FATO, DESTINO E CREATIVITÀ

Page 1

LETTERE A UNO PSICOANALISTA

Gentile Professore, per lungo tempo ho sentito di avere dentro un malessere, che mi ha portato a fare delle cose che, con gli occhi che tengo oggi, mi paiono davvero pesanti. Ho sniffato cocaina e ho bevuto alcol, e mi sono giocato tutti i soldi che la famiglia mi aveva lasciato.

Mi sono pure indebitato per andare con le donne e giocare a carte ai casinò. Quando qualcuno che mi voleva bene cercava di mettermi in guardia, io ridevo e lo pigliavo in giro, o peggio ancora, lo offendevo. Quelli che allora, invece, credevo amici, piÚ tardi ho scoperto che erano solo compagni di vizio e approfittatori, chÊ quando ho avuto bisogno di loro sono spariti tutti. 1


Adesso, se mi guardo indietro, mi pare quasi impossibile che dopo tutto quello che ho fatto non ho preso una malattia oppure sono finito in carcere, o ho fatto un incidente grave. Perché quando stavo “impippato” di cocaina mi sentivo immortale e correvo in moto come un pazzo. Anzi, a dire la verità, mi pare un miracolo che sono riuscito a riprendermi, a mettere su una famiglia, a avere un buon lavoro e a mantenermi la casa che mi avevano lasciato i miei. Anche se in passato mi sono mangiato, praticamente, tutto il resto dell’eredità, adesso campo dignitosamente e posso pensare al futuro. Prima, infatti, non ci riuscivo: vivevo solo nel presente. Mi sentivo una smania addosso, una frenesia che non mi lasciava in pace.

2


Altri non hanno avuto la stessa fortuna mia. E anche adesso ce ne stanno tanti di giovani come ero io. E per questo motivo io mi domando: ma posso fare qualcosa per loro? Vorrei, infatti, che la mia esperienza servisse a qualcosa e a qualcuno. Se Dio mi ha risparmiato, penso certe volte, è perché aiuti qualcun altro a non commettere gli stessi errori miei. Lettera firmata

FATO, DESTINO E CREATIVITÀ

3


di Francesco Frigione

Gentile lettore, la sua lettera mi ha molto colpito. Ignoro cosa le abbia cambiato la vita, scavando un solco tra il “prima” e il “dopo”; ignoro anche quanto tempo le sia stato indispensabile perché affiorasse quella “forza del carattere” (cfr. James Hillman) grazie a cui è potuto sfuggire a una distruttiva ricerca di onnipotenza, sempre figlia di un pervasivo e nascosto sentimento d’impotenza.

La sua parabola narra di una capacità di ricostruirsi interiormente e sul piano relazionale, tanto che oggi, giustamente, aspira a superare gli angusti confini dalla propria sfera privata per tradurre l’esperienza personale in uno strumento 4


che aiuti gli altri, meglio ancora se giovani. Mi sembra il bellissimo esito di un difficile percorso, e se ha dovuto soffrire molto e far soffrire altrettanto per arrivarci, il riscatto si racchiude nell’esito, che, a ritroso, dà senso al passato.

Questo, lei narra, l’ha vista preda di una dipendenza da sostanze e di comportamenti coercitivi, come la ludopatia e una sessualità sfrenata, che derivano dalla costante ricerca di eccitazione, artificiosamente tesa a respingere un sottostante senso di sconfitta. Ad esso si doveva accompagnare, sottotraccia, l’assoluta percezione d’impotenza a evitare un fato avverso che pareva minacciare, in qualsiasi istante, di soffocare la sua personalità.

5


Cosa possa aver determinato l’affermarsi di tale vissuto nella sua storia personale adesso poco rileva: l’importante è che quella condizione di animo, in chiunque prende piede, conduce l’individuo (ma anche una collettività) a una disperazione dalla quale ogni tentativo di allontanarsi sembra lecito. Se la manovra di elusione ha non solo successo, ma trova di che alimentarsi in metodi di soddisfazione perversi, com’è nel caso dell’assunzione di cocaina, il circuito si rinforza e porta ad accrescere l’abuso della sostanza o la ripetizione del comportamento.

È questo il più serio ostacolo all’emancipazione da uno stato di dipendenza: non basta al soggetto, infatti, affrontare gli ardui momenti della disintossicazione fisica, bisogna che egli strutturi (o che sia aiutato a farlo) un Io in grado di affrontare i passaggi depressivi, come la paura abbandonica, la desolazione, il peso delle frustrazioni, l’angoscia fantasmatica di non riuscire a incidere sulla propria esistenza, stringendone in mano il timone e dirigendola verso quella meta che la personalità di ciascun essere umano racchiude, come una promessa, nel suo scrigno segreto.

