Miseria e Nobiltà della politica, della società
«... non è solamente il diario di bordo di un parlamentare, non si limita alla lettura intelligente degli avvenimenti, al ripercorrere attraverso il filo della memoria la vita di Montecitorio.» Dario Franceschini deputato - scrittore «... e c’è anche da dire che quello di Franco Laratta è uno dei pochi casi riusciti di giornalisti prestati alla politica. Evidentemente ha imparato i segreti del mestiere di politico facendo bene quello di giornalista.» Matteo Cosenza direttore de “Il Quotidiano della Calabria”
Miseria e Nobiltà della politica, della società
Giornalista, scrittore, è deputato della Repubblica dal 2006. Ha fondato e diretto: Il Cittadino, la Città di Gioacchino, Sila tv, Radio Sila Tre. Ha curato e diretto per Video Calabria trasmissioni di approfondimento politico e inchieste su mafia e criminalità; ha curato e diretto “Calabria punto e a Capo”, “Calabria-Verde”. Autore di alcuni saggi, scrive per Il Quotidiano della Calabria. Ha a lungo collaborato con Il Crotonese e Gazzetta del Sud. Ha pubblicato: La lunga notte della Calabria (2006), Riflessioni Libere (2004), Il Villaggio svanito (1999), Quando in Sila cade la neve (1994), La villa dei sette piani (1992), Non sparate sul cronista (1990), Biografia di P. Antonio Pignanelli (1987).
Franco Laratta
Franco Laratta
Franco Laratta
Miseria e Nobiltà della politica, della società Prefazioni di Dario Franceschini e Matteo Cosenza
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Franco Laratta
Miseria e NobiltĂ della politica, della societĂ Prefazioni di Dario Franceschini e Matteo Cosenza
Grazie a Maurizio Passarelli per il prezioso contributo, a Gabriele Morelli, Simona Pescatore, Massimo Barberio, Francesco Spinelli, Emilio Arnone e Luigi Oliverio per il lavoro svolto; un grazie particolare ad Antonio Sangineto.
Edizioni Librare ISBN 978-88-88637-36-5 Librare è un marchio Plane srl San Giovanni in Fiore (CS) Tel. 0984 971002 - Fax 0984 976037 www.librare.it - www.planeonline.it Foto di copertina AGE/MARKA Servizi di prestampa: Plane Š 2008 Librare
«Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civilità e dell’abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare. Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri... Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po’ di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto. Che garantisca l’ordine anzitutto! Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell’ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all’altro può presentarsi l’uomo destinato ad asservirla. Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere. Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all’universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo». Tratto da De la démocratie en Amerique di Alexis De Tocqueville
Indice 15. 23. 25. 27. 29. 39. 43. 45. 49. 51. 53. 57. 59. 63. 69. 77. 79. 81. 83. 87. 89. 93. 97. 101. 103. 105. 111. 113. 123. 125. 127. 129. 133. 135. 139. 143. 145. 149. 153. 157. 161. 167. 171.
La Repubblica degli ingegneri Che pena i deputati in TV! La nostra lingua Cronaca di una (stra)ordinaria giornata in Parlamento “Ignorantia privilegis non excusat” Grillo e la società liquida! Il Parlamento tra scandali e grandi scelte La caduta di Prodi: cronaca in diretta dal Palazzo Il metalmeccanico di Firenze La crisi della Politica La famiglia fra speranze e paure La politica e… la voglia di sacro! Quella donna che parla al cuore! Pane e companatico Ma il cielo è sempre più blu Si metta l’accento sulle cose serie Soltanto uno show! W l’Italia! La Calabria… un po’ meno Un dèmone in Calabria Napolitano ha ragione: basta fango sul Parlamento! Il mondo ha paura ma l’Italia fa finta di nulla Legalità ma non cultura del sospetto Il Papa, Mastella, la magistratura Può esistere la politica senza speranza? «Non ie..ne rilasceremo più interviste!» AAA. Pornostudenti offresi! Com’è cambiata l’Italia a 30 anni dalla morte di Moro Mina nell’evoluzione del costume italiano Un governo forte con i più deboli Un governo senza cattolici! Morire di fame mentre i leader fanno shopping Calderoli in Calabria: attenti al lupo! Lettera dal carcere «Io sono uscito e potrei fregarmene ma...» Lettera dal carcere «Voi con me ci avete parlato attraverso le sbarre...» Federalismo. Se nasce la Federazione dell’Italia del Sud! Se l’Italia si spezza Berlusconi cancella il Parlamento Governo “ladro” scippa le risorse della Calabria! Tutti gli amori di Silvio Fantapolitica. Ma non troppo... Silvio al Festival di Sanremo? Il Paese della Felicità! Il metodo Obama! Il ratto delle proteine
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Un viaggio nel cuore del Paese di oggi. Le vicissitudini politiche e i tratti drammatici della XV legislatura di Prodi. Le elezioni anticipate e il ritorno al potere di Berlusconi nella XVI legislatura. E poi Veltroni, il Pd, i provvedimenti del nuovo Governo. E anche un tuffo nella società, i problemi della Calabria, l’incontro con Natuzza. La mia musica, le speranze e le paure degli italiani, gli aspetti grotteschi delle Istituzioni e dei suoi personaggi. Un viaggio che parte dai primi del 2006 e arriva alla fine del 2008. Un tempo breve, ma intenso, forse anche drammatico, in cui accade di tutto. Che porta il Paese verso non si sa dove. Il mio viaggio attraverso i tanti articoli scritti a caldo, mentre i fatti accadevano. Tutto questo è “Miseria e Nobiltà”! Franco Laratta
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Franco ha raccolto in questo libro riflessioni, anedotti e pensieri di natura piuttosto diversa. Ricostruisce le vicende politiche degli ultimi tempi, e tocca alcune problematiche all’ordine del giorno nella vita del Paese, restituendoci con la sua testimonianza diretta il clima che si respirava nel Palazzo durante giornate decisive. Ma non è solamente il diario di bordo di un parlamentare, non si limita alla lettura intelligente degli avvenimenti, al ripercorrere attraverso il filo della memoria la vita di Montecitorio. In queste pagine troverete la tensione progettuale per la nascita del Partito Democratico, l’amore di Franco per la sua terra, la curiosità intellettuale per i fermenti e i problemi che attraversano la società, il respiro della politica alta, quella che indica tratti di orizzonte. Ma anche episodi e passioni personali, storie incrociate nel proprio cammino, frammenti di vita vissuta. Cito solo due esempi, due capitoli che non vi aspettereste di trovare; quello emozionante dove racconta l’incontro con Natuzza, donna di grande tempra spirituale, e quello più profano dove fa quasi l’esegesi dei brani ironici e anticonformisti di Rino Gaetano. Come scriveva Walter Benjamin: «lo zibaldone ha qualcosa dell’ingegno del collezionista e del flaneur», cioè di chi girovagava guardandosi attorno con curiosità, spirito d’osservazione e desiderio di ricerca. Mi sembra un po’ il senso che attraversa queste pagine, ecco perché vale la pena prendere in mano e leggere “Miseria e Nobiltà”. Dario Franceschini Deputato-Scrittore
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Leggendo questo libro verrebbe quasi voglia di chiedere: ma Franco Laratta cosa farà da grande? Ufficialmente è un parlamentare della Repubblica, e lo è anche concretamente dal momento che è particolarmente attivo, come ha potuto documentare durante la campagna elettorale scorsa presentando agli elettori il bilancio della sua attività. Quella appena iniziata con la nuova legislatura si annuncia ancora più intensa grazie sia al know how acquisito sia ai nuovi compiti già assegnatigli, uno fra tutti l’essere stato scelto come uno dei componenti della commissione antimafia. A questo proposito semmai si può rilevare una preoccupazione sugli spazi purtroppo sempre più ristretti per il lavoro di deputati e senatori, come lui stesso scrive in uno dei capitoli di questo libro laddove parla di crescente inutilità dei parlamentari determinata dal ricorso sempre più massiccio da parte del governo ai decreti legge e ai voti di fiducia. Ciò detto, veniamo alla domanda. Chi segue Laratta nel suo assedio quotidiano agli organi di informazione e chi leggerà queste pagine è fatto presto consapevole di trovarsi di fronte ad un giornalista, che ha apparentemente dismesso i suoi abiti professionali per indossare quelli di parlamentare. E c’è anche da dire che il suo è uno dei pochi casi riusciti di giornalisti prestati alla politica. Evidentemente ha imparato i segreti del mestiere di politico facendo bene quello di giornalista. Probabilmente c’è dell’altro. C’è innanzitutto la curiosità, dote imprescindibile per qualunque giornalista. Addirittura Laratta rischia di apparire un tuttologo, ma è chiaro che ogni cosa che scrive non è fondata su elementi generici di conoscenza. 11
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Partiamo, tanto per capirci, dagli articoli fuori programma: quelli su Rino Gaetano e su Mina, o sugli studenti universitari che si prostituiscono. Nei primi c’è la competenza specifica, come dimostra l’analisi puntuale della vita e soprattutto dei testi, nel secondo la capacità di scavo e, quindi, di realizzare un’inchiesta giornalistica a tutto tondo. E questo dà l’idea della complessità degli interessi: dalla musica alla società, dal federalismo alla politica calabrese, dalla finanziaria alla Statale 106, da Grillo a Mastella, dalla famiglia al lavoro. Poi c’è la scrittura. Chiara, semplice, periodi asciutti, rifiuto delle frasi fatte (perdoniamogli solo la ripetuta citazione di Gesù e Lazzaro, ma ad un credente è dovuto). Anche questa, la scrittura, è un requisito indispensabile per un giornalista. Ciò dicendo sembrerebbe che si vogliano diminuire le qualità politiche, in realtà non è così perché i punti di contatto tra giornalismo e politica non sono pochi, a iniziare dalla materia di cui ambedue le attività si interessano: la vita, i fatti, le cose, la gente. Che cos’è la politica se non lo sforzo e la capacità di curare e governare cose e uomini nelle loro segmentazioni e, soprattutto, nella loro generalità? Questa è la politica, purtroppo quella attuale, e che Laratta descrive senza risparmiare i particolari, appare o è una cosa ben diversa. Raramente nella storia di un paese si erano viste leggi ad personam di un capo di governo, qui è accaduto e continua ad accadere. Anche lo scontro ha fatto e fa parte della politica, è spesso il sale della sua dialettica. Ma oggi si può parlare di scontro? Non assistiamo piuttosto ad un deprimente reality della peggiore specie? Dove sono le epiche, drammatiche e talvolta tragiche battaglie politiche che hanno caratterizzato la storia della nostra Repubblica? Dove sono la passione ideale e l’impegno sociale? Tra le tante provocazioni fantapolitiche di questo libro è molto efficace quella che parla dell’Italia come di “una 12
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Repubblica fondata sulla televisione”. Ogni cosa ridotta ad uno spot, ad un annuncio. Tutto dura il tempo di consumare il messaggio, ne è subito pronto un altro e non fa nulla se contraddirà in toto quello precedente. Laratta descrive, denuncia e condanna. Lui pensa ad un mondo di valori che vede precipitare sempre più nell’abisso, per esempio la solidarietà che è un valore assoluto per un cattolico e che è tale anche per chiunque abbia preso la via dell’impegno politico come un servizio per la collettività e non già come un modo per acquisire potere e fare affari. Questo è ovviamente il libro di un uomo di parte o, meglio, di partito. Giudizi e valutazioni possono essere depurati dalla circostanza oggettiva che chi scrive è schierato. Ma l’impressione generale è che il suo contenuto sia il prodotto di un punto di vista sereno e onesto, direi obiettivo sulle cose. L’altro elemento interessante è che pur trattandosi di articoli giornalistici pubblicati nel corso del tempo e, quindi, dedicati ad argomenti diversi scritti in fasi diverse, si ritrovi nella lettura generale un filo che li lega. Questo risultato è ottenuto grazie all’approccio che chi li scrive ha con la realtà che lo circonda. C’è una visione del mondo con una sua etica e un suo codice che diventa lo strumento culturale per osservare, capire e raccontare. La Calabria dolente è ben presente in questa galleria. Una perla tra le tante: la via crucis del disoccupato che tenta nei vari modi possibili la conquista di un posto di lavoro. Descritta con una precisione che denota profonda conoscenza del tema. D’altro canto Laratta ricorda spesso i suoi legami col territorio e le persone, i contatti e le esperienze, le decine di mail quotidiane che pongono tante necessità e sicuramente anche quella dell’occupazione aspirata. Il racconto di per sé spiega come ogni giorno si uccida la speranza di futuro di tante generazioni. Le responsabilità vanno equamente distribuite. Prima 13
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o poi sarà necessario capire se i politici tradiscono i loro elettori o se non siano questi ultimi a volere spesso il perpetuarsi di un sistema di convenienze nel quale ognuno trova o spera di trovare il proprio tornaconto. Sia come sia, questo ingranaggio va fatto saltare altrimenti la Calabria sarà sempre la periferia della periferia del paese e la percezione che se ne avrà al di là del Pollino continuerà ad essere pessima, al punto che, come scrive lo stesso Laratta, spesso in Parlamento i deputati e senatori calabresi sono costretti quasi a nascondersi per la vergogna.
Matteo Cosenza
Direttore de “Il Quotidiano della Calabria”
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libri-denuncia, le inchieste giornalistiche sulle loro “cattive abitudini”, avevano contribuito ad allargare a macchia d’olio il risentimento dell’opinione pubblica verso una casta percepita sempre più come corrotta e intoccabile. Una lobby, i cui privilegi, gli agi, la dissolutezza non erano più tollerati. Un’anonima mattina di luglio, al grido “via i politici dal Palazzo!”, partì un rumoroso e disordinato corteo che, snodandosi lungo le strade della capitale, si fece sempre più tumultuoso e compatto, raccogliendo l’adesione spontanea di migliaia di persone. Le agenzie prontamente batterono la notizia. Le radio, le tv, si schierarono in prima linea per restituire al pubblico le cronache di un avvenimento col profumo di storia. Sedotti dagli slogan, cittadini da tutta Italia si riversarono nelle piazze di Roma per unirsi a quanti avevano avuto il coraggio di dire “basta!”, traducendo l’insofferenza in un’eclatante mobilitazione. Dai media, per bocca delle più alte cariche dello Stato, giungevano inviti alla calma e al buonsenso. La folla, “massa amorfa, senza testa” nell’iconografia manzoniana, qui appariva tutt’altro che irrazionale. Scandiva risoluta, ad alta voce, quello che i governanti non riuscivano neppure ad articolare per il timore: «rivoluzione!». E puntava dritta al cuore delle istituzioni. Inutili furono i tentativi per arginare l’offensiva. Qualcuno suggerì di dispensare brioche seguendo l’esempio della regina Maria Antonietta, ma omise ai colleghi, spesso saturi di calorie e digiuni di storia, il destino della sovrana. Nelle dispense c’era solo pane, per giunta raffermo: i rituali prelievi alla buvette eccedevano l’effettivo consumo. Le generose scorte non venivano smaltite anche per via dei molti parlamentari in età da dentiera.
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«Forse il popolo gradirà ugualmente», osservò uno dei più illuminati. «In fondo, conta il pensiero», aggiunse un altro che non era da meno. Dalle finestre piovvero, così, tozzi di pane. La folla interpretò il gesto come ostile e chi venne raggiunto riportò visibili ematomi. Ora che il casus belli era lievitato non restava che prendere il Palazzo. Aiutati dai militari, si consumò il golpe tanto temuto: due timide cariche e ai capirivolta l’onore di irrompere e occupare il luogo del potere. In verità, gli inquilini, per scongiurare segni di effrazione sul prestigioso portale, aprirono senza opporre resistenza, consapevoli dell’alta pigione che lo Stato versa ai legittimi proprietari. Facendosi spazio tra le invettive dei facinorosi, gli assediati si allontanarono, sotto il peso di una cocente umiliazione e soprattutto di una valigia debordante di “souvenir”. Stesso trasloco avvenne negli altri centri del potere e presso le televisioni. Iniziava ufficialmente la “Terza Repubblica”. Furono destituiti i governanti, azzerate le cariche. Ad un ristretto numero di saggi, sei, venne affidato il compito di scrivere la Costituzione e pronunciarsi su eventuali controversie: garantivano, in sostanza, il traghettamento delle istituzioni verso il nuovo corso. Nell’attesa, norme transitorie stabilirono che ai vertici dello Stato sarebbero andati i rappresentanti eletti dagli Ordini professionali. Durata del mandato un anno, da svolgere a rotazione previo sorteggio. Fissata anche l’erogazione di risorse e mezzi straordinari per realizzare il programma entro il termine ridotto della legislatura. Dalla “lotteria” si tiraron fuori gli uomini di scienza: troppa creatività per guidare un Paese come l’Italia. Gli altri rimasero in corsa e la sorte affidò ai magistrati l’ingrato compito: per un anno, solo toghe a capo di tutte le istituzioni del Paese. Per dare un segnale forte, il ministro della Giustizia, Santi Licheri, appena insediatosi ingaggiò una dura lotta contro il malcostume e l’illegalità. Animato dal principio “dura lex, sed lex”, reso ancora più aspro dalla volontà di risanare celermente la società dagli abusi lesivi del diritto, il Guardasigilli varò un coraggioso pacchetto di riforme, approvato poi dal Parlamento. Si decise - causa l’elevato numero di processi pendenti e la loro estenuante durata - di condannare d’ufficio a sette anni di reclusione tutti coloro che erano in attesa di giudizio. La pena cresceva sensibilmente per chi aveva commesso reati contro la persona. Il provvedimento apparentemente iniquo era necessario per rifondare una giustizia più rapida e severa. E poi, l’eccessivo ricorso al garantismo, la stucchevole 16
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quanto ipocrita presunzione d’innocenza, avevano seppellito il più valido motto secondo cui “della moglie di Cesare non si deve neppure sospettare”. La popolazione carceraria crebbe in modo esponenziale e si palesò il problema delle strutture insufficienti nelle quali accogliere i detenuti. L’escamotage fu quello dei domiciliari per gli autori di reati minori. In alternativa, per i medesimi, la permanenza nelle tante case adibite a reality, con possibilità di amnistia o indulto decretata attraverso televoto. La cura ebbe i suoi risultati: l’azzeramento dei reati. Ma con pesanti effetti collaterali: crollo della produttività, aumento del debito pubblico, ecc. Insomma: un Paese in ginocchio. E sotto le ginocchia i ceci rendevano più doloroso il contatto col terreno. All’ottavo mese di governo, i pochi a piede libero, fiaccati dall’inedia e dalla miseria, riuscirono a mettere in fuga i magistrati. I saggi presero atto del fallimento e l’estrazione stavolta designò i Medici. Il Presidente della Repubblica eletto, il Dr. House, concesse la grazia a quanti erano stati ingiustamente tratti in arresto. Il Paese si rimise in moto. Alla popolazione, mortificata nel corpo e nello spirito dal rigore togato, serviva un supporto psicologico. Il Primo Ministro, la dottoressa Tirone, intercettando questa esigenza, fece costruire ospedali, cliniche, ricoveri in ciascuno dei circa ottomila comuni della penisola. Seguirono migliaia di assunzioni per coprire gli organici. L’entusiasmo di offrire salute ad un popolo al quale stringenti regole avevano ucciso la fantasia creò una situazione paradossale: le unità del personale presto sopravanzarono quelle degli assistiti. Le spese per il mantenimento di strutture improduttive, spesso trasformate in circoli ricreativi per mancanza di utenza, divennero insostenibili. Le casse dello Stato sempre più vuote. Un’economia che presentava tutti i sintomi della bancarotta. Fare tagli era impensabile: i livelli occupazionali ne avrebbero risentito e le comunità spogliate non avrebbero subito passivamente l’impopolare decisione. E poi, mai contraddire i vecchi adagi: «Quando c’è la salute, c’è tutto!». Quasi tutto, per la verità. Mancava nei medici la convinzione che cambiare, seppur fosse costoso, era necessario. Lo status quo avrebbe accelerato il proprio fallimento, del resto già in atto: inflazione schizzata a tassi insostenibili, potere d’acquisto della moneta precipitato, gente prostrata... Quest’ultima, un pomeriggio afoso di agosto, circondò l’ospedale nel quale si stava celebrando il congresso “Potenziamo l’offerta sanitaria”. Fece irruzione nella sala e interruppe i lavori urlando tutto il proprio malcontento. I governanti fu17
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rono costretti alla fuga. Nel panico, seminarono qua e là i progetti dei nosocomi di prossima costruzione. Nella stessa giornata si procedette ad un nuovo sorteggio. Toccava agli ingegneri. L’Ordine manifestò l’intenzione di attenersi scrupolosamente al programma stilato. Ignorò il suggerimento dei saggi di rimodulare la propria azione, data la grave crisi economica ricevuta in eredità. Per i caparbi professionisti, coordinati dal celeberrimo progettista dei grattacieli di Punta Perotti a Bari, la ricetta rimaneva quella: una gran mole di lavori pubblici (strade, porti, aeroporti, ecc.) mirata a garantire i livelli occupazionali. E ancora: riconversione delle strutture ospedaliere in esubero; abrogazione dei piani regolatori e degli indici di fabbricabilità; snellimento delle procedure per il rilascio di concessioni edilizie secondo il principio del silenzio-assenso; incentivazioni all’acquisto della prima, seconda e terza casa; sanatoria per i reati di abuso edilizio, con possibilità, previo pagamento di una multa commisurata alla superficie, di terminare il manufatto e abbellirlo. E tanto altro. Gli indicatori economici nel breve periodo furono soddisfacenti. Il ricorso sfrenato al cemento, aggettivato così dai soliti integralisti dell’ambiente, portò benefici anche alla salute e alle tasche dei cittadini. La cementificazione della natura produsse subito un sensibile decremento delle allergie di stagione, con conseguente riduzione del consumo di antistaminici. Tuttavia, a distanza di quattro mesi, quello che era stato presentato come un esuberante piano di rilancio, assunse le sembianze di un tracollo quasi irreversibile. Geometri, imprenditori edili, muratori (stimati in quindici milioni e divenuti tutti, per decreto, dipendenti pubblici) non avevano ancora ricevuto alcuna mensilità. I fornitori, agitavano anch’essi i propri crediti. Guardando alle finanze, difficilmente lo Stato avrebbe onorato gli impegni assunti. Fu così che il popolo, esasperato, dette fuoco alle strutture e infrastrutture frutto del proprio lavoro. Stessa sorte sarebbe toccata ai Palazzi della politica. A dissuaderli, fortunatamente, i saggi: appiccare il fuoco agli immobili di cui lo Statocicala non aveva acquisito la proprietà; non coperti, inoltre, da assicurazione per gli atti vandalici, sarebbe stata violenza gratuita. I sei congelarono il meccanismo del sorteggio e, in deroga alle norme, affidarono agli economisti il compito di risollevare i destini del Paese. L’avvicendamento con gli ingegneri avvenne nella stessa notte, per consentire ai primi di allontanarsi in sicurezza, protetti dal buio. Il governo degli economisti, diretto da Paperon de’ Paperoni e dal suo vice, Ed18
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ward Manidiforbice, durò poche settimane. Chiusi nelle proprie stanze, con la calcolatrice brandita come arma e puntata contro i nostalgici del welfare, cominciarono ad operare tagli indiscriminati, ignorando i bisogni dei cittadini. Freddi calcoli, impeccabili (solo) sulla carta, tendevano la mano ad un liberismo selvaggio che trasformò già dai primi giorni la società in una giungla in cui solo i migliori sarebbero sopravvissuti. L’egoismo e la spregiudicatezza di taluni creò una frattura tra i ceti sociali. Altro che mano invisibile! Semmai, mano morta. E il riferimento non è erotico. Aumentarono, infatti, i piccoli furti, gli scippi. Dilagò, insomma, la microcriminalità, spesso unica fonte di sostentamento per i deboli nelle società in cui la giustizia sociale soccombe al cinico individualismo. Dopo soli trentatrè giorni, col pallore tipico di chi sta poco all’aria aperta e una punta di agorafobia al pensiero di tornare a vivere in mezzo agli altri, gli economisti abbandonarono il Palazzo. Guadagnarono con impazienza la strada che li avrebbe ricondotti al loro mondo, ossequioso solo della sacralità del mercato e della partita doppia. In un periodo di severa recessione, non poteva esserci esito più felice. L’urna consegnò il governo ai creativi, categoria eterogenea che includeva: uomini e donne dello spettacolo, sportivi, stilisti, ecc. Dell’esecutivo, affidato a Lele Mora, facevano parte: Fede e il suo vice Pupo, assegnati all’economia (deleghe in seguito revocate e trasformate in incarichi senza portafoglio per la nota predisposizione al gioco dei due); Wanna Marchi al Commercio (sottosegretario, il Maestro Do Nascimento, delegato agli scambi internazionali). E ancora: Cannavaro alla Difesa, il Gabibbo alla Giustizia, Califano alla Famiglia (ministero ribattezzato al plurale), Del Piero all’Istruzione-Cepu, la Vento e la Di Pietro alle Pari Opportunità (un’ospitata a me, una a te), Martufello agli Affari Regionali, Bobo Vieri all’ Ambiente (delle discoteche), Costantino e la Yespica ai Rapporti col Parlamento e così via. Il loro esordio coincise con un’impennata della spesa. Moltiplicarono gli incarichi e n’escogitarono alcuni ex-novo per cooptare nel governo della Cosa Pubblica il brulicante popolo di veline, letterine, paggetti, ecc. Già dai primi atti, era chiara la volontà del Governo di puntare sul tempo libero degli italiani, riempiendolo di eventi quotidiani da fruire grazie alla concomitante riforma che accorciava a cinque ore la giornata lavorativa: lavorare meno, lavorare tutti! Significative le riforme al codice civile. Annacquata la centralità della famiglia tradizionale, equiparata a quella costituita da partner gay, fu poi introdotto l’isti19
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tuto della comune: a fronte della scarsa natalità, dei divorzi in aumento (per l’ottenimento sarebbe bastato un mese), il caro-affitti, le mamme lavoratrici, la solitudine degli anziani, si pensò che riconoscere le famiglie allargate come cellula fondante e più fedele della società moderna (modificando con procedimento di revisione costituzionale l’articolo 29), sarebbe stata un’efficace sintesi di solidarietà e risparmio virtuoso, condivisione di servizi e distribuzione del relativo onere all’interno dello stesso nucleo. La politica del panem et circenses esaurì presto la sua spinta. L’Italia era diventata poco operosa. I dati sul Pil e sulla disoccupazione confermavano il preoccupante trend, influenzato da uno sconsiderato esodo della popolazione attiva dai settori tradizionali a quelli dell’intrattenimento. Inefficaci furono le misure concordate e messe in campo dai vari dicasteri. Bandire settimanalmente concorsi a tempo determinato per reclutare nella Pubblica Amministrazione cubisti, tronisti, figuranti vari, era un palliativo. Con riflessi disastrosi. Lasciava scoperti i settori classici: gli unici nei quali l’offerta di lavoro superava la domanda. Ingrossava le fila della burocrazia con figure professionali poco pertinenti. Acuiva lo scontro sociale tra neo-assunti e precari di lungo corso, ingabbiati in graduatorie che tutti si guardavano bene dallo sbloccare. Conoscendo l’instabilità dei gusti del pubblico, sarebbe stato poco vantaggioso per lo Stato immettere in ruolo, e dunque iscrivere a vita nel proprio libro paga, personaggi che tramontano dopo una stagione. Al grido «voglio fare la modella!», con la relativa variante al maschile, un nutrito e deluso gruppo di “show-victim” si raccolse a Milano Marittima e assediò la discoteca dove alcune settimane prima si era trasferito l’Esecutivo. La resa fu immediata. Tempo di trangugiare l’ultimo snack al caviale, sorseggiare l’ennesimo bicchiere di bollicine, far giungere al capolinea il trenino che aveva viaggiato sulle note di Disco Samba, e la pletora di presidenti, ministri, parlamentari con valletti al seguito, prese la via dell’esilio. Dalle atmosfere degli happy hour rivieraschi a quelle glamour di Saint Tropez. Calò il sipario anche su questa legislatura. I sei costituzionalisti pensarono, allora, ad una sinergia tra categorie per venire a capo di questa perdurante crisi. Il caso scelse un triumvirato corporativo: banchieri, capitalisti, assicuratori. Ma si decise di invalidare l’operazione: ad un giudice scivolarono inavvertitamente nell’urna i bigliettini appena pescati e i colleghi non poterono ufficializzare il risultato. I sorteggiati avanzarono dubbi sulla buona fede dell’errore (si sussurra fosse stato 20
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un atto doloso per estromettere un candidato presente in tutte le categorie: politica, affari, televisioni, sport, musica, ecc.). La polemica rientrò immediatamente con la fumata bianca che annunciò l’ascesa del Clero al soglio governativo. La restaurazione della buona creanza fu la linea ispiratrice di un programma con un’anima reazionaria e un passo riformista. Riformista per gli strumenti innovativi coi quali servire la causa conservatrice. Si mise subito mano alle fonti del diritto per compattare il substrato nel quale far attecchire l’azione di governo. La Costituzione fu modificata. Il codice civile emendato negli articoli contro natura partoriti da un governo laicista. Nel dettaglio. I Patti Lateranensi vennero unilateralmente abrogati: non avrebbe avuto senso per la Chiesa disciplinare i rapporti con se stessa. Nella nascente Carta s’introdusse un originale presidenzialismo: il Papa, capo di due Stati e due Governi. Consapevoli dell’inutilità di certi carrozzoni, si programmò l’eliminazione di apparati fotocopia: l’Italia sarebbe stata annessa al Vaticano. Si codificò, in altri termini, un’antica consuetudine, con buona pace del Cavour, leghista ante litteram, del quale le gerarchie ecclesiastiche non compresero mai la spinta indipendentista che anche sul punto di morte ribadì con una sua celebre frase. Disegnato il perimetro entro il quale muoversi, i prelati e i pochi laici promossi dal Pontefice al rango di ministri, adottarono un numero eccezionale di decreti, data l’urgenza di risollevare i cittadini dal degrado morale in cui erano caduti. La squadra (che poteva contare su una panchina lunga di teodem e teocon, non schierabili perché l’utilizzo di politici sarebbe stato sanzionato dai saggi) annoverava: tra i pali il cardinal Ruini; in difesa, il cardinal Bertone, gli arcivescovi Bagnasco e Betori e don Baget Bozzo; suor Paola, suor Germana e la Bianchetti in mezzo al campo; Vespa e Socci in appoggio all’unica punta avanzata, nonché pregevole fantasista, padre Federico Lombardi. Questo modulo offensivo (privo dei forti don Mazzi e don Gallo, mandati in tribuna per dissapori con la “società”), permise, grazie a fraseggi limpidi e precisi, di bucare più volte la rete avversaria. Gli spalti occupati da migliaia di Papaboys s’infiammarono. Così i valori cristiani avevano vinto. L’anima, dunque, aveva la precedenza su tutto. Curarla era un dovere per ogni fedele. Poche attenuanti per i trasgressori: dopo il Limbo, si stava pensando di eliminare tra i dogmi della fede soluzioni buoniste come il Purgatorio. Per cui: o dentro o fuori le liste della salvezza eterna! L’allenamento in vista di questo traguardo cominciava al mattino presto con 21
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l’obbligo di partecipare alla Messa celebrata in latino. Continuava col divieto, per uomini e soprattutto donne, di indossare abiti sconvenienti. Il rosso era sparito dalle sobrie collezioni firmate esclusivamente da suore. S’invitava inoltre a limitare lo shopping alle effettive necessità. Questo, con sommo gaudio degli operatori commerciali, sollecitati, unitamente ai gestori di discoteche e luoghi di tentazione simili, a chiudere i locali o, in alternativa, cambiar loro destinazione d’uso: nacquero migliaia di oratori! Centoventi giorni durava la nuova Quaresima. Una settimana era concessa per le vacanze, da trascorrere in uno dei tanti monasteri già presenti sul territorio o in alberghi trasformati in strutture adatte al ritiro spirituale con vantaggiose offerte all inclusive: pasti frugali, televisione e radio in camera (sintonizzate rispettivamente su Telepace e Radio Maria), momenti di preghiera, escursioni nei luoghi religiosi circostanti con l’obbligo di recitare il Santo Rosario sul pullman. Fu, inoltre, fissato il coprifuoco alle otto di sera. Rincasare subito dopo il lavoro mise in difficoltà i tanti maschi pronti a decantare i piaceri dello stare in famiglia, salvo poi essere assenti o defilarsi con nonchalance, attirandosi le ire dei rispettivi “angeli del focolare” impegnati tutto il giorno nella cura della casa. Fu proprio l’insoddisfazione delle donne la chiave di volta che portò al superamento anche di questo Governo. Improvvisandosi Lisistrate moderne, dichiararono lo sciopero dei “doveri coniugali” per indurre i propri mariti a disimpegnarsi dalle guerre virtuali alla playstation e spostare le attenzioni su loro stesse, già discriminate dal divieto di lavorare fuori casa. Ventiquattrore di astinenza furono sufficienti per “sensibilizzare” gli uomini e coinvolgerli nella sommossa che scalzò il Clero e con esso l’insostenibile austerità. I saggi, amareggiati dinanzi all’ennesimo fallimento, svuotarono l’urna e la riposero in soffitta. L’idea di un governo delle corporazioni era naufragata. Si decise, per questo, di indire regolari elezioni. La vera rivoluzione, forse, era quella che avrebbe portato ad una democrazia compiuta. Una democrazia in cui la politica è servizio. Non una casta-diva.
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Che pena i deputati in TV!
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na nutrita schiera di parlamentari, trasversale ai due poli, sta lavorando ad un ambizioso documento nel quale chiede la sollecita revisione di alcuni principi fondamentali della Costituzione. C’è da superare la resistenza dei giudici costituzionali che, poco attenti al mutamento del costume, anche per via dell’età, sono già pronti ad agitare le loro interpretazioni ultraconservatrici sui limiti espliciti e impliciti contenuti nella Carta, che di fatto renderebbero intoccabili detti principi. Ma i colleghi deputati, risoluti, vanno avanti e hanno già previsto che per l’approvazione del testo finale non saranno necessarie le consuete maggioranze con la coda dell’eventuale referendum confermativo, ma si ricorrerà al meccanismo del televoto. Ecco quale sarebbe il nuovo volto della nostra Carta: «L’Italia è una repubblica fondata sulla televisione». «La sovranità appartiene al telespettatore che la esercita attraverso il televoto». «Tutti i cittadini (in particolare quelli investiti da incarichi istituzionali) hanno diritto ai famosi quindici minuti di celebrità». «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che la impediscono, garantendo ai meno telegenici trattamenti estetici, corsi di portamento, dizione, canto, ballo, barzellette. Playback e controfigura per i meno dotati». Il testo, ancora in progress, non è la trovata goliardica di buontemponi interessati a risvegliare i padri costituenti come Gesù fece con Lazzaro. L’iniziativa prende le mosse da una seria e meditata considerazione. Se è vero che viviamo nella società dell’immagine, che la televisione è lo strumento più potente per raggiungere il pubblico, perché non apparire, sfruttando appieno le potenzialità del mezzo? perché non prendere al volo il primo trenino che scorazza negli studi televisivi cingendo i fianchi dei vari tronisti, letterine, veline che godono
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di una maggiore e indiscussa popolarità? Da qui la necessità di colmare questo vulnus legislativo per rilanciare la figura del politico. I benpensanti obietteranno che i politici non sono showmen o soubrette. Ma certi distinguo snob non sono più à la page, specie in un’epoca in cui l’immagine vince sulla parola, la forma sui contenuti. Non apparire nella scatola equivale a non esistere: si è apolidi per i mass-media, dunque per la società. Molti firmatari del documento non hanno più pudore ad ammettere che si sentono “vivi” solo con una telecamera puntata addosso. Per questo sono disposti a farsi sbeffeggiare da intervistatori cinici, a ballare assumendo pose non propriamente plastiche, a storpiare motivetti, ad improvvisarsi giardinieri, contadini, fuochisti, macchinisti, uomini di fatica. Questa duttilità è anche un modo per mostrare che in fondo un politico è un cittadino come gli altri (ammesso che il cittadino medio accetti questa verosimiglianza). La filosofia del “purché se ne parli” li ha sedotti. E non fa scandalo se i deputati talvolta salgono alla ribalta per temi non propriamente adeguati a quella che dovrebbe essere la figura e l’attività di un legislatore. La loro agenda politica rischia ormai di confondersi con quella di un opinionista di un talk rissoso. Se imparassimo ad accogliere i cambiamenti senza pregiudizi e sovrastrutture, evitando di intonare l’immancabile filastrocca sui valori, si potrebbe emendare la suddetta proposta, con un atto più coraggioso: trasferire le sedi istituzionali negli studi televisivi. Sarebbe un virtuoso abbattimento di costi: luce, riscaldamento, pulizie, per aule spesso vuote incastonate in palazzi con superfici troppo estese rispetto alle esigenze degli utenti. Per molti colleghi, non sarebbe un cambio brusco: la loro insistente presenza sui media per dibattere di temi non strettamente politici ne fa, a tutti gli effetti, dei lavoratori co. co. co. dell’etere. Questo lo spirito del disegno di legge. Queste le indicazioni per diventare popolari. Tutt’altra storia essere politici autorevoli e di successo.
