LETTERE ALLO PSICOANALISTA
Gentile Professore, Sono una giovane iscritta alla facoltà di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali. Di fronte alle immagini dell’attentato di Berlino, città che ho visitato e dove abitano anche diversi miei amici, provo un’immensa angoscia.
Mi addolora ancor di più sapere che, tra le dodici vittime, si trovi anche una ragazza originaria di Sulmona, Fabrizia Di Lorenzo, che lavorava nella capitale tedesca e nei cui confronti mi sono sentita immediatamente identificata: infatti, veniva dalla provincia come me, aveva completato il mio stesso corso di studi, aveva solo qualche anno più di me e si era lasciata alle 1
spalle l’Italia per trovare un contesto di lavoro e sociale più consono alle sue ambizioni, come anch’io mi propongo di fare. Eppure, la sua giovane vita è stata troncata d’improvviso da un gesto folle e barbarico, da un odio mostruoso ammantato da ideale politico-religioso, in nome, per giunta, di una guerra già persa in partenza.
Le chiedo, pertanto, cosa possa guidare la mano di assassini che si accaniscono su civili inermi, come quelli del mercatino della Breitscheidplatz, così come quelli di Nizza, di Parigi, di Madrid, di Istanbul, di Beirut, degli USA, dell’Iraq, dell’Afghanistan, di vari Paesi africani ecc.
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Certo, capisco la disperazione di chi vive in zone di guerra e di chi subisce il giogo di apparati polizieschi crudeli; concettualmente, posso persino comprendere, in ultima ratio – sebbene non lo giustifichi - il gesto omicida del giovane poliziotto turco che ha recentemente ammazzato l’ambasciatore russo, ad Ankara, ma il resto no, proprio no. Le domando, allora, se esiste una psicologia specifica di questi fanatici, un profilo che delinei i tratti del nemico anonimo con cui dobbiamo confrontarci, e un nostro modo più attrezzato di farlo Lettera firmata
STRAGISMO E CAPITALISMO
di Francesco Frigione
Gentile lettrice, premetto che se volessimo pensare in termini psicologici alle collettività e agli individui senza un raccordo alla realtà storica, sociale, economica e culturale che li percorre commetteremmo un errore imperdonabile. I grandi processi vivono nei singoli e nelle comunità, così come quelli e quelle, compartecipandone, contribuiscono ad alimentarli e a modificarli.
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Pertanto, pretendere di osservare l’Altro – in questo caso il fanatico stragista - presumendoci capaci di un’asettica posizione “scientifica”, esente da preconcetti, senza intendere che questa è un mito, ci impedirebbe di cogliere i punti più salienti della questione, accecandoci, piuttosto, con la nostra stessa visione. Esattamente quello che ci affligge di coloro che attaccano distruttivamente la nostra società.
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Rammentiamoci che tutti osserviamo noi stessi e il mondo sulla base delle nostre caratteristiche tipologiche, della spinta innata a realizzare un destino personale (cfr. il concetto di “entelechia” in Jung e di “daimon” in Hillman e Carotenuto) e dell’influenza che imprimono sulle nostre categorie mentali la cultura, la società e la famiglia.
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Il grado di autonomia e di libertà della nostra visione si accresce, dunque, proprio in funzione della capacità di analizzare i processi psicologici, storici, economici, sociali e culturali che lavorano oscuramente in noi, che dirigono i nostri sentimenti, che lasciano spazio o, al contrario, bloccano le emozioni e i pensieri che ci abitano.
Questo progresso della coscienza dipende strettamente dal coraggio con cui ci confrontiamo con ciò che ci appare spaventoso, pernicioso e sgradevole innanzitutto in ciò che ci risulta ovvio e familiare, senza fuggirne a gambe levate: ossia, a riconoscere la nostra Ombra individuale e quella della nostra società. Ciò detto, passo alla questione che lei pone. 6
Nell’ultimo mio articolo pubblicato su questo giornale (LA VERA VITA, Il Golfo, 15.12.2016) ho citato il recentissimo libro di Alain Badiou, dal titolo La vera vita - Appello alla corruzione dei giovani (Ponte alle Grazie, Milano, 2016), nel quale si fa luce su alcune questioni fondamentali della condizione della società globalizzata. Riparto anche oggi da lì. Secondo il filosofo francese, la trascinante macchina del nuovo capitalismo mondiale genera inclusione soltanto in chi dimostra di poter consumare; per tutti gli altri corre l’obbligo, invece, semplicemente di tacere e scomparire. 7
Chi può - per status familiare o per merito personale - si avvia sin da giovane alla “carriera”, ossia diventa un agente di produzione e di consumo totali, e viene considerato (oltre, forse, a considerarsi egli stesso) in base al potere economico acquisito dalla sua posizione. Nella dualità che Badiou stabilisce tra “vita” e “idea” si consegna, dunque, soltanto alla prima, cancellando dal proprio orizzonte il senso di giustizia, di elevazione etica e spirituale, la prospettiva di un miglioramento sociale e politico strutturali della condizione umana.
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Tutto in questo approccio all’esistenza si trasforma in merce e “guadagno”, in godimento pulsionale e immediato [basta pensare al paradigmatico esempio del protagonista Jordan Belfort / Leonardo Di Caprio, nello splendido film di Martin Scorsese “Il lupo di Wall Street” (2013). Coloro che non possono o non riescono ad uniformarsi a tale strategia di asservimento totale all’ideologia diventano esclusi assoluti, il cui tempo “libero”, in realtà, non è altro, oramai, che “tempo morto”, una brutale condizione di emarginazione e insignificanza.
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La tentazione è allora quella di entrare nella dimensione del “corpo sacrificale”, tramite abusi alcolici, drogastici, sessuali, tutte forme pulsionali e “perverse”, come le definisce Badiou, non per la loro natura, ma perché prive dell’accompagnamento e dell’inscrizione in una “Idea”. Nei fatti, spesso le due condizioni, la “carriera” e ”il sacrificio”, si alternano negli stessi individui, così come si compenetrano nelle stesse comunità.
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Tutto ciò deriva dalla perdita simbolica, nella dimensione socio-culturale, del “Padre” e della “Legge”, adoperando il linguaggio dello psicanalista Jacques Lacan. A questo vuoto, a questa ineluttabile “morte di Dio” nella realtà contemporanea, corrisponde, per contrappasso, anche una reazione di tipo pseudo-tradizionalista, un disperato tentativo di restaurare un ordine simbolico in decomposizione. Ecco che, allora, il “corpo sacrificale” può diventare quello dell’attentatore sucida per pretesti politico-religiosi.
Costui, nota acutamente il filosofo sloveno Slavoj Žižek, non è affatto alternativo al sistema capitalistico globalizzato, come si suole credere, ma pienamente parte di esso. Egli, però, lo affronta del punto di vista del perdente, il quale non nutre altra speranza se non quella di confondersi con il potere trascendente e imbattibile della Morte. Non esiste, in conclusione, un profilo psicologico preciso dell’assassino “fondamentalista”, a mio giudizio, poiché questo riposa nell’Ombra medesima dei valori stessi di cui noi, membri di una società escludente a vari livelli, più o meno convintamente e in maniera conscia, ci facciamo araldi.
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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
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