LETTERE ALLO PSICOANALISTA
Gentile Professore, oggi si dibatte a gran voce la questione della “post-verità”, un eufemismo per evitare di dire “menzogna”. Circolano sui media e sul Web le notizie più inverosimili o anche quelle più che verosimili, di cui non si riesce più a cogliere il grado di falsità e distorsione. Il gioco sembra farsi sempre più assurdo e vertiginoso e non contare soltanto per i potenti che piegano l’opinione pubblica ai loro interessi, ma permeare i rapporti umani quotidiani. Difficilissimo è affidarsi alla parola di qualcuno, credere che essersi stretti la mano sia aver sancito un patto più importante che un contratto scritto, come invece accadeva una volta.
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Non vorrei dare l’idea di essere un “passatista”, uno che rievoca un’epoca dell’oro mai esistita se non nella nostalgia, ma non posso accettare di relativizzare ogni cosa, comprese la rettezza, la lealtà e l’onestà. Mi sembra che per queste qualità non ci sia più posto nel mondo attuale. Lettera firmata
DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI VERITÀ?
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di Francesco Frigione
Gentile Lettore, leggendo le sue parole, mi tornano alla mente i versi di un famoso tango di Enrique Santos Discépolo (1901 – 1951), Cambalache (ovvero “Robivecchi” https://youtu.be/vH6_jzFlkFg:
Che il mondo sia stato è sarà una porcheria lo so bene … Nel cinquecentosei e anche nel Duemila. Che sempre ci siano stati ladri, 3
ingannatori e truffati, contenti e avviliti, valori e imitazioni … Ma che il secolo venti sia un orizzonte di male insolente, non c’è più nessuno che lo neghi. Viviamo travolti in una baraonda e in ugual fango tutti impastati … Ed è lo stesso oggi esser retto o traditore!… Ignorante, saggio, ladro, generoso o truffatore! E’ tutto uguale! Niente è migliore! Lo stesso un asino che un grande professore! Non ci sono bocciati ne’ graduatoria, gli immorali ci hanno uguagliato. Se uno vive nell’impostura e un altro ruba per ambizione, è lo stesso che sia prete, materassaio, re di bastoni, imprudente o clandestino!… Che mancanza di rispetto, che assalto alla ragione! Chiunque è un signor ! Chiunque è un ladro! Va Don Bosco con Stavisky e “La Mignon”, Don Chicho e Napoleone, Carnera e San Martín … Come la vetrina irrispettosa dei robivecchi si mischia la vita e ferita da una lama senza filo vedi piangere la Bibbia accanto allo scaldabagno … Secolo ventesimo disordinato problematico e febbrile!… Chi non piange non poppa e chi non ruba è un fesso! Dacci dentro dai! Dai che tutto va bene! Che tanto ci incontreremo laggiù all’inferno! 4
Non pensarci su, stattene da parte, che a nessuno importa se sei un uomo d’onore! Lo stesso chi fatica notte e giorno, come un bue, e chi vive degli altri, chi uccide, chi guarisce o sta fuori della legge … [traduzione di Fabrizio Pasetti, https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=5697]
Questo per dire che un’angoscia simile non è nuova, se già nel 1934 il compositore argentino metteva in canzone lo stesso problema. E non dimentichiamo che era il 1949 l’anno di 1984 di George Orwell (1903 – 5
1950), libro in cui lo scrittore inglese mostrava come l’oppressione ideologica esercitata dal potere, prima ancora che sulla repressione poliziesca, si fondi sulla capacità di cancellare e riscrivere senza soluzione di continuità, spudoratamente, le sue pseudo verità.
D’altro canto, è innegabile quanto lei sostiene, gentile lettore: la mistificazione pare ormai l’ordinaria amministrazione del nostro vivere sociale. Attraverso una complessa serie di operazioni di frammentazione e riproposizione delle informazioni in contesti differenti dagli originali, mediante la sapiente cronologia e l’occhiuto dosaggio di quelle stesse informazioni, ma 6
anche attraverso la più rozza proposizione di false notizie, di dicerie passate per fatti verificati, si accumula nella nostra mente un intreccio inestricabile di illusorie rivelazioni e vicoli ciechi, che rievocano le mitiche immagini della Torre di Babele e del Labirinto di Cnosso.
