CIBARSI DELL'ERBA MOLY L’incontro trasformativo tra Odisseo e Circe nel segno di Hermes di Francesco Frigione
EATING MOLY HERB by Francesco Frigione
Sinossi Nel X Libro dell’Odissea, Hermes dona a Ulisse l’erba Moly, come antidoto al ciceone, bevanda rituale dei Misteri Eleusini, che Circe usa come filtro magico per trasformare in maiali l’eroe e i suoi compagni. L’Autore vede in questo episodio un’iniziazione psicologica al confronto con l’Anima e ai misteri dell’unione erotica tra maschile e femminile. Questo percorso schiude addirittura un ulteriore discorso: la nascita stessa della metafora come phàrmakon, che allontana l’essere umano dalla ritorsione vendicativa e dalla ricerca di un “capro espiatorio”.
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Abstract In Book 10 of Odyssey, Hermes gives to Odysseus the Moly herb to protect him from kykeon, a ritual drink of Eleusinian Mysteries, that Circe uses to bewitch and turn into pigs the hero’s companions. The author interprets the episode as a psychological initiation to the comparison with Anima archetype and to the mysteries of the erotic marriage among masculine and female principles. The article develops a new concept: the birth of metaphor as phàrmakon, a remedy that helps the human being to reject vengeance and the search for a "scapegoat".
Parole chiave Cibo, Omero, Odissea Libro X e Libro XI, erba Moly, ciceone, Ulisse, Circe, Hermes, Mercurio, iniziazione, Nòstos, pharmakós, sacro, pozione, veleno.
Key-words: Food, Homer, Odyssey Book 10 Book 11, Moly herb, kykeon, Ulysses, Circe, Hermes, Mercury, initiation, Nòstos, pharmakós, sacred, potion, poison
«Studierò l’orizzonte che si schiude, la scansione dei colpi della pioggia, per dissolvermi in un racconto più grande delle nostre vite, del mare, del sole.» t1 Derek Walcott
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Derek Walcott, Nelle vene del mare – IV, da «Prima Luce»: 31 – Egloghe italiane, Adelphi x Corriere della Sera, Milano, 2009 - p. 213. 4
Una premessa mitologica Il vero eroe è un iniziato ai misteri dell’Eros e della Morte. Egli è perennemente doppio ed estremo, pervaso di luce solare e di oscurità infera. È vittima e massacratore che, in un momento apicale del percorso di vita, sperimenta il mistero e se ne nutre. Si eleva allora oltre la ripetitiva oscillazione tra i due ruoli ferali a cui sembrano costringerlo il cieco istinto e l’organizzazione psichica e culturale precedenti. Ma chi è etimologicamente l’eroe? Colui che muore e rinasce nel segno della “Grande Dea” Hera, il cui nome significa semplicemente “Signora”, “Regina”. Se, dunque, siamo avvezzi al troneggiare di Hera nella celeste dimensione olimpica a fianco di Zeus, dobbiamo anche inseguirla nel mondo nascosto dello Zeus infero Ade, dove
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riveste i ruoli di Persefone ed Ecate, quest’ultima maestra di magie e incantesimi.
Apprendiste di Ecate sono sia Medea che Circe, tra loro nipote e zia. Circe, protagonista del X e dell’XI canto dell’Odissea è appunto il personaggio chiave dell’iniziazione di Ulisse ai misteri della conoscenza, e, contemporaneamente, è anche una “ninfa”, ovvero un essere vergine rispetto al coinvolgimento erotico che, scopre proprio grazie a Odisseo, il quale, assistito da Hermes, condivide con lei l’esperienza dell’amore. 6
Tornando a Hera, vediamo come essa esprima, per i Greci antichi, il carattere della “sposa” e conosca le arti sovrane ma anche tragiche del potere. È da lei che il coniuge deriva la sua regalità, una conquista storicamente lenta, opaca e costellata di sacrifici cruenti, se seguiamo la lezione del grande mitografo Robert Graves2.
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Robert Graves, I miti greci, Longanesi, Milano, 1963/2015. 7
Un’appropriazione - quella maschile – che giunge dopo migliaia di anni di civiltà agricola, in pieno matriarcato, quando finalmente emerge la correlazione tra coito e gravidanza. I segni dell’affermarsi - sempre incerto e periclitante - del nuovo sistema religioso, sociale e psicologico patriarcale sull’organizzazione simbolica matriarcale appaiono ovunque nelle mitologie, anche in quella greco-romana. E l’Odissea di ciò reca costante testimonianza. La figura stessa di Ulisse, nell’origine e nel vagare, si pone a cavallo tra queste due condizioni e dunque ne incarna il simbolo.
