Monte Bianco 93

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MONTE BIANCO 93 Avevo iniziato a sognare ad occhi aperti dal mese di febbraio del 1993 e, studiando materiale riguardante il Trentino e la Valle d’Aosta, cercavo di organizzare la gita sociale della mia Sezione CAI di Ortona. Avevo già messo insieme parecchie escursioni e salite oltre i 3000 metri ma, passando in rassegna le varie cartine sentieristiche mi si presentavano davanti cime dai nomi accattivanti: Adamello, Cevedale, Ortles, Monviso, Rosa, Cervino, Bianco; per ognuna di esse sognavo la via ideale per poterla avvicinare, per poterla scalare, per poterla vivere. Mettevo insieme tutti i dati in mio possesso, i tempi di percorrenza, i periodi migliori per fare quelle ascensioni, il materiale occorrente, le persone che volevano e potevano farle. La mia immaginazione viaggiava ogni qualvolta aprivo una cartina sul tavolo e mi ritrovavo su sentieri che non avevo ancora fatto ma, che nella mia mente conoscevo benissimo. Forse questo si chiama mal di Montagna? Non lo sapevo ancora ma sentivo che avevo bisogno, come adesso, di quei momenti per poter sognare ad occhi aperti delle mie Montagne. Insieme a questi pensieri convivevo per giorni e giorni cercando di trasmettere tutta questa mia euforia anche a quegli Amici che tante volte erano stati compagni di salita e che, ero certo, volevano condividere lo stesso entusiasmo. L’ho buttata lì: “ragazzi che ne dite di scalare il Monte Bianco?” Non l’avessi mai detto: eravamo già in vetta. Il mio sogno iniziava a realizzarsi. Enzino, Franco, Nino ed io sembravamo dei bambini a cui avevano dato un nuovo giocattolo tutto da scoprire. Eravamo coscienti che l’impresa sarebbe stata ardua soprattutto per quanto riguardava l’altitudine, poiché nessuno di noi era mai salito così in alto. Come avrebbe reagito il nostro organismo alla fatica di un’ascensione oltre i 4000 metri? La vetta più alta che avevamo raggiunto fino ad allora era Cima Vioz, nel Parco Nazionale dello Stelvio, a 3635 metri di quota.


L’unica risposta che abbiamo trovato a questo interrogativo era quello di provarci ma, provarci preparandoci adeguatamente e con impegno. Oltre al continuare ad andare su per i nostri monti con uno spirito diverso, dovevamo aumentare la nostra potenza e resistenza alla fatica. A questo proposito ci sono stati utili i consigli di alpinisti esperti che avevano già fatto ascensioni di questo tipo e tra questi quelli di Achille Compagnoni, si proprio quel Compagnoni che il 31 luglio del 1954, insieme a Lacedelli aveva conquistato la seconda vetta più alta della Terra, il K2. Avevo incontrato il grande alpinista durante una sua rara visita fatta all’amico Pietro Trivilino qui a Ortona. Tra loro c’era un’amicizia cementata nel tempo ed io conversando con lui mi sentivo orgoglioso, fortunato ed emozionato. E’ stato uno dei più bei incontri della mia vita. Tutti ci avevano consigliato di fare tanta bicicletta e noi, di tutto punto, siamo saliti in bici e chilometri dopo chilometri ci siamo preparati all’impegno più importante della nostra attività alpinistica di allora. Man mano che si avvicinava la data della partenza, i preparativi si facevano sempre più febbrili. Il gruppo, ad ogni giorno che passava, aumentava e poi diminuiva. Tutto ciò dovuto agli impegni diversi che ognuno di noi aveva in quel periodo. Anche Franco, ad un certo punto, non era più sicuro di venire a causa della sua prolungata inattività dovuta ad una fastidiosa tendinite. Ma, la sua forte volontà ha fatto si che anche lui alla fine fosse dei nostri. E poi, come avremmo fatto senza di lui? Senza il nostro medico, il nostro cardiologo? Dopo vari contatti con esperti e guide, l’8 giugno ho avuto una conversazione telefonica con una responsabile del G.A.M. (Gruppo Amici della Montagna), Sottosezione del CAI Milano. La Signora Manfredi, mia interlocutrice all’altro capo del telefono, mi da notizie sulla loro Casa a Planpincieux (Courmayeur) e sulla possibilità di avere una base di appoggio per la nostra ascensione. Quel colloquio si rivelerà alla fine altamente proficuo, sia per la nostra iniziativa che per future iniziative della nostra sezione CAI di Ortona. Il giorno era stato fissato da tanto tempo ed il 3 luglio alle ore 1,00 partiamo per il Monte Bianco. Abbiamo caricato il furgone di Enzino fino all’inverosimile e meno che alla fine siamo partiti solo in 5 da Ortona, altrimenti ci sarebbe occorso un carrellino. Il viaggio, durato tutta la notte, è stato molto tranquillo. Gianluca non ha fatto altro che dormire. Nino ha fatto da seconda guida a Enzino che ha guidato per buona parte del viaggio. Franco ed io ci siamo alternati a mantenere alto lo stato efficiente della


