LETTERE A UNO PSICOANALISTA
Gentile Pubblico, il mio “Doppio psicodrammatico” continua a inviare dispacci dalla remota Argentina.
Per quanto con l’aviazione supersonica e la rete informatica il mondo appaia incredibilmente piccolo, non si può abolire del tutto quel senso di distanza e separazione che, in passato, lungo le rotte dell’emigrazione, ha spaccato famiglie e destini individuali, frapponendo tra loro la massa liquida 1
dell’Oceano Atlantico. Mi aspetto, perciò, che il “Doppio”, che è solito dispensarci informazioni frammentarie, oggi finalmente giunga a una sintesi, un piano ordinato e razionale, tanto da formare un puzzle rispettabile. Quella realtà così latina e permeata di presenze italiane delle più meridionali lande d’America (o meglio, del mondo) insinua, infatti, sapore di perdita e di desiderio, di vuoto e di ricomposizione per quanto si è spezzato con una partenza, un addio, una fuga, un abbandono.
Un sapore che, in forma diversa, conosce chi si è lasciato alle spalle la madrepatria, che sperimentano nei precordi i suoi discendenti, e, spesso ignorandolo, persino chi è rimasto in Italia, avendo scagliato un pezzo di sé in quell’altrove così possibile, così diverso.
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Al mio Doppio Viaggiatore vorrei chiedere, perciò, di dismettere i suoi consueti voli pindarici e soffermarsi di più sulla realtà sociale, politica e culturale che riscontra nell’attualità di quel Paese. Non confido che si atterrà a un criterio di assoluta concretezza, dandomi completa soddisfazione; ciò nonostante, spero che il mio ruolo di pungolo riesca in parte a difendere sia il mio che il vostro interesse di lettori sani, curiosi e ponderati.
VIAGGIO IN ARGENTINA III Società, Politica e Cultura
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di Francesco Frigione
Già il titolo così ampio e altisonante, cari lettori, vi permette di comprendere quanto le richieste del mio “Doppio Stanziale” mi costringano a prove eccessive e megalomaniche: quella inevitabile frammentarietà delle mie passate comunicazioni, che lui liquida come «voli pindarici», rappresenta semplicemente il tentativo di ricondurre a un vissuto coerente e familiare l’incontro “perturbante” (Sigmund Freud, 1919) con l’Altro. Come viaggiatore, infatti, devo continuamente sforzarmi di intendere e parlare una lingua, che se pure amo, comprendo e pratico, non è la mia originaria; camminare per strade concepite da una razionalità americana; visitare spazi dotati di dimensioni e orizzonti spropositati, totalmente diversi dai nostri, la cui
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caratteristica – e l’inimitabile grazia – consiste nel piccolo e limitato, sino all’angusto e all’asfittico.
Ciò detto, ancora una volta accetto la sfida postami da quel provocatore arrogante del mio Doppio e addivengo ai suoi “desiderata”. Non per compiacere lui, ovviamente, ma perché egli si è eletto vostro portavoce, miei pochi ma beneamati lettori.
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Il grande scrittore Borges sosteneva con un’ironia non totalmente nemica della verità che «gli argentini sono italiani che parlano spagnolo e aspirano a essere inglesi».
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Partendo da questa boutade, negli ultimi giorni ho riflettuto su quale mastice tenga insieme un popolo così composito e cosa invece lo abbia spaccato clamorosamente in molti sanguinosi tornanti della storia e ancora lo divida nei conflitti politici della vita contemporanea.
Bisogna considerare come l’idea che in Argentina siano giunti, dalla Conquista in poi, soltanto spagnoli (che qui chiamano metonimicamente “gallegos”, ossia “galiziani”) e italiani (“tanos”, diminutivo di napolitanos) è assolutamente fuorviante; il Paese ha accolto tutti: ebrei di ogni provenienza
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(pensate che la sola Buenos Aires è, per quantità di popolazione, la seconda città ebraica nel mondo, dopo New York); oltre agli indios andini, si contano tedeschi, polacchi, ungheresi, inglesi, irlandesi, turchi, siriani, libanesi, armeni, cinesi ecc. ecc. Ha, per altro, soppresso tutti i discendenti degli schiavi africani condotti qui in catene per lavorare nei campi, i quali invece appaiono numerosi nei confinanti Uruguay e Brasile.
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Genocidi dei nativi, poi, analoghi a quelli eseguiti negli Stati Uniti, sono stati perpetrati nei secoli passati, fino ai primi del Novecento. Un grande missionario salesiano piemontese, Alberto Maria De Agostini (1883 - 1960) – fratello del fondatore della famosa casa editrice geografica e a sua volta
straordinario esploratore, cartografo e fotografo – scelse di vivere in Patagonia, accanto alla popolazione Mapuche della Tierra del Fuego, cercando di
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documentarne gli usi e preservarne la sopravvivenza, senza, purtroppo, riuscire a impedirne il definitivo massacro.
La storia argentina è intervallata da parentesi democratiche e punteggiata dall’affermarsi di Caudillos, dittatori che hanno tenuto saldamente in pugno le redini dello stato, sia con la forza bruta sia con il consenso popolare. Tutto ciò ha costantemente portato a delle contrapposizioni senza sfumature tra aderenti e oppositori, apologeti e detrattori.
