LETTERE ALLO PSICOANALISTA
Gentile Professore, vivo un’ottusa sofferenza, da molti anni. Il dolore, quello acuto, se ne è andato, oramai, ma ha lasciato dietro di sé una scia feroce che inaridisce tutta la mia vita.
Tre anni fa, ho perso mio marito – un uomo meraviglioso - a causa di una lunga malattia fatale e, da quel momento, ogni cosa per me ha perduto di senso. Prima di allora ero una persona gioiosa e colma di fiducia nel domani; oggi non riesco a coltivare neppure una speranza.
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Non ho figli sui quali riversare le mie cure; e non rifiuto il mio destino, che è fatto di immensa solitudine e di una struggente nostalgia. Come potrebbe essere diversamente? Talvolta, al risveglio, ho ancora la sensazione di avere il suo corpo accanto, o di sentire la sua voce, e non posso frenare le lacrime.
Ci sono occasioni in cui mi accade di piangere a dirotto anche in pubblico, a causa di un imprevedibile stimolo, di un subitaneo ricordo, e mi vergogno della mia fragilitĂ . Allora scappo e mi nascondo agli occhi degli altri. Penso di sembrare una pazza, in quelle circostanze. Altre volte, mi viene persino da sorridere al pensiero di me stessa nelle vesti di quella che, una volta, si definiva “una vedova inconsolabileâ€?.
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Le persone intorno, forse giustamente, mi esortano a riprendere una vita normale e, per mia buona sorte, ho il lavoro che mi aiuta, poiché mi mette quotidianamente a contatto con i giovani e con problemi che, momentaneamente, mi distraggono dalla mia condizione.
È quando torno a casa che mi assale il magone. E di vivere “normalmente” non ho voglia. Esistono dolori estremi che cambiano il corso del nostro destino. Lettera firmata
LA POESIA DEL VUOTO
di Francesco Frigione 3
«Come si può ch’io regga a tanta notte? …» da Giorno per giorno, di Giuseppe Ungaretti
Il grande scrittore e filosofo romeno Emil Cioran (1911 – 1995) sosteneva che, pur ateo convinto, si era sempre sentito vicinissimo all’esperienza dei mistici, poiché il loro Dio non è quello della teologia ufficiale, bensì l’esperienza del vuoto assoluto, quella per cui ogni dimensione umana si annulla. Il culmine del’estasi è dunque questa. Eppure mai esperienza appare
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così prossima al proprio opposto: l’insopportabile dolore della perdita di sé e dell’altro, o meglio, la perdita di sé attraverso la perdita dell’altro.
Infatti, per mezzo dell’altro - l’amato, l’amata - noi troviamo il senso e la cifra del nostro esistere. Quando l’altro cessa di vivere con noi, ci abbandona, perché lo rapisce il fato o la sua stessa volontà, noi moriamo, sprofondiamo in un vuoto senza fondo, brutale e assassino.
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Da questo momento in poi, noi perdiamo la verginità psichica, attraversiamo una soglia definitiva dalla quale non possiamo più tornare indietro. In questa accezione, varchiamo anche noi la porta degli Inferi, lì dove gli Antichi presumevano che le anime spettrali vagassero eternamente nel vano rimpianto della vita a loro strappata. Seguendo questa via, accompagniamo la persona smarrita lungo il cammino della sua scomparsa, morendo a noi stessi, dicendo addio all’ingenuità della nostra speranza di vivere senza il peso di essere contemporaneamente luce e ombra, sostanza e annichilimento.
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Nel momento in cui accettiamo e facciamo nostra questa assurda posizione esistenziale accade, però, qualcosa di sorprendente: entra la luce della poesia a rischiararci il cammino. Parlare, scrivere, descrivere il nostro dolore diventano già forme della nostra speranza, ovvero del sentimento – come sosteneva Julio Cortázar (1914 - 1984) – con cui si manifesta la vita.
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Anche lo stesso Cioran condivide questa visione: «[nella speranza]» afferma in un’intervista radiofonica rilasciata al giornalista Paul Assall, c’è tutto, si trova tutto. Perciò la disperazione è qualcosa di così inquietante e anche per questo così pochi uomini hanno il coraggio di disperare. Perché la disperazione è di per sé insopportabile, insostenibile. (…)Ma la vita si difende.» [Emil Cioran, La speranza è più della vita, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2015 – p. 53].
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È questo il medesimo percorso paradossale che ci indica ne Il mito di Sisifo (1942) Albert Camus (1913 - 1960). Dopo averci inchiodato all’assurdità della nostra esistenza, delineata come una realtà priva di uscita, un’impasse che ci vede condannati a illuderci, nello sforzo quotidiano di liberarci dai pesi impostici dal Fato, per poi lasciarci, puntualmente, disillusi. Ciò malgrado, invece, proprio nell’ultima pagina del saggio, ecco che il grande scrittore francese ci sconvolge la prospettiva che lui stesso ha adottato e ci illustra il potere trasformatore della coscienza: essere coscienti dell’assurdo, suggerisce implicitamente, ci permette di accedere a una nuova dimensione psichica, per cui «bisogna immaginare Sisifo felice».
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Non è un caso, che si tratti della medesima conclusione a cui era giunto già Giacomo Leopardi (1798 – 1837), ne “La Ginestra” (1836), quando elogia il profumo del fiore, che umilmente consapevole della propria caducità di fronte alla prepotente distruttività della Natura, spande umilmente il proprio dolcissimo profumo nel deserto della vita.
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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
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