con grande personalità, un’indomita voglia di rimonta.
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Il calcio è uno sport avvincente perché richiede non solo organizzazione tattica, strategie di gioco, preparazione atletica, caratura tecnica dei protagonisti, ma anche capacità psicologica di gestire la frustrazione, la paura, il desiderio sfrenato di avere la meglio sull’altro; richiede coraggio e lucidità, accortezza e slancio. Esige, in breve, autostima, entusiasmo e maturità. La prontezza è, infatti, assolutamente diversa dall’impulso scriteriato; l’istinto, il cosiddetto “fiuto”, è ben altra cosa rispetto a una scarica muscolare scervellata.
Inoltre, i calciatori di una squadra vincente, per quanto eccelsi, non vincono mai da soli i campionati o le coppe, ma se li aggiudicano perché s’integrano in una complesso che funziona bene. A sua volta, la squadra che ha successo 3
poggia sulle spalle di una società sportiva competente e abile, che le consente di concentrarsi sui propri obiettivi e la protegge da fattori di disturbo esterni.
In questo senso, se mi passa la comparazione, l’organizzazione societaria ben funzionante opera come un “padre sufficientemente buono” – parafrasando la terminologia di Donald Winnicott - che consente alla coppia “madrebambino” di vivere la propria “luna di miele” affettiva, scaricando all’esterno fantasie mentali distruttive che sorgono nel proprio rapporto.
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Società, trainer e capitano della squadra debbono, poi, filtrare la relazione con i tifosi e l’ambiente cittadino, dato che è fondamentale per i giocatori sentirsi amati rappresentanti di una comunità. Insomma, è necessario edificare un solido setting intorno al gruppo - John Bowlby direbbe “una base sicura” che consenta alla squadra di affrontare in modo ottimale il proprio compito.
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Naturalmente, i giocatori non compongono un gruppo orientato allo sviluppo affettivo, come avviene in un ambito psicoterapeutico; sono, come affermerebbe Wilfred Bion, un “gruppo di lavoro” - cioè volto a uno scopo e dotato di un leader -, un gruppo il cui “assunto di base” è eminentemente bellicoso, ossia di “attacco-fuga”. Una squadra di calcio è, insomma, il succedaneo di un manipolo di guerrieri e il rito domenicale nel catino degli stadi assicura al pubblico una purificazione emotiva, che sostituisce quella cruenta delle antiche arene, dove i gladiatori erano costretti a darsi reciprocamente la morte.
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Nel calcio però, per buona sorte, domina prioritariamente la dimensione del gioco, il quale esprime la componente più erotica dell’essere umano, la sua capacità di provocare meraviglia, gioia, entusiasmo, mettendo la natura del corpo al servizio dell’arte. Ed è per tale motivo che questo sport, anche prescindendo dal giro di affari vertiginoso (e spesso inquinante), che lo pervade e ne accresce l’invadenza ogni giorno di più nelle nostre case, vanta un seguito viscerale e spontaneo in ogni angolo del pianeta. “Essere squadra” implica, comunque, non solo scorrere come un meccanismo oleato che obbedisce a schemi tecnici predefiniti, ma divenire un gruppo consapevole nel “qui e ora” del gioco, cosciente dei propri mezzi e dei propri limiti, capace di funzionare come un corpo sapientemente amalgamato, come un’orchestra nella quale ogni ruolo, ogni “timbro”, concorre a un risultato finale comune, a un’armonia, persino nella sconfitta.
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E proprio a partire da essa che si costituisce la forza del gruppo vincente. Una squadra è, in definitiva, un organismo vivo alla continua ricerca della propria identità psicologica. E ciò ci riporta finalmente al tema della sua lettera, gentile lettore: i segni di una possibile “acrofobia” del Napoli, ovvero dell’angoscia di precipitare in basso, avvertita quando ci si ritrova molto in alto.
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Come c’insegna Sigmund Freud, la forza paralizzante di una fobia deriva dal suo esprimere un conflitto tra due spinte: la paura dell’altezza deriverebbe, dunque, dall’anelito conscio di raggiungere grandi risultati, a cui è sotteso l’inconscio impulso a fallire miseramente. Il quesito che conseguentemente si pone è: cui prodest? “A chi giova” un insuccesso, la cui motivazione risiede in reconditi anfratti della psiche? Ci si spalancano così i misteri dell’apparente irrazionalità del comportamento umano (individuale e collettivo) e della sua complessità, dato che, immediatamente, dobbiamo pensare a noi stessi come a un teatro di perenni conflitti, spesso invisibili.
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Solo presupponendo la compresenza di livelli e componenti distinte e autonome in individui, gruppi, organizzazioni e comunità - che noi, consuetamente, saremmo tentati di concepire come entità monolitiche, piatte e unitarie - possiamo comprendere la difficoltà a cui deve far fronte chi cerca di conseguire un successo. Per definire il punto della questione dobbiamo conoscere alcune cose fondamentali sulla realtà psichica dei gruppi, soprattutto su quella che sfugge all’immediata comprensione della coscienza. Prima di tutto dobbiamo considerare che i gruppi sono composti da membri che condividono legami, dei quali sono solo in minima parte consapevoli; per il resto li tengono insieme immagini inconsce portatrici di vissuti affettivi potenti e sovente incontrollabili.
