LETTERE ALLO PSICOANALISTA
Gentile Professore, ho seguito con estremo interesse un seminario tenuto da lei e dal bravissimo fotografo Enzo Rando. Rando ha mostrato un video sugli scatti dei famosi “paparazzi” romani degli anni ’60 e sul loro tipo di fotografia sociologica, mentre lei, attraverso il bellissimo film di Alfred Hitchcock “La finestra sul cortile”, ha mostrato come lettura sociologica e psicologica possano sapientemente fondersi. Ha anche accennato alla centralità del senso di colpa nella cinematografia del maestro inglese. Questo discorso, in particolare, m’interessa molto: ne potrebbe parlare nella sua rubrica? Lettera firmata
HITCHCOCK E IL SENTIMENTO DI COLPA
di Francesco Frigione
Alfred Hitchcock (1899 – 1980) non è stato soltanto uno straordinario artigiano del cinema e l’indiscusso maestro del “brivido”, come per molti anni fu ritenuto, ma un autore di alto spessore intellettuale, un artista raffinato, colto e profondo. A riconoscerlo per primo, con il suo fiuto infallibile, fu il critico di punta dei Cahiers du Cinéma, e a sua volta grandissimo cineasta, François Truffault (1932 – 1984). In Hitchcock si nota, oltre alla perizia tecnica, alla magnifica direzione degli attori, al ritmo perfetto del montaggio e ai dialoghi eleganti e ricchi di umorismo, un’attenzione costante al tema della colpa, spesso associata all’ingiusta accusa nei confronti di un innocente. Il regista inglese, a questo proposito, rievocava un episodio raccapricciante della sua infanzia: avendo
compiuto una marachella peggiore delle solite, venne condotto dal padre al commissariato di quartiere, affinché fosse esemplarmente rinchiuso in una cella per varie ore. Il responsabile della stazione di polizia assecondò questa decisione. Essa impresse un’orma indelebile nel piccolo Alfred. La potenza repressiva della famiglia si associava d’un tratto a quella dell’intera società, della quale il padre rappresentava la cinghia di trasmissione. Una collettività intera si era schierata contro un solo individuo indifeso, un bambino, e gli aveva impartito una punizione spropositata e, pertanto, ingiusta. Dicevano i latini, che pure non erano morbidi nel comminare pene: “summum ius, summa iniuria”. Per fortuna Hitchcock vantava molte frecce al suo arco e, da adulto, seppe tradurre un trauma – o meglio, una condizione affettivo-culturale della società generatrice di traumi - in una acuta visione dell’essere umano, della sua realtà profonda, mitigata da una affettuosa pietà per le vittime e un’oscura simpatia per i “cattivi”, al novero dei quali sentiva, più o meno potenzialmente, di appartenere.
Era proprio questa lucida visione a indurlo a cercare i risvolti più inquietanti dell’essere umano, così come faceva la sua coetanea, la psicoanalisi, in ambito psicologico (L’interpretazione dei sogni, di Sigmund Freud, apparve nel 1899, lo stesso anno di nascita di “Hitch”!). Anche nei film più leggeri del maestro inglese aleggia una giustizia debole oppure sottilmente perversa e dei protagonisti costretti ad assumersi sulle proprie spalle i pericoli e le persecuzioni derivatigli dalla propria rettezza morale. Al “cattivo” di turno Hitchcock, invece, riconosce sempre una sorta di grandezza superiore di quella dimostrata da una collettività poco disposta a cogliere il male che essa stessa nasconde sotto il tappeto di casa. L’eroe di Hitchcock, a sua volta, è in partenza una persona qualunque, ma che ha occhi per vedere, per riconoscere con schiettezza dove si annida il
male, e che matura, nel corso della vicenda, il coraggio di svelarlo e denunciarlo, e che per questo motivo rischia la vita, essendo per lo più lasciato solo a battersi in favore della collettività. Questo schema rivela che c’è sempre un pericolo insito nel testimoniare le colpe di una struttura sociale, la quale preferisce coltivare i suoi piccoli “demoni” di turno, i “mostri”, gli assassini, gli psicopatici, piuttosto che riconoscere i rapporti iniqui e perversi che essa stessa alimenta.
