LETTERE A UNO PSICOANALISTA
Gentile Professore, assisto, ogni giorno piĂš basito e impotente, al dispiegarsi di episodi di malaffare, di scandali, di violenza, a delitti crudeli e assurdi. Le cronache giornalistiche ne grondano, spesso trattandole con compiacimento morboso, o, in altri casi, con un distacco cinico e incomprensibile, data la gravitĂ degli eventi.
Stento a riconoscermi in questo mondo di misfatti e mi chiedo cosa fare. Non so, però, da dove cominciare: ogni tentativo mi sembra inutile; troppe
sarebbero le cose da rimettere in sesto, troppi gli ostacoli da sormontare. Me ne deriva un senso di inutilità che, a sua volta, mi porta al ritiro amareggiato, tipico di chi ha osato sperare di poter non dico “cambiare il mondo”, ma almeno renderlo migliore rispetto a come l’aveva trovato.
Parlando e, nonostante tutto, confrontandomi con gli altri, scopro che questo mio stato di animo è condiviso da molte persone. Allora mi chiedo: dove potrà mai andare il mondo se tutti ci sentiamo così avviliti, così sconfitti in partenza? Ecco che una questione di ristagno sociale, economico, politico, culturale, mi sembra trasformarsi, di un tratto, in un problema psicologico. Ragion per cui glielo rigiro, sperando che almeno lei sappia indicarmi un’alternativa, dando più forza a quella fiammella di speranza che, pure, da qualche parte, in me, non vuole ancora spegnersi. Lettera firmata
L’IMPOTENZA DI PSICHE PRIGIONIERA DELL’INFORMAZIONE
di Francesco Frigione
Gentile lettore, proprio di recente ho avuto modo di apprezzare l’editoriale di Giovanni De Mauro, direttore dell’Internazionale, un magnifico settimanale che raccoglie il meglio della stampa mondiale. Vi si citavano gli esperimenti realizzati sui cani, nel 1967 (ma con successivi approfondimenti negli anni ’70), dallo psicologo statunitense Martin Seligman. I loro risultati mostrarono delle significative corrispondenze tra il comportamento delle povere bestiole assoggettate a un trattamento doloroso, al quale non potevano sottrarsi, e le condizioni depressive di molti esseri umani.
In pratica, i cani venivano divisi in due gruppi inseriti in gabbie diverse: a entrambi venivano somministrate delle scariche elettriche. I primi, però, spingendo delle leve, potevano evitare le scosse; i secondi no. In una seconda fase dell’esperimento, veniva data la chance ad entrambi i gruppi di salvarsi dallo stimolo penoso, ma soltanto il gruppo che, in precedenza, aveva avuto modo di cogliere l’influenza del proprio comportamento sulla realtà ne approfittava; l’altro, invece, subiva passivamente il crudele trattamento e non cercava vie di uscita. Solo facendogli fare esperienza dell’effettiva possibilità di scappare dalla gabbia, nella nuova situazione, gli animali si avvalevano di questa opportunità (non gli bastava vedere altri simili che agivano in modo differente).
Seligman derivò da questi studi la cosiddetta teoria della “impotenza appresa”. Questa, come anticipavo, sembrava spiegare una condizione assai diffusa tra gli esseri umani, la “hopelessness depression” (letteralmente, “depressione senza speranza”), permettendo di riconoscerla non in base ai sintomi, bensì alle cause che la provocano: ovvero, la memoria emotiva del perdurare di situazioni dolorose impossibili da modificare. In poche parole, i “traumi”.
De Mauro, si riferiva, a sua volta, a un articolo del saggista australiano Jeff Sparrow, nel quale questi s’interrogava sul come mai i famosi “Panama papers” - ovvero i documenti scoperti di recente sulle frodi fiscali di politici, governanti, imprenditori e personaggi in vista di tutto il mondo -, invece di suscitare vibranti proteste e chiare espressioni d’indignazione nell’opinione pubblica, siano stati, praticamente, consegnati alla dimenticanza collettiva. Le conclusioni del giornalista italiano erano le seguenti: «Ogni nuovo scandalo che passa come se niente fosse, che resta impunito senza che nulla cambi, è un altro precedente che viene stabilito. […] In questo, i mezzi di informazione svolgono un ruolo che alimenta paradossalmente proprio quella depressione, concorrendo a determinare l’assuefazione provocata dalla ripetizione di scandali e rivelazioni» (L’Internazionale, n. 1150 – 22/28 aprile 2016 – p. 7).
