CRISI EPILETTICA E VIOLENZA SOCIALE
di Francesco Frigione
MALE SACRO Altrimenti detto “mal caduco”, per la sue brevi manifestazioni; o “morbo comiziale”, poiché nell’antica Roma era presagio nefasto e se colpiva un soggetto durante le assemblee ne imponeva l’immediata interruzione; oppure “male della luna”, in quanto lo si presumeva correlato ai pleniluni; o ancora “epilessia”, come oggi, dal greco ἐπιλαμβάνομαι, forma passiva del verbo επιλαμβάνω, che possiamo tradurre come “essere colto di sorpresa”, “essere invaso”. Il tema dell’invasione e della possessione deriva dalla supposta origine divina dell’attacco, che l’ambivalenza del termine “sacro” svela. La radice indoeuropea di “sacro”, sak, indica originariamente il “terribile”, che pertiene a potenze che schiacciano l’uomo.
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Oggi, invece, il valore fatale della sacertà appare più anodino e per “sacro” intendiamo “il venerabile e massimamente degno di ammirazione e rispetto”; dimenticandoci che esso affonda in un rizoma aberrante. Infatti, per i nostri progenitori, l’Homo sacer era il reo di condotte per cui i numi avrebbero punito l’intera comunità. Il “colpevole” veniva, perciò, bandito dalla città senza giudizio legale, e da quel momento chiunque avrebbe potuto ammazzarlo senza colpa, conformemente alla volontà divina. La sacralità rappresenta, dunque, la proiezione non solo degli aspetti più elevati e coesi della dimensione comunitaria, ma anche di quelli inconfessabilmente escludenti, violenti e distruttivi. Di fatto, “sacro” è ciò che la collettività confina in una sfera di violenza scissa e misconosciuta dalla coscienza e che attiene, appunto, al sacrificio.
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Non a caso molti santi cristiani, considerati nel Medio Evo protettori degli epilettici, erano martiri decapitati: San Giovanni Battista, San Valentino, San Donato d’Arezzo, San Genesio di Thiers, o, ancor più indicativamente, condannati al “supplizio della catasta” (lo smembramento), come San Vito. Le antiche concezioni della malattia epilettica ci conducono, quindi, a una realtà dove la violenza dell’attacco che ghermisce il singolo è strettamente connessa alla violenza del suo contesto.
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FREUD E L’EPILESSIA DI DOSTOEVSKIJ Per 'Organizzazione Mondiale della Sanità l'epilessia è «un'affezione cronica ad eziologia diversa, caratterizzata dalla ripetizione di crisi che derivano da una scarica eccessiva di neuroni cerebrali». Attualmente sono contemplate tre grandi tipologie del disturbo: una genetica, una sintomatica e una criptogenetica. Senza dimenticare come l’interazione tra malattia genetica e ambiente sia un capitolo ancora tutto da scrivere, ci concentreremo qui sull’ultima categoria, dato che quel “cripto” che la descrive corrisponde già a un’ammissione d’ignoranza riguardo alle cause del malanno. Un’ignoranza che impone di avviare in merito la riflessione psicologica.
Quasi un secolo fa, ci pensò Sigmund Freud a correlare l’epilessia affettiva al disturbo isterico e in questa cornice interpretò la patologia di Fëdor 4
Dostoevskij. Assenze e penose letargie catalettiche, sottolineava il maestro viennese, si erano già manifestate dall’infanzia nel futuro scrittore, sebbene egli cadesse preda del primo attacco convulsivo soltanto l’8 giugno 1839, quando, studente diciassettenne, ricevette a Mosca la notizia del linciaggio del padre, Michail Andreevič.