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Ci segnala Károly Kerényi3 che, così come Hera arriva a investire del proprio potere simbolico il marito, altrettanto può attentarvi quando il consorte le sfugge. Nella “Sposa”, infatti, si scatenano allora perfidia e violenza, poiché subisce il tradimento: il sentimento di vergognosa umiliazione che nasce da questa insolente indipendenza del coniuge dal potere che lei stessa gli ha conferito, possono giungere a scatenare la distruttività più totale, come nella vicenda di quella sfaccettatura segreta di Hera che è Medea. Questa premessa introduce la sostanza vera e propria dell’articolo l’analisi dei caratteri di Ulisse, di Circe e di Hermes; l’iniziazione ai misteri della 3
Károly Kerényi, Figlie del Sole, Boringhieri, Torino, 1949 -2014.
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conoscenza ultima della condizione umana compiuta dall’eroe omerico; e la funzione simbolica, in un contesto sacrificale, svolta dall’antica bevanda iniziatica chiamata “ciceone”, che Circe adopera come sortilegio stregonesco, a cui si contrappone il mercuriale antidoto dell’erba Moly.
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Odisseo/Ulisse Il nome greco Odisseo ha un etimo incerto: plausibilmente deriva dal verbo ὀδύσσομαι (“io sono odiato”), che ci rammenta come l’itacese, così caro ad Atena, fosse inviso ad altri dèi - tra cui, in particolare, lo Zeus tellurico e marino Poseidone - e agli uomini, soprattutto ai Proci, pretendenti alla mano di Penelope, la fedele moglie dell’eroe.
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Questa masnada di nobili arroganti, insediatisi nel palazzo reale di Itaca, divorano i beni di Odisseo e ne umiliano il giovane figlio Telemaco, durante i dieci anni che il re impiega per riapprodare in patria. Considerato nella forma attiva, invece, il verbo ci conduce al lucido e tagliente odio per i nemici che guida Odisseo nell’assedio di Troia e durante le peregrinazioni del ritorno, culminanti, appunto, nel bagno di sangue finale dei Proci.
Scavando più a fondo nella remota origine del nome, colpisce però anche il fatto che esso provenga dalla Caria, una regione costiera dell'Anatolia Occidentale. “Odisseo” lì si chiamava un dio marino, il quale, quando gli Ioni sottomisero il territorio, fu assimilato alla figura proprio di Poseidone. 12
Il cerchio allora si chiude: l’odio tiene Odisseo avvinto simbioticamente alla sua dimensione arcaica, che sempre lo attira in maniera regressiva a sé nell’inconscio; ed è da questo sottofondo oscuro e avviluppante che l’eroe cerca di separarsi con un colpo di spada o, come Apollo Pizio, saettando uno dei suoi strali.
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Allo stesso tempo è egli stesso quella freccia scoccata dall’arco, che sempre più si allontana nella penombra e nell’oscurità della coscienza, fino all’Aurora, e che oltrepassa i confini di Oceano, il serpentino mare- cielo che 14
circonda la Terra e introduce all’origine e alla fine di ogni cosa.
Così l’ha giustamente inteso Dante4 nel Medio Evo, immortalandolo nella sua inesauribile spinta sino alle pendici del Purgatorio, e così lo ha sviluppato Kubrick5 nella contemporaneità, quando, riconducendolo all’inestricabile
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«Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza». È la famosa “orazion picciola” tenuta da Ulisse ai suoi compagni, in Dante Alighieri, Commedia, Inferno, canto XXVI, vv. 118 – 120. 5
Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio, epocale e insuperato film fantascientifico del 1968. 15
impasto di Discordia e Armonia che struttura l’uomo e il cosmo, gli fa superare la stessa condizione umana e lo unisce all’ineffabile Grande Intelligenza creatrice.
In Omero, dunque, la funzione trascendente6, in grado di risolvere il conflitto intestino di Odisseo, si profila nell’Ade, quando egli scopre il suo “Daimon”7, il carattere più autentico e profondo della propria personalità.