comitiva. Insomma tra una battuta e un pasticcino, un caffè e un bicchiere d’acqua, alle 9,30 arriviamo a Courmayeur. Davanti a noi si erge con maestosità il gruppo montuoso del Monte Bianco la cui sommità candidamente innevata gioca con i raggi del sole. Rimango colpito dalla grandiosità di questo spettacolo e il solo pensiero che l’indomani ne avrei fatto parte anch’io mi riempie di grande emozione e rispetto. Saremmo stati in grado di arrivare fin lassù? Questo pensiero mi ha accompagnato per tutta la giornata. Planpincieux è una splendida località posta all’inizio della Val Ferret, a 1595 metri di altezza, ed è la frazione più in quota di Courmayeur. La casa del GAM è articolata in più edifici contigui, tra i più vecchi e suggestivi di quelli che formano il nucleo di questo tipico borgo alpino ed è il luogo ideale per attività alpinistiche ed escursionistiche a tutti i livelli. Il responsabile del GAM, in particolar modo la Signora Manfredi, ci riservano un’accoglienza molto familiare come se ci fossimo conosciuti da sempre. Tutto ciò ci mette a nostro agio e ci permette di trascorrere la rimanente parte della giornata in piacevoli conversazioni con gli ospiti della Casa i quali con naturalezza e familiarità ci danno consigli sull’ascensione che avremmo voluto compiere. Tra questi il simpatico, quanto gentile, Signor Giacomino il quale, dall’alto dei suoi 84 anni, sembra uscito da un libro di alpinismo per tutte le nozioni, i nomi delle vette e delle vie, i racconti che riescono a coinvolgere chi ascolta in un unisono di vita vissuta. In queste ore febbrili che precedono l’inizio della nostra impresa, abbiamo fatto e disfatto lo zaino decine di volte ed ogni volta ci sembra sempre troppo pesante. Alla fine troviamo un compromesso: avremmo portato con noi solo le attrezzature necessarie e indispensabili, sacrificando così gran parte di quello che all’inizio non ci sembrava superfluo. Nel primo pomeriggio si unisce a noi Cesare che è partito da Bergamo. Ora la comitiva è al completo. Ci siamo sistemati tutti e 6 in una mansarda con più letti e la disponibilità di tanto spazio, infine, risulterà molto preziosa. La cucina è buona e, durante il pranzo e la cena gli ospiti si ritrovano in un ambiente che riporta alla mente il calore degli alti rifugi alpini. Dopo una breve visita serale di Courmayeur, alle 23 siamo tutti a letto. Abbiamo deciso di partire molto presto per poter essere in prima mattinata in Francia. Sì, in Francia, visto che abbiamo studiato la salita al Bianco dal versante opposto a quello italiano. Durante la preparazione dell’ascensione, avevamo capito che la salita da Chamonix sarebbe stata per noi più congeniale data la possibilità di sostare in rifugi


abbastanza in quota e la presenza di relative difficoltà per quanto riguardava l’ultima tappa di avvicinamento alla cima. La notte trascorre tranquilla e l’entusiasmo si agita nell’aria. Ci svegliamo molto presto e alle 6,00, cercando di fare rumore il meno possibile per non disturbare gli altri ospiti, siamo in macchina pronti per la partenza. Attraversiamo il traforo e la frontiera e dopo un po' la luce del giorno si apre sulla valle di Chamonix, una delle più importanti e note stazioni sciistiche e soggiorno dell’arco alpino. Siamo in territorio francese e ci dirigiamo verso Les Houches (1008mt slm) base di partenza per la nostra salita e, dopo una breve colazione a base di caffè nero alla francese in un locale nelle vicinanze della stazione della funivia. Alle 8,30 saliamo sulla cabinovia che in poco tempo ci porta a quota 1790mt alla stazione a monte del Bellevue. Qui è posta la fermata del TMB (Tramway du Mont Blanc) che sale da La Fayet e che di lì a poco ci avrebbe portato fino a quota 2372mt del Nid d’Aigle (Nido dell’Aquila), la piccola stazione posta ai piedi del ghiacciaio del Bionassay, dove scendono tutti gli escursionisti e alpinisti per iniziare la salita verso la vetta d’Europa. Lo spettacolo che si presenta a chi sale fin quassù per la prima volta è veramente grandioso: ci troviamo al cospetto di cime oltre i 4000 metri e l’Aiguille de Bionassay, dall’alto della sua cresta bianchissima la fa da padrona sull’omonimo ghiacciaio. Una foto di gruppo per immortalare questo momento e sono le 10,15 di domenica 4 luglio 1993 quando iniziamo a salire per il ben visibile e battuto sentiero che si inerpica lungo le pendici del Col des Rognes. A parte un brevissimo tratto attrezzato e qualche passaggio su neve e roccia, questa prima parte della salita procede abbastanza velocemente. Ci concediamo una breve sosta su delle roccette di fronte ad una costruzione in muratura, da dove con meraviglia, abbiamo il primo incontro visivo con stambecchi e caprioli che pascolano indisturbati a due passi da noi. Tutto ciò ci fa capire che quassù è stato raggiunto un equilibrio straordinario nell’ecosistema naturale tra uomo e animale.