Questi, un dispotico ex medico militare proprietario terriero a Darovoe, fu assassinato dai contadini in rivolta. Da quel momento in poi la malattia si radicò definitivamente in Dostoevskij, prostrandolo con attacchi sempre più gravi e frequenti e conseguenti stati depressivi. Per Freud, fedele al proprio modello edipico, la condotta crudele e poi la morte violenta di Michail Andreevič avrebbero tormentato il figlio in maniera insopportabile, eccitandone l’irrisolta ambivalenza, di per sé naturale, tra 5
l’inconscio desiderio di liberarsi del padre, ostacolo al proprio godimento libidico, e la paura di essere evirato da lui per il proprio misfatto fantasmatico. Il conflitto con il genitore, maturato in infanzia, si sarebbe, cioè, catastroficamente abbattuto sull’Io del giovane (e dell’adulto).
La complicazione maggiore sul piano psicodinamico l’avrebbe creata, inoltre, l’aspetto secondario dell’Edipo, ovvero il desiderio di sostituirsi alla madre come oggetto d’amore paterno, conseguenza della primigenia bisessualità umana. A rendere insolubile il nodo sarebbe stata, però, l’effettiva natura violenta del padre. Lo sciagurato connubio di realtà e fantasie inconsce avrebbe prodotto in Fëdor l’instaurasi di un rapporto perverso tra Super-Io e Io: il primo – frutto dell’introiezione della figura paterna - avrebbe assunto un ruolo sadico nei confronti del secondo, il quale, a sua volta, avrebbe oscillato tra una rabbiosa e impotente ribellione, non scevra da seduzioni delinquenziali, 6
e l’irrinunciabile autopunizione masochistica. Freud batte incessantemente sul sintomo dell’immobilità stuporosa, caratteristico degli esordi della malattia di Dostoevskij, e mette in secondo piano l’acuirsi della sofferenza nell’età adulta, traumaticamente introdotta dalla notizia dell’assassinio del padre.
Quindi insinua - pur ammettendo di non possedere prove che suffraghino la sua tesi, e contrariamente alla testimonianza dello stesso scrittore - che le crisi siano cessate durante la durissima prigionia a Mosca e in Siberia, che Dostoevskij subì per le proprie simpatie socialiste, avendo in questo modo soddisfatto il suo desiderio di punizione. La stessa ingiusta condanna a morte, tramutata in dura galera un istante prima che il plotone di esecuzione lo fucilasse, viene attribuita da Freud alla fatale coincidenza tra il desiderio di espiazione e d’identificazione con il padre morto e la beffarda crudeltà della repressione zarista. Come lo spettro di Banco, dunque, nel discorso freudiano il padre fantasmatico oscura il peso della realtà sociale e politica; l’oggettiva efferatezza della repressione statale si tramuta in problematica affettiva personale, sebbene a trasudare bieco autoritarismo fosse l’intera società russa. Freud occulta sottilmente il rapporto tra il Dostoevskij sensitivo e vulnerabile e le violente convulsioni di una società sull’orlo di una crisi mortale. Di questo sconvolgimento la famiglia e gli individui non rappresentano la causa prima ma i terminali: in essi s’incistano volontà repressiva e desiderio d’insurrezione che appartengono alla collettività.
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Sebbene si dovessero ancora attendere ottant’anni per passare dal linciaggio di Michail Andreevič al “parricidio” di Nicola II per mano dei soviet, già allora si udivano gli scricchiolii della Russia feudale. L’insistenza nel confinare il dramma alla sola sfera interiore, poi risulta ancor più sospetta quando tende alla parziale assimilazione di Dostoevskij al “delinquente per senso di colpa”, una tesi che chiude il cerchio del teorema psicoanalitico e sospinge ancor più la sofferenza negli anfratti morbosi dell’individuo.