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La nostra lingua
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a Camera ha approvato una proposta di legge per integrare l’articolo dodici della Costituzione con un comma che riconosca formalmente l’italiano come lingua ufficiale della Repubblica. L’iniziativa ha raccolto un consenso pressoché unanime. Confortante il parere di autorevoli accademici della Crusca che, interpellati dalla Commissione Affari Costituzionali, si sono espressi a favore: «…un gesto opportuno e auspicabile…». Non si può, infatti, contestare la funzione aggregante che ebbe l’italiano per la nostra comunità. Sorto sul toscano letterario, arricchitosi coi contributi di altri dialetti, già nella seconda metà del Cinquecento era impiegato per gli usi amministrativi e giuridici in tutto il territorio. Spontaneamente accolto dalle comunità locali, preparò l’unificazione politica e consentì di individuare i confini del nuovo stato. Superato il nazionalismo linguistico del periodo fascista, ridata dignità alle minoranze, come previsto nell’articolo sei della Costituzione e nella legge di attuazione 482 /99, è ora che l’Italia, come tutti i paesi moderni, inserisca nella propria Carta un richiamo esplicito alla propria lingua. Ma quale italiano andiamo ad ufficializzare? Una lingua articolata, ricca di mezzi espressivi e sfumature, ma poco sfruttata nelle sue potenzialità. Gli Italiani leggono malvolentieri e ciò è concausa di un crescente appiattimento del loro lessico di base. Una lingua che, lontana da pretese puriste, benedice troppo di frequente forestierismi che, entrati in uso tra la gente, vanno poi ad arricchire (?) il nostro dizionario. Il prestito linguistico, specie nei settori tecnico-economici, ha accompagnato
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sempre lo sviluppo dei popoli che entravano in contatto tra loro. Oggi, usare un termine straniero, quando esiste l’equivalente italiano, perché sedotti dal fascino dell’esotico o, come direbbe qualcuno, perché fa fine, non solo è opinabile, ma un ricorso scriteriato rischia di generare spassosi cortocircuiti linguistici stile “noio volevam savuar le indiriss” o per restare ai giorni nostri “two gust is megl che one”. L’impoverimento del lessico e il non sempre impeccabile modo di esprimersi non risparmia categorie: l’uomo di strada, gli intrattenitori a vario titolo della tv e degli altri media, i politici. E se per la giovane età, “perdoniamo” le aspiranti miss, il cui vocabolario di sentimenti e opinioni “globalizzato” non conosce locuzioni al di fuori dell’esser “belle dentro” e della “pace nel mondo”, immancabile negli auspici, diversa reazione registriamo quando, fuori e dentro lo schermo, a calpestare la grammatica sono persone dalle quali si attenderebbe maggiore rispetto, se non altro per il ruolo che rivestono. E invece no! Troppi percorrono il terreno dei congiuntivi e della consecutio con la sicurezza di un pilota acerbo impegnato sulle piste accidentate e polverose della Parigi-Dakar. Troppi infilano nei discorsi, per automatismo, le concertazioni, i tavoli, le opposizioni costruttive: frasi fatte e logore di un esperanto di casta in cui il significante sovente è sganciato dal significato. A “riscattare” una prosa sciatta, intervengono i burocrati che, presi da deliri manieristici, compilano leggi con un linguaggio così paludato che lo sforzo di decodifica gela il destinatario, costretto a medicare gli intervenuti reumatismi con le cinture del dottor Gibaud. I funzionari hanno il vezzo di dilatare concetti semplici in estenuanti parafrasi, rese tortuose dall’uso di termini desueti che nuocciono alla comprensione del cittadino sempre più indispettito e rendono velleitarie la trasparenza e la chiarezza, sbandierate senza sosta come chiavi imprescindibili di una corretta comunicazione istituzionale. Lo stile, asciugato degli orpelli del “burocratese”, diventa con gli sms minimale, spoglio. Forse è un contrappasso troppo severo per la lingua. In questo la tecnologia, la velocità di comunicazione hanno inciso profondamente. I giovani hanno dato vita ad un vero e proprio slang, nel quale abbreviazioni, acronimi, prestiti dall’algebra, emoticon, sono convenzioni ormai acquisite, funzionali a scrivere in modo veloce a fronte di spazi e caratteri limitati. La lingua scritta si avvicina così a quella parlata, si è riscoperto il gusto di scrivere. Ma se fosse in vita il maestro Manzi e scorresse il contenuto di un sms, siamo certi si armerebbe per una nuova lotta all’analfabetismo. Di ritorno, stavolta. 26
Cronaca di una (stra)ordinaria giornata in Parlamento
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ppena eletto in Parlamento (Aprile 2006), un amico di Torino, parlamentare da tre legislature, mi chiese: «Ma tu come intendi fare il deputato: seriamente o da... turista?». Poi aggiunse: «Sappi che se lo fai seriamente, sarà un’esperienza molto difficile. Ma esaltante!». Ad un anno da quelle elezioni, nel momento di maggiore distanza tra la politica e i cittadini, vorrei far capire perché è “così difficile, ma esaltante” fare il deputato della Repubblica, prendendo ad esempio una giornata tipo. Quella di mercoledì 27 giugno 2007. Il giorno prima, martedì, molti sono stati gli impegni in Aula e nelle Commissioni. Abbiamo iniziato alle 10.00 per finire alle 19.00. Dopo una notte infuocata (nel senso di un caldo infernale!) la sveglia di mercoledì è, come sempre, alle 6.45; quindi a piedi raggiungo piazza San Silvestro per un caffè alle 8.00 con un amico calabrese. Vado di corsa perché dalle 8.30 alle 9.30 sono in Commissione Lavoro per illustrare una legge, della quale sono stato nominato relatore, che riguarda i Grandi invalidi. Prima dei lavori d’Aula (si discute da una settimana delle modifiche al Codice della strada) leggo le decine di e-mail che ho trovato sulla mia posta elettronica della Camera. C’è quella degli over 50 delle aziende fallite di Cosenza che invocano un “tavolo romano”, c’è l’e-mail di un giovane che deve organizzare una “serata dedicata all’arte”, due ragazze che mi chiedono un incontro a Roma (una tenta di entrare in Rai, l’altra vorrebbe una mano per lavorare in Parlamento), poi da Reggio mi segnalano “le anomalie del lavoro nero in Calabria”, quindi inviti a convegni, convention (dibattito sul Pd a Lamezia, la convention della Despar il 2 luglio a Isola C.R.) e poi segnalazioni, appelli, progetti, proposte,
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raccomandazioni, concorsi, trasferimenti… e così via. Dalle 10 alle 12 si votano (in Aula) gli emendamenti al codice della strada; subito dopo si riunisce il Parlamento in seduta congiunta (Camera e Senato riuniti a Montecitorio) per eleggere un giudice della Corte Costituzionale in sostituzione del dimissionario Vaccarella (in quota centro-destra che ora propone Pecorella, ma il centro-sinistra ritiene irricevibile questa proposta!). Fumata nera anche questa volta. Alle 13 incontro alcuni amici venuti fino a Roma per sottopormi diversi problemi; alle 13.30 vedo una ragazza calabrese, che vive a Roma da anni, che ha… problemi di lavoro! Alle 14.00 pausa pranzo al ristorante della Camera (oggi riso integrale al pomodoro, un’insalata mista abbondante, un frutto. Al prezzo di 12 euro). Alle 14.25 riunione della Commissione Lavoro. Fra le proposte di legge da discutere, relazioni varie, audizioni, siamo andati avanti fino alle 15.25. Quindi alle 15.35 ricomincia l’Aula parlamentare con interrogazioni e interpellanze - si tratta del cosiddetto Question Time - alla presenza dei Ministri Fioroni, Bianchi, Pecoraro, Turco, De Castro, Mussi e altri, per poi fare spazio alle 16.30 al prosieguo dei lavori d’Aula secondo l’ordine del giorno: oggi si discute dell’“emergenza riufiuti” a Napoli. Il Governo, per impedire l’ostruzionismo delle opposizioni (hanno presentato oltre 200 emendamenti!) porrà la questione di fiducia. Si chiude alle 19.15. Una pausa, quindi visione delle solite e-mail (altre 18 da leggere e magari rispondere). La serata non si chiude come al solito (cena al ristorante della Camera e poi la lunga passeggiata nel Centro storico di Roma, da Piazza di Spagna a Via Condotti, da via del Babuino a Piazza del Popolo, quindi da Lungo Tevere dei Mennini fino a casa) ma con un incontro-cena di lavoro fra i deputati dell’area cattolica del nascente Pd. Mercoledì 27 è una giornata “storica”: Veltroni da Torino ha annunciato la sua discesa in campo. A fianco avrà Franceschini. E proprio Dario, con lui anche Fioroni, Soro, De Mita, ci raggiunge per raccontarci il VeltroniDay. Discussione fino a mezzanotte. C’è molto entusiasmo, ma nessuno di noi nasconde che ci sarà molto da lavorare. Una giornata qualsiasi della vita di un parlamentare. Una giornata in cui si è affrontata la questione dei Grandi invalidi, si è votato per cambiare il Codice della strada (quante discussioni su autovelox, alcool e droga per chi guida, megamulte per gli eccessi di velocità...), si è riunito il parlamento in seduta congiunta, si è affrontato il dramma dei rifiuti in Campania, si è parlato del nascente Partito Democratico. Tutto qui, dal “Corridoio dei Presidenti” di Palazzo di Montecitorio in Roma. 28
“Ignorantia privilegis non excusat”
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omenica 14 ottobre, ore venti. Mentre i neonati democratici erano in strada ad emettere i primi vagiti per il successo delle primarie, gli altri colleghi stavano tornando da una forzata gita fuori porta che si erano concessi per non assistere al parto. I cidiellini smaliziati avevano snobbato la via bucolica preferendo al circolo della pesca quello delle libertà, dove ad attenderli c’erano gli ipnotici giochi di gambe della “roscia pescivendola”: più inebrianti nelle geometrie di quelli della supplente di Pierino, ma anche più convulsi, dopo la chiusura del canale satellitare e la promozione ottenuta a sue spese dalla soubrette del camioncino. Le donne avevano risposto lasciandosi rapire dal fustacchione taumaturgo sollecitato a rendere più aggraziata nel ballo la presidente Pivetti. I vecchi “compagni”, infine, per non essere indotti in tentazioni riformiste, si erano stipati in un cinema d’essai per assistere ad una maratona no stop di film russi, tra i quali l’immancabile “Corazzata Potëmkin”. Per la casta era stata tutto sommato una giornata spensierata e soprattutto senza Grilli per la testa: lieta, per chi aveva generato un nuovo soggetto che ora assorbiva tutte le attenzioni; interlocutoria per chi era mosso dal medesimo istinto di paternità, ma, non potendo procreare nell’immediato, soffocava il desiderio, dichiarando stizzito alla stampa di non voler prole per scelta, tanto meno - chiosavano i più timorati di Santa Romana Chiesa - figli nati da ammucchiate. La gente avrebbe presto cominciato a malignare sulla virilità e fertilità di idee dei tanti partiti, partitini, movimenti, assemblee di condominio, avvezzi alla disordinata “singletudine”. Per questa ragione, quelli più sedotti dall’idea di una
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federazione, di un partito unico, ma anche (sic!) di un unico partito, non risparmiavano attacchi sotterranei ai partner più refrattari, minacciando persino il ricorso alla Sacra Rota per matrimonio non consumato. L’ondata di antipolitica aveva esaurito la sua spinta. E questa era già una buona notizia. Il rumore della risacca era più rassicurante. A svelenire il clima, anche la probabile imminente campanella di fine anno scolastico e il provvidenziale ritorno degli esami di riparazione coi quali cancellare tutti i debiti contratti e non onorati da questo e dai precedenti governi; tutte le promesse disattese che avevano scatenato il malcontento dei cittadini, cavalcato con prontezza da un comico, Beppe Grillo, che già in tempi non sospetti aveva millantato di dare a tutti l’America, salvo poi ritirarsi a vita privata. Le ambizioni dell’agit-prop genovese non si erano ridimensionate nel tempo. Ospitate da qualche anno nelle pagine del suo blog, avevano dato corpo a battaglie sempre più appassionate, trasferite nei palasport e, quindi, in quella piazza che a settembre aveva raccolto migliaia di simpatizzanti, risoluti nel tentativo, poi rientrato, di delegittimazione della classe politica. Mai, dopo Tangentopoli, percorsa da sudori così freddi nonostante la torrida estate. Sprovveduto, chi guardò a quella tregua d’autunno come alla sconfitta dei rigurgiti populisti e all’evaporazione del sentimento di antipolitica. Lo stratega Grillo, infatti, approfittò proprio della rinnovata apparente serenità per guidare un manipolo di “vaffa-boys” coi quali sferrare l’attacco decisivo e dar seguito ad anni di invettive, denunce, puntando prima, affondando poi, l’indice nel ventre molle delle istituzioni. La presa del potere avvenne senza spargimento di sangue né di sudore. I Palazzi erano semivuoti: chi nei cieli, chi in terra, ma tutti con un sostanzioso pane quotidiano in tasca, i deputati erano impegnati a coltivare i propri talenti più o meno virtuosi, sacrificati spesso sull’altare della politica. Con l’ascesa repentina di Grillo, appresa negli ambienti che contano col tipico stupore di chi subisce una paresi. Molti, dei pochi graziati, avrebbero finalmente assecondato le altre attitudini, sovente più spiccate di quella ufficiale. Lo spoil system fu infatti severo oltre ogni pessimistica aspettativa. I metodi usati cruenti, seppur eco-sostenibili. Negati i processi agli imputati, perché un uomo di mondo sa riconoscere ad occhio nudo magagne e inciuci, Grillo condannò i più impastati con la malapolitica alla decapitazione. «La decapitazione?» balbettarono con terrore gli interessati. «Why not!» - sentenziò Luigi De Magistris, un coraggioso pubblico ministero, 30
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amato dalle donne, temuto dai “furbetti del quartierino” annidati nei ministeri, negli enti locali, nella massoneria deviata, nelle stesse procure, ecc. ecc. Reincarnazione del Di Pietro magistrato, dal quale si discostava per lo stile, così tanto che un “che c’azzecca” sale spontaneo, De Magistris fece piazza pulita della nomenklatura nei processi, quindi, ripercorrendo le orme del suo predecessore, giunse a spogliarsi della toga per entrare in politica. Assunto come consulente giuridico, fu lui a suggerire gli inasprimenti delle pene: le carceri erano insufficienti, la vergogna di un nuovo indulto alle porte. L’esecuzione fu preparata con molto scrupolo. A partire dall’uso “responsabile” di una ghigliottina meccanica costruita con materiali riciclabili, per finire allo smaltimento del rifiuto, affidato ad animali “spazzini”, indispensabili nei processi della catena alimentare, accurati nel non lasciare tracce. Il ricorso agli inceneritori era stato escluso: troppo alta la probabilità che le emissioni prodotte dalla combustione di corpi dediti al vizio (colesterolo, malattie veneree, ma anche alcool e droghe) fossero nocive. Sarebbe stata una catastrofe se pure gli animali avessero rinunciato a questo fiero pasto. D’altro canto, la licenziosità nei costumi degli onorevoli era nota, ma chi la denunciava rischiava la galera per attentato alla privacy. Nessuna attenuante a favore dei delatori: ignorantia privilegis non excusat! Tornando alla cronaca. Fu un Travaglio ad occuparsi della mattanza. Il pubblico, avido di morbosità, incitava il boia, furente quanto il (San)toro alla vista, oggi, del drappo rosso. Quest’ultimo, per la verità, ingentilito dagli ultimi candeggi. La scena era da film splatter: le teste recise e grondanti atterravano con violenza sul selciato. Un rimbalzo, due capriole accennate, e sui sampietrini prendeva forma un inquietante schizzo naif. Finita la corsa, esse venivano ricongiunte al corpo esanime disincagliato dalla mannaia. Le figure ricomposte, accatastate su un carretto condotto da novelli monatti, erano lasciate alla mercè delle belve. A fine giornata, sul piazzale di Montecitorio sembrava fosse stato srotolato un enorme red carpet, non calpestabile per la “vernice” ancora fresca né riutilizzabile per la festa del cinema di Roma. L’indomani, di buon’ora, un quadrumvirato presieduto da Grillo, formato da Travaglio, Santoro e il ministro Di Pietro, si affacciò da un balcone del prestigioso palazzo per ufficializzare l’inizio del nuovo corso e comunicarlo alla folla intervenuta, sempre pronta a svendere i suoi applausi dinanzi alle novità, di qualunque segno esse siano. La piazza splendeva, merito dei deputati amnistiati ma decaduti, che, freschi dipendenti a progetto dell’esigente Mastrolindo, avevano dato olio di gomito per 31
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tutta la notte. Scaduto il contratto, sarebbe toccato loro l’esilio, in un luogo dal quale i palazzi del potere non erano visibili. La disperazione che li assalì ricordava quella di Heidi quando dai tetti di Francoforte non riusciva a scorgere le amate montagne. Nella vuota e silenziosa sala dei bottoni si cominciarono a discutere i principi sui quali rifondare la Repubblica. I lavori subirono un’interruzione quando il capo rifletté sull’opportunità, collegialmente condivisa, di cooptare donne, anche a titolo simbolico, per garantire la parità di genere e soprattutto trasmettere un elemento di rottura col passato. Incassato il rifiuto delle tante candidate non elette nella Costituente del Pd, che a onor del vero già avevano rimosso quell’esperienza e non per rancore ma per disinteresse, si dovette rinunciare definitivamente a reclutare facce nuove. Pensandoci bene fu un sollievo: potevano rivelarsi infide, mine vaganti delle quali non si conosceva l’inclinazione all’allineamento. Si puntò quindi sull’usato sicuro, precettando subito la Guzzanti (prelevata durante uno spettacolo dal bodyguard di Di Pietro, un ex pastore molisano, che travisò le indicazioni ricevute e convinto che Marco Ferradini avesse ragione da vendere su come trattare una donna, scaraventò dal palco l’attrice, proponendo una involontaria tragicomica rievocazione del “ratto della Sabina”). A chiudere la rosa: la senatrice Rame, presentatasi spontaneamente dopo esser stata informata sui modi spicci dello staff nell’eseguire gli ordini, e la principessina Borromeo, giunta con la sua Cinquecento, truccata per l’occasione in una Smart per non attirarsi le ire del capo, ai ferri corti col cognato. Le tre erano il meglio che la piazza offriva in quanto a senso del ritmo nell’agitare le manette. A questo e a poco altro furono destinate. La Magna Carta, ribattezzata Carta, per non dar adito ad ambiguità, facili per chi non mastica il latino, era pronta. Corredata di pochi e perentori articoli, ribadiva l’ unificazione e l’amministrazione esclusiva dei tre poteri da parte di Grillo, che si riservava di delegare alcune materie agli altri quadrumviri. Di fatto, controllava tutto il cucuzzaro. Il disegno delle nuove istituzioni fu improntato ad un’esasperata sobrietà, di gran lunga superiore a quella auspicata da Stella e Rizzo nel loro bestseller. Rigorosa la legge elettorale con cui selezionare i rappresentanti del popolo. Il Parlamento venne abolito. Non si pensi a una deriva autoritaria. Il sanguigno paternalismo di Grillo lo lascerebbe supporre, ma la Repubblica formalmente era ancora in vita, anche se il volto ora appariva sfigurato. Il punto è che i requisiti di candidabilità ed eleggibilità erano così stringenti che neppure una Camera 32
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sarebbe stata riempita, neppure una soffitta. Tra quelli fissati: non esser sospettati di alcun reato (anche i più banali come aver spiluccato nel gelato altrui o fatto la pipì in piscina), non aver avuto tessere di partito (sciolti nel frattempo), non aver ricoperto cariche politiche né annoverare nella propria famiglia, fino al terzo grado di parentela, ex rappresentanti istituzionali. Ma ad azzerare l’esistenza di idonei fu l’estromissione dei glabri e/o stempiati (probabili “lupi” che avevano perso il pelo ma non il vizio). E ancora: via quelli con la forfora, con le doppie punte, gli infedeli, i raccomandati e tutti coloro che non la pensavano come lui! Scomparvero anche Regioni, Province, Comuni, Comunità Montane e la miriade di enti nati grazie ai puntuali concorsi di idee indetti dagli amministratori per celebrare e premiare la creatività made in Italy, già nota in tutto il mondo. Difficoltà si registrarono nello sgombero del Consiglio calabrese. Gli onorevoli e il personale tutto opposero resistenza. Trascinati con la forza fuori dall’edificio continuavano ad urlare: «Vergogna! Non si possono sfrattare senza preavviso cittadini che hanno investito per garantirsi un tetto sulla testa, fatto sacrifici per continuare ad abitare la casa che li ha visti crescere ed invecchiare!». Questa impasse irrobustì l’intima convinzione di Grillo che erano maturi i tempi per un governo digitale: tutto sarebbe passato dalla rete e l’abbattimento dei costi derivanti dall’abrogazione degli enti rappresentativi ad ogni livello, sarebbe servita a finanziare e potenziare le tecnologie informatiche. Per avviare questo ambizioso progetto, bisognava operare qualche altra aggiustatina. Iniziando per esempio a cancellare tutte le caste. La proposta stimolò l’ironia di misogini, benpensanti, ma un po’ tutti, che con linguaggio da caserma rammentarono al leader, chi con rammarico chi con soddisfazione, che quelle non rispondevano all’appello da tempo, perciò sarebbe stato inutile eliminarle. Grillo si affrettò a precisare che le abitudini sessuali delle donne non erano oggetto di discussione, sebbene un’azione per coprire col burka quelle più recidive nell’esibire generosi décolleté e minigonne inguinali fosse nei programmi. Le caste da scardinare, usando se necessario anche il piede di porco, erano quei gruppi chiusi che godevano di privilegi talvolta moralmente censurabili, più spesso penalmente perseguibili. Accanto ai politici, facevano bella mostra di sé magistrati, medici, giornalisti, banchieri, burocrati, ecc. Anche il Clero non uscì indenne da questa imponente ristrutturazione. La Chiesa doveva tornare alla povertà delle origini. Non si riconobbe l’autonomia del 33
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Vaticano (comodo mangiare, bere, muoversi e sporcare a cento metri, per poi rincasare lasciando agli italiani il lavoro sporco!). Tuttavia, sensibile ai richiami del Papa sulla piaga del precariato, Grillo decise di assumere suore e preti, anche quelli delle alte sfere, per mantenere i palazzi del potere, liberati dagli storici ingordi avventori: scrostare gli scranni concessi in comodato d’uso a quei politici che non avevano saltato una legislatura fu un esempio di mansione. Ma anche preparare decotti ristoratori, efficaci nel curare la gastrite psicosomatica dell’ex comico, insorta in pochi giorni di governo. Il che la dice lunga sulla complessità di un Paese come il nostro. Seguirono altri provvedimenti: l’abolizione delle tv (i decoder sequestrati vennero rimandati al mittente con una feroce dedica che sintetizzava quella che era stata la loro utilità); superati anche i giornali (nemesi per un articolo di legge inserito da un ex ministro che equiparava i blog, senza fini di lucro, alla stampa tradizionale, assoggettando alcuni alla registrazione, al pagamento e a rispondere penalmente in caso di contenuti diffamatori); vietati telefoni fissi e cellulari (omaggio al brizzolato, invitato, come contrappasso, ad attaccarsi al telefono!); rottamate le auto, ritenute inquinanti, sostituite dapprima col triciclo, ma, memori che in un recente passato esso aveva perso pezzi, si preferì il più solido monopattino. Finalmente tutto era pronto per il debutto virtuale. Tutti gli atti che un normale cittadino compiva dovevano da questo momento essere preventivamente comunicati per l’approvazione: ottenere una licenza edilizia, aprire una nuova attività, ma anche scegliere il barbiere, il negozio presso il quale servirsi, le vacanze, ecc. Star vicini alla gente era meritorio, alitare sul loro collo meno. Il meccanismo non avrebbe retto a lungo. I cittadini, espropriati del libero arbitrio da un tiranno illuminato che pretendeva in nome di un astratto bene comune di influenzare ogni aspetto della loro vita, cominciarono subito a dar segni di insofferenza. L’ansia da prestazione li accompagnava costantemente: il timore che qualsivoglia gesto dovesse incontrare il consenso dei quadrumviri, pena, in caso di trasgressione, il pubblico ludibrio e l’incisione sul petto della I di “inquisito” come nella tradizione seicentesca dell’America puritana, era intollerabile. I più furbi riuscivano qualche volta a gabbare il capo. Ma era un continuo “Un, due, tre, stella!”, che esigeva riflessi pronti e prudenza, con l’adrenalina che schizzava prepotente quando scoccava l’ora dei controlli. Dopo appena un mese, anche Grillo accusò la fatica: controllare milioni di citta34
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dini, essere sempre vigili e presenti era logorante. I suoi collaboratori davano una mano, ma non bastava. E poi, a dirla tutta, le rivoluzioni sono divertenti all’inizio. Deporre i megafoni, ammainare le bandiere, congelare gli slogan, per cimentarsi nell’esercizio del potere, in cui non basta sollevare i problemi ma bisogna risolverli, schiude le porte ad una noiosa, opprimente routine. Qualcuno, in passato, aveva sostenuto che l’eccitazione della vigilia si scioglie nel dì di festa, poiché si è già proiettati all’indomani, all’idea di affrontare le proprie responsabilità. Fu proprio questo sentimento ad attraversare l’affabulatore genovese, schiavo ormai degli sbadigli, unico sollievo per svuotarsi del torpore. Esasperato da quel popolo, petulante nel virtuale tanto quanto nella realtà, egli trovò ancora una volta nella rete la soluzione al problema. Perché non sfruttare il successo di Second Life e crearsi un clone, opportunamente istruito, al quale i cittadini possano rivolgersi? Detto, fatto! Se il cybergrillo consentì all’originale di ritagliarsi del tempo libero da dedicare agli hobby, l’umore della piazza (virtuale e non) aveva registrato una caduta verticale. Esser controllati da una specie di automa immateriale e sottostare alla sua volubilità era umiliante. Si cominciava ad agitare qualcosa. La controrivoluzione era nell’aria. L’occasione dell’offensiva fu offerta da un incidente occorso a Grillo mentre stava solcando il Mediterraneo a bordo del suo natante. Protagonista Briatore, che, ottenuto asilo politico in Inghilterra con la caduta della Seconda Repubblica, lo speronò dolosamente col suo settanta metri, per poi allontanarsi in tutta fretta regalando un ghigno sprezzante. Furibondo, Grillo minacciò a squarciagola di arrestarlo se avesse constatato che quelle in cui sostava non erano acque internazionali ma italiane. Chiese subito ai suoi collaboratori un cellulare satellitare per impartire alla Capitaneria di Porto l’ordine di acciuffare il pirata, ma essi gli ricordarono che erano stati proibiti. La barca stava per affondare. I quattro si gettarono d’istinto a mare: un istinto addomesticato, dato che si premunirono indossando i braccioli sottratti agli esiliati politici per dissuaderli ad abbandonare l’isola in cui erano stati confinati. Dopo un’ora di bracciate legnose, approdarono esausti su un’isoletta semisperduta… quell’isoletta! Ad accoglierli, i proscritti, che, non credendo ai loro occhi, furono assaliti da propositi di vendetta, subito messi a tacere e sublimati con un atteggiamento più saggio ma anche cinico: non rivolsero loro la parola, li isolarono, ansiosi di godersi le peripezie alle quali subito gli sventurati andarono incontro. 35
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La natura selvaggia e arcigna avrebbe presentato il conto. Accanto alla fame patita per le difficoltà nel procacciarsi il cibo, soffrivano la mancanza di luce, acqua calda… delle comodità a cui ciascuno è di norma abituato. Ebbero anche il miraggio di una centrale. Ma appunto, era un miraggio, dato che anche la costruzione di quelle era stata bloccata. Arrivata in continente la notizia del naufragio, grazie al buon cuore di Briatore che l’aveva lanciata in rete, furono organizzati i soccorsi. Con calma, molta calma. Bisognava prima portare a termine la missione a cui i cittadini avevano cominciato a lavorare dopo aver conosciuto i primi effetti della cura Grillo: sguinzagliare centinaia, migliaia di hacker per manomettere la rete e sopprimere il clone dispotico. La gente desiderava tornare all’antico. Suonava strano che a distanza di un mese, la stessa invocasse la restaurazione della politica e dei suoi vecchi attori. Tra questi, ci fu persino chi, acclamato per strada, si convinse di esser più amato del Papa, nel frattempo tornato sul soglio. Ma quella dei mitomani è un’altra storia. Furono ripristinate le regole e riassegnati i ruoli che consentono ad una società di essere riconosciuta come civile. La lezione fu di quelle importanti. Gli uomini sbagliano, ma una forte e sana democrazia ha in sé i rimedi per rimettersi in moto e viaggiare a velocità superiori rispetto al passato. La giustizia è amministrata in nome del popolo, non dal popolo. L’emotività della folla ha portato anche a liberare Barabba, perché all’interno di essa l’individuo si sente deresponsabilizzato. Non è in gioco il diritto alla sacrosanta indignazione davanti a ciò che non funziona. Denunciare denota senso civico. La democrazia ha fame di cittadini attenti e partecipi. Tuttavia, la rabbia e il malcontento infelicemente incanalati esplodono, cagionando danni e non centrando l’obiettivo. Giornata di reinsediamento delle Camere. La gente accompagnò la sfilata dei suoi rappresentanti con fragorosi applausi. Gli stessi destinatari, in miseria fino al giorno prima, tolti al mattino dalla naftalina e tirati a lucido alla meno peggio, si meravigliarono dell’inatteso tributo. Bastò poco per riprendere confidenza col proprio passato e riaccendere l’autostima, già degenerata in spocchia in quei soggetti che seguitavano a confondere l’immunità con l’impunità. I cittadini, dotati di pessima memoria storica e portati a dimenticare in fretta, lasciarono presto campo libero ai tanti “gattopardi” reduci da “tagliando”, che approfittarono di questa debolezza per accreditarsi come “nuovi”, pur non essendolo nell’età, nelle idee, e - ancor più grave - nei metodi. 36
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Non a caso, “tutto cambia perché nulla cambi”, affermava il principe di Salina nel “Gattopardo”. Ma è altrettanto vero, seguendo il filone dei corsi e ricorsi storici, che ci sono cambiamenti che a tempo debito entrano di prepotenza senza chiedere il permesso ad alcuno, si assestano, per poi ripresentarsi a distanza di qualche anno con la medesima forza alla quale è impensabile opporsi. Volendo far posto a un po’ di ottimismo, nei titoli di coda di questa improbabile storia, segnaliamo la ritrovata comodità per gli elettori di avere dei referenti in carne e ossa: vuoi mettere la soddisfazione a rivolgere in libertà un “vaffa” vis à vis? Sempre che Grillo, rimorchiato da un peschereccio che lo stava riportando a casa, non inizi una nuova battaglia per i diritti d’autore.
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Grillo e la società liquida!
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on c’è alcun dubbio che il comico Beppe Grillo esprima il forte disagio in cui vive il nostro Paese. Sentimenti diversi si fondono: antipolitica, qualunquismo, odio sociale, paura del futuro. Ma anche voglia di cambiamento, trasparenza, pulizia. Il risultato è, comunque, una miscela esplosiva che rischia di incendiare l’intero Paese. Sbaglia chi pensa che Grillo oggi, come Stella qualche mese fa, Bossi negli anni ’90, poi il pool di magistrati di Milano, i girotondini e tutti gli altri “eversivi” del nostro Paese, colpiscano il solo ceto politico, la cosiddetta “casta” con i suoi privilegi e la sua arroganza. Ad essere colpiti oggi sono, e lo saranno sempre di più, tutte le “istituzioni” democratiche: la magistratura con i suoi eterni ritardi e le lotte intestine, la Chiesa e il suo potere (il furibondo attacco di Grillo al papa è emblematico), l’imprenditoria, l’informazione, gli apparati burocratici e l’intero “sistema”. In sostanza la guerra dichiarata non è solo alle istituzioni civili o religiose, è al potere in quanto tale. Non deve poi meravigliare che a guidare le masse (300 mila persone in 200 piazze italiane al vaff-day) sia un comico, né che lo sia un giornalista (oltre un milione di copie del libro denuncia di Gian Antonio Stella, La casta), né che lo sia un politico o un personaggio pubblico (dall’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini negli anni ’50, a UmbertoBossi con la sua Lega nord negli anni ’80, a Francesco Saverio Borrelli con il suo “resistere resistere resistere”, fino a Berlusconi che in quattro mesi negli anni ‘90 ha costruito il primo partito d’Italia). La cosa che conta è che la massa, la gente, il popolo abbiano ciclicamente voglia di essere guidati contro, nuova aberrante morale che cementa una comunità in
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perenne conflitto sociale. In tale panorama culturale, il paradigma che lega e fà comunità è l’irrazionale sfogo di piazza, l’astioso sberleffo tuonante, corredato da un efficace proscenio mediatico che scalda le sottili emozioni popolari ammaestrandole contro la politica, contro la chiesa, contro il potere: il gioco è fatto e la marea monta contro i “palazzi”. Pratica che dà libero sfogo a chi ha voglia di gridare il suo malessere, la rabbia, la delusione e lo stato di frustrazione in cui vive a causa della mancanza di lavoro, di risorse, di soddisfazioni. Soprattutto, e questa è la novità nella protesta di questi ultimi mesi, perché la gente, i giovani in particolare, non ha più alcuna certezza nel futuro! E così la società si scatena, si scioglie, prende ogni volta forma diversa, quasi impazzisce e reagisce istintivamente, impulsivamente deflagra nel delirio “democratico”, nell’urlo del vaff.. a tutti “perché la politica siamo noi, distruggiamo i partiti”. È questa quella che il prof. Zygmunt Bauman definisce “la società liquida”. La società di oggi è liquida in senso metaforico, perchè il termine fotografa in modo particolarmente aderente la società in cui ci muoviamo; ciò che è liquido non ha e non può avere la stessa forma per lungo tempo, ed è soltanto il passaggio da un recipiente all’altro che ne ri-determina la forma, meccanismo illusorio che modella il nostro sistema di vita al labile e fuggente senso delle cose. E questo si estende in modo avvolgente a tutte le situazioni che viviamo, virtualmente ad ogni aspetto della forma lavorativa, economica, politica, affettiva e alle grandi questioni sociali. Così la società odierna prende la forma che gli dà quel grande e affascinante imbonitore che è stato (ed in parte lo è tuttora) Silvio Berlusconi. Il quale è riuscito a creare una grande illusione di massa, dando forma ad una società che ha voluto illudersi che tutto fosse possibile, tutto realizzabile, che non ci fossero limiti né condizionamenti per raggiungere la felicità, il successo, il denaro. È la società che prende la forma dei giornalisti scrittori che denunciano tutti i privilegi delle “caste”, dei potenti, dei ricchi, degli apparati. Ed è la società che vuole Grillo, che corre in piazza, che urla contro il mondo nel corso del “vaffa-day” dello scorso 8 settembre. Società “pura e immacolata” che denuncia e lavora per la propria assoluzione, ma scivola nel seducente vaniloquio di chi schernisce con talento teatrale il potere costituito, deriva di una “società liquida” senza padri. La società odierna dunque non ha più una forma stabile, non ha memoria, non ha certezze. Vive di illusioni che crollano subito, ha paura del domani, si ribella contro tutti coloro che hanno, che sanno, che possono. È una società “povera”, 40
Miseria e Nobiltà della politica, della società
senza idee né ideali, tradita dalla politica, dalla chiesa, da qualsiasi altra istituzione che si fonde su un “relativismo” suicida. In una società siffatta, basta poco per dare fuoco alle polveri. Il rischio è un incontrollabile incendio che, se non si torna alla Politica vera, alla forza delle idee, alla cultura, all’onestà e alla trasparenza, rischia di distruggere ogni cosa che si troverà davanti. Solo la passione per le cose “vere” salverà (cambiandola radicalmente) la politica e con essa la società dall’imperante e volgare superficialità. Solo il ritorno agli ideali, alla forze delle idee potrà cambiare qualcosa. Ma tutto si può dire e fare in questo delicato momento, salvo sottovalutare le manifestazioni popolari di Grillo, bollandole come espressione del qualunquismo e dell’antipolitica. Tentando così, ma ingenuamente, di ridimensionarne la forza devastante che esse sprigionano. La Politica dia semmai risposte profonde, avvii la fase del cambiamento, torni severa, austera e trasparente. Prima che sia troppo tardi!
