OTTO GIORNI ALLA SETTIMANA

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LETTERE ALLO PSICOANALISTA

Gentile Professore, sono una studentessa di Lettere e Filosofia, all’Orientale di Napoli.

Amo molto il cinema e, appena posso, corro a gustarmi le uscite più interessanti. Quando ho saputo che al cinema si sarebbe proiettato, per una sola settimana, il documentario sui Beatles di Ron Howard– premio Oscar per “A beautiful mind” – mi sono precipitata a vederlo. 1


Naturalmente, conoscevo alcuni tra i maggiori successi della famosa band inglese, la cui musica già mi piaceva tantissimo, però non mi attendevo di emozionarmi tanto di fronte a un fenomeno che mi si è rivelato così unico e irripetibile.

La personalità magnetica di quei quattro ragazzi che provenivano dalla “working class” di Liverpool, una città industriale dell’Inghilterra stremata dalla 2


seconda guerra mondiale, la loro capacità di sfidare il mondo e di conquistarlo con un sorriso e il loro straordinario talento musicale, la voglia di andare oltre la gratificazione immediata fornitagli da un successo planetario e inoltrarsi in territori sconosciuti, il cemento della loro unione umana e creativa, tutto ciò mi ha commosso profondamente.

Dopo il piacere provato in sala, però, ho sentito anche una fitta al cuore: guardando il panorama attuale, mi è venuto di pensare alla miriade eventi di “plastica”, privi di autenticità, che lo caratterizzano (e non mi riferisco soltanto al campo musicale), e allora mi ha preso la nostalgia per qualcosa che non ho mai vissuto e, forse, non potrò vivere mai. Lettera firmata

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OTTO GIORNI ALLA SETTIMANA

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di Francesco Frigione

«And when I touch you I feel happy inside It's such a feelin' that my love I can't hide I can't hide I can't hide» da I wanna hold your hand, di John Lennon e Paul McCartney

Gentile lettrice, mi ha spesso stuzzicato il divertente pensiero che il famoso “Sogno di Liverpool” di Carl Gustav Jung, narrato nell’autobiografia Ricordi, Sogni, Riflessioni [a cura di Aniela Jaffè (1961)], contenesse anche una sottile premonizione della nascita dei Beatles.

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Il grande psicologo svizzero racconta, infatti, del suo inoltrarsi con dei connazionali in un panorama urbano simmetrico, sviluppato radialmente, ma tetro e offuscato dalla fuliggine. Con sua immensa sorpresa, al centro di questo paesaggio plumbeo si erge una visione di luminosa e “celestiale bellezza”: un’isola, al cui vertice s’innalza una magnifica magnolia.

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Nel lavoro sull’inconscio (e sull’alchimia) compiuto da Jung questo materiale onirico assume un alto valore simbolico, associandosi alla dimensione del Sé, una realtà che trascende l’Io individuale, in quanto lo genera e lo circonda.

La città inglese viene a rappresentare, dunque, l’inizio di una scoperta capitale e rivitalizzante per la personalità, in quell’epoca fortemente tormentata, dello psicologo elvetico: appare come una “fonte di vita”, un 7


mandala, un emblema della quaternità psichica e della sua quint’essenza, ovvero la relazione. La relazione è, di fatti, la chiave di volta della vita psichica: se ci si lascia alle spalle le apparenze, l’essere umano trova non più l’astrazione fittizia di un soggetto attivo e di un oggetto passivo, bensì elementi tra loro intimamente correlati, legati da un’attrazione reciproca, da un’influenza che la coscienza aiuta a tradurre in “rapporto” libero e consapevole.

Ecco come Jung, descrive il proprio sogno: «Mi pare ancora di vedere gli impermeabili grigiastri, luccicanti, bagnati dalla pioggia. Tutto era assai sgradevole, nero, opaco, proprio come mi sentivo allora. Ma avevo avuto una visione di celestiale bellezza, ed era proprio per ciò che potevo vivere. Liverpool è la sorgente della vita (pool of life). Il fegato (liver) secondo un’antica concezione, è la sede della vita».

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È bizzarro come i quattro insetti kafkiani (il gioco fonetico presente nel nome del gruppo consiste, infatti, nel far coincidere il suono beetles di “scarafaggi”, appunto, con l’ortografia di beats, “battiti”, quindi suoni ritmati, fortemente scanditi, come quelli del cuore), da oscuri e ignoti ragazzi di una città britannica in pesante crisi post-bellica si trasformino in una fiaccola che illumina dionisiacamente il mondo giovanile di tutto il mondo.