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Ci aiuta a cogliere meglio la distorsione la nozione di inconscio politico formulata da Fredric Jameson1: la vita psichica si avvale di componenti narrative investite di affettività: gli “ideologemi”. Essi inoculano nello psichismo individuale contenuti della cultura di riferimento (a sua volta, espressione dei rapporti di classe vigenti nella società e di scorie che ne denunciano i limiti e le contraddizioni). La compresenza degli ideologemi e di credenze e percezioni della realtà divergenti costringono l’intelletto dell’individuo creativo a misurarsi con dilemmi spesso insanabili, che l’analisi dei testi evidenzia e contestualizza. Possiamo intendere, perciò, come nell’indagine freudiana l’accentuazione del 1 Jameson Fredric, L’inconscio politico. La narrazione come atto simbolico: l’interpretazione politica
del testo letterario, Garzanti editore, Milano 1990. 9
peso psicologico della figura paterna, figlia dell’individualismo liberale, celi i fattori economici politici sociali e culturali che pure influiscono sulle storie cliniche. In conclusione, se anche Freud avesse svelato la cifra segreta della sofferenza del grande Russo, difficilmente questa interpretazione farebbe luce sulla sofferenza di altri epilettici, dato che l’universalità del complesso di Edipo/Giocasta è stata più volte ricusata da autorevoli ricerche etnopsichiatriche, mentre l’epilessia resta una costante delle società di ogni luogo e ogni tempo. Tutto ciò, pertanto, ci riconduce all’unico punto fermo del discorso: il trauma psichico inerente al fantasma del sacrificio di una vittima.
D’altronde, lo stesso Dostoevskij ci conforta in questa lettura con la sua fiera e mai deposta avversione alla pena capitale, che egli considera 10
un’orrenda tortura del condannato, a cui la collettività preclude ogni illusione di salvezza.
LA CRISI EPILETTICA COME PRESAGIO Se recuperiamo dalle società primitive e tradizionali la portata del fenomeno epilettico, allora intendiamo perfettamente l’episodio di apertura del romanzo di Ismail Kadaré, Il ponte a tre archi2. Il monaco Gjon ripercorre i tumultuosi avvenimenti di cui è stato testimone nell’Albania della seconda metà del Trecento, al profilarsi delle corrusche ombre dell’invasione ottomana. ALL’INIZIO di marzo dell’anno 1377, sulla riva destra dell’Uyana maledetta […], un viandante ignoto a chiunque nella regione ebbe un attacco di epilessia. Il 2 Kadaré Ismail, Il ponte a tre archi (1981), Longanesi editore, Milano, 2002. 11
passatore, testimone della scena, racconta che lo straccione, con l’aria di un santo e di un folle al contempo, dopo aver vagato per un po’ lungo il greto tra l’imbarcadero e il punto in cui d’estate si attraversa il fiume al guado, lanciò all’improvviso un urlo, come di persona sgozzata, e cadde riverso nella melma. 3
Notiamo il legame tra l’urlo –sintomo dell’attacco comiziale – e lo sgozzamento del sacrificio rituale. La chiara intuizione di Kadaré collima con la nostra ipotesi sul significato sacrificale dell’accesso epilettico.
Nella narrazione, la crisi, con i suoi movimenti scomposti e frenetici, veicola un annuncio alla comunità: il malato mima il dilaniamento della realtà collettiva. Egli è senza dubbio un “posseduto” della problematica ambientale che ne schianta l’Io. La crisi viene ad annunziare, in effetti, la prossima dissoluzione dei legami comunitari e suscita un’istintiva angoscia nei testimoni oculari. « È un presagio dall’alto », disse qualcuno nel gruppo. Era un uomo magro che, quando più tardi gli domandarono quale fosse il suo mestiere, dichiarò di essere un veggente girovago.