Dunque, se l’analisi è giusta – e, personalmente, io la condivido -, il non facile problema consiste nel come selezionare significativamente il bombardamento informativo che ciascuno di noi subisce da radio, televisioni, giornali, blog ecc., senza perdere, allo stesso tempo, il contatto con la realtà e con una “buona” informazione.
Adotto l’aggettivo “buona” non perché creda che, all’interno di una società libera, ci sia qualcuno in grado di affibbiare patenti di “bontà” oggettiva, ma perché credo che il compito presente e futuro di ciascuno di noi consista sempre più nel verificare i nostri limiti di funzionamento mentale, limiti oltre i quali non elaboriamo alcunché di quello che ci viene mostrato o riferito e, al contrario, ne usciamo prostrati. Dobbiamo, cioè, apprendere a valutare cosa la nostra soggettività possa cogliere efficacemente senza venire schiacciata dall’impatto con il mondo dell’informazione. Tutto ciò implica non solo un rapporto con la quantità delle
cose che veniamo a sapere, ma con la qualità dello sguardo critico che riusciamo a esprimere, a partire da un numero assai limitato di stimoli.
A questo proposito, mi sovviene proprio la conversazione avuta di recente con il bravissimo fotografo ischitano Enzo Rando, in merito al suo stile creativo: avendogli chiesto quale, secondo lui, ne fosse l’elemento caratterizzante, mi confessava che consiste nell’eliminare dall’inquadratura gli elementi ridondanti, essendo il suo sforzo quello di cogliere l’essenziale di un soggetto. In effetti, coloro che osservano le sue immagini le apprezzano proprio per la purezza, il nitore, la scarna sostanzialità, qualcosa che sembra alludere proprio all’essenza della forma. In qualche modo, questo procedere “a levare” è ciò che simula anche il lavoro della memoria, che è tanto più riesce a ritenere, quanto più sfronda gli elementi che la appesantiscono; dunque, paradossalmente, quanto più si avvale della collaborazione dell’oblio.
È opportuno, probabilmente, tornare all’eleganza del cosiddetto “rasoio di Occam”, il principio filosofico che nel sistema del francescano inglese Guglielmo d’Occam (1285 – 1347), si legava a una visione metafisica, mentre ai nostri tempi può rappresentare un modello di salvaguardia psichica e culturale, dalle vaste conseguenze politiche e sociali. Insomma, questo sforzo d’informarci puntando all’indispensabile, interrogandoci, volta per volta, se quella fonte di stimolo ci stia effettivamente aiutando a riflettere in modo più acuto, a mettere in forse le nostre precedenti convinzioni, a scoprire nuovi orizzonti, piuttosto che a confermarci nelle credenze già acquisite e a ripercorrere dei luoghi comuni, può risollevarci dalla potenziale distruttività di un’informazione che collaziona innumerevoli fatti, senza quasi mai digerirli prima di riproporceli.
Vista nei termini della psicoanalisi bioniana, potremmo allora intendere il mondo dell’informazione come una “madre” incapace di (o non intenzionata a) rielaborare significativamente i dati bruti che le giungono dal mondo e, quindi, tesa soltanto a riproporli come elementi non mentalizzabili per i suoi “fruitorifigli”. Il che, inevitabilmente, suscita in loro una depressione, un senso di intollerabile forza del fato (sotto forma d’incontrollabili meccanismi socioeconomici) e di impotenza. Questa “madre” collettiva va sostituita, pertanto, con un’altra, composta da una rete di scambio e cooperazione di pensieri ed emozioni continuamente filtrati da una coscienza paziente e attenta, piuttosto che vomitati da una inconscia e ingorda meccanicità, preda della paura e ansiosa di affibbiare etichette all’apparenza definitive, per poi passare immediatamente ad altro. La crisi depressiva della nostra società la si combatte soprattutto con una coscienza orientata a conoscere, pronta a
meravigliarsi a ogni passo, piuttosto che a registrare avvenimenti, nel vano e angoscioso tentativo depotenziarne il possibile valore trasformativo.
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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com
Rivista: www.animamediatica.it