E convengo anche con lei sul fatto che l’inganno e la bugia siano dati, nella quotidianità, talmente per ovvi da essere accetti e condivisi a livello collettivo; essi sono assurti, in molti casi, al rango di “valore” della comunicazione nelle relazioni interpersonali, ragion per cui la marchiana contraddizione logica di un ragionamento o l’emersione di una palese bugia, paiono comportare sempre minor vergogna per chi ne è l’autore e minor indignazione per chi le scopre.
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Ciò detto, questa non sarebbe una rubrica psicologica se ci limitassimo a lamentare il malfunzionamento delle cose nel mondo. Abbiamo il dovere di ricercare un senso piÚ profondo all’esperienza, di fatti, e considerare ulteriori punti di vista.
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In questo caso, dobbiamo domandarci: cos’è la verità? O meglio, come si forma? Poiché noi avvertiamo, presentiamo intimamente, l’esistenza di una qualche verità, ma, come nel celebre film di Akira Kurosawa (1910 – 1988), Rashomon (1950), ci rendiamo ben presto conto che esistono anche e contemporaneamente numerose altre “verità” per il medesimo evento, a seconda di chi lo stia osservando.
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Ecco che subito ci si pone il problema di uno scarto tra quel che proviamo e percepiamo inizialmente e ciò a cui arriviamo una volta che la nostra personale “verità” è stata messa a confronto con quella degli altri, entrando nel circuito vivo della comunicazione.
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“Comunicazione” è una parola dalla duplice etimologia, come ricordava Franco Fornari (1921 - 1985): essa deriva dal Latino ed implica uno stare insieme per la difesa comune (cum moenia) e per lo scambio di doni (cum munera). In senso psicologico, potremmo concludere, dunque, che il comunicare istituisca un’identità psichica e sociale (fluida) sia mediante l’appartenenza a un gruppo che si differenzia rispetto ad altre realtà, sia scambiandosi nel tempo segni carichi di vissuti affettivi.
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Ne deriva, pertanto, che le “verità” individuali vengano mediate con la famiglia, con i colleghi, i compagni, gli amici, con la comunità di appartenenza, in modo consapevole e soprattutto inconsapevole. Per “verità” dobbiamo intendere qui i contenuti della propria stessa soggettività, le componenti che, insieme, interagiscono per offrirci il senso profondo al quale tentiamo di raccordarci quando ci chiediamo: “chi sono davvero?”, l’interrogativo che è l’instancabile compagno del nostro percorso individuativo.
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Tale dinamica psicologica pone il problema del riconoscimento di noi stessi non soltanto “a valle”, ovvero quando ci manifestiamo attraverso un’espressione intenzionale e direzionata nei confronti degli altri, ma pure “a monte”, quando, cioè, dobbiamo riconoscere in che forma noi stessi, nel nostro intimo sentire e pensare siamo fatti dei “segni” degli altri, abitiamo nei condizionamenti a noi contemporanei e nel nido delle eredità passate.
In effetti, tutta la tensione verso il futuro che caratterizza il nostro desiderio, l’ambizione a manifestarci secondo quella che consideriamo la nostra “vera natura”, il nostro carattere, presuppone un riconoscimento di quanto la base della nostra realtà psichica sia proprio l’alienazione, l’appartenere in partenza all’altro, l’esserne originato.
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La nostra “verità” esistenziale prende vita, dunque, da un contrarci psichico, cioè da un movimento d’indietreggiamento che crea un vuoto; in questo vuoto cominciamo a riconoscere il nostro “non me”.