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Kadaré Ismail, Ibid. p. 11. 12
[…] « Sì », mormorò « è un segno dall’alto. Il suo tremore si trasferisce all’acqua e l’acqua gli rimanda i suoi fremiti. Mio Dio! S’intendono … » […] « E di quale segno si tratta, secondo te? », domandò un altro. […] « È un segno dell’Onnipotente, e ci annuncia che qui, su queste acque, bisogna costruire un ponte. » « Un ponte? » « Non avete visto come le sue mani si tendevano di continuo verso il fiume, mentre il suo corpo tremava come un ponte sotto il passaggio di grossi carri? » 4
Forse l’accesso epilettico è una “macchia di Rorschach” su cui l’osservatore proietta il proprio sguardo: una società materialista vi rinverrà la tempesta elettrica di un gruppo di neuroni e una spiritualista un messaggio divino. Noi, laicamente, supponiamo che durante la crisi sia il collettivo ad irrompere nella psiche individuale, e riconosciamo anche un’altra contrapposizione: il corpo sofferente che si contorce è un corpo in preda agli spasmi dell’agonia. La vita e la morte si confondono mentre si contendono lo spazio del corpo. La mente sopraffatta da tanta violenza si spegne e perde la capacità d’immaginare le proprie pulsioni; tutto, allora, si traduce in spinta priva di organizzazione e gerarchia. 4 Kadaré Ismail, Ibid., pp. 15-16.
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In questa condizione il piacere orgiastico della violenza e l’ineffabile sofferenza della vittima si embricano senza soluzione di continuità , come tralci di vite intorno a un palo.
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VIOLENZA DIONISIACA Abbiamo visto come in Kadaré l’apollinea visione dell’interprete ripristini l’ordine razionale dopo l’indifferenziato sconvolgimento dell’accesso epilettico. La lettura si aggancia quindi alla rappresentazione involontaria di un terremoto politico e sociale (nel Ponte a tre archi, l’invasione turca dell’Albania cristiana). Ciò che scorgiamo è dunque teatro (inconscio); e il teatro è di Dioniso.
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Sostiene René Girard che quando la disgregazione minaccia la comunità, il consesso sociale cede alla furia omicida, a un’epidemia di violenza, di cui la ricerca del capro espiatorio rappresenta l’illusorio rimedio. E l’ispirazione profetica affonda proprio in tale ebbrezza sanguinaria. Se, al pari di Apollo di Delfi e del mito di Edipo, Dioniso è anch’egli associato all’ispirazione profetica, ciò avviene perché l’ispirazione profetica rientra nel campo della crisi sacrificale.
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Se egli appare come la divinità della vite e del vino è certo per un attenuarsi del senso originale che faceva di lui il dio di un’ebbrezza più temibile, la furia omicida.5 5 Girard René, La Violenza e il Sacro, Adelphi, Milano 1980, p. 188. 17
E quindi, in modo definitivo: […] non è possibile dubbio di sorta: Dioniso è il dio del linciaggio riuscito.6
Nel caso dell’epilettico assistiamo, insomma, alla mimesi dello sparagmòs, lo smembramento rituale della vittima, tramandatoci miticamente dalla tragedia di Euripide Le Baccanti: Con il pretesto di sistemargli la chioma e l’abito, Dioniso tocca ritualmente Penteo alla testa, alla vita e ai piedi. L’uccisione stessa si svolge conformemente agli usi dionisiaci; si riconosce in essa lo sparagmos (…).7
6 Girard René, Ibid. - p. 190. 7 Girard René, Ibid. - pp. 186-187.
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Ipotizziamo, di conseguenza (e in consonanza con Freud), che l’attacco epilettico comporti una scissione dell’Io: la parte che si pone al servizio della Coscienza bada alla sopravvivenza dell’individuo; l’altra soggiace al Super-io e si scaglia sul sé sacrificale, obbedendo alla necessità collettiva di trovare una risposta paranoica all’angoscia. Questa scissione è tipica di Dioniso, che è ulteriormente doppio, dato che forma un corpo psichico e spirituale bicefalo con Apollo.
E, come ha intuito Nietzsche, solo la grande arte riesce a cogliere l’intimo legame tra Apollineo e Dionisiaco. Un esempio altissimo ci viene dalla Trasfigurazione di Raffaello, l’opera che salda due episodi evangelici succedanei 19
ma all’apparenza sconnessi: l’ascesa in cielo di Gesù, e la guarigione del fanciullo epilettico8.