Man mano che saliamo, il nostro sguardo spazia fino a trovare nuovi e sconosciuti panorami, molto differenti da quelli che abitualmente possiamo osservare sulle montagne di casa nostra. Le ardue e rocciose pareti dell’Aiguille du Midì, la bianca cresta che unisce l’Aiguille de Bionassay al Dome du Goùter, l’Aiguille du Goùter, fanno da splendida cornice alla nostra salita. Alle 13,00 raggiungiamo il Rifugio Tetè Rousse a 3167mt, dopo aver attraversato l’omonimo e logoro ghiacciaio; è una costruzione in legno di proprietà del CAF (Club Alpino Francese), posto ai piedi di un costone roccioso che discende dall’Aiguille du Goùter. Dopo esserci rifocillati con del tè caldo passiamo parte del pomeriggio ad osservare la parete che l’indomani avremmo dovuto scalare per raggiungere l’altro rifugio, quello del Goùter mentre le condizioni metereologiche cambiano rapidamente. Intanto il rifugio si riempie di alpinisti di nazionalità diverse e all’interno si respira un misto di odori che va da quello umano a quello della cucina che continuamente prepara bevande e pasti caldi. Visto che abbiamo prenotato, il gestore si decide finalmente ad assegnarci il posto letto. Avremmo passato la notte in una camera attigua alla zona pranzo, su dei materassi che non sappiamo da quanto tempo non vengono battuti e rifoderati con coperture pulite, a stretto contatto con altri 40 alpinisti; se questo è il sacrificio da sopportare per raggiungere la meta, pazienza.

Facciamo una breve ricognizione sul ghiacciaio passando accanto ad un campo di polacchi che si sono scavati delle buche nella neve e le hanno ricoperte con le loro leggere tende per poi trascorrerci la notte. Ci portiamo sulla destra orografica del ghiacciaio e la bellissima parete rocciosa dell’Aiguille du Midì è lì che si staglia protesa verso l’azzurro del cielo come una cattedrale. Diamo un’occhiata anche ai profondi seracchi del Ghiacciaio del Bionassay e alla Valle di Chamonix. Siamo solo all’inizio dell’impresa e non sappiamo che molte altre difficoltà ci aspettano, tra cui la mancanza assoluta di servizi igienici, anche se vogliamo salvare le fatiscenti e maleodoranti costruzioni in legno chiamati bagni.


La notte trascorre a fatica ed io non riesco a capire come tanti altri possano riuscire a dormire in quella stanza in cui, man mano che trascorre il tempo, l’aria si fa sempre più irrespirabile. Il vento durante la notte aumenta sempre più di intensità ed io penso che il tempo stia cambiando; questa mia impressione è confermata quando finalmente il rifugio si sveglia e mettendo il naso fuori, un cielo plumbeo, anche se sono le 6 del mattino, accompagnato da una temperatura di qualche grado sotto lo zero, ci presenta una giornata poco promettente. Una veloce colazione insieme agli altri alpinisti, soprattutto francesi e polacchi, e subito ci portiamo fuori dal rifugio; rimettiamo in ordine gli zaini e iniziamo a prepararci per affrontare la salita al Rifugio del Goùter, a 3817 metri. Dopo aver indossato oltre all’equipaggiamento normale anche casco, imbracatura e ramponi, alle 7 ci avviamo, uno dietro l’altro, sul sentiero ben tracciato del ghiacciaio. Lo tagliamo quasi verticalmente, passando di nuovo accanto al campo dei polacchi e notiamo che le loro tende sono vuote e strappate; non sappiamo se sono saliti o discesi. Ci portiamo sotto il primo costone roccioso che scende dal Goùter e, dopo aver salito un breve tratto roccioso servendoci anche di un cavo d’acciaio tutto sfilacciato ed insicuro, ci troviamo di fronte ad un pericoloso, verticale, canalone innevato. Secondo la guida che avevo consultato, il canalone raccoglie la caduta di massi e detriti che si staccano per la presenza di alpinisti che salgono lungo la costola rocciosa che, quasi verticalmente, raggiunge il Goùter. Facendo molta attenzione attraversiamo, uno alla volta e distanziati, il canalone largo un centinaio di metri e ci portiamo tutti dall’altro lato accompagnati dai continui richiami d’allarme di chi sale per i distacchi di rocce e detriti. La via è molto affollata. Siamo in tanti a salire e dobbiamo stare attenti quando incrociamo quelli che scendono che non sono pochi. Intanto un fastidioso vento, accompagnato da un leggero nevischio, non ci prospetta niente di buono e con un po' di apprensione e raggiungiamo la ferrata che da qui in poi ci avrebbe fatto da sicura e fino su al rifugio. Gli ultimi 150 metri di salita li facciamo con un freddo pungente anche se sono le 11,00 del mattino. Il rifugio è sopra di noi, lo vediamo, e nulla potrebbe farci desistere dal raggiungerlo. Stringiamo i denti per il freddo. Ci tiriamo su lungo la ferrata e alle 12,00 siamo finalmente al Goùter, una solida costruzione metallica che può ospitare oltre 100 persone, situato sul versante ovest di una cengia rocciosa poco distante dalla sommità dell’Aiguille du Goùter. A prima vista si presenta abbastanza accogliente e comodo ma, alla fine anche la mancanza di servizi igienici interni e la poco pulizia mettono in cattiva luce la splendida posizione panoramica di cui esso gode. Dopo una breve presentazione al


