FRAMMENTI DI UN DISCORSO SULLA GRANDE MADRE TERRA

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FRAMMENTI DI UN DISCORSO SULLA GRANDE MADRE TERRA GREAT MOTHER EARTH DISCOURSE FRAGMENTS

di Francesco Frigione

Sinossi: All’indomani del terremoto che ha colpito le regioni del Centro Italia, il 24 agosto 2016, uno psicologo italiano riflette sul senso della disperazione e la speranza, l’archetipo della Grande Madre e il suo rapporto con lo sviluppo della coscienza rispetto alla cura dell’Anima e del territorio.

Abstract: In the aftermath of the earthquake that struck the regions of Central Italy on August 24, 2016, an Italian psychologist reflects on the sense of despair and hope, on the Great Mother archetype and its relationship with the evolution of Consciousness with respect to the care of 'Soul and territory.

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Parole chiave: Italia, terremoto del 24 agosto 2016, Erich Neumann, archetipo della Grande Madre, Grande Madre Terribile, nutrimento, distruzione, disperazione, speranza, sviluppo della coscienza, inconscio, cura, territorio, terapia, Imre Kertész, Zygmunt Bauman, Giacomo Leopardi, La Ginestra, Albert Camus, Emil Cioran, Sigmund Freud, Dante Alighieri, Julio Cortázar.

Key words: Italy, earthquake of August 24, 2016, Erich Neumann, Great Mother archetype, Terrible Great Mother, nourishment, destruction, despair, hope, evolution of Consciousness, Unconscious, care, land, therapy, Imre Kertész, Zygmunt Bauman, Giacomo Leopardi, La Ginestra, Albert Camus, Emil Cioran , Sigmund Freud, Dante Alighieri, Julio Cortázar. ________________________________________________________

«Devo riconoscere che determinate cose non sono proprio capace di spiegarle, in nessun modo, non quando le considero partendo dalle mie aspettative, dalle regole, dalla ragione – ovvero quando le considero dalla

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prospettiva della vita e dell’ordine generale almeno per quanto mi è dato conoscerlo.» [Imre Kertész, Essere senza destino, Feltrinelli, Milano, 2006- p. 161] *

Ne La Grande Madre, testo fondamentale della Psicologia Analitica (1956)1, Erich Neumann descrive con precisione gli aspetti che caratterizzano

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Erich Neumann, La Grande Madre, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1981 3


tale archetipo psichico, nel suo stato di indifferenziazione primordiale: la commistione di elementi affettivi e ideali legata ai fenomeni della generazione e, allo stesso tempo, della reinfetazione; le spinte propulsive fornite alla coscienza e quelle che la inghiottono nell’oscurità inconscia; la tensione verso lo sviluppo psichico e spirituale, e quella verso il suo annichilimento.

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All’interno di questo campo psichico, la terra diventa la manifestazione per eccellenza di una duplicità, ai cui opposti si collocano i doni gratuiti della fecondità e del nutrimento, e dall’altro dell’aridità e della distruttività tellurica. Di tali estremi una coscienza ancora poco sviluppata ha una percezione 5


totalmente scissa, per cui ora si bea della Terra Madre sfavillante cornucopia e ora, quasi inaspettatamente, ne verifica la valenza inumana, crudele e matrigna.

Come psicologo, all’indomani del terribile terremoto del 24 agosto 2016, che ha devastato le zone delle province di Rieti, Ascoli Piceno e Perugia, provocando più di trecento vittime, ho avvertito che il lavoro d’integrazione degli opposti, a partire da una notevole primitività della coscienza collettiva, è una sfida che noi italiani dobbiamo affrontare con particolare impegno. Senza la riuscita di questo processo ci viene, infatti, a mancare quel rapporto con il “non senso” dell’esistenza, che sta alla base di una coscienza sviluppata e di una più matura, seppur a volte dolente, identità umana. Infatti, l’atteggiamento tendenzialmente unilaterale della coscienza si ostina a concepire una Madre-Terra buona e provvidenziale, mite e nutriente, e tralascia sistematicamente le cure che debbono prevenire la sua latente distruttività, rendendo quest’ultima, quando si palesa, un evento assai più fosco e rovinoso.

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In un Paese che ha fatto del cibo e dell’attenzione alla filiera alimentare il fulcro del suo genio produttivo e, addirittura, una vocazione culturale, la negazione dei rischi e delle deturpazioni a cui va soggetto il suo magnifico territorio, appare particolarmente stridente. Sarebbe molto facile, ma errato, attribuire ogni colpa di ciò a una classe politica corrotta, o comunque, miope e incapace, dimenticando quanto ciascuno di noi condivide, in varia misura, questi difetti. Il compito psicologico a cui siamo chiamati è, dunque, ripartire con zelo dal contributo che possiamo prestare alla presa di coscienza comune.

