LETTERE ALLO PSICOANALISTA
Chiar.mo Professore, sono un insegnante delle superiori. M’interrogo sugli ultimissimi eventi politici e cerco di spiegarli ai miei studenti: assistiamo al sorgere di un nuovo conflitto in Medio Oriente tra sciiti e sunniti. Contemporaneamente, l’Europa appare sempre più debole e frantumata, in preda a rigurgiti di nazionalismo sciovinista e a una classe politica incapace di una grande visione. Com’è possibile che ancora una volta il male si ripeta, che le persecuzioni delle minoranze, gli assassinî di massa, le stragi e le divisioni più meschine abbiano luogo: la storia non ci ha insegnato niente? Lettera firmata
L’ODIO, LA GUERRA, GLI INNOCENTI 1
di Francesco Frigione
Gentile lettore, rispondo con piacere alla sua lettera, senza entrare nel merito di questioni storiche e geopolitiche estremamente complesse, per analizzare le quali mi mancano sia lo spazio, sia le indispensabili competenze. Credo, d’altronde, che lei mi richieda una riflessione psicologica sull’impressionante “ripetizione” dei fenomeni persecutorî nella storia umana, piuttosto che un lavoro di tipo storico-politico.
La questione, dunque, potrebbe essere imbastita nei seguenti termini: perché, a memoria d’uomo, alcuni individui o delle minoranze sono stati fatti oggetto di aggressioni, se non di stermini? Qual è il meccanismo mentale che s’impadronisce d’intere comunità e le trasforma in una massa fanatica alla ricerca di una vittima da sacrificare in nome dell’ambita pace sociale, del ripristino di un ordine turbato? Perché non solo le folle inferocite, ma anche i capi, ai quali è demandata la lucidità nei frangenti difficili, sovente la smarriscono e si lasciano sopraffare da una smania di violenza sugli innocenti? 2
O, all’opposto, perchÊ interi popoli si lasciano trasportare dalle farneticazioni implausibili di alcuni leader paranoici?
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Sembrerebbero questioni distinte, ma l’intera opera storico-psicologica di RenÊ Girard, quella sulle persecuzioni medievali di Carlo Ginzburg, le geniali riflessioni di filosofia politica di Hannah Arendt e vari brillanti studi psicoanalitici, tra cui quelli di polemologia di Franco Fornari (vedi Psicoanalisi della guerra, 1964), ci consentono di recuperare una comune radice per fenomeni incredibilmente ricorsivi, sebbene a volte distanti nel tempo e nello spazio.
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Cominciamo con Girard (1923 - 2015): il grande pensatore francese afferma che il collante di ogni collettività è il “pensiero magico”. Questo approccio, del quale la scienza contemporanea rappresenta uno sviluppo e un affinamento, cerca sempre di stabilire un nesso di causa-effetto rispetto ai più disparati accadimenti, a maggior ragione se essi influiscono pesantemente sulle condizioni di vita degli esseri umani e sui loro legami sociali: il corso degli astri, lo scorrere delle acque, i movimenti della terra e dei mari, le pestilenze, le infestazioni, le siccità, le ribellioni, le guerre. Nell’ignoranza effettiva dei motivi reali, il pensiero magico subito afferra un agente, quello più a portata di mano e facile da colpire, che “deve aver prodotto” il problema.
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Con estrema rapidità, i membri della collettività – altrimenti in conflitto – convergono nell’addossare la crisi a un “capro espiatorio”, a un innocente. Ne abbiamo uno splendido esempio, in letteratura, nel capitolo dei Promessi Sposi in cui Renzo, un povero provinciale recatosi nella Milano appestata, per ritrovare la sua Lucia, è costretto a scappare da una folla indemoniata che gli urla dietro «Dagli all’untore!» (“l’untore” essendo colui che, secondo questa fantasia persecutoria, deliberatamente contaminerebbe la città).
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Pertanto, la vittima, agli occhi di chi è pronto a linciarla si trasforma in “mostro”, un essere disumano che si propone di riportare la società a uno stato di disperazione primordiale, se non proprio al suo azzeramento assoluto.