gestore che ci assegna i posti per la notte, ci concediamo una tazza di brodino caldo e della carne, mentre altri alpinisti si aggiungono riempiendo il rifugio in tutti i suoi posti disponibili. Continua a nevicare e il vento aumenta d’intensità. Il gestore ci tiene informati, con i bollettini meteo che gli comunicano da Chamonix, del peggioramento del tempo e noi, non possiamo fare altro che guardarci preoccupati tra di noi. Certamente l’indomani sarebbe stato molto improbabile tentare la salita alla cima, a meno di un miglioramento all’ultimo momento; purtroppo con i lampi e i tuoni che scuotono il rifugio, difficilmente ciò potrebbe accadere. Decidiamo di telefonare ai nostri amici del GAM s Planpincieux per chiedere informazioni anche dal versante italiano sulle prossime previsioni, sperando che quelle francesi siano sbagliate o troppo pessimistiche, che una finestra di bel tempo si prospetti per il giorno seguente. La risposta purtroppo si rivela negativa. Il bel tempo sarebbe arrivato verso il pomeriggio dell’indomani. Ciò nonostante ci mettiamo a letto mentre fuori imperversa una violenta bufera. Il rifugio totalmente al buio è illuminato solamente dai bagliori dei fulmini che si susseguono in maniera veramente impressionante e ognuno di essi precede di poco il tremendo tuono che gli appartiene; siamo proprio nel mezzo di una tempesta di neve e vento a 3800 metri di quota. Un boato tremendo scuote tutto il rifugio. Sembra di essere in guerra tanta è la potenza rumorosa dell’ultima saetta che deve essere caduta molto vicino a noi. Mi ricordo di quando ero militare e durante le esercitazioni di guerra sul litorale laziale usavamo bombe a mano, proiettili traccianti e “tubi bengalores”, combattendo un’ipotetica battaglia contro un immaginario ed inesistente nemico. Molti pensieri mi passano per la mente aspettando che tutto si plachi, , che arrivi un po' di sonno, che giunga al più presto il nuovo giorno. Nella stanza in cui siamo sistemati insieme ad altre 30 persone, occupiamo la posizione superiore di questo grandissimo letto a castello e tra un sospiro, un russare, un bisbigliare in svariate lingue, ogni tanto si sente un colpo di tosse da parte di uno che sta sotto di noi. “Franco, ma che ha questo che sta sotto di noi? La bronchite?” chiedo al nostro medico cardiologo. “Ma, Francesco che vuoi che ti dica, certamente ha una gran bella tosse”. Man mano che passano le lunghe ore la stanchezza e la tensione lasciano il posto ad un assopimento generale. Ho dormito qualche ora e finalmente la luce dell’alba rischiara la stanza mentre fuori continua a nevicare. Ai piedi del letto vedo Franco e Cesare che cercano di parlare con l’alpinista che durante la notte non ha fatto altro


che tossire. Deve stare veramente male e questo lo capisco dalla faccia di Franco che, insieme a Cesare che fa da interprete in inglese, gli porta le prime cure. Franco capisce che il tedesco ha contratto un bell’edema polmonare e per questo motivo dovrebbe scendere al più presto di quota. Fuori però imperversa ancora la bufera e le notizie che riceviamo da Chamonix circa un eventuale arrivo dell’elicottero non sono affatto confortevoli. Per il forte vento non si può levare in volo per raggiungere la quota del Goùter; al massimo può salire fino alla stazione di San Gervais a 3000 metri sotto di noi. Sono le 6,00 del mattino e quasi tutti gli ospiti del rifugio sono in piedi. In ognuno di essi si legge un’espressione diversa, chi di preoccupazione, chi di insofferenza, chi di indecisione sul da farsi. • Siamo qui per salire sul Monte Bianco, la Vetta più alta d’Europa. • Abbiamo lavorato sodo per 4 mesi a prepararci fisicamente e lo abbiamo fatto con tanta meticolosità e volontà. Sono queste le riflessioni che attraversano i nostri pensieri. Dobbiamo prendere una decisione: o scendere insieme alle guide che apriranno il sentiero riportando giù quelli che stanno male, quelli che rinunciano a proseguire oppure rimanere e aspettare che schiarisca per tentare la salita il giorno dopo. Questo dilemma ci accompagna per un bel po' ed in cuor mio c’è solo il desiderio di tornare a casa. In tanti che vado per monti, non mi è mai capitato di aver paura come in questo momento. La paura è insita nell’animo umano, fa parte della nostra esistenza fin da quando nasciamo; si ha paura del buio quando da piccoli si rimane soli la notte, si ha paura di una persona o animale più grande e più forte di noi, si ha paura di un evento che potrebbe sconvolgere o cambiare la vita propria e anche quella di chi ti è vicino, a cui vuoi bene e che non vuoi perdere. La paura finisce e inizia l’incoscienza. L’uomo non può con la sola sua forza sfidare la potenza della natura e tanto meno noi ci saremmo potuto avventurare in un ambiente così ostile e diverso da quello a noi più familiare delle nostre montagne. Questa bufera mi riporta alla mente un episodio di qualche prima, quando salivamo da Fonte Tarì per la Valle delle Fontanelle e ci colse un violento temporale. La decisione in quel momento fu presa in un baleno: scendiamo subito di quota per non essere bersaglio di fulmini e saette e in poco più dio un’ora ci siamo ritrovati al punto di partenza rinunciando alla salita a Monte Amaro da quel versante. Non riesco a capire questa mia ansia da cosa derivi, nonostante Enzino continui a ripetere “stiamo buoni e tranquilli che domani saliremo in vetta”. Certamente non