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Vedi la definizione che dà del concetto Carl Gustav Jung in Due testi di psicologia analitica, Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino, 1982 – 1993, p. 81: «Fare i conti con l’Inconscio comporta un processo o, a seconda dei casi, anche una sofferenza o un lavoro, cui è stato dato il nome di funzione trascendente, trattandosi di una funzione che si fonda su dati reali e immaginari e irrazionali, e che getta quindi un ponte sul solco che separa la coscienza dall’inconscio. È un processo naturale, una manifestazione dell’energia che si sprigiona dalla tensione tra i contrari, e consiste in una successione di processi fantastici che emergono spontaneamente in sogni e visioni». 7
Cfr. Aldo Carotenuto, La chiamata del Daimon, Bompiani, Milano, 1989.
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La verità gli viene dischiusa dallo spettro oracolare di Tiresia, che gli annuncia il suo futuro visitare terre sconosciute e remote, anche dopo aver compiuto il ritorno, e la fine distante dalle sponde natie. Infatti, in questo consiste l’autentica rivelazione dell’indovino tebano, nell’XI Canto: che l’errare è per Odisseo non l’effetto semplicemente di un Fato avverso e di un insormontabile malanimo divino, quanto piuttosto la realizzazione di un destino superiore, l’entelechia immanente alla sua personalità. Tale ipotesi appare tanto più credibile in quanto le indicazioni pratiche per proseguire il Nòstos Odisseo le riceverà, invece, ancora una volta da Circe, rincontrandola proprio dopo la sconvolgente avventura infera.
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In sintesi, dobbiamo concludere che il nome “Odisseo” ci conduce senza dubbio a un conflitto - antropologico, storico, culturale e spirituale – e, sul versante intrapsichico, alla lotta fantasmatica tra una forma antica e rimossa e una più recente ed “egosintonica” dell’identità dell’eroe. Si tratta di un conflitto in grado di annientarlo definitivamente, se egli, giunto proprio a un passo dalla disperazione e dalla morte, non approdasse sull’isola Eea, terra di Circe.
L’incontro con la dea-maga, mediato da Hermes, azzera e fa ripartire il suo viaggio. Qui si prepara e si conclude l’iniziazione di Odisseo alla sua natura più intima d’individuo e di uomo. E il passaggio vede la simbolica del cibo assumere una forte preponderanza. Ad essa torneremo presto, parlando di Circe e di Hermes.
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Considerando, infine, le ulteriori valenze del nome “Odisseo” non possiamo omettere altri due aspetti convergenti con il senso riscontrato fin ora: il suo essere “nessuno”, oud-eis - così come urla beffardamente al crudele gigante Polifemo - progenie di Poseidone - dopo averlo accecato (Canto IX), e il concetto di “strada”, ovvero di percorso rituale, odos – ou. Entrambi evocano la persona dell’iniziato, che lungo il percorso si spoglia della propria identità, per assumerne una universale e, in essa, ritrovare la radice più soggettiva e personale di un piano psichico e spirituale superiore.
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Odisseo è infatti un uomo di avvedutezza e di astuzia geniali, ma, contemporaneamente, come tutti i suoi coevi, un essere feroce, un pirata, un rapinatore, un assassino. Il suo orizzonte più greve è la depredazione e la rapacità, sebbene a essa venga spinto chiaramente dalla pressione collettiva più che da un’attitudine personale. Questo carattere in nuce spiritualmente superiore del personaggio emerge chiaramente dall’episodio, raccontato da Igino8, della coercizione che egli subisce a muovere contro Troia, dato che vorrebbe sottrarsi alla campagna ordita da Agamennone e Menelao.
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Gaio Giulio Igino (64 a. C. – 17 d. C.), Fabulae. 20
L’eroe si finge pazzo agli occhi dei Greci venuti a ingaggiarlo: aggioga al carro un bue e un cavallo e semina sale lungo i solchi scavati dall’aratro nella sabbia, delirando frasi insensate.
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Cerca, così, d’ingannare il re eubeo Palamede, il quale lo smaschera gettandogli davanti al vomere il figlio in fasce, Telemaco. A quel punto, Odisseo si ferma, dimostrando la sua sanità. In questo frangente scopriamo anche una trama sacrificale nascosta nel racconto (un rito agrario che prevede lo smembramento di un infante) al quale un Agamennone, ad esempio, non si sarebbe certo sottratto, come comprova il suo celebre sacrificio della figlia Ifigenìa9. 9
Vedi la tragedia di Euripide (480 – 406 a. C.) Ifigenìa in Tauride (rappresentata per la prima volta nel 414 a. C .