Secondo Girard la crisi viene letta dalla mente collettiva, per una spontanea spinta alla “imitazione”, come tentativo di “annullare le differenze” di classe, di grado e gerarchia, di provenienza etnica e culturale, di sesso, di diritto matrimoniale. Al “capro espiatorio” viene, pertanto, attribuita ogni “nefandezza” da cui quella particolare società si protegge con dei tabù: l’incesto, la violenza illegittima, addirittura l’ibridazione tra realtà animale e umana.
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I tratti bestiali, abominevoli, abbondano nelle vittime, così come le più crudeli intenzioni omicide, le perfide e occulte volontà diaboliche. Solo il massacro rituale dei tanti contro uno ricompatterà (temporaneamente) la moltitudine, assicurandole l’illusione della stabilità sociale e culturale. Una volta demonizzata, brutalizzata e ammazzata, la vittima muta il suo valore agli occhi della collettività e viene santificata. Essa assume caratteristiche benefiche e protettive, viene divinizzata e ossequiata da un culto.
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Terribilmente potente nella distruttività, il “capro espiatorio” diventa altrettanto straordinario nella capacità di beneficare e guarire coloro che l’hanno messo a morte. In questo risiederebbe la natura del “sacro”. Le mitologie e le religioni di tutto il mondo conservano tracce più o meno indirette di questi ripetuti omicidi, assevera lo storico transalpino; ma le generazioni seguenti a quelle dei sacrificatori, progressivamente, ritengono sempre meno accettabili gli atti esecrabili commessi dai loro progenitori e dunque tendono a rielaborare i racconti originari, mondandoli dagli aspetti “perturbanti” per le loro coscienze.
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Ed è, però, proprio questa rimozione dalla coscienza della colpa originaria – come insegna Freud – la condizione della ripetizione nel tempo dell’atto persecutorio, eseguito da altri attori ai danni di nuove vittime. Sostiene Girard che il solo cristianesimo ha il pregio di basare il suo messaggio sulla parola della vittima innocente (“l’Agnello di Dio”), piuttosto che su quella dei suoi persecutori. Ciò, paradossalmente, avrebbe permesso all’Occidente di costruire, nei millenni, una società laica, libera cioè dal potere calamitoso del “sacro” e capace, non senza enormi difficoltà e passi del gambero, di provare sentimenti di colpa nei confronti del “capro espiatorio”.
Secondo René Girard esistono alcuni “segni vittimari” privilegiati, cioè degli aspetti che, in alcuni momenti di panico collettivo, fanno di gruppi o individui dei bersagli “perfetti”: stranieri, poveri, dotati di anomalie fisiche (albini, ad esempio), storpi, fanciulli indifesi, oppure minoranze nei confronti delle quali si opera un apartheid, tipo i meteci ad Atene, gli ebrei della diaspora e le donne, soprattutto le contadine, nel Medio Evo e nel Rinascimento.
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Ricordiamoci anche che, come lo psicanalista Jacques Lacan (1901 1981) ha messo in luce, la paranoia non è un disturbo del pensiero – sin troppo coerente in questo caso – ma una distorsione della percezione, ragion per cui l’altro viene immediatamente visto e sentito come orrendamente minaccioso e ostile.
La percezione deriva dal fatto che il paranoico non “possiede più un inconscio”, come spiega Massimo Recalcati, in quanto proietta totalmente la “colpa” (reale o immaginaria) sull’altro, allo scopo di mantenere di sé 11
un’incorruttibile immagine di innocenza. A salvaguardia di questa condizione psichica piega ogni cosa e deforma il mondo.
Riprendendo il filo del discorso storico, scopriamo, come dimostra Carlo Ginzburg nel suo “Storia Notturna” (1989), una sostanziale uniformità e continuità tra le accuse rivolte, a partire dal 1300 e proseguendo nei secoli, ai lebbrosi (le cui piaghe rendevano questi ammalati quasi indifferenziabili l’uno dall’altro e, dunque, particolarmente spaventosi), agli Ebrei, agli infermi di mente, ai delinquenti e alle donne accusate di stregoneria in tutta l’Europa: avvelenamento delle fonti, artifizi magici, orge, omicidi di feti e bambini, commistioni con animali, parti mostruosi, scellerati patti con l’infedele e con Belzebù.
