LETTERE ALLO PSICOANALISTA
Gentile Professore, sono una “divoratrice” di libri. Sin da quando ero bambina ho trovato in essi ristoro, conforto ai miei piccoli e grandi dolori, stimolo all’immaginazione. Forse il mondo intorno mi è sempre apparso un po’ minaccioso, inquietante, e nei libri vi ho potuto leggere il codice e i volti, incontrandovi specchi delle mie emozioni più profonde, senza riceverne in cambio risposte traumatiche. Associo la lettura al piacere e molto meno allo studio, poiché la scuola e l’università poco hanno fatto per stimolare la mia curiosità, ma, talvolta, semmai, mi hanno reso più incerta e impacciata nel dar corso ai miei gusti, alle mie idee.
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Entrando ieri in una libreria, per acquistare un romanzo, ho notato esposta in vetrina la locandina con il programma delle sue prossime conferenze, che trattano da un punto di vista psicologico argomenti di poesia e letteratura. Seguo con attenzione le sue pubblicazioni e ho finalmente deciso di rompere la mia timidezza e scriverle, per rivolgerle una domanda forse ingenua: si può davvero fare di un piacere il proprio lavoro? Lettera firmata
LA POESIA DELLA PSICHE
di Francesco Frigione
Gentile e delicata lettrice, la sua lettera denuncia senza dubbio una acuta sensibilità e quell’amore per la cultura che nasce dal sentimento e cozza con ogni artificio intellettualistico. Non tutti riescono a ricavare dal proprio lavoro un piacere, oltre che il pane per vivere. Spesso la discrasia tra quello che facciamo per assicurarci il sostentamento materiale e ciò che desideriamo realizzare nel nostro intimo ci procura grande pena e amarezza. 2
Nella storia, però, abbiamo numerosissimi nomi illustri che hanno conciliato occupazioni professionali anonime, e a volte persino modeste, con una vita culturale ricchissima: l’avvocato Frank Kafka, impiegato alle Assicurazioni Generali, a Praga, e il geometra Salvatore Quasimodo, assegnato agli Uffici del genio Civile di Reggio Calabria, sono i primi esempi che mi sovvengono in campo letterario.
Ciò nonostante l’ambizione a vivere creativamente il proprio impegno quotidiano, quale esso sia, corrisponde a un desiderio che va ben oltre il campo artistico e riguarda ciascuno di noi. Questa possibilità dipende sia dalle mansioni oggettive che ci tocca espletare, è evidente, sia dalla qualità con cui 3
sperimentiamo le cose. Questa qualità è strettamente connessa alla capacità d’imprimere il nostro stile a quanto facciamo e, contemporaneamente, di farci toccare l’anima dalla materia (concreta o astratta) con cui lavoriamo.
È chiaro, cioè, come mestieri e professioni che lasciano pochissimo spazio alla variabilità soggettiva rappresentino un’indubbia castrazione della personalità, ma è anche vero che ci sono altrettanti ambiti potenzialmente interpretabili in modo più originale, nei quali è la pigrizia mentale del singolo o l’errata cultura dell’organizzazione a rendere tediosa e ripetitiva l’attività.
Un’analogia possibile è quella che scorge la differenza tra il “turista” e il “viaggiatore”: il primo, per quanto possa visitare in lungo e in largo realtà 4
sconosciute, ricondurrà costantemente ogni nuova esperienza alle sue aspettative e le inquadrerà negli schemi mentali prestabiliti. Il suo grido di battaglia è “Io ci sono stato!”, e testimonia di un bisogno di conferma dell’invariabilità della propria condizione; il secondo, invece, durante il percorso, vive uno stato di porosità, consente agli inevitabili imprevisti di sorprenderlo e alle dissonanze di modificare la sua percezione del mondo. Insomma, è aperto all’impatto dello sconosciuto e prende profondamente gusto alla meraviglia. In qualche modo questo è il discrimine che corre tra “disposizione poetica” nei confronti dell’esistenza e “atteggiamento prosaico”.
Il campione archetipico della tensione verso la dimensione sconosciuta della vita umana è l’eroe omerico Ulisse. In effetti, se noi non ci atteniamo alla lettera delle sue peregrinazioni, possiamo identificare il labirintico percorso che il Nòstos, il ritorno, gli impone per mare, come il necessario perdere la rotta di chi si avvia alla conoscenza più profonda della propria natura interiore e della realtà del mondo.
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Questo disorientamento e riorientamento comportano una maturazione lenta e difficile, una rivoluzione dell’assetto mentale, attraverso vicissitudini dolorose ma anche momenti di autentica felicità; e si basa sulla capacità di “perdere”, di “abbandonare” e “abbandonarsi”, piuttosto che di “conquistare”, di “annettere” territori all’Io.
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L’Odissea lo illustra perfettamente quando mostra il suo protagonista, sfuggito alla mostruosità antropofaga di Polifemo e dei Lestrigoni (in seguito scamperà anche alla voracità delle Sirene e di Scilla e Cariddi) e alla tentazione del non ritorno offerta dai Mangiatori di Loto, confrontarsi con la seduzione
maligna di Circe, traducendola, però, in un’occasione erotica di fiducia e conoscenza.
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Sarà Hermes, lo psicopompo - il dio dei misteri, l’accompagnatore delle anime nell’oltretomba e la potenza che mette in comunicazione il mondo divino con l’umano – ad aiutare l’eroe, insegnandogli come affrontare le insidie della Maga e offrendogli da mangiare la leggendaria erba Moly, dal candido fiore e le oscure radici, il simbolo dell’unione degli opposti: giorno/notte, nascita/morte, donna/uomo, umano/divino ecc. Quello sarà l’antidoto ai filtri di Circe e l’antefatto dell’amore di Ulisse con la creatura divina.
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Circe, nipote di Helios, il Sole - la forza che, per gli antichi, agisce ai margini di ogni cosa - schiuderà a Ulisse, in virtù dell’Eros che per la prima volta la sorprende, i segreti per penetrare nell’Ade, il Regno dei Morti, uscendone indenne e psichicamente trasformato.
Ulisse, di fatti, non apprenderà dalla bocca del mitico sacerdote tebano Tiresia, lì interrogato, soltanto il proprio futuro, ma l’essenza della sua personalità: gli verrà rivelato che il suo viaggiare non è soltanto la
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conseguenza di una maledizione, che gli nega forzatamente la patria, ma forma la sostanza più profonda della sua personalità e il richiamo verso un continuo “Altrove”, a cui egli seguiterà a puntare anche dopo il riapprodo a Itaca.
E questo, dunque, è il segno del nostro destino di esseri senzienti e coscienti, armati di desiderio, amanti della conoscenza, creature inscritte nel segno “poetico” di Psiche. 10
Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. 11
Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
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