VIAGGIO IN ARGENTINA I - Partenza

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LETTERE A UNO PSICOANALISTA

Gentile Pubblico, da quest’oggi e per tre settimane di seguito, ho deciso di avviare sperimentalmente, su questa rubrica, una tipica operazione psicodrammatica: lo sdoppiamento drammaturgico! Entrerò nei panni del lettore che pungola il me stesso che scrive, affinché scandagli i vissuti di una delle esperienze chiave della vita umana: il viaggio.

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Mi trovo, infatti, alla vigilia della partenza per una terra remota geograficamente, ma che da un punto di vista antropologico e culturale è assai prossima all’Italia, l’Argentina. Lo era di certo per Carlo Emilio Gadda, il quale avendo lavorato per tre anni nelle pampas come ingegnere, nel romanzo “La cognizione del dolore” (Einaudi, Torino, 1963), fuse i due territori in un’unica landa di fantasia: il Maradagál. Sgusciando fuori dalle pagine della letteratura, poi, dobbiamo ricordare che lì, tra i milioni di nostri connazionali emigrati, un gran numero ha trovato lavoro e fortuna, nelle città e nelle campagne. Personalmente, ho vissuto nella capitale di questo sconfinato paese, Buenos Aires, da giovane e vi sono tornato più volte da adulto. Ancora una volta mi appresto a ripercorrere – ma solo in apparenza – le mie orme; oggi lo 2


faccio perché invitato dall’Istituto Italiano di Cultura a presentare “Animamediatica”, la rivista internazionale on line che ho fondato e dirigo.

Mi attendono incontri con amici e conoscenti, con i quali si è mantenuto forte l’affetto a dispetto della distanza, ma anche con eventi del tutto ignoti, sorprese, forse motivi d’inquietudine, poiché questa metropoli, tanto scalpitante e fervida sul piano sociale e culturale, nel piacere e nel dolore, mi ha puntualmente riservato assai più di quanto mi aspettassi da lei. L’ho sempre vissuta come un luogo estremo, di eccessi, infatti, come qualcosa che si avvicina in forma entusiasmante e angustiosa alla natura più autentica e “sacra” della psiche, al suo aspetto magico e terribile. Allora, eccomi pronto: L’Io Lettore che interroga il me Narratore, da cui spera di ottenere informazioni, di essere stimolato nella fantasia e nella curiosità. Pretendo di essere sedotto ed edotto dalle sue risonanze di psicologo. E in quanto Lettore già mi chiedo se lo scrittore sarà all’altezza delle mie aspettative … Lettera firmata

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VIAGGIO IN ARGENTINA I Partenza

di Francesco Frigione

Partire è un po’ morire Partire è un po’ morire rispetto a ciò che si ama poiché lasciamo un po’ di noi stessi in ogni luogo ad ogni istante. È un dolore sottile e definitivo come l'ultimo verso di un poema... Partire è un po’ morire rispetto a ciò che si ama. Si parte come per gioco prima del viaggio estremo e in ogni addio seminiamo un po’ della nostra anima.

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Così scrive, nella celebre Canzone degli Addii, Edmond Haraucourt (1856 - 1941). Mai, in vita mia, ho sentito queste parole risuonare in modo tanto convincente come adesso, ché è imminente la partenza per Buenos Aires. Per coincidenza, la pubblicazione di questo primo resoconto precederà soltanto di qualche ora il decollo del volo per l’Argentina, un’esperienza che ho fatto più volte in passato, sempre con piacere, carico di attesa e di desiderio di novità.

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Eppure, le mie sensazioni attuali sono molto diverse: richiamano la vaga angoscia che mi assale talvolta nei sogni, quando percorro, senza ragione apparente, itinerari scavati nella più fitta oscurità da una luce opalescente. Allora, fantasmi non sono i morti resuscitati nell’aldilà ma l’ombra del mio stesso Io, la cui carica di energia e vitalità della veglia rivela una scia di strutturale inconsistenza. E più sono intenzionali e diretti a una meta i propositi della veglia e più mi ritrovo sbalzato nell’insensatezza di questo universo di attesa.

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Di questo tipo spesso sono stati, negli anni, i miei sogni su Buenos Aires: una vana ricerca di approdo; uno spasmodico desiderio di incontro mai soddisfatto. Per farvi capire di che stato di animo si tratti, vi narrerò degli episodi significativi e recentissimi.

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Domenica scorsa, mi apprestavo a votare per le amministrative in un seggio del Comune di Roma, quando ho scoperto che il casellario della mia tessera elettorale era saturo di bolli, apposti nelle precedenti consultazioni. Mi sono visto costretto, dunque, a raggiungere gli uffici circoscrizionali per ottenere un nuovo certificato elettorale.

Mentre con fatica percorrevo un lungo vialone alberato (in settimana, giocando a calcio, mi sono rotto un menisco e claudico come se fossi io stesso una creatura infera), mi ha assalito una sensazione di distacco dal mondo circostante, come se stessi già prendendo commiato da ogni cosa familiare. Considerando che il viaggio durerà solo sedici giorni e non comporterà alcun apparente cambiamento di vita, questa sensazione, inizialmente, mi è sembrata illogica.

