LETTERE ALLO PSICOANALISTA
Gentile Professore, sono un allievo di un corso di fotografia. Ascoltando una sua conferenza, mi ha colpito particolarmente il passaggio in cui lei ha parlato del rapporto tra chi fotografa e chi viene fotografato. Non sono sicuro di aver capito proprio tutto benissimo, però mi pare chiaro che, come dice Salgado nel film “Il sale della terra”, le persone offrono il proprio ritratto al fotografo, e questo significa che chi scatta deve imparare a rispettare tutti e tutto profondamente. Lettera firmata
FOTOGRAFARE LA SENSIBILITÀ
1
di Francesco Frigione
Gentile amico, ha riassunto brillantemente i concetti di empatia, di attenzione e di “rispetto” con cui Sebastião Salgado, nello straordinario documentario che lei cita (2014 - diretto da Wim Wenders e dal figlio di Sebastião, Juliano Ribeiro Salgado) - sostanzia il mistero fecondo della sua sensibilità artistica e umana. Quanto l’artista brasiliano riferisce, ma soprattutto esprime in immagini e testimonia con lo stesso cammino della propria esistenza, infatti, va ben oltre l’ambito della fotografia e dell’arte e si traduce in un approccio spirituale all’uomo. La qualità estetica, in lui, si fonde con quella etica, coincidenza più unica che rara. Il sale della terra intreccia vari periodi e ambiti della vita del protagonista, grazie a filmati e a immagini di repertorio, a reportages e a un’emozionante analisi delle più indimenticabili foto, che ne fa esplodere la potenza evocativa, rivelandone l’anima. Sebastião Salgado, così accuratamente illuminato dalla macchina da presa, passo dopo passo rivela di essere un tessitore di «luce e ombre», un medium tra l’esperienza personale e interi popoli, un esploratore dell’anima umana che, dopo aver corso il rischio di morire fisicamente e psicologicamente, riconduce noi tutti al rapporto poetico col mondo naturale, in una visione cosmica d’incomparabile respiro.
2
“Il viaggio” compiuto da Salgado non è affatto agevole, poiché, come accade a tutti gli “eroi solari”, la sua passione per la verità finisce con lo sprofondarlo nella realtà delle ombre, negli inferi, nella tenebra della storia, dove tutto è strazio e trauma, e dove, solo quasi perdendo l’anima, riesce, lentamente e a stento, a tornare a sperare, sviluppando una differente funzione di sé come artista e donando a noi una nuova visione, quasi edenica e incontaminata, del fascino del mondo. Sebbene Salgado non compia alcuna pubblica professione di fede, si avverte il senso “spirituale” del suo rapportarsi agli altri in ogni scatto che esegue, perché è colmo di pietas. Qualcosa, addirittura, di questa sua intimissima e anomala forma di Imitatio Christi emerge ironicamente, quando racconta di come, presso una popolazione andina, egli avesse un amico convinto che lui fosse Cristo, sceso sulla terra per stabilire chi meritasse il paradiso e chi l’inferno. Il grande fotografo ci spiega, nel film, come la propria vocazione gli si sia nebulosamente rivelata attraverso il desiderio infantile di viaggiare oltre i profili delle montagne che circondavano la vasta fazenda di famiglia, ad Aimorés, nello stato del Minas Gerais, dove era nato nel 1944.
3
Come accadde assai prima anche al giovane Leopardi la cui siepe, l’ostacolo, diventò il trampolino per sperimentare l’infinito, così i rilievi ricoperti di fitta vegetazione pluviale che circondavano la proprietà, la Mata Atlantica, gli ispirarono la voglia di conoscere il mondo oltre le loro creste. Questa conoscenza in estensione diverrà con sempre più evidenza, negli anni, una conoscenza in profondità, una acuta sensibilità nei confronti della condizione umana e della storia: il suo compito diverrà raccontare la condizione dell’essere sfruttato, afflitto, ammalato, perseguitato, escluso, dimenticato, negletto, accecato dall’avidità e dall’ignoranza, azzerato dall’odio e dall’inesorabile indifferenza, ma anche gli sprazzi sorprendenti dell’essere capace ancora di amare, di solidarizzare, di scherzare, di aiutare, di esprimere dignità, pur nei frangenti più alienanti e abietti. Tutto ciò che la maggioranza 4