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Noi chiamiamo, però, l’eroe dell’Odissea soprattutto con il suo nome latino: “Ulisse” (ovvero “l’irritato”, “l’ulcerato”, “il ferito”).
Glielo attribuì Livio Andronico10, colui che per primo tradusse il poema omerico, in parte per assonanza con l’originale e in parte per la ferita giovanile alla coscia di cui l’eroe conserva la cicatrice. Essa testimonia dello scontro con un cinghiale selvatico – per gli antichi, tipica creatura infera –, segno di una iniziazione ai misteri della caccia e della Luna-Artemide. Detto ciò possiamo finalmente avvicinare Ulisse alle altre componenti del presente lavoro: Circe ed Hermes.
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Livio Andronico (Taranto, 280 a.C. circa – 200 a.C. circa) fu il poeta che per primo tradusse il poema omerico in lingua latina.
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CIRCE Sono talmente numerosi i fili che compongono la figura di Circe che questo breve studio deve reciderne la maggior parte, sperando di esaltarne l’intelaiatura essenziale. D’altronde la dea è essa stessa un maestra dell’ordito e della trama e il suo lavoro al telaio s’intreccia con il canto: ne deriva un carmen, un incantamento da strega, ma potenzialmente anche un lavoro poetico, che trasmuta gli elementi psichici catturando l’attenzione e le emozioni dell’ascoltatore, imprigionandoli nelle spirali dei versi e scagliandoli nel labirinto della narrazione. 24
Eppure il telaio di Circe appare all’inizio un’attività del Fato, immagine del tessere e tagliare la vita dell’uomo da parte della Moira, senza partecipazione empatica e affettiva, frutto di un ordine impersonale. Questo è il canto udito dai compagni di Ulisse, che la sorte ha deciso si rechino in avanscoperta nell’isola Eea (o Aiaie), inoltrandosi nella selva e verso il vallone dove, segnalato da un filo di fumo, si erge il thòlos11 della divinità. Questo è il richiamo che li induce a superare la soglia della dimora, che è anche una soglia della coscienza, dove sprofondano nella regressione psichica del porcile, come accade ai non edotti ai misteri.
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Tale è la forma del fatato palazzo di Circe, e già esso ne inquadra la proprietaria in una prospettiva storica arcaica e matriarcale, assimilandola a sua sorella Pasifae, mitica regina di Creta. Bisogna ricordare come le strutture rituali labirintiche, anche in epoca ellenica, detenessero la medesima forma circolare. Ecco cosa scrive in proposito, il dizionario enciclopedico Treccani: «thòlos ‹tò-› – In archeologia, costruzione a pianta circolare, tronco-conica, costituita da anelli di blocchi di pietra aggettanti e formanti una pseudocupola; se ne trovano esempî nella civiltà micenea, nella quale si hanno thòloi con cella sotterranea (il tesoro di Atreo), in altre civiltà preistoriche (nuraghi sardi) e, in età storica, in tombe di aree greche periferiche, in tombe etrusche, in cisterne e granai, in varî tipi di edifici romani (mercati coperti, sale termali, templi circolari peripteri)». 25
La loro trasformazione è assai emblematica, infatti: nelle cerimonie della religiosità agraria, venivano tipicamente sacrificati dei porcellini12. E, d’altronde, guardando all’universo evangelico non possiamo dimenticare lo spostamento delle “legioni” demoniache sul branco di maiali, operato da Gesù a Gerasa, che si conclude con il salto autosacrificale delle bestie da una rupe nel mare13.
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«In Grecia il porcellino è l’animale dei misteri di Demetra ed ha un ruolo nel mito del ratto di Proserpina come nel rito delle Tesmoforie di Eleusi», Domenico Palumbo, Il porcus nell’antichità. Linee etimologiche e funzionali tra interdetto e piaculum, in Heliopolis, Anno X, Numero 1 – 2012, p. 69. Il porcellino da latte stava a rappresentare, più precisamente, il sacrificio della verginità innocente di Proserpina. In questo caso, la trasformazione di uomini adulti in maiali sembra invertire parodisticamente il processo. 13
Vangelo secondo Marco, 5,1 – 20. 26
Di fatto i maiali rappresentano i succedanei della vittima umana. Quella che, come ci rammenta André Girard14, ad Atene veniva degradata e disumanizzata per le strade della città, addossandole le colpe più mostruose, e infine spietatamente uccisa. Ultimata l’immolazione, l’immaginario potere malefico mutava di segno e la vittima assumeva un valore benefico e protettivo per la comunità.