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Il Parlamento tra scandali e grandi scelte
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state 2007. Poco più di un anno di Governo e di vita parlamentare di questa XV tormentata legislatura. Li ho visti trascorrere lentamente questi primi 14 mesi, fra notevoli polemiche e quasi sempre in un clima avvelenato. Un parlamento che pure ha avuto notevoli sussulti: le liberalizzazioni di Bersani (medicine nei supermercati, più taxi, accesso più facile alle professioni, meno burocrazia...), la lotta all’evasione, il tesoretto, la ripresa economica, la riforma della giustizia e quella della scuola, il rientro dei militari dall’Iraq, la legge sulla sicurezza nei posti di lavoro, prime riforme della Sanità. Ma notevoli anche le cadute di “stile” e di comportamento: Sircana che “sbircia” un trans dalla sua auto, Luxuria che litiga con una “collega” per il bagno giusto, i pastorelli gay posti da due deputati radicali al presepe della Camera, Caruso che annuncia di coltivare marjuana nei giardini di Montecitorio, Gustavo Selva che finge di star male per farsi accompagnare da un’ambulanza ad una tv di Roma, il deputato di quel cartello “papista” che rivendica la “famiglia, una, santa, apostolica” e poi si fa beccare in un albergo con due squillo e un bel po’ di cocaina, il gruppo dell’Udc che effettua, nel frattempo, un test antidroga ai deputati con tanto di preavviso, e poi i costi e gli sprechi della politica, la “casta”, Montezemolo e la “guerra” dei poteri forti contro la politica debole. C’è stato di tutto e di più in questo primo anno di vita parlamentare della nuova legislatura. Doveva essere l’anno della svolta dopo il quinquennio berlusconiano che tanti danni ha fatto al Paese e alle sue Istituzioni. Eppure il Paese ha dimostrato di non capire e di non voler più credere a nulla. Poco importa se al grido “elezioni trucccate, voto anticipato” Berlusconi ha quasi convinto gli italiani che lui al potere,
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di fatto, non c’è mai stato. Nonostante i disastri in economia della precedente legislatura (Pil attorno allo zero, conti pubblici allo sbando, parlamento nel caos) e la linea filo-Bush in politica estera che ha portato il nostro Paese in una guerra folle in Iraq. Tutto quello che è accaduto nei cinque anni precedenti ci ha restituito un Paese debole, spaventato, più povero. Mentre gli italiani già nei primi mesi del governo Prodi volevano tutto e subito. Prodi, incapace di comunicare e di farsi capire da amici e alleati, figurarsi poi dagli italiani, ha voluto prima di tutto risanare la finanza pubblica (ed ha fatto bene) per poi passare alla fase dello sviluppo e del rilancio dell’economia. Ma riesce a farsi ricordare per l’ampiezza del suo governo (record di ministri e sottosegretari) piuttosto che per il recupero di parte dell’enorme evasione fiscale, per i conti a posto, per il rinnovo dei contratti con gli statali. Problemi ogni giorno in Parlamento. Mentre il centro-destra in questo primo anno si è sbriciolato, il centro-sinistra fa di peggio. Mastella litiga con Di Pietro, Rutelli con la sinistra radicale, i piccoli dell’Unione ricattano ogni giorno, Prodi media e decide poco. Tutto questo mentre si approva la prima importante riforma delle pensioni, si vara un Documento economico di notevole portata, vengono aumentate le pensioni minime, si mette mano agli sprechi in parlamento (Deputati in pensione a 65 anni e non più come ora in giovane età). Eppure, il rischio vero è che di questo governo e di questo parlamento si ricordino le risposte cretine dei parlamentari alle jene, qualche storia di sesso nottetempo, le continue divisioni, le risse e la confusione. Bilancio negativo, quindi, se si guarda da un certo punto di vista. Eppure i risultati non mancano. In un Paese in cui appena uno-due anni fa crollavano le grandi imprese private (Parmalat su tutte, la Fiat in caduta libera) e quelle pubbliche: le Ferrovie dello Stato andavano in malora, Alitalia già in rovina, l’Anas incapace di agire; in questo Paese gli indicatori economici oggi sono tornati tutti nel segno positivo: il Pil viaggia attorno al 2%, la produzione industriale cresce notevolmente, così le esportazioni, le entrate fiscali continuano da un anno a crescere oltre ogni previsione, la disoccupazione scende sotto il 7% (record degli ultimi 25 anni). Il Paese ricomincia a crescere, dunque, nonostante l’instabilità politica, ma anche grazie alla politica economica del Governo e ad una migliore congiuntura internazionale. Un Paese in contraddizione con se stesso, ma che, nonostante tutto, va. Nonostante un sistema istituzionale ormai datato, la crisi dei partiti, l’assenza di grandi leader, la casta, le nuove brigate rosse, i servizi deviati, le intercettazioni, i furbetti del quartierino e quant’altro, il Paese va. In attesa del Partito Democratico. 44
La caduta di Prodi: cronaca in diretta dal Palazzo
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renta secondi dopo il 158 a 160 del Senato, un boato esplode anche a Montecitorio: grida, urla, slogan contro il governo attraversano il Transatlantico, l’Aula, la buvette di Montecitorio. Sono all’incirca le 14.30 e al Senato si è compiuto il misfatto. Da lì tutti i Palazzi del potere sembrano crollare, tutto di colpo cambia, il vento freddo della crisi cancella ogni programma, gli eventi precipitano e tutto sembra portare verso una crisi senza precedenti: mai prima d’ora, a nemmeno un anno dalle elezioni politiche del 2006, si rischia lo scioglimento delle Camere. Al Senato è bagarre: sento il sen. Franco Bruno che mi dice di un clima da stadio, di urla, caos, ingiurie e accuse. La bagarre raggiunge la Camera che dista poche centinaia di metri dal Senato. A farne le spese in Aula è il Ministro Rosy Bindi che tenta di rispondere al consueto question-time del mercoledì pomeriggio ma subisce l’assalto della pattuglia leghista, più velenosa che mai. I pochi parlamentari in Aula tentiamo una difesa del ministro, e anche noi rispondiamo a tono alle urla dei deputati della Lega. Il Presidente di turno, Castagnetti, a stento controlla lo svolgimento dei lavori, poi decide un aggiornamento della seduta al mattino successivo. Il clima tra noi parlamentari della maggioranza è di forte incredulità. Proprio ora. Proprio ora che il governo stava cominciando a muoversi meglio e a comunicare bene; proprio ora che la crescita economica tocca livelli che nemmeno un mese fa erano stati previsti; proprio ora che in una sala di Palazzo Chigi, il presidente Prodi, il sottosegretario Enrico Letta e ben 5 ministri erano riuniti con i vertici della Giunta Regionale calabrese per avviare il tanto atteso Tavolo per la Calabria. Proprio ora che i due maggiori partiti della coalizione si avviavano alla delicata fase congressuale.
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Mentre al Senato il presidente Marini chiude i lavori per evitare il caos, decido di uscire dall’Aula di Montecitorio. Lungo i corridoi incontro ministri che corrono verso Palazzo Chigi, parlamentari che si chiedono a vicenda «cosa succede ora?», altri che accusano D’Alema di aver forzato troppo con quel «se non passiamo al senato, si va tutti a casa». Mentre esco dal Palazzo avverto un clima pesante: attorno al Palazzo arrivano i rinforzi delle Forze dell’Ordine e la Piazza viene transennata. Un elicottero sorvola con insistenza lo spazio aereo tra Montecitorio e Palazzo Chigi. Non capisco il perché di tanta eccitazione. Faccio qualche passo verso Piazza Colonna e capisco subito: una folla di un centinaio di giovani con in mano le bandiere di An urla «dimissioni dimissioni» verso il Palazzo del Governo. Le urla si fanno man mano più forti e insistenti. La piazza viene chiusa e la polizia ferma anche me, cosa del tutto insolita. Appena faccio vedere il tesserino parlamentare mi lasciano passare ma mi consigliano di non avvicinarmi troppo ai manifestanti. Comincia a piovere con insistenza, le agenzie di stampa battono decine di dichiarazioni. Giungono anche gli sms che ci avvertono di non allontanarci da Roma. Il capogruppo Franceschini corre a Palazzo Chigi per vedere Prodi ma prima fa giungere a tutti noi un messaggio: «Nostro dovere istituzionale garantire conversione decreti in scadenza entro lunedì. Annullare tutti gli impegni e garantire presenza in Aula»! A passo veloce, per via della pioggia che continua a cadere, giungo a Palazzo Marini, sede degli uffici dei deputati. Leggo subito decine di sms che mi giungono da tutta la Calabria. Pierluigi Rodia, giovane segretario della Margherita di Longobucco mi scrive: «Ma cosa accade? Non è possibile». Stella Fabiani di Diamante: «Non possiamo permetterci una crisi. Sarebbe una cosa molto grave». Clelia Badolato, consigliere provinciale di Cosenza ritiene che la crisi sarà evitata e si potrà tornare a lavorare. Un mio caro amico di Lamezia è molto preoccupato perché proprio in questo momento si stavano affrontando i problemi della Calabria. Eugenio di Vibo: «Franco no, non fate questo alla Calabria. Vi prego, trovate una soluzione». Alle 19,30 mi giungono segnali di possibili vie d’uscita dalla crisi. Esco da Palazzo Marini e mi avvio verso la Camera. I manifestanti di destra sono sempre lì ad urlare. Incontro diversi colleghi del centro-destra con il sorriso stampato sul viso. Battista Caligiuri mi chiede se ho novità. In transatlantico giunge la notizia: Prodi si è dimesso. Ed ora? Tante ipotesi: Prodi chiede la fiducia alle Camere. Se ottiene la fiducia va avanti così, se no dovrà lasciare. Napolitano a questo punto gli affida un nuovo incarico, fa un altro governo, ma D’Alema rimane fuori per 46
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coerenza. Nemmeno questo. C’è chi dice che Prodi cade al Senato e si andrà verso un governo istituzionale (Marini?) che approvi una nuova legge elettorale, vari il Dpef, approvi la legge finanziaria e poi porti il Paese alle urne nella primavera del 2008. Tante chiacchiere ma nessuno sa realmente cosa accadrà nei prossimi giorni. Qualsiasi cosa accadrà, nulla sarà più come prima. Berlusconi invocherà la piazza per cacciare il governo e far sciogliere le Camere; la debolezza del centro-sinistra si farà più evidente e tutto rischia di essere messo in discussione; i lavori alle Camere si faranno ancora più difficili. Per il Paese si intravedono tempi duri.
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Il metalmeccanico di Firenze
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n Prodi, deciso e orgoglioso, si è presentato alla Camera. Con la stoffa del leader ferito ma non battuto, ha saputo con forza rivendicare quanto ha fatto in 20 mesi di attività: «Il governo ha saputo rimettere insieme il Paese. Ha saputo riacquistare credibilità all’estero. Abbiamo cominciato a fare pagare le tasse a chi non lo faceva. Il governo ha combattuto la precarietà. Ha saputo fare le liberalizzazioni e ha rimesso la casa al primo posto tagliando l’Ici». Un Prodi combattivo, per una volta chiaro e determinatissimo, conquista la Camera (almeno la sua maggioranza che lo applaude a lungo) e correttamente lascia al parlamento ogni decisione. Probabilmente è la prima volta che una crisi di governo si apre davanti alle camere. Ne è venuta fuori, nel suo intervento, tutta la stoffa di un uomo incompreso nell’immediato ma di indubbie e forti qualità nel prosieguo della sua azione. Prodi si è dimostrato un condottiero coraggioso in un mare in tempesta e in un clima di fortissima impopolarità nel Paese. Ma al di là di questo, occorre fare alcune brevi considerazioni e farsi alcune domande. Ma che Paese è quello nel quale 3 senatori pesano e contano più di 200? Che Paese è quello in cui gli umori di un leader politico mettono in ginocchio il governo e provocano un terremoto istituzionale? E che Paese è quello che vede gli uomini delle istituzioni coinvolti in guai giudiziari che sferranno attacchi durissimi ai giudici, senza aspettare le sedi opportune per difendersi? E che Paese è quello in cui c’è chi è condannato a 5 anni di carcere e all’interdizione dai pubblici uffici (sebbene in primo grado) e dichiara: Io resto al mio posto, continuo il mio lavoro.
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Questo Paese è l’Italia, che oggi rischia concretamente di tornare a votare con 3 anni di anticipo e con la stessa legge elettorale che ha provocato una forte instabilità, dato un potere di veto devastante ai piccoli partiti, provocato l’ingovernabilità del Senato della Repubblica. E in questo Paese, Prodi si distingue per la sua tenacia e per l’orgoglio con cui si presenta nel chiedere la fiducia: «Il mio governo ha riconquistato la fiducia in Europa come ha espressamente certificato il commissario Almunia, ha riconquistato credibilità sui mercati e nelle istituzioni istituzionali, ha saputo riconquistare all’Italia il posto che le spetta nello scenario internazionale, ha saputo chiudere senza sbavature l’avventura in Iraq, ha guidato il processo per la missione Libano, ed è presente con determinazione e umanità ovunque nel mondo la pace è in pericolo. Un governo che ha saputo combattere la criminalità organizzata, diffondere la cultura del rispetto, e far condannare nel mondo la pena di morte». Per poi aggiungere: «Abbiamo risanato i conti pubblici e tagliato la spesa dopo la gestione dissennata di chi c’era prima di noi. Ora, dopo il grande accordo sul welfare, siamo pronti a diminuire le tasse e aumentare i redditi dei lavoratori garantendo un aumento in produttività, come testimonia il recentissimo accordo sui metalmeccanici. Ci aspettano progetti importanti che abbiamo avviato senza pensare che decisioni solitarie ed episodiche potessero metterle in forse». Eppure ora il Paese rischia seriamente di scivolare in una nuova campagna elettorale in un clima di confusione e senza alcuna certezza per il suo futuro politicoistituzionale, perché tutti sanno che con questa legge elettorale nessuna coalizione potrà mai contare su una stabile maggioranza. E la preoccupazione nel Paese cresce. Molte sono le e-mail che dal Paese giungono ai parlamentari. Fra le tante, ce n’è una che merita di essere letta. È di Marco Bazzoni - operaio metalmeccanico di Firenze: «Mastella si è assunto una grave responsabilità, ha messo gli interessi personali davanti a quelli del Paese. E chi ci rimette, ancora una volta, saranno gli italiani. Questo governo aveva ancora tante cose da fare (calo delle tasse sui redditi da lavoro dipendente, modifica legge elettorale, riforma sistema radio televisivo, conflitto d’interessi, modifica legge 30, Testo Unico per la sicurezza sul lavoro, liberalizzazioni, tanto per citarne alcune). È impensabile che Mastella chieda di andare a nuove elezioni con questo schifo di legge elettorale voluta dal Governo Berlusconi. Sono sicuro che il Presidente della Repubblica non scioglierà le camere fino a quando non sarà stata modificata in modo sostanziale questa vergognosa legge elettorale. Se proprio il Governo Prodi non c’è la facesse (anche se io spero fino all’ultimo che resista) si vada a un governo tecnico o di transizione». 50
La crisi della Politica
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a cosa succede alle istituzioni democratiche? Perché oggi, nella XV legislatura, e col governo-Prodi, è così difficile governare? A queste due domande vorrei tentare di dare una risposta attraverso un breve e semplice ragionamento. Intanto evidenziando quanto sta accadendo nel nostro Paese. Ma non solo nel nostro Paese. Sono in crisi, più o meno mascherata, i più importanti comuni, moltissime province, tante Regioni. L’elezione diretta dei sindaci e dei Presidenti non ha risolto il problema della stabilità e della governabilità. Ciò a conferma del fatto che non si governa grazie ad operazioni di ingegneria politica. Occorre ben più di una legge elettorale che “costringa” alla stabilità. Accade, per fermarci in Calabria, che al comune e alla provincia di Crotone, così come al comune di Cosenza, a Vibo, Catanzaro, fino a Reggio Calabria le istituzioni locali facciano fatica, tanta fatica ad essere governate, nonostante i risultati elettorali piuttosto chiari e netti. Accade alla Regione Calabria che in 20 mesi ha consumato 3 giunte e tuttora non sembra decollare. Dunque il problema non è solo la legge elettorale. Di cosa si tratta allora? Prima di tutto, e ne sono convinto, da come vengono formate le liste elettorali dei singoli partiti. Chiunque si può candidare, al di là delle sue idee, della sua coerenza, della sua attendibilità. Basta che abbia a disposizione un buon pacchetto di voti e il posto in lista è garantita. I partiti non si fanno scrupoli e pur di raggiungere il risultato elettorale mettono dentro chiunque. Che poi abbia avuto a che fare con la giustizia non è un problema! Così i consigli comunali, provinciali e regionali risultano del tutto ingestibili. Manca, infatti, il collante dell’idea, del progetto,
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dell’appartenenza. Manca la politica. Manca soprattutto quel tipo di politica che Paolo VI definì “la più alta forma di carità, di servizio”. Al posto della politica ci sono oggi gli interessi da garantire per sé e per i propri amici e clienti. Del resto, finita la politica, cancellato il bene comune, le istituzioni diventano strumento per raggiungere altri obiettivi. La cosa più grave che sta accadendo è che gli interessi e gli obiettivi da raggiungere e garantire, spesso, troppo spesso, sono illeciti, immorali, illegittimi. Diversi eletti, ma ovviamente anche e soprattutto diversi amministratori, sono spesso coinvolti in vorticosi giri di affari, sono corrotti e corruttori, praticano un clientelismo sfacciato, garantiscono soprattutto parenti, amici e clienti. Nessuno è in grado di fermare questo andazzo. Finita la politica, crollati gli ideali, cancellati i partiti tutto è possibile. Quando tornerà la Politica? Quando avremo nuove forme di partito? La crisi, ovviamente, non si ferma ai livelli locali delle istituzioni. Attraversa in questi giorni anche il Parlamento nazionale e provoca la caduta del governo dopo meno di un anno dalla sua formazione. In questo caso la crisi è prima di tutto “politica”, l’instabilità è provocata dalla frammentazione del sistema dei partiti, manca un grande partito che guidi il percorso politico e sostenga con determinazione e forza l’azione del governo. Una crisi di governo senza sbocchi positivi causerebbe un grave danno al Paese e alla sua economia finalmente in ripresa. La crisi della politica provoca la crisi della società. O viceversa. Fatto sta che è tutto il Paese che oggi è malato, quindi anche le sue Istituzioni. Il malcostume e la corruzione colpiscono un po’ tutti. Basti vedere l’alto numero di indagati e sotto processo fra i consiglieri regionali della Calabria e addirittura nel Parlamento della Repubblica. Come se ne esce da questo quadro così nero? Non è possibile dirlo. La speranza è che toccato il fondo si possa rapidamente risalire in superfice. Ma… il fondo lo abbiamo veramente toccato?
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La famiglia fra speranze e paure
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erché la famiglia è in crisi? Perché la coppia si rompe già nei primissimi anni di matrimonio e anche in età avanzata? Sono veramente così pericolosi i Dico per la famiglia? Nessuno di noi ha certezze davanti ad una crisi così forte della famiglia. Però alcune considerazioni soggettive si possono e si devono fare. O almeno tentare di farlo. La famiglia, si dice, è in forte crisi da almeno trent’anni. Non è esattamente così. La famiglia, fino ad epoche non troppo lontane, era costretta a rimanere unita soprattutto dall’impossibilità della donna moglie-amante-madre di potersi “ribellare”. Il padre-padrone impediva qualsiasi via di fuga. Così pure le leggi all’epoca vigenti dettate da una società fortemente chiusa. Nel Sud, soprattutto, il rischio di emarginazione sociale per la donna che lasciava il marito era fortissimo. La famiglia, si dice ancora, è diventata più debole e più fragile perché il mondo si è “aperto” ed è cambiato radicalmente. Questo è vero se ci si riferisce al mondo e alla cultura occidentali nell’epoca del consumismo e del benessere diffuso. In altre parti del mondo e in altre società, la famiglia è ancora costretta a rimanere unita anche quando non vi è più amore e nemmeno rispetto reciproco. La donna nella società occidentale moderna è divenuta più libera, più capace di fare libere scelte e di prendere decisioni coraggiose, ha meno paura ed è più indipendente. In altre società la donna è ancora schiava e vittima di assurde violenze. L’uomo, si sostiene ancora, è divenuto, nella nostra società, più debole, incapace di accettare e interpretare serenamente un nuovo ruolo, non ha più come in passato il potere di decidere per tutta la famiglia, è entrato in crisi di identità. C’è molto di vero in questo, ma non basta a motivare la crisi della famiglia. Il
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rapporto genitori-figli, si osserva ancora, è tra le cause della crisi della famiglia. In effetti, il rapporto genitori-figli è veramente molto diverso rispetto al passato. I figli “crescono” molto più rapidamente, sono più autonomi, hanno un diverso e spesso contrastante stile di vita, hanno maggiori risorse a disposizione, entrano più facilmente in rottura con i genitori, ricevono tantissimi stimoli e “messaggi” dal mondo esterno che non sempre riescono a “decodificare”. Paradossalmente, però, rimangono più a lungo in famiglia, si sposano o se ne vanno via da casa molto tardi, oltre i 30anni. Un’altra causa dell’indebolimento della famiglia, è quello che molti sostengono, è lo stressante e caotico stile di vita che lascia poco tempo libero per sé e per i propri cari, costringe i genitori a vivere per molte ore lontani da casa, crea nevrosi e sensi di colpe, genera incertezza e paura. Questo è vero fino in fondo: la famiglia moderna non ha più tempo per sé, non riesce a vivere insieme, è troppo spesso distante e separata. Ma la famiglia ha anche meno risorse finanziarie a disposizione. Teme per i propri figli. Non riesce più a programmare il proprio futuro. In una famiglia così sconquassata, in piena crisi, troppo debole e oppressa, accadono troppo spesso i fatti più tragici. Fra le mura domestiche si consumano drammi spaventosi e si versa tanto sangue! Famiglia spaventata, famiglia più debole, famiglia che si rompe presto e facilmente, perché tanto niente e nessuno riesce a tenerla unita con la forza (per fortuna!). Davanti a questo quadro, è il concetto stesso di famiglia che cambia, si dilata e si contrae nello stesso tempo. Davanti a ciò il legislatore può e deve fare qualcosa: aiuti, incentivi, sostegni per far quadrare i conti delle famiglie italiane saranno annunciati nella Conferenza nazionale della Famiglia di fine maggio, promossa dal Ministro Rosy Bindi che ha molto chiaro il quadro degli interventi necessari e, giustamente, chiede a tutto il Governo di farne il primo dei problemi del Paese. Nessuno, però, si illude che questo basti, pur essendo ormai indispensabile. Bisognerebbe, piuttosto, cambiare radicalmente il nostro modello di vita, i tempi e i ritmi della nostra società, l’organizzazione del sistema produttivo e del mondo del lavoro. Tentando così di mettere al centro della vita sociale la famiglia, facendola “respirare”, dandole maggiore tempo libero e più servizi a sostegno. C’è bisogno di ricavare più tempo libero da dedicare ai problemi, alle esigenze e ai piaceri della vita in famiglia. Il tutto, come si potrà capire facilmente, è terribilmente difficile da realizzare, ma questo non significa che non ci si possa provare. Detto questo, ritorniamo alla domanda iniziale sui Dico, i diritti che una proposta di legge del Governo 54
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prevede per chi convive. Sono tante in Italia le coppie che convivono, tanti coloro che stanno insieme senza alcun obbligo. Prevedere diritti e doveri per queste coppie può e deve essere necessario. Lo Stato non può chiudere gli occhi davanti alla società che cambia, alla famiglia che si trasforma. Nei tempi e nei modi più opportuni, il legislatore deve intervenire. I Dico sono solo una delle diverse proposte di legge presentate in Parlamento. Sarà compito dei parlamentari analizzarle con serenità e, Dico o non Dico, trovare una sintesi per regolare le convivenze. È il caso di dire che non si tratta di mettere in piedi nuovi istituti familiari o prevedere matrimoni fra omosessuali (ma chi ne ha mai parlato? Nemmeno gli stessi gay, e a ragione, ci chiedono questo!). La famiglia è una e una soltanto, come del resto prevede la Costituzione italiana. Altra cosa sono le libere convivenze che, ripetiamo, vanno regolate per legge per evitare forme di anarchia che non appartengono ad un società civile. Se abbassiamo i toni della polemica faremo del bene e lasceremo più tranquillo il legislatore che deve decidere. Come, del resto, è accaduto in tutta Europa da tempo. Ma, come detto sopra, i problemi della famiglia sono ben altri. E sono drammaticamente gravi!
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La politica e… la voglia di sacro!
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n questo momento stiamo costruendo in Italia un partito nuovo di zecca. Per fare un partito ci vuole un progetto. Di più: per fare un buon partito, oltre al progetto ci vuole un’anima. Sin dal secolo scorso, viviamo un’epoca che sembra aver tolto, direi eliminato, l’anima alle cose. È una società fredda la nostra, che oggi scopre il bisogno di guardare in alto. Più in Alto. «La politica ha bisogno di sacro - scrive Hulien Ries - oppure sparisce». Per sacro si intende ideali, valori, simboli, bandiere, miti. Perché un partito è come una piccola chiesa: ha il suo credo, un libro fondamentale, riferimenti storici, un culto, qualche leggenda, gli uomini che sanno interpretare i segni dei tempi. E chi tende ad escludere il sacro dalla politica, dalla società, si illude. Non sarà mai così. Il sacro, alla fine, ritorna sempre. La democrazia tende ad escludere l’anima alle cose, anche ai partiti, come alla società, alla cultura, all’economia. Oggi si pensa che la politica debba dare risposte esclusivamente alla gente (cioè risolvere i problemi, costruire ricchezza e benessere, creare le migliori condizioni per vivere degnamente). In realtà, facendo così abbiamo creato un immenso vuoto. Ed ecco che, alla fine, il vuoto si colma in altro modo, si riempiono le piazze (e c’è qualcosa di “sacro” nelle piazze: quelle che protestano contro chi governa, quelle che inneggiano alla famiglia, quelle che chiedono diritti per pensionati, professioni, gay e via dicendo). Spesso (è accaduto in passato in Europa, nell’Unione Sovietica) si forma il culto delle personalità: per i grandi dittatori del 20° secolo, ad esempio. Anche queste sono forme, sebbene alternative, per
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rispondere al bisogno di sacro. Ecco, noi che oggi cominciamo la costruzione di un nuovo partito, non possiamo immaginare che un partito serva a dare risposte alla gente in termini di soddisfazione del bene comune e degli interessi personali. Non è così: è chi governa che mira al bene comune. Chi fa politica, chi fonda un partito deve puntare ad un progetto, ad un’idea di società, ad un programma fatto di valori, di etica, di principi. La politica, i partiti, vivono di simboli, di ideali. L’uomo di oggi cerca un simbolo, una fede, un ideale. E non sempre li trova. Il partito ha quindi bisogni di simboli, di ideali, di progetti. Ha bisogno di un’anima. Se noi costruiamo un partito senz’anima, avremmo fatto un partito destinato a finire presto. Abbiamo tutti bisogno di dare al Paese una speranza, un’idea, un progetto per il futuro. Solo così faremo un grande partito. Il partito del nostro futuro. E queste cose, Veltroni e Franceschini le sanno e le incarnano benissimo.
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Quella donna che parla al cuore!
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a anni sentiamo parlare di lei. Una donna “antica”! Capace di stupire la distratta società moderna con la sua sconvolgente sofferenza. Una donna povera, semplice, eppure straordinariamente ricca! Una donna ignorante, che non ha mai studiato. Ma per qualcuno è capace di parlare lingue straniere, di trovarsi contemporaneamente in più posti, di sentire la voce dei morti, perfino di prevedere il futuro e di sapere il passato di chi gli sta di fronte. Mah!... di queste cose non saprei cosa dire, non sono attrezzato a farlo. Sono un credente “adulto”, un cattolico praticante che non ha bisogno di “effetti speciali”: non mi interessano le madonnine che piangono sangue, né i santoni di periferia, tantomeno quelli che vedono i morti e corrompono i vivi! Sono “innamorato” di Francesco d’Assisi, mi piace la forza delle idee di Gioacchino da Fiore. Sabato scorso, al termine di un incontro di lavoro a Lamezia Terme, mi avvio verso uno sperduto paesino a circa un’ora di macchina. Uno di quei comuni dell’entroterra calabrese dove il tempo sembra essersi fermato a 30-40 anni fa: le donne anziane stanno ancora davanti al pianerottolo di casa a parlare e discutere. Tutto intorno è tristezza e anche desolazione. Ho un appuntamento con la donna della quale molti hanno scritto cose incredibili: «Ha ricevuto il dono delle stimmate ed ogni anno rivive sul suo corpo la Passione di Cristo in croce; suda sangue…. Ha ricevuto il dono della bilocazione… la veggente opera guarigioni;… parla lingue straniere pur non avendole studiate. Oltre la Madonna, ha visioni di Gesù, dell’angelo custode, di santi e di vari defunti, con i quali
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può dialogare. All’età di 10 anni le apparve san Francesco da Paola» (M. Gamba). Ma la definizione più bella è di un giovane studioso calabrese (S. De Bonis): «Ho avuto modo di conoscerla, è stato un incontro toccante, mi ha detto cose incredibili, l’umiltà disarmante mi ha fatto capire che è attraversata dal mistero». Entro nella bella struttura per anziani che la veggente ha fatto costruire con la sua Fondazione: tanta gente attende, qualcuno prega nella cappella che non basta più, ed infatti nei pressi si sta costruendo una Chiesa. Una donna che sembra una suora mi accoglie con un bel po’ di diffidenza: «Non è possibile che lei la incontri, sta male. Chi le ha dato l’appuntamento?». Mi siedo e attendo a lungo il sacerdote che ho inseguito tre mesi al telefono. Arriva e mi accoglie con cordialità e mi accompagna dalla veggente. Poco più avanti incontriamo l’anziano prete che è responsabile della comunità. Si meraviglia che io, in quanto parlamentare, sia da solo, senza autisti né accompagnatori, “come fanno tutti i politici”! Gli spiego che io viaggio sempre da solo o con qualche amico che me lo chiede. Nel frattempo arriviamo all’appartamento della veggente, assolutamente semplice e modesto. E qui rimango da solo ad aspettarla per un paio di minuti. La vedo arrivare stancamente, è molto anziana, provata dai segni del Venerdì di Passione ancora ben evidenti sui polsi (ma perché nessuno riesce a spiegarci questo fenomeno?). Un sito internet sull’ateismo scrive che: «l’ipotesi di autolesioni - o peggio, di lesioni provocate da altri - sembrerebbe quantomeno realistica, anche se un po’… indigesta! Queste sono ustioni da sigaretta oppure “stimmate”?». A me pare una tesi assai debole. Intanto l’anziana donna mi fa accomodare su una poltroncina. Sono andato da lei senza sapere cosa dirle, senza avere nulla da chiederle, senza pretendere risposte, guarigioni o miracoli. Voglio ascoltarla semplicemente. E lei con una estrema dolcezza e con uno sguardo misterioso e profondo, mi parla del…. potere, della ricchezza. E dei politici: «Non affezionarti al potere, né ai soldi: sono cose che passano. Fai tutto con umiltà. Tu sei intelligente, sai distinguere il bene dal male. Quando sei entrato, l’Angelo non si è rabbuiato come a volte accade!» Mi sorprende che abbia subito affrontato questi temi. E anche come poi li abbia approfonditi. Parla lentamente e con fatica, eppure è chiarissima, colpisce a fondo. La sua è come una lezione di morale politica, di etica. Mi parla dell’umiltà nell’azione quotidiana, insiste nel concetto di potere a servizio degli ultimi. Frasi fatte? Può darsi. Concetti scontati? Anche. Ma detti in quel momento, in quel modo, con quello sguardo che ti entra dentro e ti conquista hanno tutto un altro sapore. 60
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Poi mi parla di quanto siano freddi e avari i ricchi e i potenti. M chiede di passare parola per aiutare la sua Fondazione che soccorre le persone sole. Non chiede soldi, non pretende suppliche né impone nulla a chi l’ascolta. Chiede solo aiuto per i più deboli. E nella struttura da lei voluta ci sono almeno una ventina di anziani soli che vivono lì. E c’è un via vai di persone semplici, di gente bisognosa che bussa alla porta di questa vecchia donna calabrese. Prima di congedarmi (e con me si è trattenuta piuttosto a lungo!) mi stringe le mani tra le sue, continua a “pugnalarmi” con la sua dolcezza, mi dona un crocifisso per me e per la mia famiglia: «Tu hai una bella famiglia. La famiglia è tutto. Ricorda che senza la famiglia non si fa nulla; l’uomo è perso senza una famiglia!» Ancora parole scontate e ovvie? Non saprei. Torna il ragionamento di prima: questa donna di 83 anni, che da quando ne aveva 10 soffre pene indicibili, suda sangue, è sola nel suo dolore, è povera e analfabeta… eppure dice cose straordinarie nella loro semplicità. Almeno a me. Me ne vado quando il pomeriggio scivola lentamente nella sera. Sono solo in auto, rientro per Cosenza pensando a quella vecchietta che il mondo dei credenti venera già come una santa. La Chiesa non l’ha mai liquidata come fa con la pratica della solita santona di periferia, o come la centesima madonnina che piange sangue. C’è dell’altro. C’è di più nella mistica di Paravati. Natuzza conquista con la sua sconcertante semplicità, perché è figlia della sua estrema sofferenza. Merita ammirazione, per ora. Rispetto sempre. Non fosse altro per il suo sguardo profondo che ha dato conforto a tanta gente povera e umile. E già in questo c’è dello straordinario.