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La tensione tra il “me contratto” e il “non me” (quello che la metafora psicologica classica definisce come il “dentro” e il “fuori” della personalità) induce a recuperare in una nuova forma quanto noi abbiamo circoscritto come “passato”, come “origine”, come un “corpo materno” di cui la nostra condizione attuale rappresenta la filiazione: l’oggetto perduto, smarrito, di cui ci sentiamo irrimediabilmente orfani.
Sorge, così, lo spazio affettivo della nostalgia e del desiderio, che ci orientano contro il cieco Fato, verso la linea del nostro personale Destino. Per recuperare l’oggetto perduto in base alla contrazione/concentrazione dell’attività della coscienza, noi tessiamo narrazioni e attribuiamo significati agli accadimenti della vita e alle immagini interiori. L’esperienza del senso e del 15
non-senso si determina così, costeggiando ora da un lato ora dall’altro il confine dell’assurdo.
Quali che siano i tentativi di espressione che compiamo, vuoi del senso eccedente delle cose vuoi della sua mancanza, questi si rivelano, comunque, fallimentari, sebbene tutt’altro che inutili. Infatti, nel fallimento consiste l’esperienza più autentica del nostro stare al mondo.
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Nella Coscienza si dispiega sempre una misura del nostro discostarci da quella totalità del senso a cui vorremmo attingere, un metro di quanto ci percepiamo più o meno vicini alla “Verità”, esattamente come ci accade quando cerchiamo di comunicare alla persona che amiamo l’essenza inaccessibile del nostro cuore.
Potremmo dire che il grado della nostra autenticità derivi proprio dalla consapevolezza della distanza che esiste tra noi e quella verità che supponiamo perduta - ma che, praticamente, come abbiamo visto, sorge dall’atto stesso 17
della Coscienza di ritirarsi dalla realtà: ecco perché, psicologicamente parlando, la “verità” si annida sempre nell’Inconscio. Quest’Inconscio non esiste se non per via dell’azione della Coscienza.
Un discorso tanto complesso diventa, però, trasparente nel lavoro psicoanalitico. In esso l’individuo conquista la consapevolezza della propria specifica soggettività proprio a partire dall’assenza di qualcosa che sente come oscuramente perduto. È allora che fortifica come una fonte inesauribile della vita psichica la ricerca della verità (in questo caso, una “verità interiore”). Questa supposta verità per affiorare deve essere mediata dall’analista (e/o dal gruppo analitico).
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Qui vale il celebre aforisma di Picasso (1881 – 1973) «Io non cerco. Trovo». Ossia, nella situazione terapeutica, quello che cerco è determinato proprio dalla mia capacità di trovare e si staglia come la sua parte mancante. In questo percorso non lineare e asintotico, viene in luce con sempre maggior chiarezza uno stile personale del “trovare”; questo stile rappresenta la manifestazione di una potenzialità creativa della personalità, che è unica, originale, inimitabile.
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Ne dobbiamo concludere, dunque, che le “verità” che costruiamo lungo la strada siano arbitrarie? No, tutt’altro. Chiunque abbia compiuto un’esperienza del genere sa che, come in amore, esiste una invisibile necessità di arrivare a certe conclusioni (sebbene esse possano rivelarsi provvisorie e non granitiche), una necessità che rifiuta di essere ignorata. Eluderla, negarsi alla comprensione, conduce a nuova sofferenza, a malcontento e a proteste.
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Mi raccordo adesso, finalmente, al problema iniziale della sua lettera: siamo sommersi dalle post-verità, queste s’insinuano persino nelle relazioni di tutti i giorni. Messa così appare soltanto come una perdita netta. Ma è proprio da ciò che sentiamo di aver perduto che nasce la ricerca di nuovi costrutti, di una “verità” a noi più idonea. In fondo, mai come adesso, a partire dalla manipolazioni della presunta “verità”, il mondo si sta rendendo conto dello statuto ontologico intimamente ambiguo e sfuggente di questa, della natura di costrutto narrativo e non di dato certo e compiuto. A maggior ragione tutti noi siamo chiamati a prenderci cautamente cura di questa instabile verità.
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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.it Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
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