Il prodigio può essere spiegato solo fino a un certo punto con le sue concomitanti storiche, antropologiche e di costume; vi è senza dubbio, invece, 9


un quid di assolutamente speciale nella loro musica e nel loro modo di amalgamarsi artisticamente e psicologicamente, una forza “numinosa”,

che è in grado di giungere fino a noi intatta, malgrado siano passati cinquantaquattro anni dal sorgere di quell’astro e quarantasette dal suo occaso:

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sette anni solamente da supernova, vissuti con un’intensità incalcolabile -un semplice ciclo di vita che ha generato una scia creativa straordinaria, della quale non si è mai visto pari nella storia umana.

Dall’indifferenziazione iniziale offerta dall’immagine osmotica imposta al la band dal suo talent scout e manager Brian Epstein, è emersa, col tempo, sempre più la personalità dei singoli.

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Questo processo, in ultimo, ha portato alla rottura del gruppo, ma gli ha anche consentito, lungo il tragitto, un’evoluzione senza pari, facendo di John, Paul, George e Ringo degli apripista insuperati nel campo dell’arte e del costume. ***

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Andando nel personale, ho un ricordo infantile indelebile di quello di cui il bel documentario di Ron Howard (anch’io ne ho goduto, a Roma) prova a dare testimonianza: e cioè di come i Beatles fossero orgogliosamente spontanei, veraci, onesti, e veicolassero una profonda autenticitĂ in coloro che li ascoltavano e li ammiravano.

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Essendo figlio unico, avevo nei miei cugini dei fratelli maggiori, in particolare uno, più grande di me di ben nove anni, era assai amorevole e generoso nei miei confronti.

Un sabato dell’anno 1968, lui e sua sorella organizzano in casa una festa con tanti amici. A causa della mia età, da quest’iniziativa io vengo ovviamente escluso. Mi sento profondamente ferito e deluso dalla decisione, cosicché, con pazienza, mio cugino prima di chiudere la porta del salotto, dove si trovano già i suoi coetanei, passa a consolarmi. 14


La mia rabbia narcisistica non si placa, però, e si trasforma immantinente in invidia; cosicché ripeto pappagallescamente ciò che dei Beatles sento dire da tanti adulti, esibendo il mio disprezzo verso “quella musicaccia”.

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Vedo ora oscurarsi il volto di mio cugino, che mi fa notare di come stia parlando di una cosa che non conosco per nulla e che, per questa ragione, non so minimamente apprezzare. Avverto subito una profonda vergogna. Una vergogna utile, necessaria, però. Infatti questo episodio mi schiude, per la prima volta nella vita una visione critica del mondo adulto, mondo al quale fino ad allora ho dato ciecamente credito, senza mai interrogarmi se ciò che dice sia giusto o sbagliato per me (Ipse dixit ‌).

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Verranno, poi, altri tempi di questa rivelazione. Nella pubertà e nell’adolescenza, la musica dei Beatles rappresenterà per me il rifugio dall’insidia della falsificazione che grava sulla mia personalità: quella musica mi aiuterà a rammentare che, da qualche parte, esiste una mi natura profonda e inalienabile, che m’impone di resistere a un ambiente gretto e conformistico pronto a conculcarla.

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Col tempo, da adulto, scoprirò persino che qualcosa di analogo è accaduto anche a molte altre persone: la musica dei Beatles ha giovato anche a loro, nel segreto della loro anima.

Non sarà un caso, rifletto oggi, che Donald Winnicott, lo psicoanalista che teorizzò il “Vero Sé” e i pericoli del “Falso Sé”, tra un paziente e l’altro si ritirasse a suonare il pianoforte e, tra una sonata di Bach e un’aria di Mozart, si dilettasse sulla tastiera con le canzoni del quartetto di Liverpool.

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In definitiva, penso che la carica rivoluzionaria dei Beatles non appartenga soltanto a un passato senza ritorno, ma che si tratti, piuttosto, di una partita che si riapra ogni qualvolta viene minacciata la libertà interiore, la dimensione di autenticità e speranza, il desiderio di vivere in e per un mondo migliore.

È allora che le loro voci e i loro volti tornano a scintillare sottratti all’ingiuria del tempo. Anzi, come gli argentini che celebrano il genio del tango Gardel, possiamo tranquillamente dire che i Beatles “ogni giorno cantano meglio!”. 19


Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.

Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> 20


Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it

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