L’ITALIA CHE, IN REALTÀ, NON AMA LA CULTURA

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LETTERE ALLO PSICOANALISTA

Gentile Professore, ho da poco compiuto trent’anni, sono un pittore che può permettersi di vivere della sua arte. In Italia sembra un privilegio incomparabile, ma in altri paesi (penso alla Germania, alla Francia, alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti) si dà ben altro riconoscimento e sostegno a chi produce cultura. Da qualche tempo mi sono trasferito sull’isola d’Ischia, che con la sua luce, le sue rocce, le mille piante, i profumi, a dispetto di tutti gli abusi edilizi che l’hanno sfregiata, non smette mai d’incantarmi. Premesso ciò non posso evitare di dire che, malgrado le ottime intenzioni di alcune associazioni culturali e di qualche bravo gallerista, in questa terra, a livello pubblico, per l’arte e la cultura si fa veramente poco. È un atteggiamento così assurdo e autolesionista! Si potrebbe vivere soltanto di cultura in un luogo tanto bello e tanto ricco di storia, eppure quasi tutti gli sforzi e gli appetiti si indirizzano a incentivare un bieco turismo di massa. Non le chiedo di analizzare il triste dato sociologico o politico, che sta sotto l’occhio di tutti, ma quello psicologico di questa mancanza. Se mai un dato psicologico esiste … Lettera firmata

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L’ITALIA CHE, IN REALTÀ, NON AMA LA CULTURA

di Francesco Frigione

Gentile lettore, innanzitutto la ringrazio di avermi sollecitato a parlare del problematico rapporto che l’Italia – e il Sud in particolare – ha instaurato con la propria produzione culturale. Malgrado il suo dubbio conclusivo (in cauda venenum), le anticipo che penso di sì, che possiamo rintracciare effettivi motivi psicologici in questa desolante noncuranza. Essendo lei un pittore ho deciso di far partire le mie considerazioni da un quadro, sperando che sia di buon augurio.

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Infatti, lo splendido ritratto di Sebastiano del Piombo che accompagna il mio articolo, con ottime probabilità, rappresenta Vittoria Colonna, la cui capacità di patrocinare l’arte rinascimentale sull’Isola d’Ischia, rendendola col suo mecenatismo intelligente una corte raffinata, dove si confrontavano alcuni tra i più alti ingegni della sua epoca, si è fusa con la profonda fedeltà a una propria profonda ispirazione poetica e spirituale.

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Nel dipinto vediamo Vittoria rappresentata nelle vesti della leggendaria Artemisia, sposa fedelissima al marito anche dopo la sua morte.

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Sappiamo che la Colonna fu moglie innamorata e poi vedova del fiero generale Fernando D’Avalos, e che fu il matrimonio a condurla da Roma a Ischia. Nel ritratto, la mano destra poggiata sul cuore, sottolinea come il sentimento per l’amato perduto si sia tradotto in segreto legame interiore, capace di mantenersi spiritualmente anche dopo la morte; la sinistra, che indica i versi del libro, invece proietta tale vincolo intimo nella sfera estetica, nel luogo della condivisione con gli altri esseri umani. Il valore etico del superamento del vissuto personale in una generosa offerta al mondo è potente e, al contempo, si fa strada in modo austero e discreto. Questa immagine, pur realizzata cinque secoli fa, a mio parere sintetizza perfettamente cosa significhi fare cultura ancor oggi, poiché il personaggio che così abilmente rappresenta coniuga in sé le distinte funzioni psichiche e sociali di cui abbisogna la creazione.

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L’espressione artistica richiede infatti un duplice lavoro psicologico, che si espleta nell’attività d’ispirazione, di progettazione e di traduzione fattuale dell’opera: per giungere a risultati artistici non basta riproporre delle sensazioni o delle idee; bisogna che esse siano autenticamente presenti in chi le sente e che questi, resosi permeabile al caos, si faccia investire dai contenuti inconsci e da brandelli di realtà, ma non annientare (altrimenti cadrebbe in uno stato di disorganizzazione psicotica o di delirio paranoico); infine, richiede una perizia tecnica per tradursi in oggetto materico o intellettuale (come avviene, in forma estrema, nell’arte “concettuale”).

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Dunque, il lavoro dell’artista presenta degli aspetti analoghi a quelli dello sciamano dei popoli tradizionali – come aveva intuito Pollock – il quale lotta per strappare l’anima di un paziente agli spiriti che la vorrebbero trattenere nel mondo dei morti: per quanto “apollinea”, armonica, equilibrata, possa apparire la sua espressione, di fatti vi è sempre, alle sue fondamenta, una vicenda “dionisiaca”, infera, sfrenata, nella quale l’Io dell’artista deve imbarcarsi.

Non a caso, il grandissimo pittore e scultore Salvador Dalí, ironico inventore del “metodo paranoico-critico”, affermava con altrettanto umorismo: «L’unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo!». All’artista, infatti, l’apprendistato tecnico serve a dotarsi di un contenitore rituale per mettere a frutto stati mentali estremi in cui s’imbatte. Egli (ella) impara a giocare con percezioni dimenticate dai più, e che, altrimenti, condurrebbero 7


alla follia. Giocare significa, in questo contesto, accogliere, recepire, far proliferare, scartare dalle impurità vissuti e sensazioni, trasformarli in immagini mentali, rendere queste essenziali e suggestive, e proporle, infine, a un pubblico che ne possa fruirle grazie a dei codici simbolici condivisi. Si tratta di un enorme sforzo psicologico!

