LA SOLITUDINE DELLE FESTE

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LETTERE ALLO PSICOANALISTA

Preg.mo Professore, si avvicinano le feste natalizie e, a dispetto dei volti illuminati e felici della pubblicità, io non faccio i salti di gioia. Si addobbano case, strade e negozi, si spende in regali, si preparano pranzi e cenoni, e a me tutto questo attivismo non procura particolare allegria e neppure tristezza, ma indifferenza. Mi sento un estraneo che partecipa a un rito per lui senza significato e, volendola mettere sullo scherzo, penso di sentirmi come Guglielmo Inglese - il giardiniere pugliese che storpia le parole - a cui Totò, in un suo film, dice: «E si ricordi, villico, che qui, in Italia, lei è un ospite, uno straniero!».

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La ringrazio per l’attenzione e, in barba a quanto le ho appena scritto, le auguro un Buon Natale! Lettera firmata

LA SOLITUDINE DELLE FESTE

di Francesco Frigione

Gentile lettore, apprezzo la sua verve ironica, forse l’unica ancora di salvezza a cui possiamo appigliarci quando il mondo ci diventa così estraneo da farci sentire degli estranei nel mondo.

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Anche i riti invecchiano e muoiono, seppure assai lentamente, in funzione di mutate condizioni storiche ed esistenziali. La nostra coscienza, allora, cerca nuove modalità per decifrare i rapporti con gli altri e per stabilire quali ragioni abbiamo di esistere. Tutto ciò che non risponde alle mutate esigenze del nostro essere, sbiadisce, perde attrattiva e capacità di coinvolgerci, di chiamarci alla partecipazione.

Abbandonare qualcosa, però, è benefico solo se tendiamo a raggiungere una condizione migliore, altrimenti può tradursi in una semplice rinuncia nichilistica: il ritiro, infatti, ci svelle da un humus psichico e culturale che, malgrado tutto, esiste e resiste, e corriamo il rischio di non spiccare il salto verso un livello più alto, di aprirci a un diverso orizzonte.

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Perciò, prima di congedarci anticipatamente da questo ennesimo Natale, rintracciamone rapidamente le radici.

Alle origini, la celebrazione contemporanea s’inscrive nel solco dei Saturnali romani, le feste che, intorno al solstizio d’inverno, contemplavano scambi di strenne, banchetti e crapule.

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Un rito plurimillenario il nostro, dunque, che ha un presupposto anche nelle feste dedicate a Crono, dio del tempo, nell’antica Grecia.

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In epoche ancora più arcaiche, quando era la Grande Madre l’unica divinità adorata dai popoli mediterranei e nordici, in questo periodo dell’anno si compivano i sacrifici di giovani uomini o di bambini, per fecondare la terra fredda e arida con il loro sangue fumante.

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Ancora non si era messa in relazione la gravidanza con l’intervento sessuale maschile e la nascita era considerato un evento magico interamente frutto dello potenza femminile, a sua volta assimilata a quella della Terra Madre, generatrice delle ricchezze della natura e dell’agricoltura. 7


Poi, col tempo, le società matriarcali furono penetrate dai popoli patriarcali indoeuropei, che s’insediarono in Iran, Turchia e Grecia. Tranne che 8


in occasioni di eccezionale calamitĂ , nelle quali ancora si provvedeva a massacrare un capro espiatorio umano, si fece degli animali le vittime designate.

Un esempio lampante di questo fondamentale passaggio è testimoniato dalla tragedia di Euripide IfigenÏa in Aulide e dal racconto biblico del sacrificio di Isacco da parte di Abramo.

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Frattanto, i re, precedentemente figure pro-tempore destinate al ciclico sacrificio, si erano insediati sempre più stabilmente al comando delle tribù e dei popoli. Il loro imperio si estese nel tempo, fortificandosi, e, nei secoli, società e religione divennero appannaggio prettamente maschile. Soltanto la Luna, con le sue fasi, continuò a rappresentare la persistenza del potere femminile.

A Roma, il primordiale culto italico per il Sol Indiges fu sostituito, poi, sotto l’imperatore Eliogabalo, da quello per il Sol Invictus, dio nato da una Vergine, che conduceva la luce a trionfare definitivamente sulle tenebre.

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Questi attributi in buona parte gli derivavano dalla figura del dio Mithra, con il quale anche Cristo appare strettamente imparentato (non a caso si celebra la nascita di GesÚ il 25 dicembre). Ciò detto, bisogna ben rammentare che il messaggio cristiano rappresenta, per molti altri motivi, un unicum nella storia della cultura occidentale.

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Anche ognuno di noi muore e rinasce psicologicamente piĂš volte nella propria vita, passando attraverso periodi di confusione e smarrimento e riapprodando ad altre forme di piacere e a nuove prospettive di coscienza. Sempre che non abbia smesso di decidere per se stesso quel che è bene e quel che è male, lasciandosi trascinare da forze invisibili in un vicolo cieco dove la vita s’inaridisce e appare totalmente priva di senso.

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Questa esperienza è quanto chiamiamo genericamente “depressione”: una condizione tragica e solitaria che può produrre frutti insperati o insterilire definitivamente l’individuo.

Tutto dipende da come l’Io si rapporta al suo farsi spettatore della propria stessa esistenza: si sente la vittima totalmente alla mercé di un processo che lo trascende o presume di essere complice di questa condizione? E che utilizzo fa della propria consapevolezza: la interpreta come una condanna inappellabile alla sofferenza eterna o come la prova a cui è sottoposto chi, inabissatosi negli inferi, ne risale dopo un lungo viaggio recando qualcosa di prezioso da offrire a sé e agli altri?

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Prendiamo la Divina Commedia e consideriamola in un’ottica semplicemente psicologica. Dante ne è Autore e al contempo il protagonista. Si sdoppia, si osserva come personaggio, si conosce e si riconosce in una versione metafisica del suo cammino esistenziale. La scrittura di quest’opera ineguagliabile accompagna tutta la maturità del Poeta fino alla morte e diventa un doppio della sua vita; in questa penetra una luce trascendente, espressione di un’inarrestabile aspirazione alla conoscenza, attraverso un purificatorio cadere nell’abisso, di un incorporare tutto il male e tutto il bene dell’Uomo. Dante procede nella scrittura e l’atto stesso dello scrivere lo traduce in una dimensione superiore: la sofferenza, e persino il disdegno e il desiderio di 14


rigetto che nutre nei confronti dei contemporanei, per il dolore che gli hanno procurato, divengono uno strumento non di rifiuto ma di amore, con cui illumina il mondo di una luce nuova, unica, insuperata.

Possiamo presumere che l’Alighieri senza la Commedia avrebbe perso ogni gusto alla vita, sarebbe caduto in una profonda prostrazione o in un cieco malanimo contro quella società che lo aveva costretto all’esilio e agli stenti. Senza vantare la grandezza poetica del massimo fiorentino, ma non meno degno di trasformare la sua pena solitaria in un contributo al mondo, ciascuno di noi può scorgere in questo periodo dell’anno, aldilà degli aspetti routinari, materialistici, superficiali, il simbolo di un nuovo possibile radicamento nell’esistenza, l’occasione per dare spazio al desiderio di scambio e di condivisione, l’opportunità per ricercare il mistero profondo dell’esserci: per sé e per l’altro.

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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.

Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it

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