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René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1980/1992. 27
Con tale violenza paranoide s’istituiva la pura essenza del “sacro”15. Dettaglio non trascurabile per noi: il prigioniero scannato era detto “φαρμακός” (pharmakós). La metamorfosi imposta da Circe agli sventurati compagni di Ulisse, pertanto, appare nitida: infatti essi vengono nutriti con ghiande e corniole come suini. Pur conservando una sorta inferiore di coscienza e il ricordo del “ritorno”, perdono le facoltà umane della parola e della libertà. Circe produce l’involuzione somministrando una pozione tipica dei procedimenti cultuali, il “ciceone”16, e l’imposizione della verga magica17 sugli uomini.
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Tutto ciò, afferma Girard, traspare da una attenta lettura dei miti, i quali, contemporaneamente, velano e svelano l’origine sanguinosa e persecutoria del sacro: «Nei miti vi sono due momenti, e gli interpreti non riescono a distinguerli. Il primo momento corrisponde all’imputazione di un capro espiatorio non ancora sacro, sul quale si addensano tutte le virtù malefiche. Ad esso si sovrappone il secondo momento, quello della sacralità positiva suscitata dalla riconciliazione della comunità.» [André Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano, 1987 – p. 86]. 16 L’uso del ciceone (κυκεών) ci riconduce ancora una volta al Telesterion, il rito d’iniziazione ai Misteri Eleusini, di Demetra e Persefone, durante il quale gli iniziandi pronunciavano la frase “ho digiunato, ho bevuto il ciceone”, con cui testimoniavano di aver adempiuto ai due obblighi propedeutici alla cerimonia segreta. In Greco antico, kυκεών significa "bevanda composita. Si definiva così un miscuglio di ingredienti su una base di vino: in una coppa riempita venivano aggiunti, infatti, secondo l'omerico Inno a Demetra, fiocchi di segale, formaggio canestrato e menta. 17
Il ῥάβδος (rhábdos). 28
La distribuzione della bevanda, in particolare, richiama l’episodio della “Coppa di Nestore” (XI Libro dell’Iliade), in cui l’ancella Ecamede prepara il decotto che ristora e ridona vigore ai combattenti Achei. Come nota, acutamente Luca Cerchiai18, sotto la tenda di Nestore, 18
Luca Cerchiai, Le ricette di Circe, in L’incidenza dell’Antico 5, 2007. 29
parimenti che a Eleusi, il ciceone favorisce la temperanza e snebbia la mente; agisce dunque da φάρμακον (phàrmakon)19 disintossicante e si contrappone alla “alterazione di coscienza”. Il ciceone mesciuto da Circe esprime, invece, una valenza venefica, mostrando il lato oscuro che si cela nella seduzione sensuale.
È palese che qui il testo omerico mette in luce l’ancestrale timore maschile nei confronti della donna e del suo strapotere psichico, allorquando – diremmo oggi con i moderni termini della psicologia analitica – l’Anima dell’uomo è completamente proiettata su di lei. Ogni accoglienza ed elargizione femminile viene ad assumere, allora, un carattere irretente, regressivo e offuscante, così come qualsiasi suo tentativo di strumentalizzazione narcisistica esercita su di lui un inesorabile potere di controllo. E qui ci torna quanto mai opportuno collocare Circe nel quadro della mitologia classica. Come ci insegna Kerényi, essa è un oceanina, una titanessa, ovvero una divinità preolimpica figlia di Helios – il Sole – e di Perse, che esprime la qualità regale della luminosità
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Sappiamo bene che, in Greco, φάρμακον, è un vocabolo che indica due opposti: significa, a seconda dei casi, sia “veleno”, che “antidoto”. 30
notturna20. Di fatto rappresenta il frutto erotico dell’unione degli opposti, e antico, kυκεών significa "bevanda composita. Si definiva così un miscuglio di ingredienti su una base di vino: in una coppa riempita venivano aggiunti, infatti, secondo l'omerico Inno a Demetra, fiocchi di l’isola in cui regna esprime un luogo dell’anima, crepuscolare e insieme aurorale, dove ogni cosa vivente muore e rinasce, specularmente al sole che s’immerge nella notte e resuscita al mattino.