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Pane e companatico
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chierato ai blocchi di partenza, col fresco titolo di studio stretto nel pugno, comincia la staffetta più o meno solitaria del giovane in cerca di lavoro. L’immagine è suggestiva: lo sparo dello starter, l’avvio stentato, la reazione orgogliosa dipinta sul volto e trasmessa alle gambe, le braccia in cielo al taglio del traguardo. Un gesto esemplare per comunicare che in un circuito meritocratico talento e tenacia scavalcano con agilità qualsiasi ostacolo e calpestano le insidie che frenano la riuscita professionale. Proponendo le medesime immagini al rallenty, si assiste ad uno smottamento di tutta quest’apologia dell’impegno, della retorica del “self made man”, che crollano sotto il peso di una realtà meschina. Inquadrature impietose mostrano che il vincitore è tutto fuorché un eroe. Allargando il campo, si scopre che l’intera corsa è viziata da irregolarità e animata da uno spirito poco nobile. Non tutti partono sulla stessa linea e i più avanzati hanno pure la fortuna di affidare il testimone a compari dal fiato corto e dalla grossa stazza che, nonostante l’inadeguatezza fisica, riescono a far salire i propri figliocci su un podio con premi contati ma ricchi. Nessuno prende in consegna il testimone dei partecipanti assegnati alle corsie sfavorite. Penalizzati anche da un fondo accidentato, che regala loro un equilibrio precario ed escoriazioni sparse per le ripetute cadute, i peones terminano la gara fuori tempo limite. Si rifaranno mendicando un aiuto o gareggiando in campionati meno “competitivi”. Proprio a questi ultimi chiediamo di posare per un ritratto semiserio dei giovani disoccupati calabresi, consapevoli che un ritratto
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non è mai oggettivo ma intimamente legato al suo autore. Questo che tratteggiamo non vuole elevarsi a paradigma, né avere pretese sociologiche. Lontanissima poi l’intenzione di appesantirlo con patetiche pennellate di vittimismo. Molti giovani che hanno trovato facilmente lavoro non si riconoscerebbero. Altri che il lavoro non lo cercano, ancor meno. Chi è allora il giovane disoccupato calabrese? Seguiamolo nei suoi spostamenti, affidandoci al racconto di un ideale protagonista. È doveroso anzitutto restituire alla locuzione l’originario significato: un ragazzo/a sotto i trent’anni che cerca un lavoro dopo averlo perso. Da noi, invece, l’espressione ha conosciuto un progressivo allargamento semantico, per cui, oggi, è indossata con disinvoltura anche da quarantenni che non hanno mai lavorato, almeno nei canali ufficiali (inoccupati). Prima stazione di una lunga serie: il collocamento. Dove la domanda s’incontra con l’offerta. Peccato che quest’ultima marchi spesso visita e, quando si affaccia, scorre parallela rispetto alle esigenze di chi ha l’anagrafe contro e attestati ridondanti per le figure richieste. La nutrita fila di potenziali concorrenti, più titolati nel bisogno e con un’anzianità maggiore, irrobustisce subito la tua convinzione di desistere. Godendo ancora un po’ dell’aria climatizzata diffusa nell’elegante ufficio, con la prima delusione in tasca, si fa un salto in città a caccia di un appetibile “Cercasi” all’ingresso delle attività private. Ecco conquistata una prima certezza: come la merce a lungo esposta e invenduta non ha incontrato il favore dei consumatori per qualche incontestabile ragione, così è indice di scarsa affidabilità un lavoro troppo pubblicizzato e snobbato dai più (cifra al netto degli scansafatiche e di coloro che pretendono trattamenti impensabili per le nostre realtà, sebbene previsti dalle leggi). Nell’attesa di esser convocati per i lavori più allettanti, quelli che a giochi già fatti ti scartano per un’unghia incarnita o peli superflui, si ottiene un colloquio con titolari più “democratici”. Gli autori, per capirci, dei volantini seminati per le strade, gli inserzionisti dei giornali locali, che offrono lavori dinamici ed innovativi, destinati “solo” a gente intraprendente e con sviluppate attitudini alle relazioni interpersonali. La formulazione dell’annuncio è ambigua e la sagoma da produttore di film porno di chi ti accoglie non aiuta a dissipare i dubbi. Sciolti solo quando, con modi spicci e sicuri, il responsabile ti offre un centinaio di euro esentasse per acquistare la tua serietà e l’incondizionata dedizione da profondere in un lavoretto flessibile negli orari e nei contenuti. Alla prima intemperanza sindacale si è messi alla 64
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porta. Ammonimento che acquista forza grazie all’esercito di sostituti disposti ad accettare condizioni anche più modeste, alimentando così un cinico gioco al ribasso dei diritti. Simili angherie, se temporanee, sono spesso sopportate: col poco non si sbarcherà il lunario, ma il niente è peggio. La gavetta è comunque uno step irrinunciabile, in cui prendere a morsi tutto il sapere che ti trasmettono per affrancarsi presto dallo sfruttamento (pagamenti in posta e ordinazione dei caffé compresi). Ciononostante, strappata una testimonianza all’impiegato lì presente, realizzi di aver di fronte un eterno tirocinante, per la precarietà dei diritti e non certo per l’esperienza maturata. Un dipendente invisibile, mai nato per l’anagrafe del lavoro, che, ripetutamente spinto sott’acqua, insiste a lavorare di polmoni, motivato da una promessa di emersione sempre imminente, sempre calciata in avanti. Decidi allora di alzarti e puntare agli uffici pubblici. I muri sono sempre più nudi: non ci sono bandi di assunzione e quei pochi vengono affissi in ritardo. Gli addetti alle informazioni accolgono la tua richiesta con la collaudata coreografia spallucce e sorriso compassionevole, aggiungendo che non sono a conoscenza di nulla e rimandandoti alla Gazzetta. Ma dinanzi alle tue insistenze, che acquistano peso per il corretto e inatteso italiano col quale sono espresse, gli interpellati aggiustano il tiro: «Manca il personale preposto e… lo scotch! Nel timore che si sgualcissero, la collega, che ora non c’è, li ha messi al sicuro». Non riuscendo ad ottenere informazioni ufficiali, arbitrariamente secretate, a sfilare indiscrezioni ai ragazzi lì presenti, tuoi potenziali competitori, si gioca d’astuzia e, attraverso una serie di intercettazioni che farebbero impallidire Woodcock, si compie il miracolo della materializzazione del bando e addirittura della rispettiva domanda, prontamente compilata e consegnata. Ci si presenta nel luogo indicato per sostenere la prova, rinunciando sprovvedutamente a farsi accompagnare da familiari e, cosa più grave, da chi dovrebbe farne le veci. Ti assale subito il dubbio di esser capitato in un raduno folk di coppie tirolesi: i buffetti, le pacche sulle spalle, i calci che si scambiano, sono figure tipiche proprio di una danza. E, invece, è solo affetto, sostegno, e lo capisci quando, entrata la commissione, le coppie si separano. Ma il concorsista non dispera. Sa bene che il suo mecenate è lì a svolgere la prova con lui. Simbolicamente. L’esito della stessa è deludente. Frustrante, quasi provocatorio, il responso-beffa che soffoca le velleità degli “idonei ma non vincenti”. Guardando i “tirolesi” festanti, ti convinci che era questione di predestinazione. 65
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Per consolarti, pensi che nel ricco Nordest l’aspirazione più frequente e prestigiosa è quella di diventare imprenditori, altro che burocrati. Perché non tentare allora l’avventura di mettersi in proprio? Si è giovani, le forze non mancano, come pure la creatività. Per non contare la soddisfazione di dar vita ad una creatura senza dipendere da altri, grazie anche ai generosi finanziamenti europei. Ma gli incontri preliminari con i travet della burocrazia si risolvono in ripetute secchiate d’acqua che spengono le ambizioni di impresa. Cancellate definitivamente anche dalla preoccupazione di tenere una doppia contabilità, come molti usano da queste parti. Lo sconforto sta recuperando terreno sull’entusiasmo iniziale. Prima di preparare la valigia, vale la pena giocarsi l’ultima carta. Quella che tutti sono pronti a deplorare… quando non ne beneficiano: la raccomandazione! Il pensiero indecente non è coltivato per appropriarsi abusivamente di un privilegio. Nelle retrovie si soffre la solitudine. Ben venga allora una spinta: andrà contro la tua morale, toglierà autorevolezza ai je accuse sputati fino a ieri sul malcostume e le ingiustizie, ma ridurrà la distanza rispetto ai tanti, troppi, che ti precedono. Anche per socializzare, scambiare due battute, sarà terapeutico affiancarli. Andando alla ricerca di un padre putativo ti scontri con una moltitudine di pseudo-orfani che, al pari tuo, rivendica attenzioni. Si può prevalere solo attraverso un serrato passaparola interparentale, interamicale, un paziente lavoro delle rispettive diplomazie. La scalata è faticosa, le pareti ripide, ma se riesci a sincronizzare i tuoi bisogni con la stagione dell’amore di certi politici, le elezioni, saranno loro stessi a tracciarti il sentiero per esser raggiunti più in fretta. Scovato l’oggetto del desiderio, non resta che persuaderlo affinché s’interessi al tuo caso, che va a riempire una fitta agenda di aspiranti adepti ordinati per censo, numero e peso dei notabili conosciuti (da mettere sul banco e, all’occasione, scambiarsi come figurine), effettive necessità. L’approccio a questi factotum della città, presenti anche all’esterno del recinto politico, si complica quando non si ha molto da offrire e bisogna ripiegare solo sulle tattiche seduttive. Esse si rivelano talmente devastanti per la propria autostima che è consigliato agire in stato di semi-incoscienza. L’effetto rebound potrebbe essere severo in caso di mancata accoglienza delle proprie istanze e di sopravvenuta lucidità. Con la personalità in cantina, ci si dedica ad un’adorazione feticista del presunto benefattore: leccate prolungate e convulse, pratiche masochiste nelle quali ci si offre come zerbino ecc. Il terreno su cui bruciare gli antagonisti resta, però, quello dei cestini. 66
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Recapitare prelibate leccornie a scadenza fissa è un gesto semplice per sdebitarsi, ma anche un passaggio necessario per far bella figura e guadagnare posizioni nelle preferenze del destinatario. Al legame di sangue che non si può vantare (che darebbe diritto al massimo dei punti), si sostituisce quello della strenna: artificiale ma dignitoso, ad una stretta incollatura, per importanza, dal più pesante legame d’affari. Nel giorno della premiazione si spalancano le porte di un call center. Poca roba guardando gli altri, ma un impiego a cinquecento euro per sei mesi è un discreto inizio, migliorabile magari con una corte più audace. Non pesa star seduti per ore, sfidando le piaghe da decubito. Incollati sulla poltroncina in similpelle, ci si alza solo per i break fisiologici o per schivare gli improperi lanciati da interlocutori che, all’ennesimo corso d’inglese proposto, dichiarano tutto il loro odio per la lingua e, di riflesso, per te che li hai disturbati in un orario non adeguato. Si vuole comunque dare il meglio, ma l’eccessiva intraprendenza, nonostante la mansione non si presti a contributi originali, è censurata dai tutor: emergere rispetto agli altri è politicamente scorretto. E poi spariglia il “servizio”. Servizio che viene dismesso in blocco alla fine dei sei mesi, non risparmiando neppure i pezzi pregiati. L’azienda chiude. La crisi induce il tuo padrino a cancellarti dalla stato di famiglia, già densamente abitato da congiunti e compari. Non c’è cestino riparatore. «Senza uno che ti porta, è inutile muoversi nelle nostre zone per una sistemazione». Questo costante e fastidioso ronzio, prodotto da sedicenti uomini di mondo che spacciano previsioni da menagramo per consigli, attraversa le tue orecchie, che invece vorrebbero sentire altro. Dopo numerosi tentativi a vuoto, il ruolo di queste Cassandre, sfortunatamente, comincia ad essere credibile. Il tempo scorre, il panico aumenta, la sensazione di inutilità sociale pesa come un macigno e t’inchioda al letto, unico rifugio inaccessibile ai senza tatto di mestiere, impareggiabili ad affondare il dito nella piaga. Dover ricorrere ancora alla “paghetta” dei genitori è avvilente. Per liberarsi dallo strisciante sconforto e sbarrare la strada a bestie a lui simili e anche più feroci, ci si aggrappa ad argomenti non sempre plausibili ma utili per non scivolare. Guardare al lavoro perso come un parcheggio in cui si teneva fermo il proprio talento, mentre la corsa si svolgeva altrove, è un primo tassello per ricostruire la fiducia nei propri mezzi. Il puzzle si completa con la stima di chi ti circonda, un immancabile richiamo 67
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alla preminenza della salute e una fisiologica rassegnazione. Forse, quanto successo, è stato il giusto contrappasso per aver ceduto alle lusinghe di un meccanismo deviato in cui sedotti e seduttori sono correi. Un ingranaggio infido che prima o poi si ritorce contro gli stessi che lo hanno azionato. Il pur comprensibile alibi del bisogno non scagiona chi chiede favori sollecitando la trasgressione delle regole. Avallare un sistema corrotto non dà diritto a lamentarsi quando poi si diventa vittime del medesimo. E non è accettabile neppure lavarsi la coscienza, motivando l’adesione ad esso con la tesi che tutti lo fanno. Ancor più grave, inappellabile, è il giudizio che pende sulla testa di quanti modellano le regole con discrezionalità e si spendono per costruire isole di potere in cui soggiornare con i clienti più appetibili. Gli assistiti con poca carne, divenuti assistenti dequalificati, vengono lasciati al largo e fatti approdare solo quando c’è da consolidare il proprio perimetro d’influenza. La claque applaudente ma non pensante, per un piatto di minestra s’impegna a sostare sotto i palchi, dai quali si tuona contro l’illegalità, il naufragio dell’etica, la morte dell’opinione pubblica. Con rinnovato spirito, si tenta di imprimere una svolta alla propria vita. Quella decisiva. Si amplia il raggio di ricerca e dopo l’ennesimo annuncio stile “cane che si morde la coda” (cercano giovani con esperienza, ma come farsela se non te ne danno la possibilità?), finalmente ecco quello tagliato su di te. Sali al Nord, colloquio, assunzione: percorso netto! È vero, c’è un periodo di prova da superare, ambientarsi sarà duro all’inizio, ma i presupposti per far bene ci sono tutti. Tornato a casa a prendere le ultime cose, gli stessi saggi che avevano scambiato il desiderio di rimanere a lavorare nella tua terra per svogliatezza, spiazzati dalla novità, e dovendo esser coerenti fino in fondo col loro compito di detrattori, ti rinfacciano che il paese invecchierà se le forze più vitali andranno via. La voglia di esplodere è incontenibile, ma preferisci risparmiare le energie. Sono passati dieci anni da quel giorno. Ci si è realizzati professionalmente e negli affetti. Durante la cena, seguendo i titoli del tg, ce n’è uno che ti riporta alle origini: «Calabria: bloccare la fuga dei cervelli». Lo accogli con disincanto, sarcasmo, malinconia, tracce residue di rabbia per un affetto ancora profondo che non puoi vivere quotidianamente. Ma a prevalere su tutto è la commozione, che nascondi ai tuoi cari dietro una maschera di cinismo. Lo stesso con cui inviti la tua compagna a cambiare canale: quel programma lo hai già visto troppe volte!
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Ma il cielo è sempre più blu
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d esempio a me piace la strada, col verde bruciato, magari sul tardi, macchie più scure senza rugiada, coi fichi d’India e le spine dei cardi. Ad esempio a me piace vedere la donna nel nero, nel lutto di sempre, sulla sua soglia tutte le sere, che aspetta il marito che torna dai campi». Così Rino Gaetano nel descrivere la Calabria in una sua splendida canzone. Salvatore Antonio Gaetano nasce a Crotone nel 1950. A dieci anni, segue a Roma i genitori, impiegati come portieri di uno stabile. Gli inizi sono duri, la sua espressione artistica non trova consensi. Nel cuore e nell’anima gli rimane sempre la sua terra. La sua Crotone che ricorda con dolcezza e malinconia: «Poi mi piace scoprire lontano il mare, se il cielo è all’imbrunire seguire la luce di alcune lampare, e raggiunta la spiaggia mi piace dormire». Leggere i versi di amore di Rino verso la Calabria, viene in mente il più grande poeta e cantore delle bellezze di questa terra, Leonida Repaci: «Quando fu il giorno della Calabria… Dio distribuì i mesi e le stagioni alla Calabria. Per l’inverno concesse il sole, per la primavera il sole, per l’estate il sole, per l’autunno il sole. A gennaio diede la castagna, a febbraio la pignolata, a marzo la ricotta, ad aprile la focaccia con l’uovo, a maggio il pescespada, a giugno la ciliegia, a luglio il fico melanzano, ad agosto lo zibibbo, a settembre il fico d’India, a ottobre la mostarda, a novembre la noce, a dicembre l’arancia. Volle che le madri fossero tenere, le mogli coraggiose, le figlie contegnose, i figli immaginosi, gli uomini autorevoli, i vecchi rispettati, i mendicanti protetti, gl’infelici aiutati, le persone fiere, leali, socievoli e ospitali, le bestie amate. Volle il mare sempre viola, la rosa sbocciante a dicembre, il cielo terso, le campagne fertili, le messi pingui, l’acqua abbondante,
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il clima mite, il profumo delle erbe inebriante». Rino non ottiene subito successo. I primi anni sono aspri, molto duri. Roma è una città difficile, il mondo dello spettacolo ancora di più. Ma con Il cielo è sempre più blu, un brano trascinante di 8 minuti e mezzo (diviso in due parti), esplode, a metà anni ’70, il fenomeno Gaetano. Il testo è semplice e leggero, all’apparenza. Si tratta di una lunga e completa elencazione di un mondo fatto male, dove, però, disperazione, angoscia e sconfitte lasciano, alla fine, il posto alla speranza. Tutto quello che accade e che tormenta l’uomo finisce in un solo istante: alzando gli occhi al cielo. Nel cammino eterno del tempo, la vita può conoscere uno spazio libero e nuovo, appunto: il cielo è sempre più blu: «Chi vive in baracca, chi suda il salario, chi ama l’amore e i sogni di gloria, chi ruba pensioni, chi ha scarsa memoria. Chi mangia una volta, chi tira al bersaglio, chi vuole l’aumento, chi gioca a Sanremo, chi porta gli occhiali, chi va sotto un treno. Chi ama la zia, chi va a Porta Pia, chi trova scontato, chi come ha trovato. Ma il cielo è sempre più blu. Ma il cielo è sempre più blu. Chi sogna i milioni, chi gioca d’azzardo, chi gioca coi fili, chi ha fatto l’indiano, chi fa il contadino, chi spazza i cortili, chi ruba, chi lotta, chi ha fatto la spia. Ma il cielo è sempre più blu. Ma il cielo è sempre più blu. Chi è assunto alla Zecca, chi ha fatto cilecca, chi ha crisi interiori, chi scava nei cuori, chi legge la mano, chi regna sovrano, chi suda, chi lotta, chi mangia una volta, chi gli manca la casa, chi vive da solo, chi prende assai poco, chi gioca col fuoco, chi vive in Calabria, chi vive d’amore, chi ha fatto la guerra, chi prende i sessanta, chi arriva agli ottanta, chi muore al lavoro. Ma il cielo è sempre più blu. Ma il cielo è sempre più blu. Ma il cielo è sempre più blu. Chi è assicurato, chi è stato multato, chi possiede ed è avuto, chi va in farmacia, chi è morto di invidia o di gelosia, chi ha torto o ragione, chi è Napoleone chi grida “al ladro!”, chi ha l’antifurto, chi ha fatto un bel quadro, chi scrive sui muri, chi reagisce d’istinto, chi ha perso, chi ha vinto, chi mangia una volta, chi vuole l’aumento, chi cambia la barca felice e contento, chi come ha trovato, chi tutto sommato, chi sogna i milioni, chi gioca d’azzardo, chi parte per Beirut e ha in tasca un miliardo, chi è stato multato, chi odia i terroni, chi canta Prévert, chi copia Baglioni, chi fa il contadino, chi ha fatto la spia, chi è morto d’invidia o di gelosia, chi legge la mano, chi vende amuleti, chi scrive poesie, chi tira le reti chi mangia patate, chi beve un bicchiere, chi solo ogni tanto, chi tutte le sere. Ma il cielo è sempre più blu. Ma il cielo è sempre più blu». Dietro l’apparenza di un cantautore ironico e scanzonato, poeta del nonsense e dell’ironia, si cela la voce lacerata dei più deboli, degli emarginati, degli sfruttati. 70
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Il canto si contorce e si converte a grido rispettoso, ma non per questo remissivo: «Mio fratello è figlio unico perché non ha mai viaggiato sul rapido Taranto-Ancona; perché è convinto che Chinaglia non può passare al Frosinone, che nell’amaro benedettino non sta il segreto della felicità, perché è convinto che anche chi legge Freud può vivere cent’anni, che non esistono gli sfruttati, malpagati e frustati. Mio fratello è figlio unico, sfruttato, represso, calpestato e odiato. E ti amo Mario». «Aida come sei bella. Aida le tue battaglie, i compromessi, la povertà, i salari bassi, la fame bussa, il terrore russo, Cristo e Stalin» Rino era nemico giurato dell’arroganza del potere, odiava la politica, non sopportava tutti coloro che stavano sempre in primo piano: attori, calciatori, cardinali. E denunciava con ironia tagliente e mai volgare, gli scandali che sin dalla nascita dell’Italia democratica, avevano caratterizzato la vita del nostro Paese. Per lui l’Italia è Aida, bella, cattiva, arrogante e corrotta. L’Italia del fascismo, quella della Repubblica, l’Italia comunista, l’Italia senza scrupoli e spregiudicata. Così come scrive Dario Coriale: «Ah… l’Italia! L’Italia papale e vaticana; l’Italia americana; l’Italia della grande guerra e delle conquiste sperate; l’Italia della divisione… neri contro rossi… poi bianchi contro rossi; l’Italia delle soluzioni alternative… quindi del piombo; l’Italia… e basta. Poi, forse, il rimpianto per ciò che non è stato; il rimorso per quanto poteva essere altro… e il piacere sottile e sofferto di essere comunque ammirata… Aida, come sei bella!» Rino canta l’Italia sul finire degli anni ’70 quando imperversano gli scandali e la corruzione: «Lei sfogliava i suoi ricordi, le sue istantanee, i suoi tabù, le sue madonne, i suoi rosari e mille mari e alalà. I suoi vestiti di lino e seta, le calze a rete, Marlene e Charlot. E dopo giugno il gran conflitto e poi l’Egitto, un’altra età. Marce, svastiche e federali, sotto i fanali l’oscurità. E poi il ritorno in un paese diviso, nero nel viso, più rosso d’amore. Aida come sei bella. Aida le tue battaglie, i compromessi, la povertà, i salari bassi, la fame bussa, il terrore russo, Cristo e Stalin. Aida la costituente, la democrazia, e chi ce l’ha. E poi trent’anni di safari, fra antilopi e giaguari, sciacalli e lapin. Aida come sei bella». Ma Rino sa anche divertire con elegante leggerezza, nel suo stile così unico e colorato, fatto di ironia e semplicità. A sorpresa, nel 1978, va al festival di Sanremo. Di certo non è un palcoscenico a lui congeniale, ed allora si presenta come 71
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sempre a modo suo, in frac con cilindro, scarpe da ginnastica ed una chitarrina da accompagnamento. Ad una domanda sul festival e sul perché gettasse al pubblico le medaglie, risponderà con la solita ironia: «penso che Luigi Tenco dieci anni fa sia morto di noia perché da 28 anni Sanremo è sempre uguale perché non c’è la buona intenzione di cambiarlo davvero, perché tutti gli artisti, discografici, giornalisti, esperti e organizzatori non hanno mai veramente voluto rinnovarlo. (...) Ma il festival resta una passerella e come tutte le passerelle ti offre tre minuti per fare un discorso che normalmente fai in uno spettacolo di due ore. Così devi trovare un sistema. Da parte mia, ho scelto la strada del paradosso un po’ alla Carmelo Bene. (...) Tu hai tre minuti e gli ammolli ‘sto concerto: in questi tre minuti c’è una noia mortale (...). Qui nasce l’esigenza di creare delle situazioni sempre più nuove, sempre più vere, che nutrano dei fermenti di soluzione non dico di musica classica ma nel movimento il valore che riporta bla bla. Hai capito?». Rino prende coscienza del “potere” mediatico che la ribalta televisiva offre, e dimostra di saper usare con raffinata intelligenza artistica lo strumento comunicativo per veicolare la sua visione delle cose, senza mai cadere in facili e stucchevoli moralismi. La concezione della vita di Rino è fuori da ogni sistematizzazione ideologica o abbraccio consolatorio, per questo motivo la sua opera sfugge e rifugge da ogni orpello e conformismo: «Gianna Gianna Gianna non cercava il suo pigmalione, Gianna difendeva il suo salario, dall’inflazione. Gianna Gianna Gianna non credeva a canzoni o UFO, Gianna aveva un fiuto eccezionale, per il tartufo. Ma la notte la festa è finita, evviva la vita. La gente si sveste e comincia un mondo un mondo diverso, ma fatto di sesso. E chi vivrà vedrà...!» I ben pensanti di allora, appesantiti da strutture e tabù, non riuscivano a leggere la voce libera del cantautore crotonese, non sopportavano l’irridente libertà dell’artista nel mettere in vetrina vizi e cadute dell’italiano medio-borghese. Le canzoni di Rino Gaetano, sul finire degli anni ’70, ottengono in Italia un successo inarrestabile. Che si fa strada anche nel resto d’Europa. La sua denuncia è tutta invischiata nelle cose italiane, distorsioni e deliri sociali che toccavano allora il nostro Paese. È una lettura ironica, quella dell’artista calabrese, che spaesava e inquietava con disarmante intelligenza, perché irrimediabilmente e universalmente toccava il grumo di ogni umanità contorta, da qui la sua traduzione dentro ogni linguaggio storico e che arriva fino a noi con straordinaria freschezza e attualità, oggi. 72
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«A te che odi i politici imbrillantinati che minimizzano i loro reati, disposti a mandare tutto a puttane pur di salvarsi la dignità mondana!» Tutto questo si traduceva per il nostro Paese in un clamoroso sberleffo ai potenti di turno, espressione sociologica di una realtà provinciale chiusa e arrogante nei modi e negli umori; com’è magistralmente messo in opera nella canzone Nun te reggae più. Rino non salva nessuno degli uomini di potere: fossero politici, o cantanti, giornalisti o cardinali. Lui non sopporta il potere che si impone, che è invadente, chiuso, prepotente. E lo grida a squarciagola in quel pezzo che è contagioso nel suo arrangiamento, durissimo nel suo testo: «Abbasso e alè con le canzoni senza Patria o soluzioni. La castità, nuntereggae più; la verginità, nuntereggae più. La sposa in bianco, il maschio forte, i ministri puliti, i buffoni di corte, ladri di polli, super pensioni: nuntereggae più. Ladri di stato e stupratori, il grasso ventre dei commendatori, aziende politicizzate, evasori legalizzati: nuntereggae più. Auto blu, sangue blu, cieli blu, amori blu, rock and blues: nuntereggae più. Eia alalà: nuntereggae più. Pci, psi: nuntereggae più. Dc, dc: nuntereggae più. Pci psi pli pri dc dc dc dc, Cazzaniga, avvocato Agnelli, Umberto Agnelli, Susanna Agnelli, Monti, Pirelli… dribbla Causio che passa a Tardelli, Musella, Antognoni, Zaccarelli: nuntereggae più. Gianni Brera, Bearzot: nuntereggae più. Monzon, Panatta, Rivera, D’Ambrosio, Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno, Villaggio, Raffa e Guccini, onorevole, eccellenza, cavaliere, senatore, nobildonna, eminenza, monsignore, vossia, cheri mon amour: nuntereggae più. Immunità parlamentare: nuntereggae più. Il bricolage: nuntereggae più. Il quindici-diciotto, il prosciutto cotto, il quarantotto, il sessantotto, le P38 sulla spiaggia di Capocotta. Cartier, Cardin, Gucci, Portobello, illusioni, lotteria trecento milioni, mentre il popolo si gratta, a dama c’è chi fa la patta, a sette e mezzo c’ho la matta. Mentre vedo tanta gente che nun c’ha l’acqua corrente, nun c’ha niente. Ma chi me sente». Gaetano attraverso quei brani ironici e scanzonati descrive l’Italia di allora, i protagonisti, le celebrità più acclamate e le pericolose deviazioni e smottamenti sociali che l’Italia pericolosamente stava vivendo. La narrazione del cantautore non scivola nel qualunquismo. Quello di Gaetano, semmai, è una forte e coraggiosa denuncia delle ingiustizie di una società che pericolosamente e soavemente premiava i più furbi, sempre infiocchettati e pronti al bacia mani. I successi di Rino premiano un ragazzo debole, deluso, ma mai stanco di lottare, che vive in un’epoca, quella degli anni ’70, dove agli scandali, alla corruzione, alle tensioni politiche molto forti, si aggiunge il terrorismo che aggredisce il Paese 73
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e le sue istituzioni, paralizzando la normale e pacifica convivenza democratica. Rino addossa molte responsabilità al Potere, alla Politica, a tutto il sistema. E tra poesia, suggestioni e amarezza, in Ti ti ti, Rino esprime soprattutto passione, rabbia e delusione: «A te che sogni una stella e un veliero che ti portino su isole dal cielo più vero. A te che lotti sempre contro il muro, e quando la tua mente prende il volo, ti accorgi che sei rimasto solo. A te che ascolti il mio disco forse sorridendo, giuro che la stessa rabbia sto vivendo. Siamo sulla stessa barca, io e te. A te che odi i politici imbrillantinati che minimizzano i loro reati, disposti a mandare tutto a puttane pur di salvarsi la dignità mondana. A te che non ami i servi di partito, che ti chiedono il voto, un voto pulito; partono tutti incendiari e fieri, ma quando arrivano sono tutti pompieri. Siamo sulla stessa barca io e te». Il ragazzo di Calabria nonostante il successo non si ferma, continua a creare, costruire testi e musica con la stessa voglia di sempre, fatta di lotta a qualsiasi forma di sopraffazione e di prepotenza. Ironico sempre, banale mai, straordinariamente in sintonia con il pulsare della carne umana. Rino è un uomo vero, forte, coraggioso. Prima di tutto libero: «Ci sono persone pagate per dare notizie, altre per tenerle nascoste, altre per falsarle. Io non sono pagato per far niente di tutto questo», dichiara in un’intervista. E così è sempre stato, perché Rino non si è mai fatto comprare, non ha accettato mai compromessi, non ha mollato di un millimetro rispetto alle sue convinzioni. Era un artista “avanti”, avanti a tutto e a tutti. E questo lo conferma il fatto che la sua musica continua a girare fra le nuove generazioni, i suoi dischi continuano a vendere sempre di più, le sue suggestioni creano magiche e fascinose atmosfere dove ad ognuno di noi è permesso di sognare un mondo diverso. La morte se lo è portato via in quella maledetta notte del 2 giugno 1981, mentre alla guida della sua Volvo stava per tornare nella sua casa di via Nomentana. Finisce contro un camion, viene subito soccorso e portato in 5 diversi ospedali di Roma: non si trova posto per quel ragazzo in nessun ospedale. All’inizio della sua carriera aveva iscritto il brano: La ballata di Renzo in cui si narra la storia di un giovane che, a seguito di un incidente automobilistico, non trova un ospedale che riesca ad ospitarlo. Rino avrebbe dovuto sposarsi pochi giorni dopo la sua morte. La vita regala percorsi e ricorsi inimmaginabili, anche la morte vuole un proscenio tutto suo, epilogo triste e angoscioso che nulla toglie, però, alla vita che continua a germinare e segnare anche nella morte attraverso le parole della musica.
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Ad esempio a me piace il Sud Per l’ironia, la semplicità e l’intelligenza dei suoi testi, per il ritmo trascinante delle sue musiche, per lo stile graffiante, schietto, convincente, Rino Gaetano merita un posto importante non solo tra i più grandi cantautori italiani, ma anche tra i poeti del Belpaese. Basti leggere il testo de I tuoi occhi sono pieni di sale: «Amo il sale della terra, amo il sale della vita, amo il sale dell’amore, amo il sale che c’è in te. I tuoi occhi sono pieni di sale, i tuoi occhi sono pieni di sale, di quel sale mattutino che tu prendi in riva al mare, di quel sale che a pensarci ti viene voglia di guardare. Le tue labbra sono piene di sale, di quel sale mattutino che tu prendi in riva al mare, di quel sale che a pensarci ti vien voglia di baciare. Il tuo corpo è pieno di sale, di quel sale mattutino che tu prendi in riva al mare, di quel sale che a pensarci ti vien voglia di sognare. La tua mente è piena di sale, di quel sale mattutino che tu prendi in riva al mare, di quel sale che a pensarci ti vien voglia di pensare». Parole delicate e posate su una mano che seguono sogni colorati d’amore, frammenti che sanno disegnare, superbamente, la bellezza della vita. L’amore per la sua terra d’origine rimarrà per sempre immutato in Rino Gaetano. In uno dei suoi capolavori, Ad esempio a me piace il Sud, Rino scrive una vera e propria dichiarazione d’amore per i colori, i sapori, i profumi della Calabria: «Ad esempio a me piace la strada, col verde bruciato, magari sul tardi, macchie più scure senza rugiada, coi fichi d’India e le spine dei cardi. Ad esempio a me piace vedere la donna nel nero del lutto di sempre sulla sua soglia tutte le sere che aspetta il marito che torna dai campi. Ma come fare non so. Sì, devo dirlo, ma a chi? Se mai qualcuno capirà, sarà senz’altro un altro come me. Ad esempio a me piace rubare le pere mature sui rami se ho fame, ma quando bevo sono pronto a pagare l’acqua, che in quella terra è più del pane. Camminare con quel contadino, che forse fa la stessa mia strada, parlare dell’uva, parlare del vino che ancora è un lusso per lui che lo fa. Ma come fare non so. Sì, devo dirlo, ma a chi? Se mai qualcuno capirà sarà senz’altro un altro come me. Ad esempio a me piace per gioco tirar dei calci ad una zolla di terra, passarla a dei bimbi che intorno al fuoco cantano giocano e fanno la guerra. Poi mi piace scoprire lontano il mare se il cielo è all’imbrunire, seguire la luce di alcune lampare e raggiunta la spiaggia mi piace dormire». La parabola storica di un artista incrocia il proprio tempo, quello in cui vive Rino è lo spazio che presenta una stagione convulsa e febbrile per il nostro Paese. 75
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Tempo di giovani contestazioni e di vecchie affermazioni che lacerano consunte convinzioni e preparano la strada a tempi nuovi. È l’Italia pulsante e dinamica che vive il processo di modernizzazione e di pericolose conversioni quella che Rino incontra; tra sdolcinati e impegnati cantautori Rino sceglie il modulo ironico che gli permette di leggere con acume la realtà di allora. La sua narrazione è scevra da ogni partigianeria o accomodamento, il suo è un canto libero e “ribelle”, fustiga consunti costumi e pratiche morali, accetta fino in fondo la “vocazione” di uno spirito fuori dal coro, che si mette in discussione, semplicemente, narrando la vita che passa. Rino si scontra con la pesantezza stancante della vita che accetta facili compromessi e rassicuranti consolazioni, cornice spirituale dove tutto è sclerotizzato dal potere avvolgente che misura tutte le cose. Il cantautore calabrese non insegue il successo, non si adagia sul facile qualunquismo, percorre nuove strade, inediti percorsi che trovano nella pungente ironia lo strumento artistico per creare arte. Quella di Rino è un’arte che sa parlare a tutti, sa usare il linguaggio chiaro e diretto per divertire ma anche per pensare; la sua è una ricca e straordinaria sociologia umana che la musica riesce a creare e rendere comprensibile. La sua opera è un incrocio brillante e ben riuscito di fusioni di stili creativi che dimostra e attesta come la musica può assolvere, al pari di un romanzo o di un’altra espressione artistica, a valore culturale, in quanto essa ci può dare, nella sua narrazione, uno spaccato antropologico, dove risuonano emozioni e impressioni di una comunità in cammino nella storia. La vita di Rino coincide con la sua arte, la vita si identifica con la creazione fino in fondo, la sua morte prematura ne colora, misteriosamente, ancora di più la sua grandezza. Come i grandi ci ha lasciato presto, ma i suoi testi continuano a parlarci della vita, ancora adesso, perché l’eterno con la musica già ci appartiene. Rino è figlio di Calabria, nei sui testi è presente la musicalità della nostra terra, gli odori e i sapori colorano la visione delle cose, il mare è la metafora dello spazio infinito che accompagna ogni vita, luogo di un’altra possibilità, “promessa” che la vita può essere diversa, basta crederci e volerlo con un sorriso, e continuare a guardare il cielo sempre più blu...!
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Si metta l’accento sulle cose serie
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i è già detto molto sull’“operazione simpatia” ideata da Oliviero Toscani per il rilancio dell’immagine calabrese. Poco, su un antipatico siparietto, che, come riportato da un’agenzia di stampa regionale, ha avuto per protagonista il guru della comunicazione nel giorno della presentazione della campagna pubblicitaria. La spalla, suo malgrado, un giornalista che ha chiesto al creativo se il “si” senz’accento, che campeggerà su manifesti affissi in tutta Italia e sulle pagine dei più importanti quotidiani, era un refuso o una licenza poetica. Toscani ha prima indugiato, disimpegnandosi, quindi, dal rispondere. Quando la domanda gli è stata riformulata, si è scagliato contro l’interlocutore “petulante”: «Ancora l’accento, ancora lei… quelli come lei sollevano falsi problemi invece di guardare a quelli reali della Calabria… quanti calabresi se ne accorgeranno?... vorrà dire che non avete l’accento…». Domata la tentazione di brandire la matita blu dinanzi all’errore, la stessa è riemersa con prepotenza per sottolineare l’irritante atteggiamento con cui il fotografo milanese ha liquidato il giornalista. L’accento, se frutto di errore materiale, non è un problema, ma cosa grave. Come grave sarebbe intestare al beneficiario un assegno omettendo uno zero. Non ci conforta il fatto che pochi calabresi se ne sarebbero accorti. Ci offende. E ci colpisce la timidezza che ha impedito a certi colleghi, forti a casa, balbettanti appena si supera il viadotto Italia di Laino Borgo, di chieder conto su quanto la presunta (e remunerata) svista fosse da ascrivere al tocco di genio del suo ideatore o ad altra cosa più terrena.
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Toscani è un provocatore, uno che non ha filtri, capace con esiti alterni di confezionare immagini dal forte impatto emotivo. Sarebbe provinciale, affrettato, contestare a priori il suo linguaggio irriverente in cui s’intrecciano paradossi, allusioni: l’artista, spesso, dice l’opposto di quel che vuole significare. Forse, allora, ci ha dato degli ignoranti per significare altro? Stavolta il garantismo si scioglie: espressione e significato si sovrappongono. L’invito, poi, di pensare ai problemi reali della Calabria (che non contemplerebbero la grammatica), ha un retrogusto demagogico. Come dire: chi ha pochi mezzi, dovrebbe pensare a coprirsi e non pretendere un vestito pulito, senza scuciture. Essere calabresi è la nostra identità. E dovremmo indossarla senza ostentazione né pudore, ma con la disinvoltura di chi ama le proprie radici e non soffre di complessi di inferiorità. La captatio benevolentiae con cui la campagna cerca di riposizionare l’immagine dei calabresi, nasconde dietro la cifra autoironica l’ennesimo piagnisteo. Nessuno ci odia, nessuno vive per il gusto di denigrarci. Nell’Italia dei mille campanili, i pregiudizi esistono tra aree del Paese, città, frazioni di uno stesso comune. E se proprio noi siamo quelli peggio visti, il cliché non si copre con due pennellate di trucco o affidando il compito di demolizione a giovani dalla faccia pulita. La retorica del giovanilismo ha fatto il suo tempo: troppo comodo ripartire da zero coi giovani, chiamati in causa solo quando c’è da fare il lavoro sporco per ricostruire una verginità di facciata violata dagli adulti. Se il futuro sono loro, al presente dobbiamo pensare noi, operando scelte semplici ma forti con le quali recuperare la fiducia prima dei calabresi e poi degli altri. Non saremo mai i primi, forse, a dispetto dell’eccessivo ottimismo contenuto nello slogan, ma se ristabiliamo condizioni di normalità, ci porremo sempre meno l’interrogativo di come veniamo percepiti. Qualificarci oggi come i peggiori è semplice “tafazzismo”. Non si vuole nascondere la polvere sotto il tappeto. Ma così, rischiamo di calpestare pure il tappeto, offendendo e demotivando i tanti bravi e onesti calabresi che operano su un territorio difficile. Senza enfasi deamicisiana, ma con interventi concreti volti ad aiutare i meritevoli e una legalità declinata in modo più sciolto, potremo mettere a tacere i tessitori incalliti di luoghi comuni e far ritirare dalle scene quelli che con la loro negligenza (nel migliore, e quindi meno grave, dei casi) hanno contribuito ad alimentarli.