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Nella sua dimensione politica, sempre assai sentita, l’Argentina resta fortemente polemica e ideologica e, anche in democrazia, attestata su posizioni che paiono incompatibili con un dialogo tra parti capaci di riconoscersi reciprocamente. La psiche collettiva di questo Paese pare sempre alla ricerca di un “Padre” e di una “Patria”, ora rintracciandoli nel passato, ora adombrandoli nel presente e nel divenire.
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Chissà se ciò non derivi basilarmente dal desarraigo, lo “sradicamento” originario dall’Europa e dall’Oriente vissuto dai primi colonizzatori e dai tanti immigrati.
È come se un furente moto dionisiaco spingesse buona parte di questo popolo – in media colto e brillante - a immagini di forza e di stabilità, nelle cui 12
braccia finalmente potersi abbandonare, sicura. Oppure, la conducesse a un odio edipico furente, a un desiderio di castrare il “Padre crudele”, come fece Giove con Saturno.
D’altronde, di “Padri crudeli” della Patria qui ce ne sono stati molti e alcuni terrorizzanti, come attesta la lunga teoria di assassini che ha insanguinato il Paese: una teoria la cui apoteosi si è celebrata con i generali del cosiddetto Proceso Militar (1976 - 1983), Videla, Massera, Agosti, Galtieri, Viola ecc. capaci di torturare e sterminare 30.000 persone, tra avversari politici, studenti, intellettuali, artisti, professionisti, rappresentanti della società civile.
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Il tutto con la benedizione dei vertici della Chiesa Cattolica (e a dispetto della sua base), all’epoca schierata per due convergenti motivi con i massacratori golpisti: il primo era la politica anticomunista e filoamericana di Karol Wojtyla (1920 – 2005), impegnata a dare la spallata finale al barcollante impero sovietico; il secondo era la composizione socioantropologica delle gerarchie ecclesiastiche, in maggioranza provenienti dalle classi ricche, aristocratiche, patrizie, sia locali che italiane.
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Queste ultime professavano un credo radicalmente antipopolare e reprimevano le spinte rivoluzionarie della Teologia della liberazione (un’elaborazione del cattolicesimo in chiave marxista, nata nel 1968 da un sinodo di vescovi latinoamericani, tenutosi a MedellĂn, in Colombia).
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Solo dopo la caduta del Muro di Berlino, il Papa polacco cominciò ad aggiustare il tiro, tramite l’antico costume del promoveatur ut moveatur, del “promuovere per rimuovere”, e come il Re Sole aveva fatto con i nobili
francesi, spostò le alte gerarchie latinoamericane a Roma (e lo stesso seguitò a fare Joseph Ratzinger), lasciando spazio in loco all’emergere di nuove figure, di provenienza spesso più popolare, qual è, ad esempio, l’attuale pontefice Jorge Mario Bergoglio, precedentemente eletto arcivescovo di Buenos Aires.
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Proprio a proposito del papa, ho cercato di compiere un saltuario sondaggio: mi sarei atteso un certo entusiasmo nei suoi confronti, non fosse altro che per via dell’orgoglioso nazionalismo argentino, e invece, con stupore, ho raccolto solo tiepide e imbarazzate valutazioni.
Tutto ciò sembra provenire da ragioni politiche precise: il papa in carica, da un lato è malvisto dai tradizionalisti e dai sostenitori della derecha 17
neoliberale (“destra neoliberista”), per le sue nette posizioni in favore della redistribuzione sociale; dall’altro, è abbastanza inviso ai neoperonisti kirchneristi (i due coniugi Néstor Kirchner e Cristina Elisabet Fernández Kirchner si sono susseguiti alla presidenza della Repubblica dal 2003 al 2015) per i precedenti conflitti con il loro governo. Tutto ciò, mi pare, finisca per oscurare il resto.
In generale, nelle testimonianze che raccolgo da varie persone, dalle più raffinate culturalmente e alle più umili, gli elettori del nuovo presidente Mauricio Macri e quelli della precedente Cristina Kirchner si disconoscono 18
totalmente, e si imputano ogni sorta di colpe – vere, probabili, presunte, fantastiche. Questo disconoscimento non è solo di ordine politico ma socioantropologico: è come se, compiendo una scelta, entrassero a quel punto a far parte di un’altra famiglia, dove è re un altro “Padre”.
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Eppure gli argentini si tengono insieme e il mistero è come: quaranta milioni di persone distribuite su un territorio che è pari a quasi otto volte l’Italia e che vanta tutti i climi, da quello antartico a quello subequatoriale; con una capitale che sembra la grossa testa di un polipo, poiché con l’hinterland conta tredici milioni di abitanti.
A me sembra che il cemento sia, oltre un nazionalismo più esibito e di facciata che sostanziale, da un lato il culto dell’amistad, della “amicizia”, della affettività e della relazionalità in generale, dall’altro quello della cultura, che
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qui è incredibilmente vivace: proliferano le compagnie di teatro (e i teatri), dalle minuscole, off, alle grandi e stabili; il cinema argentino è di ottima fattura; le arti plastiche (con musei e gallerie) e, soprattutto la letteratura, in
tutte le sue forme (potente è il lavoro delle istituzioni culturali e le librerie sono innumerevoli e ricche di libri nuovi e usati).
A congiungere questi due livelli - l’affettivo e il culturale simbolicamente, si pone il primato della psicologia, specialmente della psicoanalisi lacaniana (con indecorose forme di sudditanza da Parigi, ahimè): in Argentina si conta la più alta densità di psicologi per abitante. E ai miei colleghi italiani dico: lavorano tutti a pieno regime! 21
Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
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