Ecco come ce ne parla Flavio Caroli:
8 «Qui troviamo dinanzi al nostro sguardo, nella superiore simbolica artistica, quel mondo apollineo di bellezza con il suo retroterra, la saggezza terribile del Sileno, e capiamo attraverso l’intuizione la loro vicendevole necessità.». Nietzsche Friedrich, La nascita della tragedia, Feltrinelli, Milano 2015 – p.
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Nella Settimana Santa del 1520, Raffaello capisce il lato oscuro dell’Essere. Ha visto sempre luce, che ha dipinto. […] Luce d’ingegno, o di salvezza, luce ferrea e calma che fa tornare tutti i conti […]. Luce di temporale, ma luce, perfino adesso, da poco, nella Trasfigurazione, con lo spot che perfora il piombo e i nuvoloni, e con l’odore di zolfo che si impregna nella tunica di Cristo.
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9 Caroli Flavio, Trentasette. Il mistero del genio adolescente, Mondadori, Milano 1996 - - pp. 13-14. 21
“L’odore di zolfo”, il diabolico, si leva per l’appunto dal fanciullo epilettico e dalla moltitudine in fermento, nella quale i discepoli si misurano con l’esorcismo del ragazzo, ciascuno fallendo la sfida. Così come la scelta della vittima sacrificale passa sempre da una disputa collettiva su chi debba incarnare il capro espiatorio10, altrettanto avviene nel tentativo di sottrarlo a questa violenza collettiva. Dunque, anche l’episodio evangelico delinea la relazione tra epilessia e sacrificio.
10 Girard René, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980 - p. 176. 22
ESTASI, SACRIFICIO E GUARIGIONE NEL VANGELO DI MATTEO Il tema del sacrificio del dio-uomo sta a fondamento anche del racconto cristiano; ma in esso prevale il racconto della vittima su quello del persecutore11. Sicché, anche se l’uccisione di Cristo viene perpetrata per placare temporaneamente la minaccia di destabilizzanti convulsioni sociali e politiche nella Palestina sottoposta al dominio romano, il meccanismo 11 Girard René, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987. 23
persecutorio viene finalmente denunciato una volta per tutte nella Storia. Per Girard questo unicum culturale e spirituale mina alla base la stessa mitopoiesi religiosa, schiudendo la strada a concezioni del mondo laiche.
Lo scrittore José Saramago immagina la maturazione psicologica e spirituale di Gesù negli stessi termini, ossia come un passaggio dall’Identificazione con l’aggressore all’Identificazione con la vittima: Se il motivo per cui Caino ha ucciso Abele è questo, oggi possiamo vivere tranquilli perché questi uomini non si ammazzeranno a vicenda, visto che tutti sacrificano, in modo identico, la stessa cosa, e bisogna vedere come crepita il grasso, come sfrigola la carne, Dio, nell’alto dei Suoi empirei, aspira, compiaciuto, gli odori del 24
carname. […]. Allora Gesù, quasi gli fosse nata dentro una luce, decise, contro il rispetto e l’obbedienza, contro la Legge della sinagoga e la parola di Dio, che questo agnello non sarebbe morto12.
Ripercorrendo i passi evangelici che hanno ispirato Raffaello otteniamo una prova definitiva alla nostra ipotesi. Infatti il Vangelo di Matteo13 inanella: A) l’apoteosi di Gesù splendente in cielo con Mosè ed Elia e l’obnubilamento di Pietro, Giacomo e Giovanni, terrorizzati dalla voce di Dio Padre e rassicurati dal Figlio; B) la discesa dal monte della Trasfigurazione e la guarigione del ragazzo epilettico, accompagnata dalla reprimenda del Maestro nei confronti dei discepoli incapaci di fede e dunque di scacciare il demonio attraverso la preghiera; C) l’annuncio di Gesù della sua prossima morte, a cui farà seguito la resurrezione, e l’amara sottolineatura dell’analogia tra il proprio martirio e quello di Giovanni Battista. Il nesso tra questi eventi, all’apparenza autonomi, va stabilito come tra associazioni libere in analisi: ne emerge il complesso psichico sottostante, cioè la crisi sacrificale e l’alternativa all’uccisione del capro espiatorio. 12 Saramago José, Il Vangelo secondo Gesù, Bompiani, Milano 1993 – pp. 194-195. 13 La Bibbia - Vangelo di Matteo – cap. 17, vv. 1-22, Edizioni Paoline, Roma 1983.