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Al riproporsi della potenza della Grande Madre, non solo come aspetto vindice di una Natura sottovalutata, negletta o negata, ma come perdita di riferimenti credibili e ottenebramento della coscienza, coincide il decadimento della figura simbolica del Padre, che la nostra epoca sconta come fatto oramai assodato.

Considera in proposito Zygmunt Bauman: ÂŤNel 1775 accadde un triplo disastro. Terremoti, incendi e inondazioni in rapida successione toccarono Lisbona, a quel tempo, generalmente considerata come uno dei principali centri 8


del potere europeo, grazia alla sua ricchezza, ma anche per la sua cultura. Lisbona fu distrutta, ma i colpi della distruzione cadevano a caso; come Voltaire era pronto ad osservare “sia l’innocente che il colpevole subiscono questo male inevitabile”. Il verdetto di Voltaire era cristallino: il soggiorno di Dio al centro dell’universo non era riuscito a superare la prova della Ragione e della Morale impostate dagli esseri umani. Ora toccava agli uomini la nuova gestione. Lo sfratto era avvenuto.» 2.

Il punto inquietante del mondo contemporaneo è però, aggiunge il sociologo polacco, che anche gli esseri umani, i quali avrebbero dovuto assumere saldamente e con equità le redini del proprio destino, non si sono affatto rivelati all’altezza del compito: in luogo di una rassicurante capacità di 2

Zygmunt Bauman, Dalla fede alla politica: il tramonto del padre, la Repubblica, venerdì 9 settembre 2016 9


prospettare “magnifiche sorti e progressive” si è aperta anzi per l’umanità una voragine, un buco nero, un centro vuoto.

Ciò ripropone, senza mezzi termini, l’attualità della visione filosofica di Giacomo Leopardi, in particolare quella che si esprime nella lirica, struggente e altissima per lucidità e coraggio, La Ginestra (1836). La posizione che vi esprime il Poeta è più che mai tassativa: non si può dar credito all’illusione di permanenza dell’uomo; non solo il singolo ma la specie tutta sono assolutamente marginali e caduchi; ogni illusione di centralità e rilevanza è una fola, così come le fedi religiose restano una risibile mistificazione.

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Eppure, al termine di una dichiarazione tanto nichilista e orgogliosa quanto controllata e priva di retorica, Leopardi spicca un salto e s’identifica imprevedibilmente con la stessa ginestra, che cresce sulle pendici dello “sterminator Vesevo”, esaltandone il leggiadro profumo, la coraggiosa modestia, la forza di esistere e resistere, malgrado la distruttività che la minaccia e che terminerà per cancellare di lei persino il ricordo.

«E tu, lenta ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possanza soccomberai del sotterraneo foco, già noto, stenderà l’avaro lembo su tue molli foreste. E piegherai sotto il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente:

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ma non piegato insino allora indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma non eretto con forsennato orgoglio inver le stelle, né sul deserto, dove e la sede e i natali non per voler ma per fortuna avesti; ma più saggia, ma tanto meno inferma dell’uom, quanto le frali tue stirpi non credesti o del fato o da te fatte immortali.» 3.

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Giacomo Leopardi, La Ginestra – o il fiore del deserto, vv. 297 – 317. 12


Questa posizione di radicale assurdità dell’esistenza, capace di sfociare in un ossimoro poetico-filosofico, si riscontra anche nell’opera di due grandi Autori moderni: Emil Cioran e Albert Camus. Nella speranza, secondo Cioran, «c’è tutto, si trova tutto. Perciò la disperazione è qualcosa di così inquietante e anche per questo così pochi uomini hanno il coraggio di disperare. Perché la disperazione è di per sé insopportabile, insostenibile. […] Ma la vita si difende.»4.

Dal canto suo Camus, in un testo chiave come Il mito di Sisifo (1942), prima inchioda senza scampo l’uomo all’assurdità dell’esistenza, delineandola come una realtà priva di uscita, un’impasse, che condanna ad illudersi di potersi liberare dai pesi imposti dal Fato, e poi all’inesorabile delusione di

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Emil Cioran, La speranza è più della vita, intervista radiofonica rilasciata al giornalista Paul Assall, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2015 – p. 53. 13


scoprirsi preda di ulteriori costrizioni. Giunto, però, alle ultime righe del suo saggio, Camus ribalta la prospettiva: ora che il lettore stesso sa finalmente di essere Sisifo, di condividerne, cioè, il vano destino, egli ha acquisito una nuova coscienza. Accettando finalmente l’assurdo, può accedere a una nuova dimensione psichica e spirituale, ragion per cui, conclude lo scrittore, «bisogna immaginare Sisifo felice»5.