L’opera, d’altronde, non attinge soltanto a un patrimonio personale di vissuti e di idee ma collettivo: nasce e riguarda la comunità, la società, la cultura di appartenenza e sprigiona un dialogo con altre realtà culturali disseminate nello spazio e nella storia. L’arte svolge, dunque, un ruolo di ponte, di traduzione, di stimolo e di influenza tra gli esseri umani, ne costruisce e decostruisce continuamente l’identità, ed ogni opera funge come da specchio in cui chi si riflette può vedere d’un tratto dettagli imprevisti.

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L’arte possiede una valenza “politica”, anche – o forse soprattutto quando non si dichiara come “politica”. Ed è per questo motivo che quasi tutti i regimi autoritari hanno preso di mira gli artisti non allineati, coloro, cioè, le cui espressioni disturbavano l’immaginazione irrigidita del potere.

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Un paese profondamente libero e democratico ama l’arte, la cura, la favorisce, la produce. E, parlando dell’Italia, subito viene alla mente l’immenso patrimonio storico che possediamo, disseminato in ogni angolo del nostro territorio.

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Però questa visione di paese-museo m’inorridisce: come se fossimo una realtà bloccata nel tempo che fu, quello sia pur esaltante dei nostri antenati o anche delle ultime grandi avanguardie del dopoguerra. No, l’arte è ora e domani, è il domani: rappresenta la testimonianza della nostra fiducia in ciò che ancora deve venire! Non abbiamo bisogno soltanto di tecnologia, abbiamo bisogno assoluto di un consesso culturale in cui chi fa conoscenza (scientifica, umanistica, artistica) scambi segni e intrecci relazioni feconde.

Oggi, in Occidente, purtroppo ci troviamo a misurarci con una nuova forma di autoritarismo: quello della monotonia materialistica – un materialismo per nulla “dialettico”, potremmo definirlo facendo il verso a Marx – che si rifà a un’ideologia economicistica stolta e autoreferenziale. Non v’è destra o sinistra parlamentare che tenga: le scelte e i risultati dei partiti sostanzialmente 11


convergono nel prendere atto delle tendenze dei “mercati”, non nel precederle o nell’influenzarle. Chi conta sono anonimi gruppi di potere transnazionali non soggetti ad elezioni.

L’humus perfetto di una società mafiosa. Il delirio economicistico sta conducendo alla cancellazione delle classi medie e a un impoverimento generale dei popoli, in favore di un pugno di ricchi sempre più chiusi nei loro privilegi. Ciò dà spazio a facili e pericolose tendenze demagogiche, a derive razziste e a reazioni di rigetto della vita democratica. La crisi che viviamo non è congiunturale, ma strutturale, in quanto non abbiamo ancora sostituito i vecchi paradigmi di sviluppo con i nuovi, che ci proiettino non solo materialmente, ma psicologicamente e culturalmente nel futuro.

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Molti dei problemi contemporanei ci sono chiari e abbiamo anche paradigmi stimolanti per risolverli, come quello della nuova rivoluzione industriale che dovrebbe consentirci di riaggiustare i cambiamenti climatici e di partorire una florida economia basata sul rispetto dell’ambiente (vedi a tale proposito le tesi di Jeremy Rifkin);

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eppure ancora mancano le scelte politiche di grande scala, manca il coraggio di compierle, perdendo un labile e già eroso consenso; e «il coraggio», come asseriva Don Abbondio, «chi non l’ha non se lo può dare» … Ciò nonostante, a volerli cogliere, si scorgono numerosi segnali di cambiamento nel mondo, in quanto il pianeta ci si trova sempre più stritolato nella morsa della necessità. Semplicemente, essi non paiono toccare il Sud d’Italia, risucchiato, abbandonato e autocondannatosi allo stato di “pura espressione geografica”, con la sua corruzione endemica, con l’incompetenza e l’approssimazione a regnare sovrane, un Sud rassegnato alla povertà crescente – materiale e morale. “Perché?” c’è da chiedersi.

La storica divaricazione meridionale tra intellettuali e classe dirigente esercita il suo forte peso in questo. E, inoltre, “la linea della palma”, come recitava Sciascia, “ogni anno sale di più”, ovvero si propaga a realtà sempre più ampie. Ma alcune di esse paiono avere “anticorpi”; altre no. E vi è anche un altro fenomeno di degrado generale che dobbiamo attivamente rintuzzare: l’apologia dell’ignoranza e della dabbenaggine, che sono una costante del pastone di cui si nutre grossa parte della popolazione

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tramite i media: pochezza espressiva, volgarità gratuita, esaltazione della rozzezza e dell’idiozia informano da anni la programmazione televisiva.

Si tratta di un’implicita autorizzazione fornita a chi langue in condizione di pochezza culturale, a chi è maleducato e grezzo, uno stimolo a sentirsi superiore e a prevaricare chi non lo è, a negare diritti di chi, al contrario, si sforza quotidianamente di affinarsi e di migliorare il suo contesto.

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L’unico valore, la materia: i soldi, il successo personale, fosse anche quello più fatuo e caduco. A questa deriva - che, in termini psicologici, premia l’invidia distruttiva nei confronti della cultura - si può dire “no”, rivendicando il “sì” denso di orgoglio della faticata creazione culturale.

Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. È membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.

Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it

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