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Soltanto uno show!
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se fosse stato soltanto uno show? Un ricco, magnifico, straordinario show? Sì, uno show, di quelli ben studiati a tavolino, provato per mesi, con tanto di autori e registi. Come accadeva un tempo per Studio Uno con Mina, non certamente come accade oggi con le improvvisazioni della domenica pomeriggio in tv. Sì, deve essere andata così: un blog di grande successo, un libro milionario contro la Casta, un fiume di articoli, indagini, inchieste su alcuni dei maggiori quotidiani nazionali (Corriere della Sera, La Stampa, Il Sole 24 ore), quindi un grandioso show in contemporanea su 200 piazze italiane. Uno show di grande effetto: un palco con un comico di successo, la folla osannante, i video-collegamenti in tutte le piazze italiane. Con il botto finale: un gigantesco “vaff…” contro la politica, il potere, le istituzioni. In centinaia di migliaia a gridare un liberatorio, gigantesco vaffanc...! Perfetto, uno show davvero riuscito, uno spettacolo curato nei minimi particolari. Un gigantesco spot pubblicitario che ha portato alle stelle il comico, le sue pubblicazioni, le prenotazioni per i suoi spettacoli fino al 2015. Uno show che ha scatenato e liberato centinaia di migliaia di italiani stanchi, delusi, sfiancati. Uno show che ha dato luce per un giorno a quei cittadini depressi, agli ulivisti affranti, ai precari frustati. Tutto questo, però, ha convinto i cittadini che si trattava di qualcosa di serio, di un programma politico, di una strategia elettorale, della nascita di un nuovo partito. E qualcuno fra i potenti si è spaventato veramente. E così, per giorni,
Franco Laratta
settimane e mesi, giù con reazioni, proteste, dichiarazioni. Qualcuno ha perfino immaginato sommosse popolari, ha evocato il crollo del sistema e la fine della democrazia ad opera della piazza. E così la Casta, pur di sopravvivere, ha promesso tagli ai privilegi, si è impegnato a ridurre i costi della politica, a ridimensionare la forza del proprio potere. In pochi giorni sono state presentate decine e decine di proposte di legge per tagliare, eliminare, cancellare, ridurre, ridimensionare. In preda al panico, la Casta si è inginocchiata davanti alle altre caste. In ginocchio davanti ad un comico! E pur di restare ancora un poco al potere, ha promesso la fine di tutti i privilegi. Dalla prossima volta in poi! In pochi, veramente in pochi, cominciano ora, soltanto ora, a pensare che fosse tutto finto. Che si trattasse, per l’appunto, di uno spettacolo, un innocuo spettacolo comico ben scritto, ottimamente recitato, con tanto di attori, registi, sceneggiatori e comparse. Ma, come canta la Vanoni: «Ecco, la musica è finita, gli amici se ne vanno, che inutile serata, ho aspettato tanto…, ma non è servito a niente...». Ma non era solo tutto finto. Forse era tutto previsto, tutto calcolato e tutto... pagato! Il comico ha incassato ed è sparito. L’Italia affonda più di prima, ma di lui non c’è più traccia.
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W l’Italia! La Calabria… un po’ meno
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n’altra foto, la seconda in pochi giorni, è stata scattata alla Calabria. A puntare l’obiettivo, anche stavolta, la troupe di Raitre che, guidata da un pungente e fintamente incredulo giornalista, ci ha restituito, in due puntate, l’immagine di una regione molto brutta, arretrata, furba… e fiera di esserlo! Inutile aggrapparsi alla convinzione, per altro fondata ma poco incoraggiante, che sullo sfondo abitano da queste parti anche personalità di elevato spessore. La macchina fa solo primi piani. E la ripresa è stata desolante. Provo ad immaginare le reazioni dei calabresi di fronte a quelle immagini. Qualcuno avrà scosso la testa con amarezza. Qualcun altro avrà approvato le posizioni dei protagonisti. Molte, già dalle prime ore del lunedì, le telefonate e gli sms che abbiamo ricevuto, tutte inveivano contro la “politica-politicante”, così sporca che più sporca non si può! Penso poi agli idealisti, a quelli che hanno deciso per amore di investire nella propria terra: avranno retto alla prova dello specchio senza leggere sul proprio volto lo stigma di coglione? E quanti cervelli e braccia avranno maturato definitivamente il proposito della “fuga” come mossa ineluttabile? A rimandare la partenza, la sfortuna che non passano treni dopo una certa ora. Ma la categoria che avrà vissuto più di tutte l’imbarazzo dell’inchiesta, e pagherà socialmente le conseguenze dello sputtanamento in prima serata, è quella dei calabresi trapiantati al centro-nord: quelli che contano e che hanno successo, ma anche la gente comune, i lavoratori emigrati alcuni decenni fa, i giovani da
Franco Laratta
poco partiti in cerca di fortuna; e noi parlamentari ormai costretti a non farci più vedere in Transatlantico. La crisi dei partiti tradizionali è un dato evidente. Altrettanto, l’emergere dei partiti-persona, che coi loro pacchetti di voti si cimentano in faticose traversate coast to coast da una coalizione all’altra pur di strappare l’accordo più vantaggioso. L’affollamento del Centro, per risparmiare sugli spostamenti, un fenomeno in crescita. La creazione di partitini ad personam, per avere più peso contrattuale e mettersi nella condizione di aspirare alla famosa “pari dignità”, da cui discendono incarichi di governo e sottogoverno per sé e i propri compari, la degenerazione della politica. E questo non avviene solo in Calabria. Da noi fa solo più rumore perché il terreno è fertile e il cliché che vantiamo ci predispone ad essere raccontati così. Ogni luogo comune, però, nasconde una parte di verità e il tratto caricaturale di molti interventi, ieri l’ha irrobustita. Slanci di ospitalità inopportuni, ammiccamenti, pettegolezzi, compiacimento e l’immancabile spirito di rassegnazione prodotto da un sistema del quale loro sono ovviamente vittime. Così i colleghi hanno risposto alle graffianti perplessità dell’intervistatore. Neppure l’apologia della fila (da manuale, nella dotta esposizione del sindaco Scopelliti) come momento di aggregazione e solidarietà, evoluzione ottimistica della folla irrazionale manzoniana, ha risollevato il tono del dibattito. Ancor meno convincenti i Ponzio Pilato, fieri a preservare la propria verginità sul piano formale, più disinibiti a godere dei benefici purché le trasgressioni abbiano una paternità certa. Si è poi arresa definitivamente alla gravità, la presunta ingenuità dichiarata da chi aveva scelto un assessore inadatto. E la caduta è stata rovinosa quando il presidente Loiero ha ammesso di aver rinunciato a scegliere il candidato migliore per un incarico importante, per non sancire la propria personale sconfitta! Insoddisfatto di un contraddittorio blando (in cui l’interlocutore non ha né nascosto il malcostume né regalato propositi per superarlo, tanto meno elaborato il pudore, sostituendolo con uno scatto d’orgoglio), l’intervistatore ha spento microfoni e telecamere. Da domani occhio ai graffiti che sporcheranno i cartelloni della campagna pubblicitaria ideata da Toscani. Qualcuno potrebbe rispondere per le rime.
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Un dèmone in Calabria
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rmai non ci sono più dubbi: quel demone descritto da Leonida Repaci in “Quando fu il giorno della Calabria...” è ritornato! Nella splendida opera dello scrittore di Palmi, aveva rovinato la terra che al Creatore era riuscita più bella della California e delle Hawaii: la Calabria. Un gioiello rovinato dalle calamità, dalla violenza, dall’omertà, dalle alluvioni, dalla miseria che il demone aveva portato in questi luoghi baciati dalla bellezza mentre il Signore si era per un attimo assopito. Quel demone oggi è in mezzo a noi. E non contento dei danni devastanti che aveva a suo tempo compiuto contro la creatura prediletta del Signore Iddio, ha ripreso la sua opera malefica. Da quando è tornato questa terra non ha più pace: abbiamo assistito all’assassinio di un uomo politico onesto, Franco Fortugno; ad un’alluvione devastante a Vibo Valentia; ad un’ondata di criminalità e morte senza precedenti (una ventina di morti ammazzati nella sola locride). Il demone si è dimostrato molto attivo in questi ultimi anni in Calabria: una ragazza di 16 anni, Federica, rimane vittima di un banale intervento chirurgico nell’ospedale di Vibo. E dopo di lei altre e altre ancora. Una neonata muore improvvisamente dopo la nascita all’ospedale di Corigliano, in quegli stessi momenti alcuni lavoratori, eterni precari, finiscono sotto la carica della polizia nel corso di una clamorosa manifestazione a Catanzaro, un dirigente di una piccola squadra di calcio è finito pestato a morte nel campo neutro di Luzzi, due traghetti si sono rovinosamente scontrati nello Stretto di Messina, un giovane macellaio viene trovato ucciso e il suo corpo bruciato nella tranquilla San Giovanni in Fiore e la madre, appresa la notizia, rimane fulminata dal dolore.
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Ma il demone della Calabria aveva già avvelenato il clima politico, rovinato il bel risultato elettorale per le regionali, devastato tutti i partiti politici e fatto a pezzi anche i sindacati. Ed era anche accaduto che un bravo sindacalista venisse ammazzato dal suo giovane amante a Catanzaro; un frate cappuccino fosse arrestato a Cosenza con l’accusa di violenza carnale ad una suora e ad altre donne; un megaospedale psichiatrico in quel di Serra di Aiello si scoprisse devastato da un mare di corruzione, malcostume e abbandono, e tra i responsabili venisse indicato un prete cosentino con la complicità di politici, burocrati e affaristi. Tutto questo mentre buona parte dei consiglieri regionali, senza distinzione di colore, è risultata indagata ed una donna magistrato è finita in carcere per una lunga serie di reati commessi in un contesto di profonda e vasta corruzione. È poi accaduto che il demone risvegliasse l’arroganza del racket in una città come Lamezia, mentre a Vibo è venuta fuori una pesante indagine su importanti enti locali e a Crotone il vicepresidente della commissione regionale antimafia è finito agli arresti nel quadro di una inchiesta che ha visto coinvolti diversi esponenti delle istituzioni; così come sono in corso importanti inchieste che vedono al centro rapporti tra politica-affari-criminalità. Lo spirito del maligno soffia sulla Calabria. Penetra dappertutto, getta benzina sul fuoco, sparge sangue innocente, impedisce la crescita e lo sviluppo della nostra economia, mette in ginocchio l’agricoltura, il turismo, l’impresa, alimenta sacche di clientela all’interno della Regione, mantiene forti i contatti con la malavita, la ‘ndrangheta e il malaffare che sembrano invadere tutti i settori. Cosa sta succedendo a questa splendida terra? I giornali nazionali, da un paio d’anni la mettono ogni giorno alla gogna: proprio ieri l’altro finiva sotto accusa sul magazine del più venduto quotidiano nazionale il commissario della Camera di Commercio di Cosenza; ma la più mostruosa gogna televisiva si era vista ad Anno Zero con al centro consiglieri regionali che si salutano come “compare dei miei compari”. Soltanto poco tempo prima le intercettazioni telefoniche apparse sulla stampa avevano rivelato una situazione a dir poco allucinante. E da allora un’infinità di pagine su pagine dedicate a questa Calabria in preda a corruzione, malaffare, nepotismo, malavita. Le più brutte pagine sono state quelle riservate al presidente Loiero da La Stampa di Torino, ma poi anche i repotarge dell’Espresso, le corrispondenze di Repubblica, del Corriere e a cascata dalle testate di destra che ogni giorno rivelano un pezzo inguardabile della Calabria. E se il demone ha fatto dire al presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, che Loiero «o si dimette o l’ammazzano», lo stesso essere malefico si accanisce 84
Miseria e Nobiltà della politica, della società
sullo spaventato Agazio il quale ormai riceve una quantità industriale di minacce telefoniche, lettere minatorie, proiettili di tutti i calabri che farebbero impallidire anche Bin Laden. Ma l’indomito presidente ha trovato il tempo, non appena varata la sua terza giunta (dopo il naufragio delle due precedenti!) di rilasciare una sconvolgente intervista all’Unità con la quale inspiegabilmente attaccava i vertici dello Stato e del Governo. Giusto per «richiamare l’attenzione dei media sulla Calabria»: ma se ne sentiva davvero il bisogno? E non meno esaltante è stata l’assessore regionale alla Sanità che ha fatto appena in tempo a dichiarare che la Sanità calabrese è sana e forte, che i Nas e la Repubblica hanno assegnato alla nostra Regione la maglia nera per i peggiori ospedali. Doris mostra i muscoli e ne chiude uno: il giorno dopo ragiona e lo riapre. Un diavolo per capello. Il presidente Loiero prova a resistere e a combattere; Doris se ne va a Roma ma non è una sconfitta, per lei. Cambiano ancora le giunte regionali e alla fine qualcosa di positivo si vede e i risultati si ottengono. È accaduto molto altro in questi mesi in Calabria. Il demone nero, peloso e assai brutto, ne ha combinato di tutti i colori. Qui però non possiamo continuare nell’illustrare il libro nero delle nostre tragedie. Come ai tempi della creazione della Calabria descritta da Repaci, questi mali sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola. «Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come Dio l’ha voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto». Utta a fa juornu c’a notti è fatta. La lunga notte della Calabria sta per finire. Si vedono in lontananza le prime luci dell’alba. Ancora un poco e il demone sarà definitivamente scacciato dalla nostra meravigliosa terra. Utta a fa juornu…! Calabresi, coraggio, ancora un poco: forse accadranno altre cose brutte, ma la parte migliore di questa nostra terra sta per emergere dal fango. Il nostro futuro non potrà che essere più bello di questo presente così maligno!
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Napolitano ha ragione: basta fango sul Parlamento!
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l Presidente della Repubblica ha lanciato un appello molto forte: «A forza di dire che in Parlamento ci sono dei fannulloni, qualcuno proporrà di chiuderlo». Napolitano ha definito quindi “qualunquismo” l’atteggiamento di chi definisce il Parlamento “una corporazione di avidi fannulloni”. Per poi concludere: «Bisogna reagire a questo atteggiamento che una volta si sarebbe definito di qualunquismo, e da parte della politica ci vuole uno sforzo per lanciare un ponte di dialogo e di comunicazione». Parole forti. E anche di grande preoccupazione. Infatti, continuando ad infangare le istituzioni democratiche, si corre il rischio che qualcuno le ritenga non solo inutili, ma perfino dannose e quindi da eliminare. Un atteggiamento pericoloso lo ritroviamo in un’espressione di Berlusconi: «Basterebbero 30 parlamentari». Quindi tutti gli altri non servono. Ne era convinto anche Mussolini, che poi lo fece davvero. E lo chiuse per essere padrone assoluto di decidere. E finì come tutti sappiamo. La mia breve esperienza parlamentare mi fa dire che le Camere sono indubbiamente indispensabili per la democrazia di un Paese. Sono il luogo dove ci si confronta, si discute e si decidono le sorti di una Nazione. In questo luogo è rappresentato il Paese.Tutto il Paese. E dovrebbe essere il “meglio” in termini di qualità, competenza e trasparenza. Purtroppo non sempre è così, visto che in Parlamento finiscono anche espressioni mediocri e anche troppi “avidi e fannulloni”. E perfino qualche pregiudicato. Un po’ com’è la società, così come accade nelle professioni, nelle grandi aziende, nei centri di potere, nelle Università e perfino nelle Istituzioni religiose. Ma in Parlamento non dovrebbe accadere mai. Si sente dire spesso che «Il Parlamento è lo specchio di un Paese». Verissimo. In-
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fatti quello che accade nel Paese si ripete nelle Camere. Che nel bene e nel male esprimono tutte le ansie, i desideri, le paure, le speranze e il futuro del Paese. Se un corpo elettorale è stato capace di farsi rappresentare da Matteotti e da De Gasperi, da La Pira a Moro, da Zaccaglini a Berlinguer vuol dire che è un grande Paese. Ma se poi ha scelto Cicciolina qualche problema c’è. E se ha votato ed eletto anche ladri e mafiosi, allora siamo messi proprio male. Ma al di là di questo, non possiamo dimenticare che per avere questo Parlamento, le sue istituzioni democratiche, e soprattutto la libertà e la democrazia, tanta gente ha combattuto ed è stata uccisa. Via quindi i fannulloni, i corrotti e i condannati dal Parlamento (ma devono essere soprattutto i partiti a non candidarli e a non designarli), ma non infanghiamo le Camere, non distruggiamole. Sarebbe l’inizio della fine della democrazia così come la conosciamo. Detto questo, c’è da aggiungere che queste istituzioni così come sono state concepite e come tutt’ora sono, non funzionano più. Sono superate, lente, inefficienti. Ed è per questa ragione che nei due anni di attività parlamentare della legislatura che è appena terminata, la Camera dei deputati ha affrontato il tema di una riforma costituzionale per cambiare le istituzioni democratiche. Così è stata votata in prima lettura una buona legge di riforma che prevede la fine del bicameralismo perfetto (il Senato avrà funzioni diverse e non approverà più le leggi), una forte riduzione del numero dei parlamentari (150 deputati in meno e il Senato ridotto a metà), un rafforzamento del Governo. La riforma si è interrotta con lo scioglimento della legislatura. Mentre è diventata legge dello Stato la riduzione dei componenti del Governo: i ministri non saranno più di 12. Intanto i “questori” di Camera e Senato hanno messo mano ai privilegi dei parlamentari avviando una profonda revisione ed eliminando alcuni eccessi (decisamente insopportabili dal Paese). Altro andrà in vigore con l’inizio della nuova legislatura, e altre scelte dovranno essere fatte, per le quali Veltroni si è già pubblicamente impegnato. Nel frattempo alcuni partiti hanno preso l’impegno di ridurre il numero delle legislature per ogni singolo eletto in Parlamento: massimo tre e poi a casa. Il solo Pd, in realtà lo ha fatto davvero non ricandidando 138 parlamentari uscenti (con una deroga solo in alcuni casi) e impedendo a chiunque avesse problemi con la giustizia di essere candidato. Quindi la strada per un Parlamento pulito, trasparente, efficiente è stata tracciata. C’è ancora molto da fare, ma dobbiamo avere il coraggio di continuare così. Per evitare il fango e il discredito. E per impedire che qualcuno approfitti del qualunquismo imperante e dell’antipolitica galoppante per eliminare il Parlamento e mettere in discussione la democrazia nel nostro Paese. E non stiamo esagerando. 88
Il mondo ha paura ma l’Italia fa finta di nulla
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orse non tutti sanno che tra 30 o al massimo 50 anni il mondo dovrà affrontare una delle più grandi crisi che si ricordi: la fine del petrolio e, di conseguenza, la fine del mondo industrializzato, almeno così come lo abbiamo conosciuto finora. Difficilmente l’Occidente e i Paesi maggiormente industrializzati arriveranno a quella data con una alternativa valida al petrolio. Valida nel senso di compatibile con l’altro grande dramma che si appresta a vivere il mondo evoluto: le devastazioni naturali dovute all’inquinamento dell’atmosfera. Da un protocollo di Kyoto all’altro, l’Occidente non riesce a tagliare decisamente le emissioni di gas inquinanti, fermando necessariamente una parte di industrie, aerei e automobili che causano i disastri ambientali che ben conosciamo. Sappiamo benissimo che la massima causa del surriscaldamento della Terra arriva senza dubbio dall’aumento di anidride carbonica (CO2) prodotta dalla combustione dei combustibili fossili e dalla diminuzione delle foreste. Il surriscaldamento atmosferico provocato dalla densa cappa dei gas rilasciati, genera un’alterazione climatica notevole che si manifesta poi sottoforma di alluvioni, uragani, disgelo, siccità e così via. Nel 1988, l’ONU istituì l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) comitato intergovernativo sul cambiamento climatico. I gruppi scientifici istituiti per i lavori, espressero in quell’occasione una forte preoccupazione dovuta all’urgenza di un’immediata risoluzione. Infatti, alcuni studi affermano che prima di una totale dissolvenza dei gas serra saranno necessari alcune centinaia di anni, vale a dire che se da oggi partissero gli impianti a energia pulita, pagheremmo per molto tempo ancora i guasti provocati dall’attuale sistema energetico. Non vo-
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gliamo essere catastrofisti, ma se il sistema economico-energetico dovesse restare come quello attuale, fra circa cento anni le temperature globali salirebbero di 34°C. Il che porterebbe ad una situazione ben più grave di quanto oggi riusciamo ad immaginare. Ma allora: perché non è stata attuata ancora una politica di decontaminazione e di alternativa al problema “effetto serra”? Perché tutti gli accordi internazionali sono stati disattesi? Perché i governi dei Paesi ricchi e sviluppati non sono intervenuti con la rapidità imposta dalla gravità del problema? Andando avanti di questo passo, è ovvio che non ce la faremo a dare vita a nuove fonti energetiche ecologiche e alternative: il sole, il vento, i biocarburanti non potranno sostituire rapidamente il petrolio quale primaria fonte energetica per le industrie e i mezzi di trasporto, per produrre elettricità, riscaldare e raffreddare le civili abitazioni. Rimane l’opzione nucleare: ma questo ci porterebbe ad un discorso completamente diverso. E carico di paure planetarie. Comunque di lontana realizzazione e con l’irrisolto problema delle scorie nucleari che nessuno a tuttora sa come e dove smaltire! Entro i prossimi 50 anni si registreranno catastrofi naturali senza precedenti; entro 100 la temperatura sulla terra salirà notevolmente, i ghiacciai eterni si saranno notevolmente ridotti, molte città e paesi costieri saranno sommersi dalle acque, interi continenti saranno devastati dalla siccità, assisteremo ad emigrazioni di milioni di persone disperate. Mentre tutto questo accadrà fra qualche decennio, oggi il mondo maggiormente industrializzato, i Paesi abituati ad uno sviluppo costante e quelli che in pochi anni e con una aggressività impressionante (Cina, India) hanno conquistato il mercato mondiale, devono fare i conti con una crisi finanziaria devastante che, partita dagli Stati Uniti d’America, sta investendo l’Europa e gli altri Paesi maggiormente sviluppati. Si tratta della crisi finanziaria più forte degli ultimi 30 anni. Crisi finanziaria che brucia ingenti risorse prodotte dalle economie più o meno forti e stabili, frena la crescita dei Pil, fa crollare le Borse del mondo intero. In sostanza l’economia reale si ferma, anzi arretra, la disoccupazione cresce, l’inflazione torna a fare paura, si bloccano i consumi delle famiglie, il dollaro è in caduta libera, il prezzo del petrolio è incontrollabile! Una miscela esplosiva che porta le economie di tutto il mondo in una fase di recessione. Proprio nei giorni scorsi, Repubblica titolava così: «Calano gli occupati, Wall Street cede. Negli Usa l’incubo recessione». Informandoci che a febbraio si sono persi 63 mila posti di lavoro. Aumentano i rischi crescita negativa. Mentre Bush ammette: «La nostra economia ha rallentato, il momento è difficile». 90
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Questo quadro così nero, così drammatico, fa certamente paura. Perché il crollo dei mercati, produce povertà, spoglia il mondo ricco di tutte le sue certezze, alimenta le paure delle famiglie. Ma sono tutti negativi gli effetti di questa crisi? Probabilmente no. Nasce, infatti, la consapevolezza che il mondo deve cambiare, che l’uomo non può guardare soltanto al Pil senza pensare al futuro, senza costruire valide alternative al modello di sviluppo conosciuto finora. Questa crisi costringerà i governi ad adottare misure drastiche, a risparmiare in consumo di energia, ad accelerare le ricerche sullo sfruttamento delle energie alternative. Le stesse famiglie saranno costrette (e convinte) a dare maggiore valore ad ogni cosa, a risparmiare e a meglio spendere i capitali disponibili, a dare maggiore peso ai beni e ai prodotti che avranno a disposizione. Si useranno sempre di meno le automobili, si avrà maggiore rispetto della natura e dei suoi immensi patrimoni, torneranno i valori e i principi dimenticati, ci saranno meno consumi, si darà vita ad una società che correrà di meno, inseguirà di meno i traguardi economici, sarà forse più austera ma certamente meno irresponsabile. Sarà la fine del capitalismo e del consumismo? Non lo possiamo dire. Ma molte cose cambieranno. Quanto sono presenti questi temi nella campagna elettorale che si sta svolgendo negli USA come in Italia? Nonostante l’allarme di Al Gore sul futuro del pianeta, poco si parla in America di come salvare la terra. Sapendo che questo comporterà gravi sacrifici per tutti, e che non porta voti ai candidati. Si parla invece della gravissima crisi finanziaria che proprio dagli Usa ha preso il via. Ma nessuno dei due maggiori candidati ha una ricetta valida per salvare l’economia americana, il suo incessante sviluppo, i posti di lavoro che da sempre ha prodotto. Non se n’è parlato nemmeno nella recente campagna presidenziale in Francia, tutta improntata su temi futili come se la Francia non sapesse della crisi ambientale, dell’esaurirsi delle risorse energetiche e dell’acqua. A meno che in Francia qualcuno non pensi di salvarsi dalle inondazioni e dalle catastrofi, grazie alla scelta nucleare fatta da quel Paese. Nessuno parla in Italia, in piena campagna elettorale, dei grandi temi ambientali, della necessità di prevedere notevoli risorse finanziarie per una nuova politica ambientale. Nessuno dice la verità agli italiani sulla crisi economica che ci bussa alle porte. Il programma del Pd è stato, in questo senso, più prudente. E almeno vengono indicate la quasi totalità delle coperture finanziarie rispetto agli impegni elettorali. E sui temi di cui parliamo, dice: «Priorità alle infrastrutture e alla qualità ambientale attraverso interventi a favore di energia pulita e rigassificatori, impianti per il trattamento dei rifiuti e manutenzione della rete idrica». Dall’altra parte si ha la chiara impressione che i tempi dell’allegra finanza e delle folli promesse non siano mai finiti. 91
Legalità ma non cultura del sospetto
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a Calabria ha bisogno di certezze. Oggi sembra che tutto sia marcio, che la politica sia tutta sporca, che i politici siano tutti ladri, che le istituzioni siano tutte corrotte. Così pure l’impresa, la Chiesa, il sindacato. Di questo passo non rimarrà che un cumulo di macerie di una Regione che può vantare tante cose sane, tanti politici onesti, tante imprese pulite e tante persone perbene. È necessario e utilissimo fare pulizia del marcio che pure c’è, della corruzione che abbonda e che alcuni di noi denunciano pubblicamente da molto tempo, sempre inascoltati, e qualche volta considerati “bastian contrari” o dannosi moralisti! È opportuno e indispensabile avviare tutte le inchieste necessarie, portandole presto a termine; così come è urgente bonificare i partiti, le imprese, le istituzioni ammalate. Ma non possiamo far passare l’idea che chiunque viva, operi e agisca in Calabria sia da galera. Perché non è così. Perché questa logica finirà per ammazzare questa terra. Occorre fare presto nel fare chiarezza riguardo alle inchieste che toccano la classe politica: che deve essere immacolata e al di fuori di ogni sospetto. Ed i partiti fanno benissimo a non candidare i condannati o chi è coinvolto in indagini particolarmente gravi (il Pd è stato il primo a deciderlo, chi scrive lo ha proposto da molto tempo con articoli sulla stampa); ma è necessario lasciar lavorare in pace la magistratura che, nel minor tempo possibile, con competenza e tanta serenità, deve concludere le indagini e processare chi ha commesso illegittimità e illegalità, per fare quindi chiarezza e restituire alla politica e alle istituzioni la necessaria
Franco Laratta
dignità e autorevolezza. Oggi quasi del tutto smarrite, e non solo in Calabria. Mi auguro la massima chiarezza anche per la vicenda che ha coinvolto diversi esponenti delle istituzioni calabresi. Per loro il clima di sospetto è molto grave. E grave sarebbe immaginare che tutti sono colpevoli, perché così alla fine non sarà. Allora è necessario continuare a lavorare con serenità, attendendo la conclusione delle indagini e i processi che faranno giustizia. Ma questo è un momento molto duro, che sta piegando la nostra regione, e che non è utile enfatizzare o liquidare con facilità. Né farne terreno di scontro politico, che alla fine non gioverà a nessuno. Anche nel mondo dell’impresa è necessario fare pulizia, agendo con determinazione, evidenziando e colpendo le aziende corrotte e colluse da quelle sane che operano con onestà e immense difficoltà nella nostra regione. Ho visto con quanto clamore si è parlato della vicenda che riguarda la Despar. Ho seguito in tv la conferenza stampa del presidente Gatto e mi ha colpito la sua determinazione e la sua fortissima amarezza. Cose che emergono dall’appello al Presidente della Repubblica e a tutte le istituzioni; poi ho letto tutta la documentazione che mi è stata fornita e, per molti versi, sono rimasto colpito. Ho letto la relazione della commissione antimafia sulla quale sarebbe necessario aprire una discussione, e devo dire che mi ha fatto pensare molto l’editoriale in prima pagina del direttore Matteo Cosenza, sul Quotidiano della Calabria di ieri 22 febbraio. Su tutta questa vicenda ho notato nelle cifre e nei dati a mia disposizione alcune contraddizioni, così come ho letto analisi approssimative. Anche in questo caso occorre fare subito chiarezza, visto che il fatto coinvolge una grande azienda con migliaia di lavoratori calabresi e un notevole indotto. Che rischiano di pagare un duro prezzo se non si fa subito luce sulla vicenda. La magistratura, che nel recente passato aveva avviato e chiuso alcuni accertamenti, ora saprà farlo in maniera definitiva, nel rispetto della verità e della giustizia. E fino a quando ciò non avverrà, è opportuno evitare il fango, le illazioni, le gogne mediatiche e le sentenze sommarie. Occorre far luce al più presto, chiarire le responsabilità e punire se c’è da punire, ma anche ridare serenità a chi opera, soprattutto se non ha nulla da temere. È urgente liberarci da questo clima di sospetti che si è venuto a creare. Abbiamo il dovere e la necessità, ognuno nel proprio ruolo, di pretendere chiarezza, di agire avendo sempre davanti l’obiettivo di ridare fiducia alla Calabria e ai calabresi, di restituirle un’immagine fatta di pulizia, onestà, correttezza. Che in Calabria non 94
Miseria e Nobiltà della politica, della società
sono affatto scomparse. Se la Calabria non esce al più presto dal pantano in cui si è cacciata, eliminando il marcio e dando vita ad una stagione di legalità, attraverso una nuova classe dirigente, una decisa cultura della legalità ed un forte senso delle responsabilità, finirà per essere sempre più distante dall’Italia che cresce, dall’Europa che progredisce. Prima di tutto i politici, poi tutte le istituzioni, la magistratura, la chiesa, la cultura, le forze produttive e sociali, l’informazione, abbiamo il dovere di far crescere quella Calabria sana e pulita che vive dentro di noi e che è ancora forte in tutti i settori sociali. Il fango non serve, tanto meno la cultura del sospetto. La Calabria ha bisogno di un clima sociale sereno, dentro il quale ognuno dovrà fare la propria parte. Con impegno, passione e onestà. Perché una Calabria migliore è possibile. E la Calabria deve tornare ad innamorarsi della legalità e dell’onestà.
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Il Papa, Mastella, la magistratura
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iorni intensi per la Politica e le Istituzioni italiane della XV legislatura e del governo-Prodi. Giorni di forti tensioni che rafforzano, semmai ve ne fosse bisogno, la convinzione che questo nostro Paese non riesce ancora a diventare un Paese normale. Normale nel senso del saper vivere ogni evento, anche quelli più gravi, con il necessario distacco, la giusta freddezza, l’indispensabile equilibrio. Accade invece che…. Che un rettore di una grande università italiana, molto politicizzata e con un passato di forti contestazioni, inviti il Papa all’inaugurazione dell’anno accademico. Forse il rettore sbaglia momento e circostanza, ma fatto l’invito, egli non si è dimostrato all’altezza delle sue funzioni. Quello che però appare assai grave è che un gruppetto di docenti, una minoranza per la verità, attacca duramente il Pontefice per l’annunciata visita alla loro università, scomodando Galileo, la laicità delle istituzioni pubbliche, la libertà ecc. ecc. Diventando subito “cattivi maestri”, visto che un centinaio di studenti (anche loro una estrema minoranza) decide di seguire il loro insegnamento e finisce per occupare il rettorato. Addirittura. Se questo fosse un Paese normale, i docenti e gli studenti che non gradivano la visita del Papa (invitato dal Rettore!) avrebbero prima ascoltato l’intervento del Papa nell’ateneo e poi, eventualmente, in una successiva assemblea avrebbero potuto contestare e contraddire le riflessioni del Pontefice. E magari discutere dell’invito a parlare all’inizio dell’anno accademico. Invece con la strada scelta hanno infierito un duro colpo alla laicità dello Stato e hanno riportato improvvisamente il Paese in un clima di scontro del quale nessuno ne sentiva il bisogno.
Franco Laratta
Se questo fosse un Paese normale, non avremmo assistito alla pesante strumentalizzazione che il centro-destra ha fatto in merito alla mancata visita del Papa alla Sapienza di Roma. Nell’Aula di Montecitorio si sono sentite le urla di alcuni leader di partito che sono arrivati ad invocare una “marcia” riparatoria in Vaticano! E che pena sentir urlare il nome del Benedetto XVI per accusare gli avversari politici di «avere impedito al Papa di parlare». Proprio dopo avere ascoltato gli interventi del ministro Mussi e dell’on. Violante (entrambi di provenienza PciPds), che avevano in Aula di Montecitorio duramente condannato i contestatori della Sapienza con espressioni che nemmeno ai tempi della Dc si erano mai sentite in Parlamento. E per finire su Mastella e i Giudici italiani. Se questo fosse un Paese normale, il ministro Guardasigilli, investito da una vicenda grave che ha visto coinvolta la propria moglie, non avrebbe pronunciato che due-tre semplici espressioni in Parlamento: “Mi metto da parte fino a quando la vicenda che vede coinvolta mia moglie non sarà chiarita. Continuerò a sostenere lealmente il governo dai banchi del Parlamento senza chiedere niente a nessuno”. Ma siccome il nostro non è un Paese normale, finisce che Mastella, verso il quale non abbiamo mai nutrito eccessiva simpatia per il suo stile rude ed eccessivo, ha ragione da vendere nel reagire in maniera così forte e per certi aspetti drammatica. Per alcune semplici ragioni. Ad esempio: l’arresto della moglie del ministro avviene proprio nel giorno in cui egli doveva leggere in Parlamento la Relazione annuale sullo stato della Giustizia in Italia. Strana coincidenza. Ancora: la signora Mastella non era informata di alcun provvedimento a suo carico da parte della magistratura, quando invece su tutte le agenzie di stampa la notizia circolava da ore. E poi: perché l’arresto (sebbene ai domiciliari) e non un più opportuno avviso di garanzia? C’erano veramente i rischi della fuga della signora Mastella (presidente del consiglio regionale della Campania) o la possibilità che la stessa inquinasse le prove della “tentata concussione”? Tentata! In un Paese normale la magistratura usa prudenza, attenzione e fa mille verifiche prima di arrivare ad uno scontro diretto con il potere legislativo e con quelle esecutivo (con il Parlamento e con il Governo). Ben sapendo che senza prudenza e attenzione lo scontro tra gli altri poteri dello Stato rischia di minare dalla base la stessa democrazia di un Paese civile. E mettere a grave rischio l’autonomia e l’imparzialità della magistratura. Alcuni magistrati non si rendono forse conto del danno che stanno facendo alla Magistratura e alla Giustizia nel nostro Paese. Sono una minoranza, un’estrema minoranza, a fronte di tantissimi magistrati che 98
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fanno il loro dovere, rischiano la vita, operano in contesti assai difficili e in condizioni di isolamento, senza mezzi né risorse. Ed è proprio per loro, per la democrazia nel nostro Paese, che il potere politico deve abbassare i toni e decidere con saggezza e molta prudenza su argomenti tanto delicati per la democrazia stessa di un Paese. E tutti insieme, destra e sinistra, avviare la stagione delle Riforme istituzionali e costituzionali, senza le quali il Paese arretra terribilmente e non potrà mai dirsi un Paese moderno. È normale!
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Può esistere la politica senza speranza?