possiamo buttare al vento una occasione come questa dopo tanta fatica ma, se il prezzo da pagare fosse veramente alto siamo tutti pronti a rinunciare. Nel frattempo Franco porta soccorso anche a un alpinista giapponese al quale riscontra un edema cerebrale. Ma che sta succedendo, si sentono tutti male? A forza di curare gli altri sono quasi esaurite le nostre medicine e non possiamo fare affidamento su quelle del rifugio che, da un sopralluogo fatto, sono risultate ampiamente scadute. A parte il mal di testa di Nino e l’agitazione di Gianluca che scalpita come un puledro che ha bisogno di prati sconfinati, la situazione si va normalizzando sulla scelta di molti che scelgono di scendere a valle. Decidiamo di rimanere ancora un giorno anche se fuori continua a nevicare e sono solo le 8 del mattino. Il gestore dopo aver sentito via radio le previsioni del tempo ci mette al corrente che è in arrivo una schiarita. E che schiarita!!! Sono le 10,00 ed uno splendido sole si fa largo in mezzo alle nuvole spazzate via dal forte vento e porta di nuovo tra di noi la tranquillità e la speranza che la decisione presa sia stata saggia. Durante queste ore di tensione mi sono chiesto il perché del trovarmi qui insieme ai miei compagni, in mezzo a tanti altri di diverse nazionalità. Cosa mi ha spinto fin quassù, non mi bastava salire le montagne di casa mia? Cosa cerco nel voler salire sempre più in alto con tante difficoltà da superare ed energie da sciupare? E’ forse la ricerca del nuovo della bellezza del creato oppure solo la voglia di fare qualcosa di diverso, di emozionante? Credo che una risposta a tutte queste domande mi sia impossibile darla ma, io so solo che vado in montagna e continuerò ad andarci perché ho voglia di farlo indipendentemente da cosa mi induce a farlo. La ricerca del “sublime”, la ricerca del proprio “io”, la ricerca di un proprio “equilibrio”, la ricerca del proprio “Dio”, chiamiamola come vogliamo ma, il tutto è riassunto in una sola parola: passione.


Alle 10,30 il cielo è completamente sgombro dalle nuvole e noi usciamo fuori dal rifugio ad ammirare quello che non avevamo ancora potuto vedere. Decidiamo di salire sul costone innevato che sovrasta il rifugio e non appena siamo sopra uno scenario magnifico si presenta davanti a noi. Di fronte l’Aiguille du Midì, girando lo sguardo, a destra, osserviamo il Ghiacciaio del Tacconaz, il Dome du Goùter e la cresta che lo unisce all’Aiguille de Bionnassay con la sua parete verticale che precipita sull’omonimo ghiacciaio. Ora lo sguardo spazia sui verdi monti dell’Alta Savoia e la vallata attraversata dall’Arve con al centro Chamonix. Facciamo un breve ricognizione lungo la cresta che porta alla vicina Aiguille du Goùter e, dopo aver scattato un po' di foto, osserviamo con rispetto il Dome e la via che l’indomani avremmo provato a fare. Anche se è mezzogiorno fa molto freddo e il vento ancora fortissimo continua a spazzare il cielo dalle nuvole, facendo allontanare definitivamente il ricordo della bufera. Torniamo al rifugio e dopo il pranzo, sempre a base di minestrina e carne congelata, passiamo parte del pomeriggio a scrivere dediche sul libro del rifugio. Con sorpresa, scorrendo le pagine, leggiamo che pochi italiani sono passati da li per salire il Monte Bianco. Con fermezza Enzino scrive: “Domani, 7 luglio, o Bianco o Bianco”. Passiamo le ore che ci separano dalla sera sulla balconata del rifugio, osservando la salita di tanti altri alpinisti lungo la costola rocciosa che si stacca dal ghiacciaio del Teté Rousse, e questo oziare ci serve per acclimatarci ancora di più a questa quota. Lo splendido scenario che si apre d’avanti a noi che siamo come sospesi sulle nuvole, acquista con il passare delle ore una colorazione di struggente bellezza. Il giorno che lentamente lascia il posto al crepuscolo e quest’ultimo alla notte vive gli ultimi attimi della sua vita accarezzato dai sempre più deboli raggi del sole che dolcemente tramonta all’orizzonte.


