LETTERE A UNO PSICOANALISTA
Gentile professore, ho appena compiuto i trent’anni e, come moltissimi della mia età, sono un giovane precario, che, tra mille difficoltà, si arrabatta per portare a casa quei pochi spiccioli, con i quali non può costruire niente che non sia la pura quotidianità. Non ho tutele, non so se mai verrò assunto per la piccola ditta per cui lavoro in nero. Questa stessa azienda stenta ad avere un andamento sicuro e sembra costantemente a rischio di chiudere o di darmi il benservito come componente in sovrannumero.
Ho studiato con profitto. Ho preso una laurea in lingue con buoni voti. Eppure mi vedo costretto ad abitare ancora con i miei genitori, nella stessa 1
stanzetta che occupavo da bambino, e a rinviare sine die il momento in cui andare a vivere con la mia ragazza. A volte, mi prende l’angoscia che questa condizione possa non finire mai e allora comincio a progettare di partire per l’estero. Ma verso dove? A fare cosa, realmente? Mi rendo conto che un certo senso di inutilità si sta insinuando nella mia vita e che vado perdendo ogni entusiasmo e desiderio. Lettera firmata
PRECARIETÀ Metafora psichica e dura realtà sociale
di Francesco Frigione
Gentile lettore, la sua missiva mi coinvolge innanzitutto sul piano emotivo, ma m’impone anche una riflessione sugli effetti psicologici che produce, in generale, l’organizzazione economica e sociale oggi imperante. Essa è chiaramente distruttiva, eppure le lasciamo sempre più campo, quasi considerandola legittima e scontata. Non è questa l’opzione giusta.
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Come l’attuale strutturarsi della società si è imposto con evidenza in un tempo storico preciso, ovvero a partire dagli anni ‘80, grazie a dogmatici alfieri che tutt’ora affermano quanto sia inevitabile e immodificabile il suo corso, così noi possiamo decostruirla per guardare a un futuro migliore, alternativo a quello che ci si prospetta. Per sviluppare un discorso psicologico al riguardo è opportuno effettuare una premessa. La psicologia individuale e collettiva sono profondamente mutate rispetto a un secolo fa; la personalità e le comunità umane sono state sconvolte, infatti, da trasformazioni economiche, politiche e sociali di gigantesca magnitudine.
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All’alba della psicoanalisi, Sigmund Freud poteva appropriatamente adoperare la metafora del “lavoro” per spiegare il processo di maturazione psichica della personalità, che faticosamente emerge dalla condizione narcisistica infantile, impregnata di temi immaginari; oggi, invece, è la realtà lavorativa a garantire l’infantilizzazione costante dell’uomo adulto, a mantenerlo in una condizione di immaturità psicologica. A ciò concorre con altri fattori, quali il controllo mediatico di massa, la bulimia tecnologica e la spinta alla cancellazione dell’interiorità.
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Quest’ultima passa da una frequentazione intima e segreta con sé stessi – la No man’s land presente in ognuno, di cui parla Nina Berberova ne Il giunco mormorante (Adelphi, Milano, 1990) -, che è la via della profondità psichica, a una vita di piccoli segreti senza valore, spiattellata senza sosta sui social networks.
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Sorvolando sul lungo periodo dell’educazione scolastica, attualmente spesso regredita a idolatria del nozionismo o a tecnicismo esasperato, il modellamento mentale del giovane che entra (se è fortunato) nel cosiddetto “mondo del lavoro”, avviene sotto il peso di una prepotente precarizzazione e di un’ideologia economicistica essenzialmente totalitaria. Essa, cioè, non si limita a spadroneggiare nel pur importante spazio dell’economia, ma annette a sé qualsiasi discorso che riguarda l’essere umano. Tutto deve possedere una funzione, deve portare a una qualche forma di guadagno; non v’è esperienza che si giustifichi di per sé, che possieda una sua dignità intrinseca. Il combinato di precarizzazione ed economicismo spesso annichilisce la personalità ancora malleabile e insicura di chi avverte di avere valore soltanto in virtù di motivi estrinseci alla propria personalità, dal cui sviluppo viene progressivamente distolto. Ciò conduce a un adattamento forzato, privo della percezione di qualunque conflitto con il sistema dominante.
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Intendo dire che, a differenza sua, caro lettore, che dimostra di essere una persona in grado di rattristarsi e angosciarsi a causa del dolore che la condizione di precarietà e insicurezza le suscita, molti perdono totalmente la bussola delle proprie necessità psichiche e ignorano i desideri veramente autentici che li abitano. Il risultato è che si lasciano convintamente sfruttare fino all’esaurimento, pur di non essere completamente emarginati e sviliti, e che lo fanno all’interno di organizzazioni impersonali e prive di anima, di cui paiono condividere gli scopi. E v’è da considerare che quanto più sono grandi e potenti tali organizzazioni, tanto più è sconfinata la loro fame di asservimento, obbedienza e consenso. E questo rapporto non investe soltanto il lavoratore, quanto il cittadino, equiparato in tutto e per tutto alla figura del “consumatore”, di cui è ritenuto un sottotipo.
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Un’espressione cinematografica sufficientemente potente per descrivere tale realtà è il mondo distopico tratteggiato dalla trilogia di Matrix (1998 2003), portata sullo schermo dai fratelli Lana e Andy Wachowsky. I personaggi eroici, presenti nei tre film, prendono atto di essere null’altro che i corpi risucchiati da una crudele civiltà di macchine che, padrona della Terra oramai devastata, assorbe l’energia che la tiene in vita da individui serializzati, a cui viene imposta una realtà allucinatoria.
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L’immaginazione collettiva degli uomini è eterodiretta dal computer “Matrix”, appunto, e ne consente il soggiogamento, nel carcere di grandi bozzoli uterini.
Coloro che, “destandosi”, colgono l’inganno di questo mondo di sfruttamento e di ingiustizia devono farsi carico dell’orrore della propria scoperta. Ben pochi, in effetti, resistono a tanto dolore mentale ed eludono la verità, mantenendosi in uno stato di corriva inconscietà o tradendo la propria missione umanizzante. La trama rappresenta una convincente analogia della condizione mentale nell’epoca della globalizzazione. Infatti, evoca la violenza di una condizione 9
strutturale finalizzata solo illusoriamente al benessere umano, ma in realtà interessata a svuotare di senso l’esperienza della profondità psichica. Essa percuote come un maglio la personalità individuale, appiattendola, negandole la possibilità di estendersi verso i propri naturali confini, di rispondere a esigenze che non procurano necessariamente un profitto, o che non appaiono d’immediata utilità. Inoltre, le sottrae il sentimento della speranza e la capacità critica.
Ciò si ricollega alla celebre riflessione di Karl Marx e Frederick Engels sul come una determinata ideologia, derivando da chi ha in mano le effettive leve del potere, si affermi anche tra coloro che meno dovrebbero adottarla, in quanto ne vengono dominati e danneggiati. «Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio.» (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 14.). Il dolore psichico di restare presenti all’ingiustizia sociale è la salvezza di noi tutti, in questo penoso momento storico: ci induce a intendere il lavoro come espressione dell’anima e a mantenere viva la voglia di creatività e cambiamento. 10
Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
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