di noi elude, per paura o incapacità, Sebastião Salgado ce lo mostra nei suoi bianchi e neri di superba bellezza, in un contrasto tra la drammaticità e l’armonia, che genera un costante ossimoro poetico. Persino l’amore per la fotografia viene alla luce con fatica nella sua esistenza. Alle superiori, “Tião” appare uno studente svogliato e dalle idee confuse. Giunto all’università, abbandona la facoltà di giurisprudenza, suggeritagli dal padre, e s’inscrive a quella di economia, finendo per laurearsi. Nel frattempo conosce Lélia Wanick, con la quale si fidanza e si sposa, e che resterà la sua compagna di vita. Schierata politicamente a sinistra, la coppia si sente sempre più minacciata dalla dittatura militare al potere in Brasile e decide d’imbarcarsi per l’Europa: Sebastião e Lélia si trasferiscono a Parigi, a Londra e poi ancora a Parigi, dove gli nascono due bambini. Lui lavora come economista per una grande organizzazione internazionale; lei studia architettura. Ed è proprio dalle mani della giovane moglie che Salgado ottiene la prima vera macchina fotografica della sua vita. Scopre che quello strumento gli piace, gli si addice, e se lo porta dietro nei lunghi viaggi di lavoro. Esegue i suoi primi reportages in Africa, un continente con il quale stringerà un legame inscindibile. L’economista diventa allora antropologo visuale, viaggiatore, testimone, compagno e talvolta amico di chi ritrae. Improvvisamente il daimon prende piede, s’impone: la vocazione alla fotografia esige la rinuncia a tutto il resto. E la coppia, per l’appunto, rischia ogni avere per creare una piccola agenzia fotografica chiamata “Otras Américas” (“Altre Americhe”): Sebastião ne è l’occhio limpido e coraggioso, “l’atleta” che s’inoltra per anni in luoghi aspri, difficili e remoti, a contatto con popoli quasi ignoti, economicamente miseri ma umanamente ricchissimi; attraversa con passione travolgente il continente latinoamericano, il suo, quello dal quale il fascismo lo ha costretto a espatriare; Lélia, dalla capitale francese, ne diventa, invece, l’instancabile promotrice, l’organizzatrice, la co-progettista, oltre a essere madre amorosa dei figli, ai quali manca un padre così fisicamente assente. Quando finalmente si ristabilisce la democrazia in Brasile, i Salgado tornano nei luoghi originari, trovandoli radicalmente cambiati sul piano urbanistico, sociale ed ecologico. Anche l’ubertosa fazenda di famiglia si è insterilita, a causa del disboscamento 5
e della susseguente siccità. Sebastião, però, viaggia in tutto il mondo e affina il suo sguardo, sviluppando grandi progetti fotografici, la cui durata è di lustri, la cui portata è il pianeta: “Il lavoro dell’uomo”, “Exodus” sono due esempi eccezionali, che hanno cambiato la storia della fotografia e la visione che l’umanità contemporanea ha del progresso e delle menzogne narrate dai governi, dagli organismi internazionali, dalle grandi aziende, dai mezzi di comunicazione di massa, riguardo alle ingiustizie e alle diseguaglianze, alla fame e alle redistribuzione delle risorse, alle malattie e agli interventi umanitari. Salgado s’inabissa sempre più nel dolore, nella sofferenza, nel terrore, nei massacri, come quello impensabile del Ruanda, e, quando torna a casa sembra morto anch’egli, un reduce di guerra, incapace di scattare anche solo un’altra foto. La sua anima è annegata nella pena, ché ha subito una serie di traumi forse incancellabili. Lélia sogna ripetutamente, in quel periodo, che il terreno della fazenda è totalmente morto; psicologicamente parlando, sta entrando in contatto con la desolazione che incatena Sebastião, la sta lasciando entrare in sé, in un lento processo di trasformazione del trauma. È un travaglio profondo che suscita, infine, un’idea: ripiantare la Mata Atlantica, un’opera che mai tentata prima! Con quest’immaginazione vitale coinvolge il marito: ci sono seicento ettari brulli e inariditi, dove pascolano oramai poche vacche magre, da ricondurre all’antico splendore. Uno sforzo paziente e costante, che resiste a ripetuti fallimenti, porta i Salgado a realizzare il primo riuscito esperimento di rimboschimento di un territorio nella sua forma originaria, la ricostruzione di un habitat completo di piante, acque, animali, la riattivazione di un microclima perduto. Di pari passo, la coppia concepisce un nuovo progetto: fotografare quel 60% del pianeta ancora vergine, immune dall’intervento dell’uomo. Sebastião si rimette in marcia verso steppe, savane, foreste, oceani, barriere coralline, banchise polari, vette rarefatte, altipiani, cieli immensi e animali meravigliosi. Lo stesso rispetto, lo stesso amore che ha sempre sperimentato per i suoi simili Sebastião adesso lo avverte fortissimo per gli spazi e gli animali; questi, a loro volta, gli si offrono, gli vengono incontro, si sintonizzano con lui: la sensibilità intesa come reciprocità, come rapporto, decentra l’Io 6
umano, e se da un lato pare sottrargli importanza, paradossalmente, dall’altro lo rimette l’uomo al centro del cosmo, in una continuità tra sé e il mondo d’incomparabile armonia. Così, le parole pronunciate da Wenders nell’incipit del film, risuonano in conclusione più che mai esatte, commoventi, poetiche: «Perché, in fondo, l’uomo è il sale della terra».
Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. È membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
7
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.it Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
8