Il cielo che prima era di un azzurro intenso ora si colora di un rosa tenue e la cima dell’Aiguille de Bionassay è parte integrante di questo dipinto della natura. La notte, annunciata dal rosso vivo del Sole che scompare dietro il mare di nuvole, stende il suo velo di silenzio anche su parte di mondo.

Nessun pittore, nella sua tavolozza, potrebbe trovare i colori giusti per dipingere tutto ciò che la natura nei suoi continui mutamenti può offrire all’uomo spettatore e protagonista dell’immenso scenario del Creato e, se il sublime è tutto questo, la risposta alla mia domanda l’ho forse trovata. Sono le 22,30. Abbiamo scattato tante foto in un rispettoso silenzio e non vorremmo mai staccarci da questa balconata ma, dobbiamo andare a riposare, anche perché tra meno di 4 ore ci sarà sveglia. Ore 2,00 del 7 luglio 1993. Il Rifugio del Goùter si illumina e ci svegliamo tutti. Ci ritroviamo nel grande salone, dove, dopo una veloce colazione, iniziamo a prepararci. Tra uno spintone e l’altro, usciamo fuori e dopo aver indossato ramponi e imbraco, con la temperatura a -10°, saliamo sul costone innevato e qui, formate le due cordate già stabilite prima, alle 3,15 inizia la parte più bella ed emozionante della nostra salita. Enzino è capo della sua cordata con Cesare e Franco, mentre io, che apro la via, lo sono della mia con Gianluca e Nino. Alla luce della Luna e delle lampade frontali iniziamo a sfilare lungo il sentiero aperto dalle altre cordate mentre le prime sono già lungo le pendici del Dome e in lontananza sembrano tante lucciole in un campo di fiori. Lo spettacolo è molto suggestivo e per questo motivo notiamo la presenza di un operatore e un commentatore della televisione francese, giunti in elicottero nel pomeriggio di ieri, che riprendono la partenza degli alpinisti. Dopo l’Aiguille du Goùter il sentiero procede in falso piano per un breve tratto di qualche centinaio di metri r, senza forzare il ritmo, manteniamo il contatto con le altre cordate.


Ora la salita inizia a farsi più impegnativa e procediamo obliquamente ora a destra, ora a sinistra, in modo da non affaticarci troppo, cercando di dare alla nostra progressione una cadenza uniforme. Solamente qualche voce, ovattata dalla grandiosità dell’ambiente, si sovrappone ogni tanto al rumore del ghiaccio che si rompe sotto la pressione dei ramponi e delle piccozze e al respirare sempre più accelerato dovuto all’altitudine e di conseguenza alla rarefazione dell’aria. Siamo a 4000 metri. Questa è la prima volta che superiamo questa quota. Sono le 5,40 e scolliniamo a sinistra del Dome a quota 4300 e finalmente vediamo la cima del Monte Bianco. Il tempo di renderci conto che la prima parte della salita è fatta e aver dato una rapida occhiata intorno, riprendiamo subito la marcia altrimenti perdiamo calore a causa la temperatura abbondantemente sotto zero. Sappiamo molto bene che le prime luci dell’alba sono quelle più rigide e non appena ci dovessimo togliere i guanti, rischiamo il congelamento. Gianluca mi fa presente che ha le mani quasi congelate, anche se indossa delle moffole ricoperte di goretex. Io ho le mani abbastanza calde e suggerisco a Gianluca di togliersi i suoi. Mi tolgo i miei guanti e li infilo dentro la giacca a vento. Prendo della polvere di neve e strofino forte le mani di Gianluca riattivando così la giusta temperatura con una reazione tra le mie mani calde e le sue freddissime. Ora va meglio. Gli infilo i miei che ho tenuto al caldo. Intanto Franco deve indossare un paio di pantaloni isolanti ed io ed Enzino gli diamo una mano. Queste operazioni fatte a mani nude, mi costringono a fare durante la marcia dei continui esercizi per riattivare la circolazione sanguigna dopo aver indossato un altro paio di moffole che preventivamente ho infilato dentro la giacca a vento. Riprendiamo. La via tracciata ora perde leggermente quota, circa 60 metri e ciò ci permette di recuperare e procedere più speditamente. Sono le 6,30 quando, dopo un altro colle, raggiungiamo il Rifugio della Vallot a 4362 metri di quota dove sostiamo qualche minuto. Franco è molto stanco e non vuole proseguire. Lo incoraggiamo a proseguire dopo che avrà ripreso energia. Insiste a non voler proseguire e allora lo metto di fronte ad una scelta: “si va su tutti o non va nessuno”. Di fronte a questa scelta Franco accetta di proseguire. Sono trascorse circa 3 ore da quando siamo partiti ma, anche se siamo stanchi e infreddoliti, la bellezza del luogo, l’incanto della neve immacolata e il silenzio etereo