6


Psicologicamente parlando, questo discorso evoca direttamente la comparsa all’orizzonte della più potente delle forze psichiche, quella divinità impersonale che gli antichi Greci chiamavano Anánke e i Latini Fortuna. Questa 7


forza si declina tipicamente nella società, nella famiglia, negli amici, nei colleghi, come ci ricorda il grande scrittore e psicologo analista James Hillman. Possiamo vivere il suo incedere verso di noi come “Fato” oppure come “Destino”. Qual è, quindi, la differenza che corre tra i due termini? Il primo indica il nostro sentirci alle prese con una realtà schiacciante, insormontabile, orribilmente ostile; il secondo allude, invece, al nostro dialogare con una verità su noi stessi e il mondo non ancora scritta, una verità da scoprire e rivelare a noi stessi e agli altri.

Questo processo ci obbliga a dar senso e significato alle più disparate esperienze, mettendoci lentamente e progressivamente in una posizione di 8


rapporto attivo e non più di sudditanza verso l’accadere storico, sociale, culturale e affettivo.

A tale proposito mi viene in mente il libro dell’eccellente scrittore ischitano Andrej Longo, Dieci [Adelphi, Milano, 2007], che declina in maniera originalissima – come il film del regista polacco Krzysztof Kieślowski, “Il Decalogo” (1989), a cui s’ispira – i Dieci Comandamenti biblici.

9


I personaggi dei dieci racconti di Longo appartengono, però, a un’anonima e degradata periferia napoletana: sono uomini e donne, spesso adolescenti, che cercano vanamente di sfuggire a un fato, il quale si declina per loro come realtà sociale opprimente da trasformarsi in spazio mentale, così cupamente pervasivo da incistarsi nelle loro vite come un cancro, soffocando ogni anelito di speranza. Il risultato è che i personaggi sono costretti a piegarsi ai codici spietati della violenza e dell’ingiustizia ed esprimendo una ribellione inesorabilmente destinata a fallire.

10


In un episodio, il settimo, “Non rubare”, ad esempio, il giovane protagonista si approssima per un istante a un decisivo cambiamento interiore, che assume la forma di un totale disorientamento, seguito alla drammatica rapina compiuta ai danni di un vecchio pensionato. L’anziano, pur rischiando di morire per le coltellate che il ragazzo gli ha inferto, uscito dall’ospedale, non sporge denuncia ma riprende il corso della propria vita senza apparente paura, sfidando con silenziosa sicurezza la fragile prepotenza del suo persecutore. Assistiamo qui all’influsso benefico dell’archetipo del Senex all’interno di una società nella quale il Puer è abbandonato alla follia della propria disperazione.

11


In questo caso osserviamo che, il lavoro dell’artista, pur proponendo situazioni opprimenti e crudeli, e malgrado la disperazione che da esse trasuda, per il fatto stesso di trattare la materia dei vissuti di chi sta ai margini ed è privo di voce, la risolleva dall’oblio sociale e culturale.

Longo, la cui scrittura essenziale e scarna fonde il napoletano orale all’italiano, giungendo a una sintassi molto originale, è un riuscito esempio di rivolta creativa allo status quo, imposto da uno strapotere perverso.

12


Egli combatte, in favore della propria comunità, l’assenza della dimensione psicologica e culturale della “Legge”, per adoperare la formula del grande psicoanalista francese Jacques Lacan. Il grido di protesta di Longo dunque è sostanziale ed empatico, partecipe e lucido e mai auto-assolutorio, poiché emesso dal “di dentro”, ossia dai luoghi più reconditi e inaccessibili dell’anima dei suoi personaggi, sineddoche di un intero popolo.

13


Tutto ciò mi richiama sia le parole pronunciate dallo scrittore triestino Claudio Magris, sia quelle e del poeta anglo-americano, Wystan Hugh Auden, che amò tanto intensamente l’isola d’Ischia da dimorare a Forio per ben nove anni, dal 1949 al 1958. Il primo afferma in Danubio [Garzanti, Milano 1986 – 2000, p. 265]: «Lo scrittore non è un padre di famiglia ma un figlio, che deve uscire di casa e andare per la sua strada; egli è fedele alla sua piccola patria angariata se ne testimonia la verità ossia se patisce fino in fondo la sua ossessione assumendola su di sé, e se contemporaneamente la trascende, con la dura distanza necessaria ad ogni arte e ad ogni esperienza liberatrice».

14


Il secondo, invece, nel pieno della tragedia della Seconda Guerra Mondiale [Un altro tempo, (1940) In memoria di Ernst Toller - p. 207 – traduzione di Nicola Gardini; Prefazione di Sandro Veronesi - RCS Quotidiani S.p.A., Milano 2004], scrive:

ÂŤSiamo tenuti in vita da poteri che fingiamo di capire: essi governano i nostri amori, essi al fine dirigono la pallottola nemica, la malattia e anche la nostra mano.

Il loro domani pende sulla terra dei vivi 15


E su quanto auguriamo ai nostri amici: ma esistere È credere di sapere per chi piangiamo, e chi sia afflitto.».

Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. È membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del 16


Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.

Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.it Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it

17


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.