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Enciclica Spe Salvi rappresenta un manifesto spirituale, morale e culturale che Benedetto XVI ha voluto dare alla Chiesa e non solo. Perché, oggi, il tema della speranza? Il Papa con straordinaria acutezza e sensibilità disegna lo scenario odierno, in cui la speranza cristiana viene snaturata, circoscritta in un ambito stretto e limitato. Benedetto XVI elenca anche le tante speranze fasulle che hanno accompagnato l’avvento della tecnica e in primis l’era della ragione, dove il mito del progresso è risultato distante dalla cristiana speranza. La storia ci mostra come l’uomo persegua scopi materiali, dove la speranza è ridotta a bieco interesse egoistico. Tanti sono le modalità di “speranze” personali che non incontrano mai l’altro. Speranze che non riescono a incrociare l’umanità, creando muri che allontano, anziché ponti che avvicinano. E in questo tempo difficile, il Papa ci chiama per misurarci con il tema affascinante della speranza cristiana, a credere in essa. La sua parola ci interpella e ci porta a dare risposte. È un appello che coinvolge tutte le istituzioni. Ci ricorda che la stessa società democratica è chiamata ad avere a che fare con la speranza cristiana. Il Papa mette in relazione la speranza con la giustizia, perché non si renda “irrilevante tutto ciò che è terreno” nella vita del cristiano. Ci chiediamo a questo punto: può esistere una politica senza la speranza? Domanda, questa, che interroga la società moderna nei suoi aspetti più profondi e nei suoi meccanismi più delicati. Il Papa ci ricorda che la speranza cristiana non è sganciata mai dalla giustizia e quindi dal diritto che deve codificare il giusto ordinamento. Qui entra in gioco il ruolo della politica. Attraverso la politica l’uomo tenta di
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governare le “cose umane” nella coesione sociale. Nel fare questo la politica non può fare a meno di trovare dei punti solidi di riferimento, dei valori che ispirino il suo lavoro, che danno sostanza ad un impegno quotidiano. È la speranza che guida l’agire “delle” cose e “nelle” cose, che per noi cattolici trova fondamento nel messaggio cristiano e per i non credenti, nell’adesione ad una propria coscienza. In politica tutto questo si traduce in una tensione comune che ispira l’agire della costruzione sociale, di una comunità inclusa ed accogliente dell’altro. Ciò dimostra come il sistema il democratico, nonostante la sua complessità di regole e di metodo, non può fare a meno di una bussola, di un minimo comune denominatore, di volgere il proprio sguardo al domani. Tutto questo sarebbe impossibile senza la speranza, senza quel germe che porta a costruire il tempo nuovo. Il Papa ci ricorda che il tema della speranza cristiana non è mai chiuso nella “prigionia del proprio io”, ma una speranza che si apre permanentemente all’altro. Benedetto XVI s’interroga e ci pone la domanda: «come posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per gli altri la stella della speranza»; questo appello, oltre che interpellare le coscienze cristiane chiama direttamente il “mondo della politica” a fare la propria parte. Anzi la politica trae legittimità nel suo operato dalla speranza, creando quelle condizioni indispensabili perché si realizzi il Bene Comune. Le forze politiche, al di là degli schieramenti, sono chiamate a dare risposte serie e responsabili, perché si creino condizioni di pacifica convivenza e di sviluppo integrale. In conclusione, cosa ci dice alla nostra regione questa enciclica? La nostra terra fa esercizio quotidiano di speranza, di cammino dignitoso nella storia. È connaturato nel calabrese il germe della speranza, di credere e lottare affinché il presente cambi, che una nuova era cominci per la nostra terra, che cessino la corruzione, il malaffare, la criminalità, il degrado. Questa è un’espressione laica di speranza che trova, però, nel messaggio cristiano la sorgente prima e l’alimento vitale per andare avanti. Noi calabresi avvertiamo e sentiamo una forza: “siamo spinti” verso un oltre, verso un nuovo inizio che incomincia già adesso. È tempo di speranza. Con la speranza i calabresi costruiscono il futuro, con scelte coraggiose e di svolta, già adesso.
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«Non ie..ne rilasceremo più interviste!»
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uesto il presunto commento dei tanti parlamentari che in questi anni si sono esibiti ai microfoni delle Iene, noto programma Mediaset, pur di offrire una “buona” immagine di sé. E giù allora a storpiare quei motivetti dai testi non propriamente lusinghieri per la categoria; ad incassare sportivamente il tormentone «Questa è una ca’…» quando fornivano risposte poco convincenti a precise domande; a mettere in piazza candidamente le proprie lacune culturali, con giustificazioni da consumato studente (che non studia) del tipo: «Dante non lo ricordo perché fa parte del programma vecchio… Il futurismo, si sa che non ci si arriva mai…». Sacrifici che un politico responsabile, che non ha paura di esporsi, affronta per il bene del Paese: se lo share della trasmissione si abbassa, dobbiamo metterci sul groppone altri disoccupati? Proprio quei simpatici mattacchioni vestiti di nero, che avevano offerto ai deputati un palcoscenico su cui esibire la propria giovialità, calano ad un tratto il sipario, spengono i microfoni da karaoke, e, in barba alla riconoscenza, si mettono a giocare sporco, molto sporco: uno di loro, in “borghese”, avvicina cinquanta deputati con il pretesto di un’intervista, facendo “tamponare” da una finta truccatrice la loro fronte durante le riprese. Il maquillage non era altro che un drug wipe, un test che verifica, attraverso il campione di sudore, la positività ad alcune droghe. Risultato: sedici onorevoli positivi sui cinquanta! Pochi? Molti? Chi lo sa. I maliziosi dichiarano subito: «Test palesemente iniquo perché penalizza quelli con una sudorazione più generosa».
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E ancora: «Risultati prevedibili, giusto contrappasso per chi auspica il ricambio generazionale affidandosi a questi politici.. in erba». “Scandalo da tabloid”; “metodo scorretto nel confezionare l’inchiesta”; “inattendibilità del test”; “violazione della privacy” (per quest’ultima è già intervenuto il Garante, bloccando la messa in onda della trasmissione, finendo così per dare alla vicenda una enorme pubblicità): questi, invece, i pareri più autorevoli piovuti su chi ha messo in atto questa ragazzata. Scavalcando i presunti vizi di forma, resta la sostanza: censurare, credo inopportunamente, la divulgazione sui media di quanto accaduto, non cancella il problema. Anzi lo amplifica. Non c’è da scandalizzarsi se tra i politici c’è chi preferirebbe la compagnia di Bob Marley (qualora fosse in vita) a quella di un salutista petulante; chi prende il tè delle cinque solo per lavare il retrogusto che gli hanno lasciato in bocca le due birre e il mezzo litro di vino consumati nelle ore precedenti; chi, infine, deve far coesistere moglie, amanti e varie ed eventuali, dando fondo alle proprie doti di equilibrista. «Il Parlamento - così si dice - è lo specchio della società». Non un luogo preservato dal vizio, abitato da virtuosi in odore di beatificazione. I politici rappresentano i cittadini nelle Istituzioni: come potrebbero essere diversi da loro? Fermo restando la serietà, l’onestà, ecc. ecc. cui è chiamato un rappresentante istituzionale nello svolgimento del proprio mandato, la vita privata è altra cosa. Per questo risultano ridicole quelle dichiarazioni pubbliche che trasudano di ipocrisia. Fastidioso è lo stupore che accompagna certi colleghi deputati perbenisti, colti puntualmente da fulmini a ciel sereno. Nel frattempo, è opportuno che temi così delicati si affrontino con risposte serie, in un clima che non sia quello sensazionale dell’infotainment. E come smentire la sempre graffiante e intelligente ministro Rosy Bindi: «Alle Iene sono imbroglioni, ma sei i miei colleghi non facessero uso di droghe… non si vedrebbe!».
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AAA. Pornostudenti offresi!
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ornostudenti offresi”, titolava il numero di dicembre del magazine di “Studenti.it”, portale web tra i più frequentati dai giovani italiani. La scottante inchiesta, condotta da Matteo Scarlino e ripresa dai maggiori quotidiani nazionali, ha acceso i riflettori sull’inedita e sotterranea abitudine di tanti nostri ragazzi, sempre più disposti a cedere alla tentazione di vendere il proprio corpo per mantenersi agli studi. Accanto alle passeggiatrici tradizionali, ai viados, ai marchettari di pasoliniana memoria, ragazzi della porta accanto stanno rosicchiando significative fette al mercato delle prestazioni sessuali a pagamento. È lo sdoganamento della prostituzione: non solo tappa amaramente obbligata per chi è in condizioni di bisogno e spesso non ha alternative, ma anche pratica più disinvolta, ingentilita oggi da tanti bei visi acqua e sapone che disertano l’umiliante marciapiede per sostare nelle più sicure autostrade virtuali in cui adescare e farsi adescare, considerando la compravendita dell’intimità un business come un altro. Un modo veloce per far soldi, forse anche meno devastante per la propria autostima di qualsiasi lavoro sottopagato, al nero e senza garanzie. Il fenomeno non è ancora di massa, ma i numeri sono di quelli importanti. Le prospettive di crescita ottimistiche (o pessimistiche): il mercato tira perché prenotare un’oretta di piacere con ragazzi “normali” è più allettante, immediato e anonimo che frequentare i luoghi di batuage, che lasciano ai benpensanti, frequentatori una tantum del peccato, più segni sulla coscienza. Qualche tempo fa, Varsity, il giornale studentesco della prestigiosa università di Cambridge, aveva rivelato come molte studentesse preferissero prostituirsi o
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esibirsi in striptease per pagarsi i corsi piuttosto che lavorare nei supermercati. Complice Internet, mezzo straordinario nel mettere in contatto le persone tra loro, il fenomeno si è quindi diffuso in Italia, con una peculiarità: il crescente numero di maschi tra i suoi attori. Cifre alla mano: su cinquecento annunci di prostituzione maschile trovati nei siti specializzati della rete è risultato che un quarto di essi riguardano studenti universitari. Milano, Roma, Napoli, Bologna le città degli inserzionisti. Quaranta-cinquantenni che si dichiarano eterosessuali, con discrete disponibilità economiche, i clienti più assidui. Solo il 14% degli intervistati dichiara di conoscere ragazzi che si offrono dietro compenso. Ma il timido dato è smentito dall’annuncio-esca lanciato dal giornalista che ha coordinato l’inchiesta: appena sei minuti per avere il primo contatto e quarantuno e-mail in una giornata! Il tariffario tiene conto di due variabili: l’avvenenza di chi si offre e la categoria alla quale appartiene. Ci sono i “camboy”, che si mostrano all’interlocutore attraverso una webcam e nel tepore della propria stanza scoprono centimetri di pelle, improvvisano spogliarelli, fino a spingersi al sesso virtuale, con un sensibile aumento in quest’ultimo caso del costo del servizio. Un lavoretto pulito pulito che frutta per trenta minuti cinquanta-cento euro, corrisposti attraverso il meccanismo di ricarica del credito (postepay, europay ecc.): più discreto e meno imbarazzante che ricevere soldi sull’unghia, gesto che inchioderebbe alla consapevolezza della propria svendita, qui invece rimossa. Altra tipologia sono i prostituti gay, che, rispetto ai primi, offrono un vero rapporto sessuale. Sono meno cari (“solo” cinquanta euro) a causa della vivacità del mercato e l’accesa concorrenza tra gli inserzionisti. Per finire, i gigolò e gli escort: di solito eterosessuali i primi, bisessuali gli altri, si accompagnano a donne di mezza età, incassando in media centocinquanta euro a serata, mille per un fine settimana. Guadagni incomparabili rispetto a quelli che uno studente otterrebbe coi classici lavoretti. Una ricerca Udu (Unione degli Universitari)/Cesar dello scorso anno ha fissato a cinquecento euro la retribuzione media di uno studente lavoratore. Frustrante, se si pensa che per sbarcare il lunario bastano una connessione internet, un indirizzo e-mail, ed ecco affacciati alle visitatissime vetrine di comuni siti di annunci (annunci.it, bacheca.it, kijiji.it, vivastreet.alice.it) o specializzati (maschiperte.com, escortstar.it, pianetaescort.com, escortiamole.it, ragazzeinvendita.it). Il cliente sfoglia online il catalogo e per avere conferme sulla bontà 106
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dell’“articolo” chiede di esser accolto nella community che il prescelto riunisce grazie ad un programma di instant-messaging. Una fugace ma indicativa apparizione in webcam e se il richiedente si ritiene soddisfatto si passa a perfezionare i dettagli dell’incontro, non ultimi quelli economici. Scorrendo le pagine web dei siti menzionati salta all’occhio la presenza di molti studenti meridionali fuori sede tra gli inserzionisti. Quello dei ragazzi del sud che offrono prestazioni sessuali in cambio di soldi è forse l’altro aspetto, quello meno conosciuto, delle sempre più grave e ignorata “questione meridionale”. Le famiglie di appartenenza versano in gravi difficoltà economiche e non riescono a mantenere i figli nelle Università del centro-nord. I ragazzi, dal canto loro, vogliono pesare di meno sulle rispettive famiglie, proprio perché conoscono i problemi di chi vive in Calabria, dove famiglie monoreddito e precariato rappresentano un vera emergenza. Ed ecco alcuni esempi di annunci di studenti universitari: «Ciao, sono uno studente meridionale fuori sede e frequento l’università in questa splendida città, purtroppo ultimamente sotto l’aspetto economico la situazione si è aggravata pesantemente, non me la cavo benissimo mentre al contrario le mie ambizioni e i miei bisogni accrescono sempre più. Per come la vedo io non sempre scendere a compromessi è una cosa negativa, soprattutto in questo periodo spartiacque della mia vita. Detto questo, l’annuncio (reale) è rivolto a donne e coppie serie e distinte che intendano passare del tempo con me, preferibilmente la sera». «Giovanissimo studente meridionale fuori sede vende il proprio corpo tonico e trasgressivo per soddisfare ogni tuo piacere». «Giovane accompagnatrice studentessa universitaria fuorisede, 25enne, si offre per cene e weekend a solo signori maturi, eleganti e generosi». E sul versante della domanda di prestazioni sessuali, onorate con “rose” e regali, che nel gergo indicano denaro contante, termine volgare scrupolosamente aggirato per non offendere la sensibilità altrui e appannare la propria dignità, leggiamo: «Manager quarantenne, sportivo, regala 200 rose a studente maggiorenne max 25enne per due ore di compagnia. Discrezione, pulizia, serietà». «40enne bella presenza offre camera singola gratuitamente in cambio di prestazioni sessuali a ragazza universitaria di bella presenza». «Sono un uomo NON gay, alto, molto interessante, educato e pulito, farei un bel regalo a un bello studentello bisognoso o giovane lavoratore meridionale max 30 anni». 107
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Senza sottrarre tempo allo studio, si raggiunge così una parziale o totale indipendenza economica che consente di vivere senza affanni, non pesando sul bilancio della famiglia. Discorso ancor più vero per gli universitari fuori sede, come verificato, tra i più interessati dal fenomeno, che in una congiuntura economica negativa hanno dovuto far fronte a tasse d’iscrizione proibitive (specie negli atenei più grandi e di tradizione) e ad affitti spinti in alto da locatori spesso senza decenza che lucrano sugli studenti offrendo tuguri a prezzi astronomici e rigorosamente in nero. Forse bisognerebbe partire da qui per capire come un’attività non certo edificante abbia trovato terreno fertile tra i cosiddetti “insospettabili”. Combattendo magari il rossore sulle gote e spegnendo le sirene che hanno annunciato lo scandalo e non tacciono neppure ora quando sarebbe opportuno concentrarsi sul da fare. Se bene e male non sono più oggettivi, riconoscibili universalmente, e stabilire cosa è valore e cosa no è affidato esclusivamente al singolo individuo, anche prostituirsi a breve sarà considerato un lavoro come un altro. Un relativismo pericoloso e irrispettoso nei confronti di chi questa vita non l’ha scelta ma la subisce. Guadagnare dispensando piacere, nell’immaginario dei maschi più esuberanti, potrebbe rappresentare un modello di vita quasi auspicabile. Annunci molto sfrontati confermano questa tendenza.. Ma nella maggior parte delle interviste fatte a ragazzi che già da tempo svolgono quest’attività (sempre fonte Studenti.it) si registrano parole come obbligo, guadagno, quasi mai piacere. L’entusiasmo misto alla paura e all’incoscienza delle prime volte è sempre meno ricorrente. Come se l’esperienza abituasse il corpo a svolgere il proprio compito sospendendo le emozioni. Ma con le cifre lusinghiere che si percepiscono smettere per tornare ad un impiego tradizionale richiede grande volontà. Per questo è doveroso tener distante dai giovani il fascino della commerciabilità del sesso e l’idea che tutto abbia un prezzo, prima che essi vengano allettati da tale scorciatoia. Il rischio che questo proposito riempia solo una paginetta di buoni sentimenti, utile a strappare il sorriso sarcastico degli interessati mentre il padrone di casa sta bussando alla loro porta, è alto. Inevitabile, se non si risponde con interventi seri e solleciti per garantire con più incisività quel diritto allo studio tanto caro alla nostra Costituzione. Tasse universitarie più contenute, borse di studio più numerose, incremento dei 108
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contributi straordinari per i meno abbienti e meritevoli, buoni pasto, più alloggi per gli studenti fuori sede, agevolazioni nei trasporti, convenzioni con associazioni per svolgere attività ricreative, culturali. ecc. Come pure: incentivi a quelle aziende che assumono part-time studenti, purché con contratto e a cifre dignitose. C’è l’imbarazzo della scelta. Investire, dunque, nell’istruzione per scongiurare questi fenomeni e garantire al Paese un futuro.
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Com’è cambiata l’Italia a 30 anni dalla morte di Moro
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on la morte di Moro, la Prima repubblica ha subito un gravissimo contraccolpo ma è riuscita a sopravvivere e a governare per molti altri anni ancora. Negli anni 80, con l’avvento di Craxi, Andreotti e Forlani (il CAF) l’Italia vede l’inizio di una nuova stagione politica che avrebbe più tardi portato alla fine della Prima repubblica e all’avvio della stagione berlusconiana che oggi è al culmine del suo potere. Con l’avvento di Berlusconi, la politica italiana ha subito un forte cambiamento, entrando in una lunga fase di transizione, nella cosiddetta Seconda repubblica, che spesso ha fatto rimpiangere la Prima. Ma sono stati anche gli anni dell’Ulivo e del centro-sinistra, dei fallimenti di governo e del forte condizionamento del potere berlusconiano sulla società italiana. E così l’Italia si scopre di centro-destra, conquistata da un imprenditore che si dà alla politica, conquista tutte le istituzioni e penetra nel cuore e nella pancia di un Paese. E lo fa proprio, lo domina. Fino a tornare alla guida del governo per la quarta volta. Alla fine del quale si saranno consumati 20 anni dalla discesa in campo del magnate delle televisioni. Oggi con la nascita del Pd, il sistema politico-istituzionale muta enormemente. E se anche è Berlusconi a vincere a discapito del più nuovo e fresco Veltroni, niente sarà più come prima in Italia. Una stagione politica nuova, quella del dialogo e della fine delle contrapposizioni che sarebbe tanto piaciuta ad Aldo Moro. Che dire di Aldo Moro? Disse di lui Oscar Luigi Scalfaro: «Il suo parlare, marcatamente prudente, espri-
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meva la sua volontà di saggiare quanto il suo pensiero poteva essere compreso e poteva essere accolto. Basterebbe pensare alle “convergenze parallele”, per sintetizzare il dover muoversi insieme senza perdere la propria identità, o ricordare, al momento del grande passo verso il partito comunista, quella maggioranza programmatico-parlamentare che non poteva, non doveva diventare maggioranza politica. Lui certamente intravedeva un cammino con fasi diverse e forse sapientemente distanziate». Proprio a proposito di queste espressioni singolari veniva in superficie un’altra sua caratteristica peculiare, quella di trovare quasi ad ogni costo un denominatore comune con altre forze, con altri schieramenti; era alla ricerca di cosa c’è di buono in ogni concezione e impostazione politica, perché quel tanto o quel poco di positivo non si disperdesse in facili, quanto aride contrapposizioni. La vocazione al dialogo era nel suo animo, direi nella sua natura; proprio per questo era per natura e per convinta volontà uomo di pace. Nasceva questa vocazione da quella intima mitezza che gli era propria. Questa sua natura si manifestò nei tremendi giorni della infame prigionia. Chi studiò, preparò, diresse quel crimine politico sapeva di colpire l’unica voce che di fatto, in quel frangente storico, poteva avere ascolto ben oltre la sua parte politica. Per questo, quella voce doveva essere spenta. Aldo Moro fu davvero uomo di dialogo. Certo, le formule per trovare intese che uscivano dalla sua mente potevano creare interrogativi, dubbi, persino meraviglia, ma l’intenzione era semplice e chiara. E fu uomo di verità, non sempre esplicita, non sempre da tutti accessibile, ma nella sostanza fu uomo di verità. I suoi giudizi erano sfumati, bisognava coglierli nelle parole che potevano sembrare incerte, forse contrastanti, ma in ciascuna esisteva una valutazione precisa, non equivoca. Questo, e molto di più, era Aldo Moro, l’uomo e il politico che ha dato tutto al Paese. Ha dato anche la sua vita per il dialogo, il confronto, la pace.
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Mina nell’evoluzione del costume italiano
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iù che altro, io non so mai esattamente chi sono, che cosa faccio, che cosa vedo, come sono gli altri e le cose che mi sono intorno. Provo sempre molte cose insieme e dico “più che altro” per essere sicura di non sbagliarmi. Detesto le manifestazioni che si basano sulla speculazione di un furore collettivo. Detesto le mode. Detesto anche il divismo. Io non mi preoccupo se sono o non sono una diva. Canto per me, perché mi piace cantare. Il giorno che non mi piacerà più, smetterò». Così Mina in una delle sue rare dichiarazioni pubbliche, quando ancora faceva concerti, televisione e si lasciava vedere in giro. Gli anni ’60 e ‘70 L’esordio di Mina. il boom economico. La Grande crisi. Mina fa il suo esordio discografico, esattamente 50 anni fa, nel 1958, in un decennio di profonda trasformazione del Paese. In quegli anni l’Italia conosce un momento di forte espansione. Tra il 1950 e il 1960 il 30% degli italiani cambia residenza, la lira è la divisa più stabile al mondo, il 42% della popolazione ha un lavoro (il che equivale a piena occupazione). Sono mezzo milione le auto immatricolate nel 1962, con un aumento del 22% rispetto all’anno precedente. L’Italia ha voglia di crescere e, soprattutto, di cambiare. Anche e soprattutto gra-
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zie alla musica: l’urlo di Mina libera gli italiani, dà sfogo alle migliori energie nascoste nella società, manda in frantumi un Paese vecchio, rompe con la tradizione musicale e, forse inconsapevolmente, aiuta l’Italia a liberarsi dal grigiore e dalla sua debolezza culturale. Il suo apparire crescente alla radio, sulla stampa, in televisione e nella vita sociale del Paese, espone Mina a mille critiche, a giudizi feroci, ad atteggiamenti di notevole cattiveria da parte dei benpensanti che mal sopportano questa ragazzina libera, che negli anni ’60 sconvolge un Paese borghese e bigotto. Le sue canzoni trionfano in hit parade e sembrano portare grande entusiasmo nel Paese: Tintarella di Luna. Le mille bolle blu. Nessuno. Renato. Un anno d’amore. E se domani. Il cielo in una stanza. La canzone di Marinella, sono i primi grandi successi della Tigre di Cremona. Mina ha accelerato il processo di “liberazione” della donna quando nel 1963 è costretta a lasciare la televisione perché incinta e non sposata: la Rai la caccia, lei con orgoglio difende il diritto di essere mamma, divenendo così il simbolo delle donne che non vogliono più subire. Nei primi anni ’60 la televisione raggiunge quasi tutte le case degli italiani, la Vespa e la Seicento li motorizzano, esplode la minigonna. Le donne rifiutano una posizione subalterna nella società. La voglia di cambiare arriva anche nella Chiesa grazie all’avvento di un Papa riformatore, Giovanni XXIII, che scopre il desiderio di pace e serenità nel mondo. Viene convocato un Concilio, il Vaticano II, che avrebbe cambiato volto alla Chiesa universale. Da lì a poco viene eletto un grande Papa, un riformatore ancora più deciso, Paolo VI, dal volto sempre triste ma dal coraggio senza limiti, che porta avanti le riforme avviate da papa Roncalli. Tornando a Mina, scrive Giorgio Bocca: «[...] Non sono un intenditore, ma la voce di Mina mi piace. Calda, violenta, vera… nella sua voce c’è qualcosa di simile a una droga innocen114
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te, capace di moltiplicare le forze, di ringiovanire lo spirito, di eccitare le energie vitali». Scrive Oriana Fallaci (L’Europeo del 5 febbraio 1961) «Ma chi è dunque questa ragazza che in nemmeno due anni è diventata una specie di mito degli italiani giovani e vecchi, poveri e ricchi, babbei e intelligenti, comunisti e cattolici? È un tipo molto, molto singolare. Io la guardo. In questa Sanremo dove affoga tutto lo squallore di un Festival denso di urli, di vanità provinciali, di peccati mediocri che tuttavia non la toccano, e più la guardo meno capisco chi è. C’è in lei un inconfessato disprezzo per coloro che la stanno ad ascoltare e infatti, quando ha finito, volta sdegnosamente le spalle e se ne va: per andare a guardarsi alla televisione!». Mina, in effetti, non ha fatto altro che anticipare gli eventi. C’era già nell’aria una grande voglia di cambiamento e di modernità dettata dal boom economico, dal riscatto dall’emancipazione della donna, dalla parità dei sessi, dall’industrializzazione. Mentre la seconda metà degli anni ’60 registra una forte impennata della violenza nel mondo e si fa consistente il rischio di una nuova guerra mondiale, in Italia esplode la contestazione studentesca e si fanno notare i primi bagliori di una violenza inaudita che avrebbe portato alle bombe nelle piazze, nelle banche e sui treni, quasi sempre ad opera del terrorismo “nero”. Mina canta con sempre maggiore successo, fa tanta televisione e concerti, “lancia” De Andrè e Battisti, fonda una propria casa discografica a Lugano per liberarsi dai discografici senza scrupoli e per agire in piena libertà e senza condizionamenti. Il suo successo attraversa il mondo intero: arriva perfino in Cina e Giappone, conquista il sud America, l’Europa la guarda con interesse, gli Stati Uniti la reclamano considerandola “una delle tre voci più belle del mondo”. Lei, però, non volle mai andare in America, rimandando sempre un incontro con Frank Sinatra che desiderava conoscerla e cantare con lei!
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La grande artista Giovanna Marini scrive di Mina nel volume “Una forza incantatrice – EurisisEdizioni”: «Che cos’è stata per me Mina negli anni Sessanta? La ascoltavo cantare e pensavo: “Dio, che talento! Dovrebbe fare la lirica, dovrebbe cantare i Lieder, dovrebbe cantare il Seicento, con questa duttilità vocale dove il vibrato appare e scompare, si fa largo e stretto a comando. Lei è stata la prima che mi ha fatto sentire fra le note della sua voce l’esistenza meravigliosa del jazz; è stata Mina la prima cantante a farmi sentire il valore del colore unico della voce». Dopo i favolosi Studio Uno e le tante altre trasmissioni del sabato sera degli anni ‘60, Mina nel 1972 brilla in tv con Teatro 10, insieme ad Alberto Lupo. Nel 1974 l’ultimo show televisivo, Milleluci, di Antonello Falqui, con Raffaella Carrà, che rimane uno dei più riusciti show del sabato sera. Subito dopo Mina dà l’addio alla Tv che cominciava a non piacerle e a non soddisfarla più. Da allora solo radio e una presenza fissa in settimanali e quotidiani nazionali come opinionista graffiante, colta e ironica. Intanto l’Italia degli anni ‘70 attraversa una crisi profonda: l’economia è debole, le piazze in rivolta, il Paese è in preda al terrorismo, si registrano molti assalti mortali delle brigate rosse, la politica è debole e sconvolta. Fra la gente regna un forte senso di paura. Mina, nonostante tutto, domina le classifiche per tutti gli anni ‘70: sforna un successo dopo l’altro, canta l’amore come solo lei sa fare, reinterpreta i cantautori, riprende i grandi successi internazionali, oscilla tra innovazione e romanticismo, si rivela sempre più una cantante matura, moderna, con un voce che diventa più potente e inimitabile. È in testa alla hit parade con Io e te da soli, Insieme, Grande Grande. Parole Parole, L’importante è Finire, Non gioco più. E Poi. Escono album doppi di grande successo di vendita e di critica: Frutta e Verdura/Amanti di Valore, Baby Gate&Mina, Lamina/Minacantalucio, Singolare/Plurale, MinaquasiJannacci, Minalive78, Attila.
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1978: un anno incredibile! Nel 1978 l’Italia, sconvolta dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro, sembra crollare sotto i colpi delle Brigate Rosse. Il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, prova a tenere unito il Paese mentre nasce il governo di Unità Nazionale con Dc e Pci nella maggioranza. La Dc di Moro, Andreotti e Fanfani vacilla; il Psi di Craxi prova a rompere il fronte della fermezza; il Pci discute e si divide. Papa Paolo VI scrive agli “uomini delle Brigate Rosse” una lettera memorabile che scuote le coscienze. Così pure la sua preghiera ai funerali dello statista Dc che rappresenta bene il simbolo di un pontificato carico di dolore e di angoscia. Dopo qualche settimana il Papa, stremato e stanco, muore. Gli succede a sorpresa il Patriarca di Venezia Albino Luciani, Papa Giovanni Paolo I, che dopo 33 giorni muore improvvisamente. Subito dopo viene eletto al Soglio di Pietro il polacco Karol Woytila, Giovanni Paolo II. Un papa “straniero”, giovane e coraggiosissimo, che conduce la Chiesa con determinazione verso il terzo millennio e contribuisce alla caduta del comunismo. Sul finire degli anni ‘70 l’Italia soffre di una grave crisi di identità: il Paese si sta affacciando verso un’era nuova: quegli anni ‘80 che avrebbero portato un’ondata inarrestabile di consumismo e rampantismo. Nel 1978, dopo sei anni dal suo ultimo concerto, Mina torna a sorpresa a cantare dal vivo alla “Bussoladomani” di Viareggio. Ed è un trionfo, diventato leggenda perché subito dopo Mina abbandona le scene e non farà mai più concerti dal vivo. Gli ultimi trent’anni. Mina è solo Voce. L’Italia cambia profondamente. Incurante alle pressioni e alle offerte miliardarie, nel ’78 Mina abbandona le scene e torna ad essere una donna libera. Libera di cantare quando e cosa voleva lei. Soprattutto libera di vivere! Dopo aver abbandonato la TV, lascia anche le scene: addio ai concerti dal vivo. «Il fatto è che io non mi sono mai abituata a cantare in pubblico, ho paura di 117
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tutto, di dimenticare le parole, di inciampare e cadere come un sacco, ho paura che mi sparino, come in Nashville come in Quinto potere. Ho sempre pensato a questa cosa, che mentre canto qualcuno mi ammazza, è una sensazione schifosa che mi occupa tutta, quando sono lì che annaspo nei riflettori, e non vedo niente». (Mina a Natalia Aspesi su Repubblica, 1978) Pianta tutto nell’età di maggiore fulgore e nel pieno del suo successo artistico. E questo lascia tutti senza parole. E per anni la domanda è stata sempre la stessa: «Perché Mina ha lasciato le scene? Prima il cinema, poi la Tv, quindi i concerti, fino a nascondere perfino la sua immagine di donna, madre e poi adorabile nonna». Per spiegare il perché di una scelta, che è comune solo ad alcuni grandi miti del cinema e dello spettacolo (Greta Garbo, Battisti), bisogna ricordare che Mina ha iniziato la sua carriera perché cantare la divertiva e perché aveva intuito che sapeva farlo bene. Poi l’hanno costretta a fare tv, a trasformarsi in una diva, a fare quello che lei non avrebbe mai voluto fare. Ad un certo punto ha voluto tornare una donna libera, riscoprendo il gusto e il piacere di vestire inelegante, di abbandonarsi ai piatti preferiti, di passeggiare per la strada senza essere fermata dalla folla. E alla fine decidere di essere Voce, pura voce. Una delle più belle e potenti voci del mondo. Ma solo voce! Rinunciando a tutto il resto. La grande giornalista Natalia Aspesi scrive di Mina su Repubblica, assistendo al suo ultimo grande concerto dal vivo dell’estate del 1978: «… è così brava, viva, aggressiva. Piena di passione, si disfa a poco a poco, sul palcoscenico come dopo aver fatto l’amore, con violenza e felicità: il sudore le scivola sulla gola mentre canta L’importante è finire, libera il collo bianco dai capelli rossi madidi, mentre grida “Ricominciare, che senso ha...” la gente si perde dentro un richiamo antico, carnale e teatrale. Il disagio di tanta furia amorosa, dimenticata nell’abitudine della finzione sessuale, è come uno schiaffo». Ed eccoci negli anni ‘80. Nel pieno dell’era craxiana. Il Leader socialista, dopo due brevi governi guidati dal repubblicano Giovanni Spadolini, diventa Presidente del Consiglio. Presidente della Repubblica viene eletto Francesco Cossiga, 118
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e con lui si avvia la fase di drammatica conclusione della Prima Repubblica. Nel mondo sembra cambiare tutto. Reagan, Gorbaciov, la Thatcher danno una forte accelerazione ad una svolta che cambia gli equilibri geo-politici in molti continenti. Intanto il papa condottiero e politico attraversa il mondo da un capo all’altro e porta un sorriso di libertà ai popoli. Dal punto di vista economico e sociale, gli anni ‘80 sono particolarmente importanti per il nostro Paese. La società sembra correre verso uno sfrenato consumismo. Il Paese spende molto e si indebita sempre di più, la politica non è più quella dei grandi ideali e si lascia affascinare dagli affari. Intanto la corruzione impera ovunque e il sud del Paese è dominato da Mafia e criminalità organizzata. Un capitolo a parte riguarda lo sport: la Nazionale di calcio allenata da Bearzot vince il titolo mondiale: il Paese vive come in un sogno. Nel corso degli anni ‘80 Mina fa perdere le proprie tracce. Rimane chiusa a Lugano, lavora ai suoi dischi, cerca e lancia giovani autori, ascolta migliaia di proposte di brani che gli arrivano da tutta Europa. L’assenza si trasforma sempre più in leggenda, mito: nessuno la vede più, perfino nelle copertine dei suoi dischi appare con un volto truccatissimo, ma non reale! Continua con impegno a incidere album molto belli, a fare radio, a scrivere. Nessuno sa davvero come sia, come veste, cosa faccia: lei si concede sempre e soltanto con la sua immensa voce. Escono Album che continuano a raggiungere i vertici delle classifiche, pur essendo tutti Lp doppi e dai titoli particolarissimi: Kyrie. Salomè. Italiana. Caterpillar. Rane supreme. Sorelle Lumiere. Intanto, finisce la prima Repubblica sotto i colpi di “mani pulite”! Inizia una lunga fase di transizione. L’Italia politica assiste alla rivoluzione dei P.M.: manette per i leader politici e i grandi imprenditori del Paese. Crolla il sistema politico e vengono cancellati i grandi partiti. Il Pci, che aveva cambiato simbolo e nome appena crollata l’Unione Sovietica, si salva dalla bufera giudiziaria. Il Psi viene cancellato e molti dirigenti finiscono in carcere. Craxi scappa all’estero per sfuggire ai mandati di cattura e alla folla inferocita. Crolla la DC, nasce il Partito Popolare Italiano, scompare un’intera classe dirigente che aveva dominato per oltre 40 anni. Il sistema economico è in forte crisi mentre l’imprenditore milanese, Silvio Berlusconi, padrone di un impero edilizio ed editoriale, nel 1994 scende in campo, fonda Forza Italia, e in tre mesi conquista il potere vincendo le elezioni 119
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politiche insieme alla Lega e al centro-destra. Ma durerà poco. Per dieci anni il Paese assiste alla nascita e alla morte di nuovi partiti, vive in una crisi istituzionale profondissima mentre Capo dello Stato è un uomo di grande livello morale e politico: Oscar Luigi Scalfaro. Intanto Giovanni Paolo II conquista il mondo, in Italia Prodi fonda l’Ulivo e conquista il Governo nel 1996. Subito dopo, il grande Giubileo del 2000 richiama a Roma decine di milioni di pellegrini e turisti. Nel 2001 le elezioni politiche ridanno un grande successo a Berlusconi, Fini, Bossi, Casini, Buttiglione. Comincia l’era del Centro-Destra. Per 5 anni Berlusconi guida il Paese. Poi, dopo una breve pausa di governo del centro-sinistra di Prodi (2006-2008), tornerà nell’aprile 2008 a governare trionfante ma in un contesto politico molto cambiato dall’arrivo di Veltroni e dalla nascita del Pd. Nulla sarà più come prima. A metà anni ‘90 Mina segna una svolta clamorosa nella sua carriera: con l’album “Mina-Celentano” si fa riprendere così com’è, nello studio di incisione di Lugano insieme al Molleggiato: finalmente i suoi tantissimi fans possono vederla in foto, senza alcun trucco. Il disco con Celentano sfonda e domina per mesi le classifiche. Ma la vera svolta, destinata a fare epoca, si ha comunque nel 2001 quando Mina fa qualcosa di incredibile: registra un suo concerto dal vivo nello studio della PDU di Lugano e lo manda in onda in rete, su Internet! Mina e l’orchestra ed è subito clamore. La rete scoppia, 15 milioni di persone da tutto il mondo si collegano la sera della messa in onda del concerto. Mina finalmente dal vivo! Escono altri cd di grande successo: Canarino Mannaro. Cremona. Napoli. Dalla Terra. Sconcerto. Veleno. Bula Bula. Bau. E c’è chi pensa a Mina quale Senatrice a vita per alti meriti artistici. Ora, dopo la sua uscita in Rete dal vivo, rimane solo da capire se davvero farà adesso il grande passo, se deciderà di tornare dal suo pubblico dopo una pausa di 30 anni. E cosa farà Mina in un momento di grave crisi del mercato discografico. Lei prova a conquistare i mercati internazionali: nel 2007 esce un suo nuovo cd, Todavia, inciso in spagnolo, destinato ad un buon successo nel mercato sudamericano dove lei è ancora molto popolare e amata. Il disco è veramente molto bello, ben suonato, e lei con una interpretazione straordinaria, nonostante i 50 120
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anni di attività, duetta con i più grandi interpreti italiani e latino-americani. Nel 2008, mentre nel Paese è sempre più bufera politica e nel mondo imperversa una brutta crisi dei mercati finanziari, tutti la celebrano per i suoi cinquant’anni di carriera. Nessuno discute quando si tratta di Mina. Per tutti è sempre più un mito. E dopo che il presidente Ciampi l’aveva insignita del riconoscimento di Grande Ufficiale della Repubblica, ora c’è chi pensa a lei quale Senatrice a vita per alti meriti artistici. Mina, in tutto questo, è sempre fuori dalla scena. Presente con la sua grande voce, con i suoi colti e anticoformisti articoli del sabato su La Stampa, attenta a tutto quello che accade, ma distante. Voce, sempre più voce in un mondo che urla, grida, vive di spot e di apparenza. Un mondo che a lei non piace, anche se lei continua a piacere sempre di più al mondo.
