LETTERE A UNO PSICOANALISTA
Gentile Professore, ho quarantacinque anni. Da quando sono bambina, in famiglia mi hanno sempre insegnato ad ubbidire, reprimendo la mia aggressività . Da questo punto di vista, la mia educazione è stata severa e tradizionale.
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Da un lato, grazie ad essa, sento di aver acquisito dei valori di educazione e rispetto, che non baratterei mai per conquiste all’apparenza più facili; dall’altro, però, mi rendo conto di bloccarmi nelle situazioni più conflittuali, direi quasi di sentirmi amputata di una parte di me capace di dar voce alle mie ragioni nei contesti lavorativo e sociale.
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È come se, in quelle circostanze, non potessi che consegnarmi alla fuga, sottraendomi alla tensione di reggere uno scontro a cui non mi sento emotivamente pronta. È chiaro che, nella vita, ho appreso a essere, perciò, una valida mediatrice, una persona che smussa gli angoli nelle contese e che è particolarmente abile nel placare gli animi. Questa dote mi viene indubbiamente riconosciuta. Il problema è che tutto ciò mi costa uno sforzo di cui, invece, nessuno si rende conto: tutti scambiamo per “dote naturale”, qualcosa che è in buona parte una forzatura, nella quale io stessa credo poco. Solo che non riesco a comportarmi diversamente.
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In cuor mio, ammiro molto quelli che non si preoccupano delle conseguenze dei propri atti: vorrei sentirmi libera come loro. Nello stesso tempo, però, ho veramente paura di lasciarmi andare a una rabbia spaventosa, incontrollabile, e resto impelagata in una irrisoluzione che mi rende infelice.
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Lettera firmata
REPRESSIONE, AGGRESSIVITÀ E ASSERTIVITÀ
di Francesco Frigione
Gentile Lettrice, la questione che lei pone chiaramente sul piatto è quale spazio concedere alla sua aggressività, senza che diventi una forza distruttiva, e in che modo gestirla convenientemente nel rapporto con la dimensione sociale.
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Il fatto è che l’aggressività è una risposta istintiva, la cui repressione sistematica non può restare priva di conseguenze. Essa si mette automaticamente in moto al momento di una minaccia portata alla nostra integrità fisica e psichica. Da questo punto di vista, un’educazione coercitiva tende a renderci vulnerabili ai soprusi altrui e a falsificare la nostra personalità, attraverso un adattamento solo all’apparenza riuscito.
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È la grande questione sollevata dallo scrittore inglese Anthony Burgess nel libro Arancia meccanica (1962), da cui Stanley Kubrick trasse uno straordinario film (1971): il protagonista, Alex, è un giovanissimo capobanda metropolitano, abituato a godere, durante infinite scorribande notturne con i suoi accoliti, di risse all’ultimo sangue, pestaggi, stupri e rapine, corroborati dall’uso di droghe psichedeliche.
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Allo stesso tempo, questo personaggio tanto estremo come il Mister Hide di Louis Stevenson, ha un rapporto creativo col linguaggio - un gergo evocativo e infantile - e ironico con il sesso, vissuto come puro gioco, nonché una venerazione sincera e totale per la musica di Ludwig Van Beethoven, attraverso la quale accede alla dimensione del sublime.
L’ipocrita società piccolo borghese, ben rappresentata dai genitori di Alex, che fingono di non vedere le sue malefatte finché esse li avvantaggiano materialmente, ha in riserbo, però, l’offensiva del suo braccio repressivo, rappresentato dal fascistoide assistente sociale Mr. Deltoid. Questi ordisce un accordo sottobanco con gli stolidi membri della gang, in fermento contro Alex 8
per la leadership del gruppo, e incastra il ragazzo al termine di una rapina, trasformatasi preterintenzionalmente in omicidio.
Condannato al carcere duro, Alex assume (consapevolmente) un Falso SĂŠ (Donald Winnicott) accomodante e gentile per farsi benvolere dal cappellano del penitenziario e, soprattutto, per accedere alla sperimentale “Cura Ludovicoâ€? - un condizionamento comportamentale che gli potrebbe consentire di tornare in libertĂ senza scontare la pena.
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Riesce nell’intento e viene sottoposto al trattamento. La musica stessa dell’eccelso compositore austriaco, da lui tanto adorata, si trasforma allora nel sottofondo musicale di una repressione dell’istinto aggressivo e della concupiscenza sessuale, fino a renderlo inerme e incapace di decidere tra “il bene e il male”, come afferma appassionatamente lo stesso prete, al termine di una impressionante dimostrazione degli effetti della terapia, compiuta dall’équipe medica in presenza di un più che compiaciuto Ministro dell’Interno.
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Di fatto, Alex, una volta rilasciato, subisce, con gli interessi, la vendetta per tutte le sue precedenti violenze, senza poter mettere in campo alcuna difesa; e tale è la distruttività che gli si riversa contro che, disperato, tenta il suicidio. Si salva per mero miracolo dalla morte. Ma il fallimento della “Cura Ludovico” è così sancito. Ciò, però, conduce, nel finale, al paradossale instaurarsi di un circuito ancora più ipocrita e perverso del precedente, caratterizzato da un “gentlemen agreement” tra il Ministro e un Alex oramai liberatosi dal condizionamento e ufficialmente “coperto” dal Governo nelle sue prossime malefatte. Questa storia ci mostra come per noi sia impossibile, all’interno di un circuito civile, concedere pieno sfogo agli istinti così come allontanarci da loro. In che modo risolvere il problema, dunque?
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Il punto è che tra manifestazione di aggressività predatoria e distruttiva e l’ammutolimento del patrimonio istintuale esiste una terza via, in grado di darci spazio di espressione e di manovra nel mondo: l’assertività.
Questa è legata a una componente di spontaneità, che riguarda la rispondenza al nostro autentico stato di animo, libero da mistificazioni, e, nello stesso tempo, alla gestione in forma più raffinata e intelligente dell’aggressività, rispetto alla cieca scarica pulsionale, che tenderebbe sic et simpliciter a liberarsi della minaccia incombente (reale o fantasmatica) oppure ad abbattere l’ostacolo che in quel momento si frappone verso l’oggetto della nostra soddisfazione. 12
L’assertività non è di certo una conquista istantanea: presume il lento riconoscimento di una verità celata non solamente agli altri ma anche a noi stessi, a causa di anni di rintuzzamenti, rinvii, deviazioni e distorsioni. Dobbiamo partire dal disagio, come giustamente fa lei, per giungere a un crescente riconoscimento del desiderio o del bisogno che, impedito alla Coscienza, chiede di ottenere risposta, esattamente come, con genio e lucidità, ci ha insegnato a fare, più di cento anni or sono, Sigmund Freud, mediante l’indagine psicoanalitica.
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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.it Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
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