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Emozioni, idee, sentimenti, sono in gran parte veicolati da questi processi immaginativi “archetipici� (Carl Gustav Jung), laddove il gruppo si trova ad affrontare un percorso che lo riconduce a delle prove fondamentali del suo percorso di consolidamento e affermazione. La lunga lotta di adattamento e sopravvivenza che i piccoli gruppi umani hanno dovuto sostenere contro un ambiente naturale potenzialmente ostile, popolato di predatori e di simili ostili, ha forgiato una memoria istintuale del pericolo e della voglia di predare, capace di riattivarsi in qualunque momento si ricreino nel gruppo delle condizioni mentali estreme.
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Come dimostra lo sconvolgente film di Stanley Kubrick Full Metal Jacket (1987), alcune organizzazioni – ad esempio l’esercito (particolarmente se i suoi componenti vengono addestrati a combattere un nemico che non minaccia la patria) – tentano di strumentalizzare la naturale tendenza dei gruppi a sfuggire il conflitto interno per sentirsi, piuttosto, minacciati dall’esterno. La disciplina crudele e la coercizione sadica servono in quei casi a distruggere l’integrità psichica delle reclute per farne una “macchina” schizo-paranoide, dunque, terrorizzata dal proprio terrore e incapace di provare emozioni, che non siano l’odio per il nemico. I soldati, pertanto, si trasformano in un ordigno umano pronto a massacrare senza alcuna pietà chiunque sia loro additato come avversario.
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L’esistenza del nemico, come spiegava Franco Fornari nel suo Psicoanalisi della Guerra, consente di liberarsi da un eccesso insopportabile di oggetti mentali persecutori e autodistruttivi presenti nel gruppo e assurge a simbolo stesso del male, attraverso il meccanismo di difesa inconscio della proiezione.
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Questo discorso ci conduce, a sua volta, a una visione della mente individuale e gruppale dominata da svariati “oggetti mentali” che, secondo Melanie Klein e i suoi epigoni, rappresentano il frutto della “introiezione” (il mettere dentro di sé) di funzioni psichiche fondamentali nella storia infantile, come l’essere nutriti, calmati, protetti da sovrastimolazioni e da fattori traumatici, accuratamente interpretati nei disagi e nei bisogni, insomma avviati a un sano sviluppo psicofisico.
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In un certo senso, la vita inconscia di gruppo comporta sempre una regressione a queste fantasie primordiali, così come – lo ricorda Didier Anzieu – il gruppo stesso riverbera costantemente, mediante la sua forte presenza fisica, alla sua capacità contenitiva delle emozioni, quella realtà primordiale di “Io-pelle” che caratterizza il rapporto tra madre e infante. Ma accanto a queste fantasie positive ce ne sono altre disturbanti, spaventose, angoscianti, che corrispondono all’introiezione di esperienze negative, a carenze o aggressioni.
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Fantasie psichiche di natura assai diversa possono quindi coesistere nell’uomo e nei gruppi, in base al tipo di esperienze “introiettate” nel tempo. Per tanto, sani processi “narcisistici” (Heinz Kohut) che tendono a compattare la personalità, donandole un benessere basato sulla protezione dalle esperienze troppo penose e dal mantenimento e lo sviluppo di quelle positive, si possono accompagnare all’azione di “nuclei narcisistici distruttivi” (vedi Herbert Rosenfeld; Andrè Green) che, al contrario, attaccano dall’interno la personalità degli individui e prendono piede nelle fantasie di gruppo.
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È con tali processi che, probabilmente, deve fare i conti adesso il Napoli, da tanto tempo assente dalla vetta della classifica. È una compagine adorata e osannata dalla tifoseria che, come cittadinanza, vive una critica trascuratezza e versa nell’oblio feroce a cui da decenni è condannato l’intero Sud Italia. La legittima aspirazione alla felicità e l’apertura alla speranza possono scatenare l’invidia interna di elementi che, piuttosto che inseguire il successo, rispondono automaticamente al terrore d’incorrere in tragiche delusioni, in devastanti cadute, e che, per tale motivo, paradossalmente, cercano di procurarsele da sé. Questi nuclei, occulti alla coscienza, tendono a gestire illusoriamente il dominio su di una sofferenza già data per certa, sabotando le forze positive e tentando di anticipare la sconfitta dall’interno.
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Maurizio Sarri, Aurelio De Laurentiis, tutti i componenti dello staff tecnico e della società sportiva, e persino la collettività dei tifosi, dovranno pertanto sostenere i calciatori messi a confronto con questa complessità psichica; se ciò accadrà, la squadra del Napoli, incrementando i meriti sin qui dimostrati sul piano del gioco e della determinazione, riuscirà, con buona probabilità, a fortificarsi ulteriormente, provando (e provocando nei tifosi) il piacere della vittoria finale.
Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di 18
specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
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