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Un governo forte con i più deboli
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on c’è dubbio che il tema della sicurezza sia molto avvertito dagli italiani. Oggi le nostre città appaiono molto insicure. Appaiono. Così Roma, Torino e Milano, e molti altri centri del nord Italia. Non appare insicuro il sud, dove mafia, camorra, ndrangheta e criminalità organizzata occupano buona parte dei territori e delle istituzioni. E fanno grandi affari con il silenzio e la complicità della politica, della società e dell’impresa. Ma le ricche città del centro nord Italia sono assalite dalla criminalità! Ed è per questo che il nuovo Governo non si era ancora insediato e già annunciava clamorose misure per assicurare ai bravi cittadini italiani più sicurezza. Il nuovo Governo, il terzo dell’era Berlusconi, che all’apparenza si dimostra gentile, disponibile al dialogo e moderato, mostra i muscoli e avvia una vera e propria operazione di pulizia: il primo obiettivo sono i campi rom, anzi i romeni in quanto tali. E lancia agli italiani un messaggio: sono uomini pericolosi, sono loro che compiono i peggiori reati e mettono paura ai tranquilli cittadini italiani. Sono loro che stuprano e uccidono le nostre donne. E giù botte ai rom, e vai con la minaccia di espulsioni di massa. Perché pare che a rubare, minacciare e stuprare siano intere comitive di rom. Tutti insieme, contemporaneamente! Così dice Maroni, che lo avrebbe sentito da Bossi. E che ha scandalizzato l’ex ministro Pisanu che ha definito questi ministri incompetenti e pericolosi. Il messaggio del governo è chiaro, e viene subito recepito dagli italiani. Soprattutto da coloro che, senza alcun timore, si danno subito da fare e passano alle maniere forti: incendiando i campi nomadi, minacciando, aggredendo e cacciando i rom che vivono nelle nostre periferie. Del resto, essendo brutti, sporchi, cattivi e
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violenti cosa li teniamo a fare in Italia? E giù la caccia al romeno. Al diverso, agli ultimi. Anche ai bambini rom. Il governo di destra si mostra subito forte con i deboli. Pronto a mandare l’esercito. Non contro la mafia, la ndrangheta o la camorra. Contro i rom. Perché le nostre città non sono sicure. Veramente sarebbero molto più insicure Parigi, Londra, New York, ma questo gli italiani non lo sanno. E siccome conta far vedere che il nuovo governo è deciso, è fatto di uomini forti, non perde tempo e si dà da fare. Così come si darà da fare con i poveri straccioni che con le carrette del mare invadono le nostre coste. Tutti i dati parlano di un calo degli sbarchi in Italia. Ma il nuovo governo fa sapere che li ributterà in mare, anche i malati, le donne e i bambini: tutti in mare. L’Italia non li vuole più. Il nuovo governo è così forte che ha deciso di dare la caccia agli statali vagabondi che si assentano dal lavoro, che presentano il certificato medico troppo spesso. Anche a quelle mamme che arrivano tardi in ufficio perché vanno ad accompagnare il figlio all’asilo più vicino. Tutti fannulloni. E così, mentre la pubblica amministrazione affonda in un mare di corruzione e incompetenza, il nuovo governo dà la caccia a chi si assenta, e minaccia di licenziarlo in tronco. Negli uffici dello Stato e delle Regioni sono tornati a lavorare migliaia di dipendenti pubblici che, condannati o indagati, non c’è verso di mandarli a casa, di licenziarli. Sono rientrati tutti nel loro posto di lavoro, con la stessa qualifica, negli stessi uffici, a delinquere come e più di prima. Mentre la mamma che porta il bambino all’asilo sarà immediatamente licenziata. Parola di ministro. Il governo è così forte con i deboli che non ci ha ancora detto cosa farà per continuare la dura battaglia contro gli evasori fiscali avviata dal governo precedente. Quelli che portano milioni di euro nelle casseforti dei paradisi fiscali. Ma siccome a dichiarare un reddito pari a zero sono milioni di comuni cittadini, vuoi vedere che la lotta all’evasione comincerà esattamente da questi? Dal calzolaio di Catania, all’ambulante di Viterbo, al facchino di Vercelli. Questo è il governo dei più forti. Il Governo che darà sicurezza al Paese. Questo è il Governo che volevano gli italiani?
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Un governo senza cattolici!
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eloce, rapido, ma senza alcuna novità di rilievo. Soprattutto: una maggioranza che dopo 60 anni “elimina” i cattolici dal governo del Paese! E poi: dà un ruolo quasi scontato, banale, alle donne, che sono poche, pochissime, nei ruoli meno significativi, senza alcun peso nella “stanza dei bottoni”. Ed infine: un governo dove il peso maggiore, determinante, è tutto nel profondo nord: qui troviamo i ministri che gestiranno l’economia, le grandi decisioni interne ed internazionali, tutte le partite che riguarderanno il futuro del Paese. Nessun calabrese nei 21 ministri che formano il governo. Qualche contentino arriverà, ma sostanzialmente niente di serio e di decisivo. Questo è il quarto Governo Berlusconi. Per tornare all’aspetto che ci sta più a cuore, occorre dire che nella storia, i governi esprimono la sintesi culturale, il sentimento comune di appartenenza a valori e a principi che costituiscono il fondamento del convivere democratico. Così per 60 anni la politica, in Italia, ha espresso un variegato e composito quadro di identità, il confronto nel parlamento esprimeva il fermento culturale del Paese. La politica svolgeva il ruolo di mediazione sociale, coglieva bene i movimenti dello “spirito” nella storia che determinavano cambiamenti, e una politica attenta e responsabile guidava questo delicato passaggio verso una pacificazione sociale. Di questi avvenimenti, i cattolici sono stati sempre protagonisti; la lunga parabola della Democrazia Cristiana testimonia di questo impegno nella salvaguardia delle istituzioni e nell’avanzamento della democrazia partecipata. I cattolici dopo la fine della Dc non sono stati espulsi dalla politica italiana, sono riusciti a vivere la “logica dell’incarnazione” nel tempo che è stato loro dato,
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nelle varie formazioni hanno cercato di dare un importante contribuito nel governo del “conflitto sociale”, di elaborazione e sintesi per l’affermazione del Bene Comune. La politica italiana ha incrociato la “questione cattolica” da sempre, questo ha suscitato aspri dibattiti ma anche rafforzato il sentimento democratico verso le istituzioni, i suoi uomini in prima persona hanno dato prestigio e dato la vita. Questo è attestato da tutti sul piano storiografico. A fronte di una conclamata attestazione di fede a quegli ideali cattolici, corredata da messe e atti di contrizione, l’attuale compagine di centro-destra sancisce una rottura storica con quel filone culturale. Nessuno dei nuovi ministri per formazione, cultura e militanza proviene direttamente da quell’orizzonte valoriale: questo rappresenta una forte e dirompente novità. Vuol dire che si chiude un’esperienza politica per i cattolici-impegnati nel nostro Paese; al di là delle parate scenografiche, delle funzioni religiose officiate dai cardinali Bertone e Bagnasco, alle quali i neo-ministri accorreranno in massa in queste ore!, l’indirizzo culturale dell’attuale governo è preciso: per il nuovo tempo della globalizzazione, tra “paura e futuro”, l’apporto dei cattolici non è più richiesto, la loro irrilevanza sul piano culturale e sociale è sancita. Le nuove dinamiche sociali vivono il tempo della velocità e dell’intensità, dura legge del mercato che non conosce il tempo della riflessione e della storia ma solo quello del profitto, spazio che cancella la lezione del passato per vivere solo il proprio tempo come un grande “villaggio del consumo”. Il nuovo governo ha voluto operare una cesura netta con il passato culturale del Paese, facendo ciò, vuole indicare anche un nuovo modo di fare politica, di intendere la politica come mero tecnicismo, fredda contabilità di numeri e tabelle, piegando la politica alla sola logica economica. Scelta politica debole sul piano culturale, perché azzera e disconosce l’apporto di storie e sensibilità che hanno sedimentato lo spirito democratico del nostro Paese. Ci si chiede, ma davvero l’attuale contingenza storico-economica può fare a meno di quell’ispirazione culturale in politica? Può cancellare un governo le ragioni di una militanza? Credo di no. Penso che la tradizione culturale dei cattolici possa dare al nostro Paese uomini ed idee di libertà e di cultura democratica, risorse da offrire per “governare” la politica stessa. Come ci ricorda, nel suo ultimo libro, “Un cattolico a modo suo”, il compianto P. Scoppola, che scrive: la politica è «valutazione razionale del possibile e sofferenza per l’impossibile», tensione culturale nella storia mai vinta, continuo cammino fascinoso per una speranza da donare all’umanità. 126
Morire di fame mentre i leader fanno shopping
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arebbe, in fondo, tutto regolare: le camere negli alberghi più esclusivi di Roma (fino a 5000 euro a notte), la prima colazione nel giardino dell’Hotel de Russie o nella veranda della Casina Valadier, il pranzo a base di rombo, con le pietanze bagnate da pregiatissimi vini internazionali (una bottiglia non può valere meno di 150 euro). Come sarebbe nella norma recarsi, con le splendide ed elegantissime signore, a fare shopping nella sempre affascinante via Condotti, a due passi da Piazza di Montecitorio e da Palazzo Chigi. Qualche acquisto, di quelli giusti, che non può mancare per chi visita il cuore di Roma. Ad esempio da ValentinoDonna: una camicia in vetrina vale 6.900 euro, una gonna 3.500; da Armani, sempre su via Condotti: top 5.730 euro, gonna 2.020; nella splendida vetrina di Hermès: borsa Victoria II ha il prezzo di 2.630 euro, mentre un orologio Heure 3.230. Ma vuoi mettere il fascino di comprare ad una boutique di via Condotti? Quello non ha prezzo (per la gente comune). Sarebbe tutto regolare, quindi, per le 50 delegazioni di Capi di Stato e di Governo di molte parti del mondo, dormire nei più eleganti e costosi alberghi della Capitale, pranzare nei ristoranti più esclusivi, fare shopping nelle boutique più alla moda. Qual è lo scandalo? Di cosa meravigliarsi? Nessuno scandalo, nessuna meraviglia, perché il mondo va così da sempre. L’unica cosa che fa venire la pelle d’oca è che quelle 50 delegazioni di Capi di Stato e di Governo sono state a Roma, negli ultimi due giorni, per partecipare al vertice della Fao sulla fame nel mondo! Sì, perché nel mondo ci sono 850 milioni di persone che letteralmente sono alla fame, mentre un quarto dell’umanità consuma gran parte delle risorse naturali della terra.
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Di questo si è discusso a Roma, mentre il presidente francese Sarkozy faceva un salto alla sua sartoria preferita, Battistoni, altri illustri presidenti e primi ministri si godevano la spettacolare città eterna by nigh dai terrazzi di 200 mq delle loro suite esclusive. Nel frattempo, la “presidenta” argentina Kirchner, distrutta dal primo giorno di vertice, si recava a riposare nella sua spettacolare suite (con vista sul Vaticano, essendo lei cattolicissima!). Nel comodo letto, due lenzuola di Athos Pratesi da 1000 euro! Come è giusto che sia. In precedenza, la presidenta era riuscita a fare un salto presso l’esclusiva gioielleria Bulgari di via Margutta. In vetrina gioielli da 10 mila euro in su. Mentre accade tutto questo a Roma, nel mondo si muore di fame, ogni secondo ci sono bambini che muoiono di fame. Da sempre si muore di fame nel mondo, è vero. Ma ora si muore sempre di più, mentre la povertà avanza galoppando, sfiorando anche i Paesi ricchi dell’Occidente. In Calabria, tanto per fare un esempio, una famiglia su quattro è in piena emergenza, vive ben al di sotto della cosiddetta fascia di povertà. Ecco, se almeno in occasione di un vertice come questo, si mostrasse al mondo un po’ di discrezione e meno strafottenza, ne guadagnerebbero molto la dignità della politica e la credibilità dei governi che dicono di combattere una piaga vergognosa della terra come la fame! Un briciolo di pudore non guasterebbe affatto, signori Presidenti.
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Calderoli in Calabria: attenti al lupo!
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l presidente Loiero è persona navigata e astuta e sa bene quali siano i rischi della visita del “padre” del federalismo fiscale, il ministro Calderoli, in Calabria. Il ministro leghista si appresta a far visita al presidente di una Regione che i nordisti vedono come assistita, corrotta e arretrata soprattutto perché vuole far vedere al resto del sud e del Paese che sta nascendo un federalismo solidale e condiviso. Agazio Loiero è stato il primo a lanciare l’allarme sui rischi gravissimi del federalismo per il Mezzogiorno. E ad esso si è opposto con studi, analisi, posizioni politiche e battaglie molto dure. Loiero, agli occhi della Lega che vuole incassare il federalismo fiscale presto e bene (per la Lega si intende), è un ostacolo sul cammino del federalismo, da eliminare subito. Forse l’ultimo ostacolo alla realizzazione del loro progetto. Infatti, la Sicilia di Lombardo ha un peso politico fortissimo e una condizione, quella di regione a statuto speciale, che la garantisce e la tutela. La Campania, nelle condizioni in cui l’ha ridotto Bassolino, può fare ben poco, ed è ostaggio di Berlusconi che può scioglierla quando meglio crede. Bassolino tace sul federalismo, perché non ha la forza per pretendere alcunché. La Puglia di Vendola, presidente uscito fortemente indebolito dal congresso del suo partito, ha una situazione economica e produttiva che la rende molto forte. E c’è un ministro pugliese, Fitto, che la tutela e la protegge. Rimane la Calabria, regione piccola e con molti problemi, con una immagine pubblica molto screditata a livello nazionale. La Calabria che potrebbe dare fastidio all’operazione leghista. Molto fastidio. Ad esempio reagendo duramente e mettendo sul chi va là i partiti e gli elettori di centro-sinistra delle diverse regioni
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meridionali. Potrebbe dare molto fastidio se dovesse ricorrere alla Consulta, che un federalismo imposto, lacerante, confuso non lo accetterebbe mai. Il presidente Loiero sa benissimo che il federalismo sarà approvato. La Lega è determinante nella maggioranza di governo ed ha quindi la forza per imporlo, nonostante i dubbi di parte di Forza Italia e la contrarietà di A.N. (che per ora tacciano, ma se il sud si ribellasse non potrebbe far finta di nulla). Non arriveranno particolari ostacoli dagli altri 14 presidenti di regione di centro-sinistra, per diverse ragioni, non ultimo il timore del rafforzarsi ulteriore della Lega in quelle regioni del centro nord che non dovessero approvare il federalismo fiscale. Una buona dose di egoismo, un nuovo vento antimeridionale, e la convinzione di avere più risorse a disposizione e quindi migliori servizi, rende le popolazioni delle regioni del centro-nord Italia favorevoli al nuovo sistema fiscale che porta maggiori entrate fiscali. A discapito del sud, ma questo a loro importa poco. Agazio Loiero, proprio perché conosce bene la materia, sa perfettamente che la Calabria rischia moltissimo con il federalismo fiscale, conosce, inoltre, bene il Ministro Calderoli e la Lega di Bossi. Non si fida di loro, ma sa anche che non si può sottrarre al confronto. Che ovviamente giova soprattutto al ministro leghista. Ma non può nemmeno dire di sì al federalismo fiscale accontentandosi di qualche generica garanzia e di qualche promessa. La partita è troppo grossa per accontentarsi di impegni fumosi. Prima di tutto la Calabria, prima di iniziare a discutere di federalismo, dovrebbe sapere dal governo Berlusconi cosa intende fare per il Mezzogiorno. Qual è il destino del Sud nei progetti dell’asse Berlusconi-Bossi-Tremonti. Quello che abbiamo visto in soli 100 giorni di governo Berlusconi-Bossi-Tremonti ci fa molto preoccupare. Vogliamo ricordare qualcosa? Parliamo dell’ Ici ad esempio e dei fondi per le infrastrutture calabresi che il governo ha scippato alla nostra regione per coprire in buona parte il buco causato dall’eliminazione totale dell’Ici. Così addio all’ammodernamento della 106 jonica e delle altre strade statali e provinciali calabresi che il governo Prodi aveva finanziato e il Cipe aveva già deliberato. Parliamo, per fare un altro esempio, del Dl 112 approvato a colpi di fiducia ai primi di agosto. È la manovra fiscale triennale di Tremonti che ha inflitto un duro colpo alle scuole del sud con centinaia di cattedre che si perderanno e di istituti che saranno soppressi. La stessa manovra che rischia di mettere in crisi l’Università di Arcavacata (che sappiamo essere una delle migliori d’Italia) e gli altri Atenei calabresi che non potranno più mantenere gli attuali standard qua130
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litativi. Il dl 112 riduce il numero degli operatori delle Forze dell’Ordine che in Calabria sono già ben al di sotto delle necessità operative, riduce notevolmente le risorse per la stabilizzazione dei precari, ridurrà alla fame i già provati comuni, soprattutto quelli calabresi. Ci fermiamo qui, ma vi assicuro che l’impronta antimeridionale di questo governo è ancora più forte, e molti altri esempi potremmo fare per provarlo. Penso soltanto alla sanità che con i provvedimenti governativi sarà drasticamente ridotta in Calabria in termini di quantità (avremo molti ospedali in meno) e di qualità del servizio (le risorse non basteranno più). Impronta antimeridionale che troviamo nelle colorite espressioni di Bossi e nelle affermazioni del ministro dell’Istruzioni Gelmini: entrambi hanno indicato negli ignoranti docenti calabresi, in loco o in servizio al nord, il male della scuola italiana. Nel nord ci manca poco che i presidi di origine meridionali non vengano espulsi e “rimpatriati” nelle terre di provenienza! Ecco, questa è la Lega, questo è quanto ha fatto finora il Governo BerlusconiBossi-Tremonti, che non ha un ministro e nemmeno un sottosegretario calabrese (ma uno strapuntino prima o poi lo troveranno per qualche collega parlamentare). Un governo che ha perfino pensato di far pagare il pedaggio sull’A3. Il presidente Loiero conosce benissimo tutte queste cose. Ma fa benissimo a parlare con il “padre” del federalismo fiscale. Sa benissimo che il federalismo fiscale ci porterà verso un’Italia a due velocità (ancora più ricca e forte quella del nord, molto più debole ed emarginata quella del sud), fino alla lenta e inesorabile disgregazione del Paese, che ci porterà ad una fase di “disunità nazionale”, con il concreto rischio che l’Italia lentamente si spezzi ed ognuno vada per conto proprio. Il federalismo fiscale, può essere accettato e condiviso, se non mette a rischio l’unità sostanziale della Repubblica. Senza la quale il Paese è finito e il sud è destinato ad affondare. Si può discutere di federalismo fiscale se si tratta di un federalismo solidale e compatibile, se garantisce i servizi essenziali (sanità, salute, servizi sociali, istruzione, trasporti, sicurezza, ecc.) uguali per tutti, in qualsiasi regione d’Italia. Per cui, prima di parlare di federalismo, il Governo nazionale deve portare i servizi essenziali del sud (scuola, ospedali, infrastrutture, servizi, ecc.) allo stesso livello di quelli del Nord, colmando così un divario troppo grande che c’è fra nord e sud del Paese. E mi fermo qui. L’Italia è, in questo momento, come un gigantesco specchio. Tutti ci specchiamo e appariamo un insieme di volti, diversi uno dall’altro, ma tutti insieme, uniti. Qualcuno sta spingendo per farlo cadere questo specchio, riducendolo così in 131
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mille pezzi. Così ognuno si specchierà nel proprio pezzettino, e l’insieme non ci sarà mai più. Il presidente Loiero sa anche che non è vero che con il federalismo fiscale i cittadini pagheranno di meno, che l’Italia sarà più efficiente e meno sprecona, che il Paese sarà più moderno e che i servizi saranno migliori per tutti. Sono tutte menzogne. Il federalismo avrà costi altissimi, ci vorranno anni per farlo funzionare, ridurrà il Paese a pezzi. Calderoli viene in Calabria con la faccia buona, quella che sta mettendo in bella vista in questi mesi. Sa che deve fare il buono e dimostrare a tutti che ora è uno statista saggio e prudente se vuole portare a casa il federalismo fiscale, una grande vittoria per la Lega, una sconfitta per tutte le altre forze politiche, e nel centro destra soprattutto per A.N. Dietro al Calderoli vestito da agnello si nasconde un lupo. Un lupo affamato e quindi cattivo. Noi siamo convinti che il Paese deve cambiare, che la Calabria ha bisogno di rompere con il proprio passato fatto di corruzione, clientelismo sfacciato, sprechi ed eccessi, e che ha bisogno di una classe dirigente moderna e credibile. Siamo pronti ad impegnarci perché questa Calabria cambi veramente. Ma accettare da parte nostra il federalismo di Bossi e Calderoli senza alcuna reale garanzia, sarebbe un suicidio. Ma a morire non sarà solo la Calabria, ma anche l’Italia! Noi faremo una dura battaglia nelle Aule parlamentari. Tutto il Pd sosterrà le richieste della Calabria. Parleremo delle necessità di investire in Calabria senza regalare più niente a nessuno. Ci sono settori come l’energia, la sicurezza, le infrastrutture, il turismo, l’ambiente che hanno bisogno di veri investimenti, che potrebbero portare ricchezza e lavoro alla Calabria e al resto del Sud. Parleremo anche di una zona “no tax” che potrebbe rilanciare l’impresa in Calabria. Parleremo del futuro, della porta del mediterraneo, della conoscenza, delle nostre Università che potrebbero diventare le Università di tutti i Paesi del Mediterraneo e di quelli del nord Africa che vogliono uscire dall’arretratezza. La Calabria ha quindi un grande futuro. Non la possiamo ammazzare ora con il federalismo di Bossi che vuole impedirci ogni possibilità di crescita. Dall’incontro di Loiero con Calderoli dovrà uscire una regione orgogliosa e decisa che non si piega davanti alle minacce e ai ricatti. Una regione che crede ancora nelle proprie potenzialità. E che non ha paura di niente e di nessuno.
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Lettera dal carcere
«Io sono uscito e potrei fregarmene, ma...»
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ent.mo Onorevole, non posso mettere il mio vero indirizzo perché quella è gente senza scrupoli, io sono una vittima come le altre. Non abbiamo la forza economica di combattere queste ingiustizie. E lasciamo perdere. Esempio: al carcere di Cosenza e Reggio va tutto bene. A Rossano non lo so ma almeno lì si mangia bene. Quel giorno, quando lei è venuto a farci visita in cella, nessuno avrebbe parlato quando ci avete invitato a dire quelle lamentele, ma ve lo giuro sulla mia vita, che Dio mi fulmini, che è l’inferno. Quando morirò non andrò sicuro all’inferno perché ci sono già stato stando in quel carcere. Spero che faccia qualcosa per quella povera gente che soffre le pene di Cristo. Non so se lei abbia davvero intenzione di aiutarli. Anche se hanno sbagliato vengono trattati come delle bestie, anzi peggio. Non è giusto per l’umanità propria. Voi non ne avete la più pallida idea. Se avremmo parlato ci avrebbero massacrato come fanno sempre. Come mai tutti si fanno trasferire altrove? Anche se non vedono più i familiari ma non ce la fanno a resistere chi non si lamenta non ne ha le forze. Poi sono tutti zingari negri o analfabeti. La prego faccia finire questo scempio. Tutti hanno diritto di mangiare decentemente, di essere trattati da persone, e di non morire di freddo perché accendono i termosifoni poche ore al giorno, e la c’è la neve. E tanto altro che ci vorrebbe un libro. O fai quello che ti ordinano o vai in isolamento o ti fanno tanti rapporti che poi vanno al giudice. E di lì non si esce mai. C’è gente innocente. Comunque io, lei, e le guardie stanno bene, loro no. Non hanno nemmeno l’indispensabile e le guardie, non tutte, cin-
Franco Laratta
que su dieci sono aguzzini... C’è un muro di omertà, non si aspetti che qualche detenuto vi dica se è vero davanti a loro. Forse quando escono. Se farà qualcosa andrà per l’anima dei morti, sarà come un’opera di beneficenza. Invece se lascerà continuare questa omertà sarà un’altra dose di veleno inferta nei loro cuori, voi nemmeno immaginate. E questo è solo l’1% di quello che succede sia al femminile che al maschile. Io sono uscito e potrei fregarmene, lei non ci deve stare e potrebbe fare finta di niente. Ma se è calabrese pensi a quella povera gente.
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Lettera dal carcere
«Voi con me ci avete parlato attraverso le sbarre...»
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norevole Laratta, vi scrivo dal carcere dove sono reclusa per “spaccio” invece io l’avevo comprata personalmente per me. Giusto per le feste natalizie, era il primo anno che lo facevo. Ho notato che chi uccide si fa meno anni di me che l’avevo comprata per uso personale. Mi hanno accusato e mi hanno colto in flagrante mentre tornavo a casa. Vi volevo dire che qui ci trattano tutti male, non è come appare, infatti si dice che l’apparenza inganna. Ed è così in questo caso. L’unica persona dignitosa e che ci tratta da persone umane e non da animale è l’ispettrice donna, e il direttore e tre guardie donna. Per il resto delle guardie donne e il brigadiere, ci trattano male, spesso ci hanno messo le mani addosso e non si dovevano permettere, il cibo fa schifo, e noi costiamo avete detto 350,00 € al giorno, ma il cibo non mi pare rientri in questa cifra che non so in quali tasche vada a finire. Le celle fanno pietà, i termosifoni non li accendono che per poche ore al giorno, delle guardie che soffrono di presunzione ci disprezzano in tutti i modi possibili e fanno tutto quello che vogliono con noi, tanto, sanno che noi non parliamo e loro hanno sempre il coltello dalla parte del manico. Se non vogliamo andare a messa, ci minacciano dicendo che ci fanno una brutta relazione con il giudice. Quel poveraccio di turno, che ne sa qual è la verità? Si sta sempre in una condizione di minaccia psichica e fisica. Si figuri che con l’acqua a quarantuno gradi mi hanno costretto a fare la doccia e messo in isolamento per tre giorni, senza neanche farmi visitare come da prassi. Poi mi hanno buttato tre secchi d’acqua nella cella e per raccoglierla ci ho messo una giornata intera, già tremavo che avevo la febbre, anche se non ci lavavo quel giorno l’avrei fatto il giorno dopo come faccio ora che sto bene e lo faccio tutti i giorni. Mi hanno
Franco Laratta
spinto al muro e chiamato più volte spazzatura. E non sono l’unica. Oggi quando voi ci avete chiesto di dire quelle lamentele che avevamo da fare, nessuno si è permesso a fiatare, perché poi negavano davanti a voi e a noi, cioè chi parlava lo mettevano in isolamento, come hanno sempre fatto. Ci hanno avvisato prima di entrare: «State mute». Poi se materialmente non ci possiamo fare niente che ci sono altre persone, ci impediscono di fare la spesa settimanalmente, come è già successo, anche a me personalmente. Se ci sono dei corsi e non li vogliamo fare ci costringono con le buone o cattive, sempre con minacce di tutti i tipi. Le mamme di famiglia, che sono tra quelle tre agenti brave (perché si comportano normalmente) fanno il loro lavoro e basta, le zitellone compresa il brigadiere e il resto delle guardie, hanno un’acidità ed una cattiveria che voi nemmeno vi potete immaginare. Figuratevi che ai colloqui ci impediscono di baciare i nostri genitori (mamma e papà) che lasciano il lavoro e fanno tanti chilometri per venirci a trovare, il colmo! Inoltre c’è un vetro che ci allontana nei colloqui e in altri carceri non c’è. Poi quel poco di aria che ci danno al giorno, ci fanno uscire più tardi dalle celle, dovremmo uscire alle 9:00 e invece usciamo alle 9:15 – 9:30. E invece dobbiamo salire alle 11:00 e saliamo alle 10:40 sempre meno, anche alla socialità. Dobbiamo stare un’ora e trenta minuti e invece stiamo un’ora. Insomma questo non è un carcere ma un vero manicomio. Io sono stata ad altri carceri, e lì era tutto normale, anche essendo sempre un carcere. Ma qui è tutto più del dovuto. Nelle camere possiamo tenere poche cose e la notte ci passano a riprendere le pinzette per le sopracciglia e la forbice per le unghie perché possiamo tenerle solo di giorno. Nono riescono a capire che se vogliamo fare qualcosa possiamo farla anche di giorno. Qua solo stranezze stupidaggini. Non fanno altro che dire: «Qua comandiamo noi!»; ci urlano contro senza motivo, e altri atteggiamenti che vanno contro l’umanità e la nostra dignità di persona. Quella ragazza che vuole andare vicino casa, mi sembra nel Lazio, è perché qua sta uscendo pazza, come tutte noi. Un’altra si è fatta trasferire altrove e altre ci provano ma non ci riescono. Qui si sta peggio degli animali. Ogni quindici o dieci giorni ci fanno delle perquisizioni che ci devastano le celle, e poi ci buttano tutto per terra e dobbiamo mettere apposto per ore ed ore. Il provvedimento ministeriale non da una legge specifica, ma non sono trattamenti per il genere umano rispetto alle finalità rieducative della pena. Poi in altri carceri ci sono attività ricreative e culturali, ma qui non c’è niente, vorrei sapere dove finiscono i soldi stanziati per fare tutto questo? Per finire l’art.11 dice che la direzione dell’istituto deve chiedere prima all’au136
Miseria e Nobiltà della politica, della società
torità giudiziaria l’autorizzazione a controllare posta in arrivo e in uscita, questa restrizione è prevista nel regime di sorveglianza particolare. Il provvedimento viene dato in dieci giorni dalla richiesta. Questo di solito è previsto per chi ha il 41 bis. Invece a noi aprono la posta perché, preventivamente, ci hanno costretto a firmare un foglio che li autorizzava a farlo. Io ero in isolamento, mi hanno detto: «o firmi o rimani in isolamento», quindi sono stata costretta perché non potevo stare più in isolamento. In più l’art.75 ci autorizza per istanze e reclami a parlare direttamente col direttore del carcere, invece a noi questo è negato. Le guardie ci chiedono: «che vuoi, che devi dire», figuratevi! Il magistrato di sorveglianza tiene conto per le nostre decisioni nei nostri riguardi della valutazione da parte delle guardie e company, ma loro, se vogliono, ci rovinano la vita, per questo motivo non vi posso mettere il mittente. Dato che sono ancora qua dentro e ho potuto spedire la lettera da una persona che è già fuori. Appena uscirò vi farò sapere chi sono. Al momento le mie sono solo informazioni, quando uscirò voglio fare qualcosa affinché nessuno, neanche il mio peggior nemico, subisca quello che abbiamo subito noi. Da alcuni particolari loro potrebbero capire che vi ho scritto io, invece una volta fuori non m’importa più. Quando uscirò vi farò sapere e poi potete fare quello che volete. Voi con me ci avete parlato attraverso le sbarre e mi avete chiesto come ci trattavano, avevo paura pure a rispondervi, dato che dietro di voi c’era una guardia. Mi creda ci trattano come bestie. Io sono stata anche in altri carceri ma ora purtroppo hanno chiuso la sezione femminile se no ero rimasta lì. Mi hanno arrestata per accusa di spaccio per la seconda volta, la prima non mi hanno trovato mai niente, ora sì ma era mia personale. Comunque sia vi ho scritto perché dalla faccia si vede quando un politico è una persona corretta. Non ho mai avuto il coraggio di scrivere a nessuno. Figuratevi che il mio avvocato e giudice mi hanno detto di farmi dare il mio certificato anzi la cartella clinica e loro non me la volevano dare, poi ho parlato con una persona importante e poi dopo due mesi me l’hanno data, questa mi serviva per uscire ed avere i domiciliari o una misura meno restrittiva. E loro finché non interveniva questa persona non me la davano mai. Appena il mio angelo custode ha fatto il suo intervento in giornata me l’hanno data. Ed io presto grazie alla mia situazione fisica andrò via da questo manicomio, mi creda nel vero senso della parola. Per ora le ho voluto soltanto dire la verità su come stanno le cose, poi dirò tutto il resto con la mia identità. Mi scuso per l’essermi dilungata ma erano cose che dovevate sapere.
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Federalismo. Se nasce la Federazione dell’Italia del Sud!
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ppassiona sempre di più il dibattito sul federalismo. Appassiona e spaventa. A cosa va incontro l’Italia? Dopo il federalismo, Bossi otterrà la Padania libera e indipendente? Cosa ne sarà del Sud d’Italia? Proviamo a capire cosa potrà accadere nel nostro Paese, ricordando prima di tutto che la leva fiscale è uno degli strumenti più importanti, se non il più importante, tra gli strumenti di politica economica, da paragonare alla potestà di battere moneta. Esso, rispetto alla politica monetaria (potestà esclusiva ed unilaterale) ha maggior valore perché definisce il contratto che si instaura tra il cittadino e lo Stato per una reciproca opportunità di convivenza nei propri confini. Qualsiasi discussione sul tema non può quindi farci dimenticare l’estrema rilevanza che il tema delle tasse ha sulla struttura economica e sociale di qualsiasi popolazione in qualsiasi parte del mondo. Nessuno oggi può più mettere in discussione la necessità di attuare il Titolo V della Costituzione attraverso la piena attuazione del feralismo fiscale. Ma non può bastare una semplice applicazione del federalismo fiscale giustificato dall’esigenza di mettere a posto i conti pubblici e di fare cassa (soprattutto a vantaggio delle regioni del nord). Applicare un certo tipo di federalismo fiscale può significare accrescere ulteriormente il divario tra nord e sud, creando nuove e più profonde divergenze nel Paese. Non basta, pertanto, un fondo perequativo né un senato federale per contrastare l’inevitabile concorrenza che si verrà a creare tra sistemi economici regionali estremamente diversi in termini di forza economica e solidità sociale a seguito del federalismo fiscale.