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In tutti questi casi alle accuse si accompagnarono massacri, inizialmente spontanei e selvaggi e poi sempre più pianificati dall’alto, attraverso giurie locali, tribunali monarchici e inquisizioni religiose. Le vittime delle persecuzioni passarono, dunque, dal linciaggio di piazza e al rogo nella propria abitazione, all’esproprio dei beni, alla tortura e quindi all’espiazione finale delle colpe che gli venivano addebitate.
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La tortura appare particolarmente importante poiché serviva a estorcere la confessione definitiva di colpevolezza ai più riottosi ad ammetterla. Ogni filone mitico ordito dai “giustizieri” si andò intrecciando all’altro, rafforzandolo e alimentandolo. La cospirazione dei lebbrosi per sostituirsi ai sani e dominare il mondo, ad esempio, venne collegata alla macchinazione degli ebrei che li instradavano, a loro volta, istigati dal re arabo di Granada, incapace di sconfiggere i cristiani con mezzi leali.
Sappiamo come i “pogrom” (dal russo погром “devastazione”) nei confronti dei “giudei” si siano ripetuti nell’Europa orientale dall’Ottocento agli anni Venti del Novecento, per poi giungere, all’apoteosi del Terzo Reich, che fece strage anche dei portatori di handicap, dei rom, dei sinti, degli omosessuali e degli oppositori politici.
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A questi, nei campi di sterminio, venne sistematicamente sottratta l’umanità prima ancora della vita. Anna Arendt (1906 - 1975) narra come, antecedentemente agli orrori dei totalitarismi nazista e stalinista, tra la I e la II Guerra Mondiale, si verificò in Europa una tragica noncuranza nei confronti dei rifugiati e degli apolidi, i cui diritti fondamentali vennero totalmente disconosciuti. Il non essere più protetti da uno stato rappresentava una “colpa”, oltre che una disgrazia, per quei milioni di poveretti senza casa.
Questo evento epocale sempre sottaciuto, secondo la studiosa tedesca, unito allo sconvolgente silenzio mantenuto da tutte le potenze nei confronti del genocidio del popolo armeno (1915-1916), eseguito dal decadente Impero 15
Ottomano, rappresentano la fatidica premessa alla “soluzione finale” di Hitler, cioè, all’Olocausto.
Ricapitolando: cos’è che, parlando in termini psicologici, promuove la tentazione persecutoria nei confronti dei singoli e delle minoranze? A livello collettivo, l’insopportabilità dell’angoscia che procura una realtà naturale fuori controllo, o la minaccia dell’incipiente dissolversi di istituzioni e organizzazioni politiche, sociali e culturali; a livello individuale, la massiccia proiezione di desideri psichici conflittuali che tendono a dissolvere l’integrità “immacolata” di una personalità rigidissima.
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Franco Fornari (1921 – 1985) ipotizza il nesso tra questo tipo di vissuti e il fenomeno collettivo della guerra, dove gli esseri umani giungono all’autosacrificio, nella convinzione che il nemico rappresenti il male assoluto.
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Prendendo le mosse da una interpretazione kleiniana della psiche, lo psicoanalista milanese considera la guerra come tentativo di negare un lutto interno a un gruppo, a un popolo, a una nazione. In tempi di crisi, il dolore insopportabile procurato ai membri della comunità per una (reale o presunta) perdita di affidabilità dello stato nel rassicurarli e proteggerli gli impone di cercare la minaccia all’esterno. La morte in guerra dei singoli non fa che rafforzare l’ideale venerabilità “materna” dello stato, o della fazione in cui essi si riconoscono, in quanto il loro sangue di vittime sacrificali accresce, nell’immaginario, proprio il valore “sacro” della patria.
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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
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