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Nel lavoro con i pazienti, mi dibatto costantemente in una condizione paradossale: da una parte pratico lo scetticismo, rispetto alle facili scorciatoie che la mente appronta per eludere il dolore dell’esistenza - un dolore che può divenire insopportabile e far rinunciare al cammino intrapreso attraverso la stessa terapia, lasciando così trionfare la condizione inconscia – e dall’altra alimento l’indispensabile flusso della speranza. La speranza postula un senso al patire e sostiene emotivamente l’essere umano, favorendo il duro lavoro di emancipazione della coscienza. Ma proprio tale emancipazione può accompagnarsi alla desolante perdita di qualsiasi illusione e pone nettissima la sfida, talvolta insormontabile, dell’incontro con l’assurdo. 5

Albert Camus, Il mito di Sisifo, in Opere, Bompiani, Milano, 2000 – p. 319. 14


In tutta onestà, devo ammettere che la speranza, anche ai miei occhi, sembra possedere, in certuni casi, connotati fideistici e non soltanto derivare da una legittima fiducia. È un sentimento che sovente proviene da un sottofondo sovrapersonale, da una dimensione archetipica correlata alla vita stessa, che trascende l’Io e lo rilascia nel Sé, da cui l’Io medesimo ha avuto luce.

Vi sono alcuni frangenti della terapia in cui cresce la tensione tra il naturale desiderio di incrementare la coscienza e quello di rinunciarvi: è un conflitto di cui si fa latore il paziente, ma che, sottilmente, riguarda anche me, in quanto esseri umani messi duramente alla prova. Sono spesso questi i momenti in cui, improvvisamente, mi scopro più umile. Sento che il dramma della persona che si rivolge a me è, a ben vedere, comune. Recuperato allora al facile slittamento verso la superficialità e alla condiscendenza automatica, non cedo alla tentazione di rassicurare il paziente riguardo al buon esito del nostro lavoro. Eccomi, d’un tratto, catapultato anch’io, allora, nell’inferno dantesco, ma non tanto per il contatto con il sadismo dei suoi demoni, quanto per quello con la violenza ottusa della coazione a ripetere6, della ripetizione,

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Cfr. Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere (1920). 15


ferale per la coscienza, di uno schema psichico che non muta mai. Sisifo il paziente e Sisifo io, dunque, costretti a specchiarci nel vacuo dolore di una ripetizione potenzialmente infinita. Ma anche in questo caso, il paradosso può trasformarsi in ossimoro: ingenerare una soluzione poetica all’impasse. Questi istanti di disarmante verità salvano me come terapeuta, riguardo al pericolo sempre incombente di “perdere l’Anima” (nel tentativo di proteggermi dal trauma violento della disperazione che il paziente mi comunica), e, ipso facto, assicurano al paziente la libertà di manifestare la propria di disperazione.

Ed è proprio negli istanti in cui questo sentimento limite non viene rimosso, né negato, che dalle profondità dell’inconscio può emergere e rivelarsi 16


alla coscienza il suo contrappasso: la speranza, che, come dice Julio Cortázar, è “il modo stesso con cui diamo nome alla vita”.

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In definitiva, il contesto analitico aiuta la coscienza a individuare il rischio di soggiacere all’aspetto divorante della Grande Madre, quando l’Io subisce traumi così possenti da cancellare l’esperienza del senso. Ciò riflette pienamente il pericolo che corrono anche le comunità colpite da tremende calamità naturali o da falcidie procurate dall’uomo (come le guerre e le persecuzioni, ad esempio). 17


Sebbene, in quelle circostanze, tanto negli individui quanto nei gruppi, si attivino nell’immediato strategie automatiche e inconsce volte a lenire l’impatto traumatico, la risposta alla lunga più valida, per evitare una sofferenza ancora più imponente, obbliga a una difficile disciplina interiore: la percezione del dolore assurdo, ingiustificato, inconcepibile, forse addirittura una devozione verso questa pratica, di certo un accompagnamento, una comprensione che quel motivo lacerante e distruttivo, anche se al momento impercettibile, resta una minaccia latente. A dispetto di quanto si possa credere, questo orientamento, comportando un ampliamento della coscienza personale e collettiva, schiude le porte alla speranza e apre a un più fruttuoso ritorno alla vita.

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Articolo pubblicato su Giornale Storico di Psicologia e Letteratura n. 23 - dicembre 2016 “MADRE TERRA”

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