La sua posizione geografica ai confini del mondo appare, dunque, perfettamente coerente con la natura iniziatica dell’impresa che è richiesta ad Ulisse.
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Inoltre, Circe è anche zia di Medea – principessa della Colchide e sposa del corinzio Giasone, che grazie alle arti della donna riuscirà a impadronirsi del Vello d’oro, chiaro simbolo solare – e sorella di Pasifae, la divina e lunare regina cretese, madre del Minotauro, rinchiusa da Minosse all’interno del 31
HERMES Uno solo dei compagni di Odisseo sfugge all’agguato e torna terrorizzato alla nave, Euríloco. Egli scongiura il condottiero di levare l’ancora e sottrarsi all’ennesima minaccia che pende sulla loro vita. La disperazione rischia di 32
schiantare l’equipaggio ancor più che i rischi oggettivi e Ulisse decide, perciò, di riportare indietro gli sfortunati membri della prima spedizione. Da solo va incontro al pericolo, sebbene non munito di un piano. Sulla strada s’imbatte, per sorte, in un giovanetto bellissimo nel quale prontamente riconosce il dio Hermes. Noi oggi diremmo che, risoluto a confrontarsi con la complessualità che lo incalza dall’inconscio, il soggetto consegue un insperato aiuto archetipico, il contributo di un’immagine simbolica che ha per lui valore terapeutico.
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Nel frangente, Hermes compare sotto l’aspetto di “chrysorrapis”, ovvero di colui che detiene l’aurea bacchetta magica. La sua potenza fallica già si contrappone omeopaticamente a quella di Circe. Inoltre, va ricordato che egli è messaggero degli olimpici presso gli uomini, presiede ai giuramenti e al linguaggio (gli si ascrive l’invenzione dell’alfabeto), e accompagna dolcemente 34
le anime dal mondo dei vivi all’Ade (Hermes psicopompo). Si pone dunque come divinità di soglia, ponte tra mondi, varco, raccordo tra realtà materiale e invisibile.
Hermes non appartiene a un’unica dimensione: egli è sfuggente, oltrepassa i limiti della realtà precostituita, indicando prospettive nuove, grazie a metafore che liberano la mente dal letteralismo e dall’eccesso di concretezza, certa garanzia della ripetizione del trauma. Egli illustra a Ulisse, in ogni dettaglio, le insidie del suo prossimo incontro con Circe e lo provvede dell’antidoto al ciceone, adoperato dalla maga come filtro di seduzione maligna: gli dà la famosa erba Moly, dal latteo fiore e dalla nera radice. Da questa duplicità 35
cromatica della pianta si evince la sua valenza di simbolo dell’indissolubilità dei caratteri solare e notturno, di sizigia di celeste e ktonio.
Il dio, però, non si limita a fornire il phàrmakon e spiega all’eroe come mutare un’esperienza in partenza dannosa in un esito felice: 36
«quando Circe ti colpirà con la lunga bacchetta, / tu allora la affilata spada dalla coscia sguainando, / su Circe balza, come deciso ad ucciderla: / lei, spaventata, t’inviterà nel suo letto. / Allora tu d’una dea non rifiutare l’amore, / perché ti sciolga i compagni e ti dia il buon ritorno; / ma dei beati falle giurare il gran giuramento, / che non ti trama nessun inganno malefico, / e, così nudo, non vorrà farti vile e impotente»21. È chiaro il risultato psichico a cui tende questa iniziazione, che si concluderà per Ulisse con la katabasi (discesa negli inferi) e nell’anabasi (risalita in superficie) della ripartenza dall’isola Eea (XI Libro).
L’eroe sarà fortificato da nuove conoscenze e rigenerato, assieme ai suoi compagni, nel corpo e nello spirito: ciò avviene in virtù di un incontro con la natura del “femminile” arcaico, accompagnato dalla convinzione di non dover soccombere al suo aspetto terribile; d’altro canto, dice Hermes, Ulisse non dovrà “agire” concretamente la violenza vendicativa sull’incantatrice. Basterà il mero accenno al sacrificio rituale della maga in luogo della sua concreta esecuzione. Si tratta di un superamento 21
Omero, Odissea, Libro X, vv. 293 – 301, versione di Rosa Calzecchi Onesti, Mondadori, Milano, 1968/1981 - p. 174. 37
fondamentale della brutalità e della violenza, paragonabile al sogno di un assassinio o di uno stupro22 rispetto alla loro realizzazione materiale23. In questo modo, sul piano individuale, si schiudono all’essere umano le porte all’esperienza erotica del congiungimento, nel segno della fiducia e dell’abbandono reciproci24.