ci ripagano per tutta la fatica fatta finora e quindi con nuovo vigore proseguiamo pur sapendo che da ora in avanti la salita si fa sempre più impegnativa. Dinanzi a noi si erge un primo colle, la Grande Bosse, 4435 metri, che con una sottile cresta innevata è unita alla Punta Bosse, 4509 metri. Noi italiano le chiamiamo Gobbe del Dromedario. Le saliamo con fatica a causa anche del forte vento che solleva neve fresca e ci impedisce una normale visibilità e respirazione. Ci aiutiamo soprattutto con la piccozza che, in alcuni casi, dobbiamo usare dalla parte della becca. I ramponi riescono a mala pena a conficcarsi quei pochi necessari centimetri nel ghiaccio. Passo dopo passo, riprendendo fiato molto spesso, guadagniamo il sicuro pianetto di Punta Bosse.

Abbiamo impiegato un’ora e mezza dalla Vallot e, sinceramente, il passaggio sulla cresta innevata che unisce le due Gobbe, è stato veramente impegnativo. Il sentiero aperto dalle guide è stato tracciato anziché sulla cresta bensì lateralmente, sulla parete innevata che precipita per centinaia di metri verso il ghiacciaio del Dome. Questo limitato spazio obbliga gli alpinisti a dare precedenza alle cordate che sono già sulla traccia però la sua esposizione ci fa rimanere un po' più coperti dalle forti raffiche di vento che vengono dal versante francese. Ci riposiamo qualche attimo, il tempo di riprendere fiato, e un’altra parete di neve e ghiaccio ci si presenta da affrontare. Ormai la vetta è alla nostra portata, solo 300 metri di dislivello ci separano dal conquistarla. So benissimo che 300 metri a questa altezza sono interminabili, duri e ancora più con questo freddo che aumenta ancora di più per il forte vento. E allora stringiamo i denti con 20 gradi sotto zero, così indica il mio orologio. Ci mettiamo volontà e determinazione a salire ancora e verso la vetta.


La lunga cresta che ci separa dalla cima la facciamo con il cuore in gola, sia per la posizione in cui ci troviamo (siamo sul confine di stato tra Italia e Francia), sia per la spettacolarità di quest’ultimo tratto che fila per centinaia di metri su strapiombi, tagliando di netto l’orizzonte verso il Sole che con i suoi raggi danza un meraviglioso balletto con il vento, la neve e le ombre degli alpinisti. Sono le 9,20 del 7 luglio 1993. Siamo sulla Vetta del Monte Bianco a 4807 metri di altezza. Tutto intorno è incredibilmente visibile, a portata dei nostri occhi. Ce l’abbiamo fatta e una grande emozione ci viene dal profondo dei nostri cuori. Ci ritroviamo uniti in un lungo abbraccio, degno suggello di un’impresa voluta con tanta volontà e determinazione, portata a compimento da sei amici vicini l’uno all’altro e uniti dall’amore e la passione dell’andar per Monti.


Tante vette ben ardue di questa sono state conquistate dall’uomo che, sfidando a volte sia le forze della natura, sia l’ambiente ostile, sia le proprie risorse umane, ha vinto “la lotta con l’Alpe”. Noi abbiamo vinto il Monte Bianco e per noi che siamo arrivati fin quassù, la vittoria assume un aspetto veramente importante, perché nessuno di noi fino a qualche tempo fa avrebbe mai creduto di vivere una così grande, bellissima, affascinante esperienza. Io ho creduto e credo ancora che l’uomo ha bisogno di cimentarsi nella continua lotta della sopravvivenza, della ricerca dell’ignoto, della conoscenza dei propri limiti ma, il valore di una conquista sarebbe effimera cosa se prima non si è conquistata la fiducia e soprattutto l’amicizia di chi insieme vive quotidianamente l’amore per i propri simili, la natura e la Montagna. Vorremmo rimanere ancora ma, dobbiamo scendere. Dopo aver scattato altre foto ed aver sentito i nostri familiari con il cellulare di Enzino, il freddo intenso ci costringe a rimetterci in cammino, a prendere la via di discesa. Sono le 9,40 e la strada da fare è lunga se vogliamo arrivare in tempo alla stazione del T.M.B. del Nid d’Aigle. Facciamo la discesa molo velocemente e, solo dopo aver superato i grandi seracchi del Dome, Nino e io ci concediamo un po' di riposo sdraiandoci sulla neve e osservando il grande cielo blu. • “Nino, sei stanco come lo sono io?” • “Francesco, sono stanco ma, questa salita oltre ad essere stata bellissima è servita a farci conoscere ancora di più tra noi”. Ci guardiamo in faccia ed ogni ombra, ogni paura scompare dai nostri occhi. La nostra amicizia è più importante di qualsiasi altra cosa, perché solo con essa si può vincere la lotta quotidiana del vivere insieme ai propri simili. Con l’amicizia ogni barriera è