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Per far ciò Gesù conduce il discorso dall’interpretazione letterale delle Scritture al piano metaforico, parlando di una risurrezione spirituale e di una reincarnazione di Elia in Giovanni Battista. La muta preghiera con la quale Gesù libera il fanciullo dal suo male rappresenta in questo processo forse il momento psicologicamente più misterioso, poiché consente di sciogliere il vincolo tra il ragazzo e la violenza collettiva. Nei termini della Psicologia analitica la preghiera è una supplica rivolta dall’Io al Sé, per cui, ci suggerisce Mario Trevi, il primo implora pietà in quanto parte integrante dell’altro.
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Possiamo legittimamente dire che la richiesta pertiene all’Io, mentre l’accettazione pertiene al Sé, in un vincolo e in un intreccio indissolubile, perché al limite della richiesta c’è l’accettazione e al limite dell’accettazione c’è la richiesta, se non altro sotto la forma della supplica di renderci capaci di sopportare il dolore inevitabilmente connesso all’esistenza.14
[…] La preghiera assoluta nel senso dell’accettazione e della contemplazione, e perciò nel senso del Sé, è il silenzio. Qui non c’è più nulla da chiedere, neppure che Dio semplicemente sia o che sia fatta la sua volontà, perché persino questo, a questo punto appare inutile e tautologico. […] All’altro capo dell’elenco troveremo solo il grido di aiuto, anzi il solo gridare, perché l’accumulo disperato delle richieste non può che essere grido inarticolato, assordante e doloroso 15.
Il grido disperato, lo riconosciamo, è lo stesso dell’epilettico all’esordio della sua crisi.
14 Trevi Mario, L’altra lettura di Jung, Raffaello Cortina Editore, Milano 1988 - p. 112 15 Trevi Mario, Ibid. - p. 113
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ABSTRACT (Italiano) Nella crisi epilettica psicogena implodono nel corpo dell’individuo conflitti personali, familiari e comunitari. L’accesso epilettico riproduce l’oscuramento della coscienza collettiva nell’atto dell’uccisione e dello smembramento rituale del capro espiatorio. Ciò che gli Antichi non a caso denominavano “Male sacro” esprimerebbe, dunque, l’essenza stessa del sacrificio.
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ABSTRACT (Inglese) In the psychogenic epileptic seizure, personal, family and community conflicts implode in the body of the individual. Epileptic seizure reproduces the headedness of the collective consciousness in the act of killing and the ritual dismemberment of the scapegoat. What the Ancients called "Sacred disease" would therefore express the very essence of sacrifice.
PAROLE CHIAVE Epilessia, Sacro, sacrificio, violenza, capro espiatorio, vittima, identificazione, persecutore, individuo, collettivo, Sigmund Freud, Dostoevskij e il parricidio, Ismail Kadaré, Il ponte a tre archi, René Girard, Dioniso, Apollo, Friedrich Nietzsche, Trasfigurazione, Raffaello Sanzio, Flavio Caroli, Gesù, Cristo, Cristianesimo, preghiera, Mario Trevi, Carl Gustav Jung, Psicologia analitica, Io, Sé.
KEY WORDS
Epilepsy, Sacred, Sacrifice, Violence, Scapegoat, Victim, Identification, Persecutor, Individual, Collective, Sigmund Freud, Dostoevskij and Parricide, Ismail Kadaré, The Three Arched Bridge, René Girard, Dionysus, Apollo, Friedrich Nietzsche, Transfiguration, Raffaello Sanzio, Flavio Caroli, Jesus, Christ, Christianity, Prayer, Mario Trevi, Carl Gustav Jung, Analytical Psychology, Ego, Self.
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