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«La sessualità fornisce gli esempi più concreti della volontà erotica di unione. Il desiderio di
superare la separazione tra soggetto e oggetto e di sperimentare la natura primordiale delle cose è, tuttavia, un fenomeno presente a ogni livello dello spettro psichico, dallo stupro vero e proprio a un’ascetica rinuncia spiritualmente ispirata (che può ancora ricorrere a metafore sessuali, ancorché astratte). Di cruciale importanza per la coscienza e per il processo di individuazione è la graduale deletterelazzizazione e interiorizzazione di atti potenziali, attraverso il processo sacrificale della riflessione. La mitologia contiene una riserva immensa dell’immaginazione con cui si possono ritrarre i vari movimenti di Eros. Analizzando l’iniziazione e la “trasformazione della coscienza nei confronti della sessualità”, James Hillman dà un senso molto vivo di questa differenza: “La sessualità cambia via via che gli Dei che portano il suo pegno, il fallo-pene, attraversano fasi della vita diverse. Pan, Priapo, Ermes, Dioniso, Zeus, Apollo, Eros, i Kuroi, i Cabiri, i Sileni, i Satiri, i Centauri … ciascuno di loro rappresenta una via dell’iniziazione nell’essere sessuale, ciascuno rappresenta un modello di fantasia attraverso cui si può sperimentare l’istinto […]”.» (Bradley A. Te Paske, Il rito dello stupro, Red edizioni, Como, 1987 - p. 177).
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Che l’operazione non resti priva di ombre inquietanti lo dimostra la “morte accidentale” di
Elpènore per caduta, dal tetto della casa di Circe, avvenuta al momento di muovere concitatamente dall’isola Eea per lo Stige. Ulisse incontra lì l’anima desolata del compagno – non avendo ricevuto il suo corpo sepoltura. Evidentemente, il sacrificio animale di un nero montone e di una capra candida, di cui la dèa ha provveduto gli itacesi per compiere i sacrifici inferi, non si è dimostrato sufficiente: del sangue umano va versato. Un episodio analogo ce lo trasmette Virgilio, nel libro V dell’Eneide, con la morte anche qui “accidentale”, ma di indubbio stampo sacrificale, di Palinuro. Come sottolinea René Girard, il Cristianesimo è la prima religione a trasmettere il discorso della vittima e non quello del suo persecutore. In questo senso, appare splendido il rifiuto di Gesù di immolare persino l’agnello pasquale, immaginato dal grande scrittore portoghese José Saramago, nel libro Il Vangelo secondo Gesù [Bompiani, Milano, 1993]. 24
Circe al riguardo è eloquente: «Ma via, nel fodero la spada riponi, e noi ora / nel letto mio saliremo, che uniti / di letto e d’amore possiamo fidarci a vicenda» Omero, Odissea, Ibid., vv. 333 – 335, pp. 175-176. 38
Sul piano collettivo ciò implica anche un significativo arretramento della logica persecutoria del “capro espiatorio”, basata sul massiccio intervento della “proiezione” e dello “spostamento della colpa immaginaria” sul debole e l’innocente. Perveniamo così, al contempo, alla base stessa della capacità metaforica, che va intesa come “il sacrificio di un sacrificio”, ovvero come trasmutazione alchemica della materia in “oro” spirituale, realizzata mediante il lavoro psichico della “coniunctio oppositorum25. L’attività sacrificale della mente, elevata a un livello superiore, può, autodivorandosi, giungere quindi a sacrificare la sua stessa violenza sull’altare di una rappresentazione metaforica della stessa. In questo senso, il phàrmakon si sostituisce al pharmakós, l’immaginazione cosciente di un atto distruttivo dà vita, teatralmente, a una simulazione del sacrificio cruento. In tal senso, l’erba Moly consente a Odisseo
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In proposito vedi Carl Gustav Jung, Mysterium Coniunctionis, Opere – vol. 11, Boringhieri, Torino.
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di nutrirsi senza angoscia del ciceone, finalmente tonificante, donatogli insieme all’amore e all’accesso al mondo infero da Circe dalle “belle trecce” e dalla “voce umana”.
Articolo pubblicato in Giornale Storico di Psicologia e Letteratura n. 22 - aprile 2016 - “CIBO”
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