LETTERE ALLO PSICOANALISTA
«Di recente, nella mia cittadina, si sono verificati diversi suicidi. La cosa mi turba molto e vorrei avere da lei una spiegazione.» Lettera firmata
SUICIDIO E CONOSCENZA
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di Francesco Frigione
Quando scompare un riferimento affettivo, sociale, economico o morale, l’esistenza perde credibilità. La possibilità della morte si avvicina allora all’individuo come fatalità o come destino ricercato. In una bellissima commedia cinematografica di qualche anno or sono, Good-bye Lenin, si descrive come il crollo del muro di Berlino generi un trauma alla madre del protagonista - una comunista convinta - che la porta al coma. Solo l’amore sollecito dei figli le permette lentamente di riaversi, assieme alla dolce illusione che non solo il sistema della Repubblica Democratica si regga ancora solidamente in piedi, ma che, anzi, abbia trionfato sul capitalismo!
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In casi di perdita grave l’individuo scopre improvvisamente di essere fragile e non riesce a darsene ragione, si dispera. All’essere umano viene meno la fiducia stessa che il linguaggio, le occasioni e gli strumenti di comunicazione col mondo gli permettano di lenire il proprio dolore. Spesso la tragedia si consuma nel silenzio, al riparo da rivelazioni esteriori capaci di suggerire a chi gli sta vicino che il soggetto si è già deciso a compiere il gesto e che attende soltanto l’occasione, l’impulso più forte, per eseguirlo.
Anzi, tale è la pacificazione che comporta la risoluzione che sovente i soggetti in procinto di suicidarsi paiono finalmente sereni, dopo un lungo periodo di tormenti. Ciò detto, ci possiamo domandare se la sua comunità viva una crisi specifica, che spinge alcuni suoi componenti a togliersi la vita. Non posseggo i dati epidemiologici per valutare se essa risulti più colpita dal fenomeno di altri luoghi d’Italia. Da un punto di vista psicologico, però, desidero affrontare il problema dei vissuti e delle immagini mitiche a cui tali vissuti si raccordano.
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Mi sembra insufficiente spiegare il suicidio come il semplice “venire meno” di una generica voglia di vivere. Esso rappresenta al contrario un vero abbraccio con la morte, una decisione assunta nel segno di una passione capace di sopraffare persino l’istinto di sopravvivenza, un desiderio, o comunque una resa volontaria al potere esercitato dal nulla: la pace del non essere. Già vederci non più come vittime innocenti e ignare di ciò che ci strappa alla vita, bensì come potenziali amanti della morte, è profondamente inquietante. Inquietante come solo la verità sa essere. Quando poi una serie di suicidi infierisce su una cittadinanza, ciò si trasforma in un trauma che affligge la comunità intera e la tiene sottilmente in scacco.
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I “vivi” assistono impotenti alla tragica rappresentazione di un autoannientamento, che lungi dall’essergli estraneo li abita intimamente. Andiamo oltre, però, le parabole soggettive. Afferma un antico proverbio cinese che “quando il dito indica la luna, lo sciocco osserva il dito”. Il “dito”, nel nostro caso, sono gli individui presi uno ad uno, separatamente. Invece noi dobbiamo sforzarci di comporre il quadro d’insieme di questi comportamenti. Il desiderio di morte alligna, infatti, non soltanto in ciascuno di noi, ma anche nei gruppi, nelle istituzioni, nei popoli, nelle civiltà.
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Il principio che distrugge è il medesimo che può trasformare e rinnovare. Se potessimo osservare con “l’imperturbabile occhio di Dio” questi eventi, dimenticandoci dell’atroce sofferenza dei singoli, bene, allora potremmo guardare al fenomeno come a un tentativo di affrontare un cambiamento epocale, di rispondere alle sfide che una società profondamente cambiata impone. Eppure questa lettura è ancora assai generica. Diventa più che mai necessario, allora, cogliere quali “figure dell’immaginario accompagnino il tentativo di trasformazione. Ci sarà utile dunque vedere come il mito, nell’antichità e in epoca moderna, spieghi il suicidio, poiché il mito è l’architrave che regge il comportamento dei popoli, delle comunità, dei gruppi.
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Un suicidio quasi involontario è quello di Narciso: Ovidio, nelle Metamorfosi, ci racconta che egli s’invaghisce del riflesso del suo volto nelle acque di un fiume. Insensibile ai richiami amorosi delle ninfe che abitano le fonti, come la bella e addolorata Eco, cerca di attingere all’immagine di quel magnifico ragazzo che egli non riconosce come sé e, sporgendosi, affoga nelle acque. Di solito pensiamo a quella di Narciso come una condizione del tutto priva di spessore affettivo e umano, ma possiamo leggere il mito al contrario, ossia come il resoconto della drammatica ricerca di una dimensione profonda ancora non riconosciuta.
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Ciò che gli antichi chiamavano “inferi”, il luogo dei morti, per noi è oggi la dimensione della “psiche inconscia”, da cui si genera ogni cambiamento. Un altro mito particolarmente suggestivo è quello di Sisifo, ambigua figura di “imbroglione sacro”, tanto abile negli inganni e nei sotterfugi da riuscire a raggirare, in un primo tempo, la stessa divinità dei ladri Hermes e il re degli inferi Ade, sottraendosi alla morte. Sisifo sembra adoperare mimeticamente le stesse armi degli dèi per garantirsi l’immortalità.
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La sua condanna consisterà nel dover spingere un macigno che, al termine della fatica, inesorabilmente ricade a valle. È proprio di questo eroe che Albert Camus ne Il mito di Sisifo fa l’emblema dell’essere umano rapito dall’idea del suicidio, una spinta che nasce spontanea quando si sperimenta l’assurdo dell’esistenza, la sua totale insensatezza.
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Lo straordinario colpo d’ala dello scrittore francoalgerino giunge nel finale del saggio, quando, proprio a partire dalla consapevolezza che il senso della vita non esiste a priori ma va generato continuamente, sostiene che, nonostante tutto, «dobbiamo immaginare Sisifo felice». Felici significa non sempre e costantemente contenti bensì capaci di attribuire senso a ciò che siamo, nella gioia come nel dolore più acuto, nella quotidianità come nell’eccezionalità. Il suicidio diventa quindi una delle possibili “figure” della presa di coscienza individuale e collettiva, a partire dalla quale si può percepire un orizzonte di cambiamento.
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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
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