Quanti denunciano il male sociale molto spesso vengono essi stessi ostracizzati e uccisi, come accadde a Socrate, ad Atene; la testimonianza di
un’altra verità rispetto a quella condivisa pare minare le fondamenta del vivere comune, i piccoli sporchi patti che tengono insieme le famiglie, le comunità, i popoli. C’è sempre una vittima innocente a cui addossare la colpa del malfunzionamento del tutto, a maggior ragione se questa vittima non sottostà al conformismo vigente nel campo degli usi, delle regole e dei giudizi. I modi in cui l’umanità compie queste gesta ignobili varia nel tempo e nello spazio, a misura che prevalgano delle procedure rozze e feroci, o che si scoprano dei meccanismi più subdoli e sottili di colpire gli innocenti. Il punto che sembra rivestire maggior interesse psicologico è che questo processo di esclusione violenta non riguarda solo le collettività nei loro momenti di delirio pulsionale, magari causati da minacce di dissolvimento dell’ordine politico e sociale, carestie, epidemie ecc., ma gli stessi singoli individui. La lotta tra l’affermazione di una verità interiore, grazie alla quale l’individuo costruisce e condivide con gli altri la propria personale percezione della realtà, rileggendola in maniera soggettiva, entra puntualmente in conflitto con la sua stessa psiche collettiva, che tende a espellere questa visione dalla coscienza, segregandola, mortificandola, demonizzandola.
Ognuno di noi sa diventare, al momento opportuno, il proprio persecutore, un accusatore (in ebraico antico “Satana”) che mette al bando o lapida la sua
anima innocente. Dunque, se si instaura questo regime persecutorio, il sentimento di colpa non riguarda più una colpa reale ma quella fantasmatica di aver messo a repentaglio la struttura precedente di personalità, e l’equilibrio del proprio mondo affettivo e relazionale. Il lavoro di ogni vera terapia del profondo consiste, dunque, nello smantellare questo sistema persecutorio ovunque esso attecchisca: nel contesto esterno ai pazienti o nel loro “mondo interno” – dove essi possono oscillare tra il credersi realmente colpevoli di quanto ingiustamente gli viene imputato o addebitare ogni danno agli altri. Questa oscillazione non consente mai di uscire da impasse e problemi effettivamente complessi. Paradossalmente, la conquista della capacità di avvertire un “senso di colpa legittimo” è, invece, una eccelsa acquisizione, in quanto che essa prepara a una riparazione creativa dei danni effettivamente provocati agli altri e a se stessi. Psicologicamente, il corrispettivo a livello di istituzione sociale di questo processo psichico è rappresentato da un sistema giuridico che punisce l’effettivo colpevole solo nella misura in cui lo può recuperare alla società, proteggendolo da una vendetta cieca e brutale. Un problema ancor più serio è il legame fissatosi tra le vittime consenzienti e i propri persecutori, quando cioè la colpa, come si suol dire, viene “masochizzata” e il piacere di essere puniti e umiliati prevale su qualsiasi altro. Molti penseranno immediatamente ai rapporti sessuali sadomasochistici, ma non è questo che m’interessa mettere in luce. Piuttosto rifletto sulle tante relazioni di coppia, familiari, di lavoro, di gruppo ecc. nelle quali si stabilisce un legame di ordine affettivo e morale che tiene avvinte “vittime” e “persecutori” in un abbraccio asfissiante e allo stesso tempo incredibilmente tenace.
Tutto ciò lo scorgiamo all’opera anche nei rapporti che corrono tra interi stati, come nell’inquietante Europa degli ultimi anni o nelle sempreverdi gestioni imperialistiche attuate dalle grandi potenze rispetto alle risorse dei popoli più miseri e arretrati. Soprattutto, il sistema economico-finanziario contemporaneo – un capitalismo che premia le grandi organizzazioni mafiose – ha instillato un tale senso di impotenza e nullità nelle classi medie di tutto il pianeta da convincere i suoi componenti, per il fatto stesso di scoprirsi vulnerabili, della colpevolezza dei mali che li affliggono ed erodendone quotidianamente i residui diritti. In un vasto e terribile gioco mistificatorio, fatto di abusi quotidiani e depredazioni, la pena della “esclusione sociale” dal mondo della classe media è divenuta agli occhi di questa “psicologicamente legittima” e, dunque, inarrestabile.
Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma in una scuola di specializzazione per psicoterapeuti, formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma e a Ischia. Ha fondato e dirige il webzine e il quadrimestrale internazionali “Animamediatica”.
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