annullata e basta un piccolo gesto d’amore e comprensione per far sì che il proprio orgoglio venga messo da parte. Alle 13,00 siamo al Rifugio del Goùter. Beviamo qualcosa di caldo, rifacciamo di nuovo lo zaino con la roba che non abbiamo portato in vetta e alle 13,30 cominciamo a scendere verso il Ghiacciaio e il Rifugio del Tetè Rousse. La discesa si presenta difficoltosa e impegnativa, sia per la presenza di neve e ghiaccio che ci costringe a togliere e mettere continuamente i ramponi, sia per la lunga fila di alpinisti che salgono al Goùter. Man mano che scendo la fatica si fa sentire di più e la speranza di arrivare in tempo alla stazione del Nid d’Aigle si allontana. Il bisogno di bere e la ricerca di acqua, avendo esaurita la mia, mi fanno capire di aver commesso un grave errore: quello di non aver assunto abbastanza liquidi durante la salita al Bianco. Gianluca è il più veloce a passare il colatoio e ad arrivare sul ghiacciaio. Cesare, avendo perso i contatti visivi con Gianluca che lo precede, continua a scendere verso la stazione (lo ritroveremo l’indomani mattina al Bellevue). Enzino e Nino aspettano che io e Franco oltrepassiamo il colatoio e insieme continuiamo a scendere. Ormai si è fatto tardi, siamo troppo stanchi e non ce la faremmo a proseguire per raggiungere il Nid d’Aigle e poter prendere l’ultima discesa del Tramway. Decidiamo di fermarci al Rifugio del Tetè Rousse per trascorrere la notte e riposarci. Mattina dell’8 luglio, sono le 7 e dopo una veloce colazione, speriamo l’ultima in territorio francese (ci è mancata tantissimo la nostra cucina), riprendiamo la discesa e alle 12,00 siamo a Les Houches, 3800 metri sotto il Monte Bianco. Il tempo di scrivere qualche cartolina e ripartiamo per rientrare in Italia. Arriviamo a Planpincieux, alla casa del GAM, alle 13,30 giusto in tempo per il pranzo. Una calorosa e commovente accoglienza ci viene riservata dagli Amici del GAM, in particolar modo dal Signor Giacomino, dall’Ingegner Barsanti e dalla Signora Manfredi; tanta familiarità ci fa capire di essere tornati in mezzo a quegli Amici che si conoscono da sempre. Loro hanno vissuto la nostra salita con la stessa intensità e trepidazione di altri più vicini a noi. Ci hanno dato fiducia e incoraggiato prima della partenza e ci fanno capire che abbiamo fatto qualcosa di veramente speciale. Questi loro sentimenti, talmente naturali e spontanei, li ritroviamo nel libro della Casa in cui si leggono queste note: • 3 luglio 1993 – “Abbiamo ospiti un gruppo di alpinisti del CAI di Ortona che appaiono molto ben preparati per l’ascensione al Monte Bianco che tenteranno per la via del Goùter lunedì o martedì della prossima settimana”. • 7 luglio 1993 – “Abbiamo saputo che gli alpinisti del CAI di Ortona sono riusciti questa mattina a “fare” il Bianco. Siamo onorati di essere stati un piccolo supporto e di aver contribuito alla riuscita dell’impresa. Complimenti a nome di tutto il GAM. Barsanti”.


Il più giovane componente di questa “spedizione” ha lasciato nel libro della Casa questo scritto a sintetizzare tutto ciò che il GAM ha rappresentato per la sua riuscita: • 8 luglio 1993 – “Siamo tornati con tanta soddisfazione in questa Casa che abbiamo lasciato con tanta speranza di riuscire nella nostra impresa. La vostra ospitalità e i vostri consigli ci hanno dato forza e ci hanno incoraggiato, non lo dimenticheremo. Il Monte Bianco e la sua vetta rimarranno nei nostri cuori per sempre, Grazie. Gianluca Di Renzo”.

“Grazie a tutti coloro che hanno creduto e sperato che ce l’avremmo fatta. Grazie ai nostri cari che hanno trepidato per noi. Grazie al CAI di Ortona che ha fatto incontrare e fatto nascere amicizie significative. Grazie ai nostri Monti che sempre di più ci fanno sentire vicino alla natura. Ringrazio voi Amici miei che avete condiviso con me una delle più belle pagine della nostra Sezione CAI, Francesco”

Sono saliti sulla Vetta del Monte Bianco mercoledì 7 luglio 1993: Gianluca Di Renzo, Antonio (Nino) Finizio, Cesare Pompilio, Vincenzo (Enzino) Sorino, Francesco Sulpizio, Francesco (Franco) Trapani.


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