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Eppure, è indubbio che una mano invisibile mi stava trascinando in un “non luogo” della mente. Man mano che mi avvicinavo al poderoso edificio in cemento armato e metallo del municipio ne provavo ribrezzo: mi pareva orrido, con la sua scritta perpendicolare nera e consunta, con le sue finestre e i terrazzini noiosamente simmetrici, bassi, quasi fossero costantemente minacciati da una forza di gravità mostruosa, e privi di fiori, di piante, di grazia. Certo era brutto, ma di una bruttezza consueta, che si può incontrare in tanti altri luoghi; il dato è che io ora vi proiettavo qualcosa di personale e di affannosamente fosco.

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Ho disceso gli scalini dell’androne e sono entrato nella sala degli sportelli per il pubblico, un seminterrato cadenzato da spoglie colonne quadrangolari, illuminato da una luce gialla, infelice, crudele. Se l’esterno mi era parso squallido, l’interno mi dava espressamente l’idea di una morgue. L’attesa, per fortuna, è stata brevissima: l’impiegata è stata rapida e gentile nell’espletare il proprio compito. Nel breve scambio di battute che ne è seguito, non so come siamo finiti a parlare del mio prossimo viaggio, e lei ha sollevato gli occhi e, con un lamento, ha quasi urlato al cielo: «Ah, beato lei! … ». Ho avvertito l’impulso a giustificarmi: «Ah, ma sa, vado per lavoro, non per piacere, purtroppo …» e vi ho aggiunto un sorriso di compatimento. La donna ha scosso la testa sconsolata e dietro le spesse lenti ha esibito una sguardo affranto: «No, beato lei … Beato lei …», ha insistito, senza ascoltare ragioni. Allora, anch’io ho chinato il capo contrito. Lunedì, invece, degli amici mi avevano proposto una passeggiata dopo cena; ma la stanchezza delle ultime notti, in cui il sonno si è fatto labile, e l’ansia di chiudere i colli anzitempo per poi pesarli, mi ha indotto a rinunciare allo svago.

Sono rimasto in famiglia a vigilare lo stato delle cose, come l’ingegnere che verifica la tenuta di una diga pressata da un’onda di piena. Al termine della 10


serata non ho risolto nulla: all’appello mancavano ancora alcune camicie e il cappotto da recuperare in un armadio. Gli indumenti da portarmi dietro, di fatti, sono i più voluminosi e pesanti del guardaroba: maglie, maglioni e calze di lana; sciarpe, cappelli; scarpe pesanti e un vestito elegante.

Questa storia mi suona strana, in effetti: in passato, recandomi in Sud America, dalla stagione fredda sono sempre approdato a quella calda, o al massimo ho goduto di dolcissimi autunni. Ma questa volta, no, dovrò impavidamente affrontare l’inverno australe. Ora, non dovete pensare che Buenos Aires sia sferzata da temperature antartiche, però sembra che questo giugno sia particolarmente gelido e che, invece dei consueti tredici/quattordici gradi, me ne riserverà cinque. La rilassatezza dell’estate incipiente che già mi assale nelle soleggiate giornate romane, la promessa di vacanza e di ozio che aleggia allegramente nell’aria, dovrà essere, dunque, subito riconvertita in un’attività rigidamente produttiva, proficua, alacre, sebbene creativa.

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Il corpo un po’ avvizzirà, infagottato e deprivato di luce (e lì la luce è meravigliosa quando si afferma, e i cieli sotto cui camminare sono di un azzurro diamante, quasi inverosimile, quando splende il sole) e le solite lunghe godibili passeggiate sulle orillas del Rio de la Plata – il fiume largo quanto un mare – o per le immense avenidas e le calles dei barrios e degli arrabales, “le vie dei quartieri urbani e periferici” decantate da Borges (1899 - 1996) nella sua mistica letteraria della città-labirinto, tutto ciò temo che dovrò ridurlo notevolmente, sia per via del ginocchio che a causa del clima.

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Ma più di tutto temo di trovare una popolazione generalmente gioiosa e socievole in massimo grado, incattivita dalle vicende politiche ed economiche del nuovo corso neoliberista, affermatosi dopo anni di politiche neoperoniste di sinistra piene di falle, ma in grado di riportare la pace sociale e di risollevare il paese dall’abisso in cui era precipitato negli anni ‘90. Chissà che riscontri mi offrirà la realtà, dopo gli occasionali (e cupi) resoconti inviatimi dagli amici via e-mail o WhatsApp, o tramite i gli avari e occhiuti canali dei nostri media. Sfido molti di voi, per esempio, a dire cosa stia accadendo in questo momento in quel grande paese, considerando che si tratta anche della patria di Jorge Bergoglio, il Papa, non proprio “l’ultimo arrivato”.

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Di questo e di altro spero di riuscire a parlarvi nella prossima settimana.

Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.

Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.com Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it

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