Franco Laratta
Le previsioni di Jacques Attali “… Nel corso di questo processo, etnie, regioni e popoli decideranno di non voler più vivere gli uni con gli altri, e regioni ricche si sbarazzeranno del fardello di regioni povere, come abbiamo visto la Repubblica Ceca separarsi dalla Slovacchia. Tra le democrazie esistenti, le Fiandre potrebbero decidere di separarsi dalla Vallonia, l’Italia del Nord da quella del Sud; la Catalogna dal resto della Spagna.Prima della fine del secolo potrebbero nascere più di cento nazioni nuove”. Ho trasposto questa pagina (p. 137) dal libro di Jacques Attali “Breve Storia del futuro” (Fazi Editore, Ott. 2007). È una visione chiara di ciò che sta avvenendo nel nostro mondo: la previsione di Attali che il Belgio avrebbe finito per dividersi è drammaticamente in atto; sono convinto che il prossimo passo potrebbe riguardare il nostro Paese, se non ci attrezziamo per tempo. L’Italia potrebbe quindi dividersi. Una parte consistente potrebbe decidere di percorrere da sola, e con tutta la sua forza economica e produttiva, quel lungo tratto di strada che, dopo l’esperienza federale la porterà all’indipendenza vera e propria. Due dati servono a farci riflettere: 1) l’Italia del Nord è già, dal punto di vista economico, uno Stato a sé stante. Esiste una vera e propria Padania Economica, come ben evidenziato da Riccardo Pastore nel suo libro “Il Nord e la Padania. L’Italia delle Regioni” (Franco Angeli Editore, 2008), i cui lineamenti geografico-economici, la cui matrice storica di uno sviluppo territorialmente molto differenziato ed i relativi rapporti di cooperazione e competizione fra grandi poli terziari, distretti industriali, zone turistiche e agricole oggi si sostanziano in una forte competitività internazionale ed in un benessere diffuso. 2) Il divario tra le regioni d’Italia evidenzia tale situazione: secondo le tabelle EUROSTAT, fatto 100 il PIL % per abitante dell’UE, la Regione Lombardia ha un PIL pari a 141,5%, il Trentino 140,2%, l’Emilia Romagna il 131,4%, la Valle D’Aosta il 128,2%. Di contro, la Calabria ha un 68,5%, la Campania il 68,4%, la Sicilia il 67,3% e la Puglia il 69,8%. Insomma, a fronte di un territorio ricco, forte e strutturato qual è l’Italia del Nord, con tassi di sviluppo, di occupazione e di esportazione nel mondo paragonabili alle nazioni più forti e sviluppate, si confronta un Italia del Sud debole, in difficoltà economica ed occupazionale, con territori non attrattivi per inve140
Miseria e Nobiltà della politica, della società
stimenti sia per carenze infrastrutturali che per carenze burocratiche e problemi di criminalità. Per non parlare dei limiti storici di capacità di autogoverno e di responsabilità della classe dirigente meridionale, come più di 35 anni di regionalismo hanno evidenziato. Ciò si rispecchia anche nella capacità di imposizione fiscale: fatto 100 il gettito Irpef pro capite della Lombardia, il gettito della Calabria (ultima in classifica) è solo 36. Dunque, penso che le scelte politiche di attuazione del federalismo fiscale preannunciano effetti enormi sulla politica economica del nostro Stato, e preludono alla previsione di Attali: l’avvio del distacco democratico - provocato dal mercato - del Nord dal Sud. La Federazione delle Regioni del SUD. Come si reagisce a tutto ciò? Qual è la proposta che il Sud può avanzare per reagire e avviare un proprio processo di sviluppo anche grazie alla leva fiscale? Per il Sud le opportunità oggi sono diventate straordinarie. E se ben sfruttare possono cambiare di molto il suo destino. Ad esempio: il bacino del Mediterraneo è tornato ad essere l’ombelico del mondo per il traffico di merci e per la logistica; i fondi comunitari e nazionali per il 2007-2013 trasferiranno, per le politiche di sviluppo meridionali un ammontare di risorse superiore a 100 miliardi di euro; le Zone Franche Urbane, strumento positivo di politica economica del governo francese, stanno per essere attivate anche in Italia e prevalentemente al Sud. Davanti a queste sfide, il sud deve trovare il coraggio politico e una grande forza per unire le Regioni meridionali che si affacciano sul Mediterraneo al fine di attivare una comune politica di sviluppo e di crescita, a cominciare dalla gestione efficiente della cosa pubblica. Alla forza economica e produttiva delle Regioni del Nord, il Meridione dovrà rispondere con la Federazione delle Regioni del SUD. Si tratta di un vero e proprio Patto federativo fiscale che risponda alla disaggregazione fiscale. All’interno dello stesso Paese, il Sud potrà solo così trovare il modo di continuare a operare per costruire il proprio futuro. L’alternativa sarebbe il suo rapido declino e la sua marginalità in un contesto nazionale che gli apparterrebbe sempre di meno. La politica fiscale è il primo tassello verso questo patto federativo che armonizzi in un unico territorio, omogeneo, con comune cultura e tradizioni e consimile struttura economica e sociale, l’azione di complessiva politica economica per gli 141
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anni a venire, evitando il rischio che territori vicini ed in difficoltà entrino in competizione a tutto vantaggio delle Regioni del Nord che, pur mantenendo una struttura burocratica diversa, vivono in un ambiente economico comune ed unitario. È questo uno sforzo già fatto dalle Regioni Meridionali. Il Quadro Strategico del Mezzogiorno, approvato nel 2007, da tutte le Regioni del Sud e presentato al Governo quale contributo per l’elaborazione del Quadro Strategico Nazionale 2007-2013, ha visto tutte le rappresentanze regionali lavorare assieme per condividere strategie ed obiettivi per il futuro, condividendo risorse, strumenti e mezzi. Ne sono scaturiti 6 Programmi Operativi Nazionali, da attuare in tutte le Regioni del Sud: Programma Operativo Nazionale 2007-2013 Ricerca, Sviluppo e Competitività; P.O.N. Sicurezza e Legalità; P. O.N. Istruzione; P.O.N. Reti e Mobilità; Programma Operativo Interregionale Energie Rinnovabili; Programma Operativo Interregionale Attrattori Culturali e Turistici. Manca solo un Programma Operativo di Politica Fiscale e dopo si potrà dire che il Patto federativo per la crescita e lo sviluppo delle regioni Meridionali è pronto ed ha già una sua specifica definizione. Un Patto federativo permetterebbe inoltre di avviare quel processo, sempre auspicato e mai attuato di Zona Franca del Mezzogiorno. Un’area che, partendo dalle Zone Franche Urbane di cui ho già detto, possa avere dimensioni e ampiezza tale da attirare i grandi competitors mondiali che oggi tentano di avvicinarsi al centro dei traffici mondiali, ossia il Mediterraneo. E sarà proprio il Mediterraneo a rappresentare l’ancora di salvezza per la Calabria e per le altre regioni del Sud. La sola speranza di crescita e di sviluppo a nostra disposizione. Se il Sud non saprà cogliere questa storica e irripetibile opportunità, assisteremo al lento disgregarsi dello Stato Italiano. Secondo le drammatiche previsioni di J. Attali.
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Se l’Italia si spezza
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roviamo ad immaginare l’Italia come se fosse un treno. Un convoglio composta da 20 vagoni, trascinati da un locomotore di vecchia generazione ma ancora efficiente. Le 20 carrozze non sono tutte uguali: le prime, quelle subito dopo la motrice, sono di prima classe: dotate di qualsiasi confort e dotazione tecnologica. Sono carrozze per chi fa affari, per i più grandi imprenditori, per chi produce e insegue successo e ricchezza. Nel mezzo vi sono alcune carrozze che mantengono un buon livello di confort, adatte per chi lavora nei servizi, nelle istituzioni, nel territorio. In coda vi sono alcune carrozze di seconda e terza classe: del tutto diverse da quelle di testa e delle altre in mezzo. Sono, quelle di coda, carrozze vecchie, anche sporche, senza alcun confort né strumentazioni tecnologiche. Carrozze dalle quali molti vanno via in cerca di una migliore sistemazione in testa al treno; altri vi rimangono ma non stanno bene. La motrice trascina le 20 carrozze con la stessa potenza e alla stessa velocità di sempre, ma le ultime carrozze si fanno sempre più pesanti, rallentano la corsa del convoglio, sembrano quasi avere la forza di frenare la corsa del treno. I titolari delle prime carrozze sono stufi di questa condizione, non vogliono più soccorrere le ultime carrozze, non intendono più spendere risorse finanziarie per riparare i guasti e dotarle di nuovi strumenti e migliore confort. L’idea che si fa avanti è esattamente all’opposto: «basta con questo spreco di denaro. Le ultime carrozze devono imparare a fare da sole, a gestirsi con le proprie forze. Diversamente è meglio sganciarle dal convoglio e depositarle al primo deposito utile. Così il treno sarà più leggero, correrà di più, arriverà prima alla meta». In altre parole: federalismo. E cioè ognuno gestisce se stesso.
Franco Laratta
L’Italia del dopo 13 aprile somiglia molto a questo convoglio. È un’Italia che non vuole avere pesi né zavorre che possano rallentare la corsa delle regioni ricche, industrializzate, con un reddito pro-capite molto alto, un Pil simile a quello americano. Un’Italia che guarda con sospetto a quelli che sono “diversi”, ne ha paura, e sta cercando il modo come emarginare chi non riesce a stare al passo. Il debole non merita più cure e sostegno. Va semplicemente messo a tacere. Nel nome della sicurezza sarà caccia allo straniero, mentre chi vive al sud si deve arrangiare. E non si tratta solo di un “fatto politico”. C’è anche questo, ovviamente, perché è questa la cultura della destra al potere, la garanzia che essa riesce a dare a chi è più forte rispetto al più debole, a chi ama la legge ma fino a quando non gli crea problemi. Il fatto più preoccupante è che sono ormai gli stessi cittadini del Nord a guardare con fastidio alle parti deboli del Paese: il ricco imprenditore ma anche l’operaio, i leghisti padani e perfino gli stessi meridionali emigrati negli anni. Il Nord del Paese vuole correre da solo, godersi in pace la sua ricchezza, avere tutte le garanzie in termini di sicurezza: qualunque sia il prezzo da pagare. Così le famiglie del Nord, preoccupate per il loro futuro, chiedono certezza, sicurezza e garanzie: e chi gliele assicura ha il loro consenso. In questo caso è la Lega che trionfa. Perché è la Lega che può governare con forza i processi complicatissimi della società odierna, senza andare per il sottile, senza troppi scrupoli, senza troppi timori. È il percorso, questo, che porta al potere forte, che si impone; ed è a tratti duro e brutale. In questo contesto, i rischi per il “convoglio chiamato Italia” sono tanti. Che una parte di esso, gli ultimi vagoni, vengano sganciati e lasciati al loro destino. Che il convoglio rimasto acceleri rischiando di deragliare. Che germogli nel nostro Paese il seme della divisione e della lacerazione.
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Berlusconi cancella il Parlamento
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l direttore de “Il Quotidiano della Calabria”
Caro Direttore, lei è molto attento a quanto sta accadendo in Italia negli ultimi mesi. Ed è per questa ragione che le scrivo una lettera, quasi uno sfogo personale, per raccontare a lei, e ovviamente ai lettori del giornale, lo stato di profondo disagio e anche di grande preoccupazione che vivo da parlamentare della Repubblica. Sta accadendo qualcosa a questo nostro Paese e alle sue istituzioni democratiche. Qualcosa di assai preoccupante che non possiamo far finta di non vedere o di non capire. Ho iniziato la mia esperienza parlamentare nel 2006, nella XV, breve e sfortunata, legislatura. Che tuttavia diede al Paese un governo che, per quanto grande nei numeri e confusionario nell’agire, ha consentito il risanamento dei conti pubblici (come ha riconosciuto e certificato la Commissione europea), ha realizzato una serie di riforme, ha avviato un primo pacchetto di liberalizzazioni, è intervenuto con successo nella lotta alla grande evasione fiscale che devasta da sempre il nostro Paese. Io stesso ho vissuto quei 20 mesi di vita parlamentare con impegno e soddisfazione: in Aula di Montecitorio si lavorava a pieno ritmo, si discutevano le proposte di legge, si approfondivano e spesso si modificavano i provvedimenti legislativi del Governo, si mettevano in piedi progetti (anche una mia proposta è diventata legge alla Camera, ma poi al Senato si è interrotta per lo scioglimento della legislatura). Insomma nonostante le liti da comari dei ministri, lo scoppio dell’antipolitica, le invettive di Montezemolo e Beppe Grillo, i cortei di protesta
Franco Laratta
di farmacisti e tassisti, la grande operazione editoriale di un potente gruppo che puntava a destabilizzare il quadro politico, nonostante le spallate di Berlusconi e dell’agguerrita alleanza di centro-destra, siamo riusciti a fare il nostro dovere di parlamentari della Repubblica. Nonostante gli errori gravi - primo l’indulto, che comunque votò l’80% del Parlamento con la destra in testa -, le risse della maggioranza, il governo di oltre 100 membri, i Rossi, i Turigliatto, i Pecoraro, i Mastella, Dini, Bordon e compagnia bella, per quasi due anni abbiamo lavorato sodo e portato a casa molti risultati. Tanto che l’economia riprese a correre, la lotta all’evasione portò molte risorse nelle casse dello Stato, l’extragettito fiscale produsse più di un “tesoretto”, il deficit pubblico cominciò a scendere. Ma al di là dei pur importanti risultati, quello che voglio dirle, sig. direttore, è che io e tutti i miei colleghi parlamentari, ci siamo sentiti utili al Paese. Abbiamo lavorato e prodotto. Abbiamo tenuto attive l’Assemblea e le Commissioni parlamentari. Anche con sedute notturne. Come ci sentiamo, invece, oggi a tre mesi dalle elezioni politiche vinte dalla destra? Inutili, caro direttore, parlamentari inutili. Le spiego perché e le confesso anche la maledetta paura che avverto! In tre mesi il Governo Berlusconi è intervenuto con forza ed energia su temi scottanti: le sicurezza (impronte ai bambini rom, esercito nelle strade, ecc.), l’informazione (Retequattro sul satellite), il bloccaprocessi, l’immunità alle alte cariche dello Stato (cioè a Berlusconi che l’ha voluta per problemi suoi, non certaemente per Napolitano), l’economia (la manovra finanziaria di Tremonti che approvata in 9 minuti e mezzo dal governo due mesi fa - come ha confessato lo stesso ministro dell’Economia - è stata precipitosamente riscritta in queste ore con centinaia di nuovi articoli e commi che hanno di fatto cancellato il primo decreto). E sa direttore con quali strumenti legislativi è intervenuto il Governo? Con decreti legge. Cioè: l’esecutivo approva una legge che entra immediatamente in vigore, salvo poi la sua approvazione da parte delle camere entro 60 giorni. E fin qui… non commentiamo. Ma poi, quando i decreti legge suddetti sono arrivati in aula per essere discussi, magari migliorati o anche modificati, l’esecutivo sa cosa ha fatto? Ha posto ogni volta la Questione di Fiducia? Che significa: fermi tutti, nessun parlamentare parli, prendere o lasciare! Questo per il lodo Alfano, 146
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per la sicurezza di Maroni, per la finanziaria triennale di Tremonti. Tre fiducie in 8 settimane! Questo significa che Berlusconi ha cancellato le Camere. Anzi, le ha violentate. Le ha rese inutili. Cosa possiamo fare noi parlamentari davanti alle proteste delle forze dell’ordine fortemente penalizzate dal decreto Tremonti? E cosa possiamo rispondere ai rettori delle università italiane e in particolare al nostro rettore dell’Unical che ci ha implorato di emendare la manovra finanziaria che così com’è mette in ginocchio la nostra eccellente università? E che dire alle famiglie, agli impiegati, ai precari che chiedono a noi di intervenire in Aula con iniziative ad hoc? (Le rivelo una cosa che pochi sanno, caro direttore. Noi riceviamo - a me capita sempre- una media di 60-70 e-mail al giorno con idee, proposte, progetti e anche proteste di associazioni, sindacati, professionisti, piccoli imprenditori e tanti semplici cittadini elettori. Cosa possiamo ora rispondere a tutta questa gente?) Berlusconi andrà avanti comunque. «Io sono lo Stato». «Io sono la legge». «Nessuno mi può fermare». Si sente investito di un’autorità immensa, che gli proviene - sostiene - dal corpo elettorale. Lui ha vinto, lui intende governare senza alcuna limitazione. «Il Parlamento? Solo perdita di tempo: ne bastano 30 di deputati». I giudici? Fumo negli occhi per Berlusconi: «chi fa il magistrato deve essere ammalato». Presto arriverà in Parlamento il progetto di riforma della magistratura. Che si annuncia clamoroso. Nello stesso tempo arriverà il federalismo fiscale. Entrambi destinati a cambiare il volto delle istituzioni democratiche e dello stesso Paese, che rischia di uscirne lacerato, diviso, irriconoscibile. Anche su questi fondamentali provvedimenti, il governo - che ha 100 deputati in più e 36 senatori - utilizzerà il decreto legge. E forse di nuovo la fiducia. A parte il personale senso di angoscia che può avvertire il singolo deputato, qualcuno ha capito i rischi che sta correndo la democrazia nel nostro Paese?
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Governo “ladro” scippa le risorse alla Calabria!
L’
ultima riunione del CIPE ha deliberato l’assegnazione di un contributo a fondo perduto di 140 milioni di € per il comune di Catania e di 500 milioni di € per il comune di Roma, attingendo le relative risorse dal Fas, il Fondo statale per le Aree Sottoutilizzate. L’utilizzo di queste risorse per coprire buchi di bilancio delle amministrazioni comunali non appare di certo coerente con le finalità dei fondi FAS, considerato che tale Fondo è stato adottato con Delibera CIPE n. 16/2003 a partire dalla Legge finanziaria 2003 per perseguire gli obiettivi di una condivisa politica regionale per lo sviluppo, unificando tutte le risorse finanziarie aggiuntive nazionali destinate per l’85% al Sud e per il 15% al Centro Nord. A questo fine e secondo questa logica si è arrivati ad attuare la programmazione 2000-2006 ancora in corso e ad approvare il Quadro Strategico nazionale 2007-2013, dopo un intenso percorso caratterizzato da un importante confronto partenariale fra Amministrazioni centrali e regionali, esponenti del partenariato istituzionale e di quello economico e sociale. Ebbene, nonostante da anni si parli della necessità di programmare adeguatamente le risorse destinate allo sviluppo, nonostante si proclami della necessità inderogabile a dare effettiva attuazione agli obiettivi di programmazione unitaria, con il Dl 112/2008, art. 6-quater, si è deciso unilateralmente e senza alcun confronto con le regioni, gli enti locali ed il partenariato economico e sociale a rimodulare le programmazioni del 2000-2006, tagliando risorse già destinate ad opere pubbliche di rilevanza strategica nel mezzogiorno, ed in Calabria in particolare; bloccando le risorse gestite dalle Amministrazioni regionali attraverso gli
Franco Laratta
Accordi di programma Quadro, imponendo, in questo caso, una data retroattiva - il 31 maggio 2008 - quale data entro la quale si sarebbero dovute impegnare le risorse FAS ed impedendo alle Regioni Meridionali - principali destinatarie delle risorse FAS secondo il principio dell’85-15 - di concludere la propria programmazione, anche in funzione delle scadenze comunitarie, e confiscando di fatto non solo le precedenti assegnazioni del CIPE ma anche le economie derivanti dall’attuazione degli interventi previsti negli APQ in corso di attuazione. Ebbene, oggi le Regioni, non solo meridionali, si ritrovano a non sapere su quali risorse possano contare e quali interventi già concordati con il Governo e la Commissione Europea saranno effettivamente attuati, nonostante - lo ribadiamo con forza - che il FAS è uno strumento di politica regionale destinato principalmente allo sviluppo delle aree in ritardo di sviluppo e non certo genericamente alle infrastrutture strategiche di carattere nazionale, delle quali sfugge ancora coerenza, portata e localizzazione delle stesse. Ad aggravare tale situazione, il CIPE ha letteralmente scippato dai Fondi FAS 640 milioni di € per coprire buchi di bilancio di amministrazioni comunali quali Roma e Catania, depauperando e mortificando ancora di più lo sforzo che le regioni meridionali, e la Calabria in primis, stanno facendo per ridurre la distanza con il Centro-Nord, soprattutto dal punto di vista infrastrutturale e di sviluppo economico. Con una interpellanza urgente - discussa alla Camera nel question time dell’8 ottobre u.s., ho chiesto al Ministro Tremonti di voler chiarire secondo quale presupposto legislativo e regolamentare, 640 milioni di € di Fondi FAS, destinati alle politiche di sviluppo regionale e quindi al finanziamento di infrastrutture impianti energetici, progetti di sviluppo economico inseriti all’interno di appositi Acccordi di Programma Quadro possano oggi essere utilizzati per fini impropri ed incoerenti a danno dei cittadini e delle imprese della Calabria, del Mezzogiorno e dell’Italia. In Aula non è venuto il ministro Tremonti, deus ex machina del Governo che però sfugge sempre ai confronti parlamentari, ma il ben più innocuo e incompetente ministro Rotondi.
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Miseria e Nobiltà della politica, della società
Ma il tentativo del governo di dare una risposta convincente alla distrazione dei fondi FAS, fondi - è bene ribadirlo - nati per lo sviluppo delle aree in ritardo del Paese, si è rivelato purtroppo vano. Rotondi non ha saputo rispondere, non sapendo come giustificare lo scippo, perché non esiste alcun presupposto, normativo, amministrativo, politico e, aggiungo, morale che oggi giustifichi l’utilizzo di oltre 600 milioni di €, destinati alla crescita infrastrutturale e economica del Sud e del Centro-Nord Italia, verso amministrazioni che hanno operato contro le più elementari regole della programmazione di bilancio e oggi vengono incredibilmente premiate per i loro errori di spesa con generose elargizioni a fondo perduto. Un autorevole componente del Governo ha recentemente rivalutato e fatto rivivere Keynes affermando: «L’economia è in crisi e si può uscirne con gli investimenti pubblici». Ma non oso immaginare la reazione di Keynes nel momento in cui il Consiglio dei Ministri ha accettato di destinare risorse programmate per infrastrutture, energia, tutela ambientale e sviluppo economico a copertura di buchi di bilancio e spese improduttive. Hanno ucciso un uomo morto. Debbo aggiungere che le recenti statistiche ISTAT evidenziano, ancora una volta, un Paese spaccato dove a fronte di un PIL 2007 che cresce dell’1,6% nel NordOvest, dell’1,9% nel Nord-Est e dell’1,7% nel Centro, abbiamo un Mezzogiorno che cresce solo dello 0,7%. I 640 milioni € avevano la funzione di attivare opere e programmi utili a ridurre tale ritardo di crescita. Ma questo Governo preferisce bloccare gli accordi di programma per l’utilizzo dei Fondi Fas già sottoscritti con le amministrazioni del Mezzogiorno; preferisce non premiare amministrazioni che hanno realizzato economie e potrebbero riutilizzarle nei propri territori per lo sviluppo economico e infrastrutturale preferisce bloccare la spesa pubblica programmata da tempo alle Regioni non sottoscrivendo i necessari accordi; preferisce accentrare le risorse e toglierle ai territori, pur professando un futuro di federalismo; preferisce sovvertire le regole e destinare i fondi per la crescita a politiche fallimentari. In poche parole preferisce, alla politica del fare, la politica del malaffare, difende e sostiene con le nostre risorse i comuni guidati dagli amici e dagli amici degli amici. Un governo che con una azione fortemente immorale, per non dire illegittima, compie uno scippo vero e proprio e apre un precedente assai pericoloso. 151
Tutti gli amori di Silvio
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e ormai arcinote intercettazioni telefoniche non sono più un segreto. Il Primo Ministro è stato intercettato nei mesi scorsi più volte: con attrici, veline e amichette. Ma ci sono anche alcune telefonate con dirigenti di aziende di Stato e con dirigenti politici di primissimo piano. Il Primo Ministro, si abbandona a momenti di pura poesia con le donne. E non si ferma qui. Tra cuori, amori ed erotismo, spuntano anche brevi flash di politica e affari. Ma ci sono anche molte sorprese. Le intercettazioni possono essere pubblicate perché pervenute alle redazioni di giornali prima dell’entrata in vigore del Decreto Legge che ne vieta la pubblicazione, pena l’arresto fino a 5 anni per il giornalista colpevole. Si tratta, com’è noto, di un decreto urgente approvato nell’interesse generale del Paese e degli italiani tutti. Il 13 giugno alle 23.40 il Presidente chiama una certa Mara al numero 33984997xx: P.: «Tu si ‘na cosa grande pe’ me, na cosa ca’ mma fa’ nammura’, ‘na cosa ca’ si tu guard’ a’ mme, me ne moro accussi’, guardann’ a te». M.: «È importante questo mio momento, perché: io ti chiedo ancora il tuo corpo ancora, le tue braccia ancora, di abbracciarmi ancora, di amarmi ancora, di pigliarmi ancora farmi morire ancora... (nella conversazione si inserisce improv-
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visamente una voce: «presidente, presidente è urgente, mi risponda è urgente. Il petrolio vola oltre i 150 dollari, l’inflazione è a quota 4%, i consumi sono in calo, i giudici la cercano e i p.m. avanzano con nuove indagini. Giulio dice vuole regalare un chilo di pasta e di latte ad anziani soli; angelino dice che per bloccare il suo processo se ne dovranno bloccare 150 mila, poi…» P.: «Basta Sandro, mi avete seccato, fate quello che c… volete, cribbio! Fermate i processi, date brioche ai vecchi, cacciate i magistrati… ma lasciatemi in pace, ho problemi gravissimi da affronatare…»!) P.: «Scusami tesoruccio, torniamo a noi, dicevi? ...» M.: «Io ti chiedo ancora, la tua bocca ancora, le tue mani ancora, sul mio collo ancora, di restare ancora, consumarmi ancora, perché ti amo ancora, ancora, ancora, ancora…» P.: «Oh sì… mi fai impazzire… un giorno sarai con me al governo…» Alle 00,15 il presidente riceve una telefonata da parte di tale Daniela Santa….! D.: «Presidente… Con te dovrò combattere, non ti si può pigliare come sei... i tuoi difetti son talmente tanti, che nemmeno tu li sai... sei peggio di un bambino capriccioso, la vuoi sempre vinta tu» P.: «Femmina, tu si ‘na malafemmena, chist’uocchie ‘e fatto chiagnere… lacreme e ‘nfamità. Femmena, si’ tu peggio ‘e na vipera, m’e ‘ntussecata l’anema, nun pozzo cchiù campà. Femmena, si’ ddoce comme ‘o zucchero però sta faccia d’angelo te serve pe ‘ngannà...» (Si inserisce la voce di prima, in modo concitato ancora più concitato…. presidente, presidente, la scongiuro mi risponda. C’è il Santo Padre che la cerca perché vuole lanciare un appello sulla fame nel mondo; c’è Veltroni che annuncia 5 milioni di italiani in piazza contro il Governo; c’è Famiglia Cristiana che scrive cose terribile contro di lei. Cosa devo fare? La prego, cosa devo fare?). Alle 01.45 il presidente rientra nella sua abitazione privata. Veronica, sospetto154
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sissima, lo attendeva ancora sveglia. Appena messo piede in casa, il presidente viene chiamato al telefono fisso di casa. Dall’altra parte, una voce rauca, con forte accento dialettale del nord Italia - forse si tratta di tale Umberto - sussurra con strana dolcezza al telefono: Umb.: «Ciao, sono io» Silvio: «Ah! Buonasera, Dottore» Umb.: «Amore mio» Silvio: «Sì, mi dica» Umb.: «Non resistevo più» Silvio: «Ah, bene» Umb.: «Pensavo a te» Silvio: «Direi che è importante» Umb.: «Quando verrai?» Silvio: «Mah!, adesso non so, dipende» Umb.: «Non parlare se lì c’è lei. Lascia parlare me, di’ sì o no» Silvio: «Certo, certo, d’accordo» Umb.: «Ma vieni appena puoi. Anche tardi, se tu lo vuoi. Io tanto non dormirei. Quanto mi manchi non sai. Ma vieni almeno per un po’. Non ho sonno, non mi sveglierai. Dì quello che vuoi, però stasera non dirmi no» Silvio: «Eh!, va bene, va bene Dottore, se è proprio necessario vengo» Umb.: «Adesso chiudo, non vorrei fare insospettire lei. Amore, io sono qui e potrei anche morir» Umb.: «No, no, stia tranquillo, adesso la raggiungo. Buonasera, Dottore» In piena notte, il presidente esce di corsa da casa. Porta con sé una valigia fatta in fretta e furia e si dirige verso l’uscio. Veronica gli grida dietro piangendo: «Se mi lasci, non vale. (Se mi lasci, non vale). Se mi lasci, non vale. (Se mi lasci, non vale). Non ti sembra un po’ caro il prezzo che adesso io sto per pagare? Se mi lasci, non vale. Dentro quella valigia tutto il nostro passato non ci può stare». Silvio, va di fretta. L’autista gli chiede: «Andiamo a Palazzo Chigi»? E Lui: «No, andiamo in Padania, il mio cuore è ormai lì. Per sempre». (Presidente, presidente, grida il povero Sandro al telefono di Silvio. Presidente le piazze domani saranno stracolme di cittadini infuriati, chiedono di rispettare gli 155
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impegni presi, di aumentare gli stipendi e le pensioni, di...). Ma Silvio, ormai, non lo ascolta nemmeno. Mentre l’auto sfreccia a 200 allora in piena notte, sottovoce canta: «e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere, se poi è tanto difficile morire. E stringere le mani per fermare qualcosa che, è dentro me, ma nella mente tua non c’è. Capire tu non puoi, tu chiamale se vuoi emozioni. Tu chiamale se vuoi emozioni». Nella mano la foto di Umberto in canottiera. E sul retro versi d’amore intensi e commoventi, scritti a mano “da Umberto per Silvio”: «Questo amore così violento, così fragile, così tenero, così disperato. Questo amore. Bello come il giorno. Cattivo come il tempo, quando il tempo è cattivo. Questo amore così vero. Questo amore così bello, così felice, così gioioso, così irrisorio. Tremante di paura come un bambino quando è buio. Così sicuro dì sé. Come un uomo tranquillo nel cuore della notte. Questo amore che faceva paura. Agli altri. E li faceva parlare e impallidire. Questo amore tenuto d’occhio. Perché noi lo tenevamo d’occhio. Braccato, ferito, calpestato, fatto fuori, negato, cancellato. Perché noi l’abbiamo braccato, ferito, calpestato, fatto fuori, negato cancellato. Questo amore tutt’intero. Così vivo ancora. Umberto”. Nessuno da quel giorno ebbe più notizie di Silvio e Umberto.
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Fantapolitica. Ma non troppo… Silvio al Festival di Sanremo?
L’
idea sarebbe quella di farlo presentare anche alla Corrida, concorrente fra i concorrenti, ultimo fra gli ultimi. Ma al ministro Bondi questo sembra davvero troppo. Per cui si sta pensando di farlo partecipare al Festival di Sanremo, che si conclude alla vigilia della campagna elettorale per le provinciali e per le europee, con un successo di Mina: Grande grande grande, con un nuovo arrangiamento di Apicella-Bondi-Carfagna. Ma Baget-Bozzo teme che poi i comunisti di Striscia gli dedichino Parole, parole, parole. Quindi si pensa di recuperare un brano di Pace, Panzeri, Pilat degli anni ‘70: Finché la barca va, da cantare insieme al fido Apicella. Il piano per occupare tutti gli spazi possibili al fine di riscattare la propaganda comunista sul decreto Gelmini, prevede che Silvio non partecipi più né a Porta a Porta né a trasmissioni simili (tanto c’è già stato decine di volte). L’idea è di farlo partecipare da concorrente (perché la cosa non è vietata dalla par condicio) ai maggiori programmi di intrattenimento e spettacolo delle tv! Un’idea geniale, anche perché quei programmi fanno 8-10 milioni di telespettatori a puntata, contro i 3 di Vespa e di Matrix e di Annozero. Don Gianni Baget-Bozzo ha pianificato bene il tutto: anche l’ingresso di Silvio nella casa del Grande Fratello, proprio nell’ultima settimana, a ridosso delle elezioni provinciali ed europee! Nella più conosciuta casa italiana, Silvio canterà, racconterà barzellette, finirà anche nel tugurio. C’è poi il passaggio, ma solo per 8 giorni, alla nuova edizione dell’Isola dei famosi, dove farà vedere come pescare un pescespada con le nude mani, come cacciare animali feroci senza arma alcuna, come affrontare di notte il freddo e le intemperie senza alcun timore. Alla fine
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dell’ottavo giorno costruirà a mani nude una zattera, diciamo pure una barca, con la quale andrà via nottetempo. Bondi, dal canto suo, non esclude che possa gareggiare da Amici di Maria De Filippi, così pure alla Prova del cuoco, Affari tuoi, a Uno Mattina di Cucuzza, X Factor in un duetto con Giusy Ferrero. «Ma ad una condizione - dice Cicchitto - Silvio dovrà sempre e comunque vincere. Sempre al primo posto, per dare agli italiani l’idea dell’uomo imbattibile». Le sorelle Carlucci e la ministra Mara Carfagna avranno - a tale scopo - carta bianca. Ma Bondi ha in mente qualcosa in più: «La radio. Non dobbiamo trascurare la radio». Così si studia bene il palinsesto dei programmi radiofonici più ascoltati. «Potrebbe andare a Viva Radio2 con Fiorello» - «No, già andato più volte!» «Allora al Ruggito del coniglio o a Caterpillar». - «No, lo prenderebbero in giro i conduttori di nota appartenenza di sinistra». Allora si pensa a “Radio anch’io”. Ma nemmeno questo va bene, perché lì ci vanno tutti, anche Veltroni. «Ci vuole una trasmissione di servizio, che va in onda più volte al giorno, 24 ore su 24, ascoltata da tutti, che per 30 giorni consecutivi gli consenta di stare su Radio uno, Radio due, Radio tre senza limiti né condizioni». Don Gianni chiude gli occhi e pensa intensamente. Mara suda a freddo, le Carlucci sudano sangue, Bondi trema. Ma don Gianni partorisce l’idea dopo soli 10 minuti di meditazione e collegamento diretto con la Spirito Santo, viene fuori con una proposta clamorosa, di quelle che sono destinate a cambiare il corso della storia: «Gli faremo condurre Onda verdeeee!!», grida don Gianni. «Bene, bravo, bravissimo», rispondono all’unisono Pier Silvio, Mara, Gabriella, Mariastella, Cicchitto, Bocchino, la Gregoraci, Fedele Confalonieri (gente che di spettacolo se ne intende) nell’apprendere da Bondi la felice trovata. Intanto tutti commentano euforici: «Ma ve lo immaginate Silvio che da gennaio ad aprile, in 47 edizioni quotidiane di Onda Verde, annuncia a milioni di automobilisti le code, i tamponamenti, i banchi di nebbia, i lavori in corso ad Alto Pascio, il vento forte a Canosa, le nevicate a Genova, le mille interruzioni sull’A3 e il gelo sulla Basentana? Sarà clamoroso, bellissimo!». Vanno da Silvio ad Arcore e gli prospettano l’idea. Ma il Cavaliere, incredibilmente, si incazza di brutto e maltratta don Gianni e il gruppo: «Io non posso e non voglio annunciare tamponamenti a catena e traffico vietato a caravan e autoarticolati! Siete degli idioti: queste notizie sono da comunisti, perché solo loro annunciano disgrazie. Io racconterò agli italiani solo belle notizie, anche quando sono brutte. Come ho sempre fatto finora. C’è nebbia in Val Padana? Balle: annuncerò che splende il sole in tutto il nord Italia. Hanno chiuso per neve la Sa158
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lerno-Reggio Calabria? Non è vero, cribbio: abbiamo solo deviato il traffico sulla 106 jonica per far risparmiare tempo e benzina agli automobilisti. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, per 30 giorni e 30 notti porterò allegria, calma e serenità a decine di milioni di automobilisti che non crederanno alle loro orecchie nel sentire queste cose da OndaVerde. E alla fine gli italiani se ne convinceranno pure. Come per il decreto Gelmini che non chiuderà alcuna scuola e non licenzierà nemmeno un precario, come per le grandi opere che tutti ormai sanno in via di completamento (e, se guardano bene, anche il Ponte sullo Stretto è quasi pronto), come le tasse che sono le più basse da 50anni, come la criminalità che ormai non esiste più, i romeni scomparsi, gli omicidi azzerati, l’Alitalia salva, le Banche in grande forma, la disoccupazione bloccata, l’economia reale in ripresa». La rivoluzione di Silvio piace a don Gianni Baget-Bozzo. E, a pensarci bene, dice don Gianni: «ha pienamente ragione Silvio. Tanto che se il Paese crollerà per l’eccessivo debito pubblico, la recessione strisciante, la disoccupazione e la criminalità, a quel punto apparirà nel cielo un aereo con un enorme striscione con su scritto: Niente paura, siete su Scherzi a parte!»
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Il Paese della Felicità!
I
l Presidente del Consiglio non rientra a casa da tempo. Il comodo e ormai spazioso talamo non lo accoglie neanche per le consuete tre orette di sonno prescrittegli dai suoi sette medici, che lo marcano stretto nell’arco della giornata rifiutando all’ostinato settantenne negoziazioni al ribasso di una soglia di riposo già così modesta, Di giorno, l’Ufficio di Palazzo Chigi è inaccessibile ai più. Trovano udienza pochissime persone: il fido sottosegretario alla presidenza, l’irreprensibile consigliere per gli Affari di Stato, il Comandante in capo alle Forze Armate, il consigliere speciale per le relazioni con la Santa Sede, gli ambasciatori degli Stati Uniti e della Russia. E ancora: gli insostituibili dodici avvocati che lo aggiornano sullo stato dei processi a suo carico, l’anziano sacerdote ideologo, le tre ministre predilette, il devoto delegato alla cultura, struggente nel recitare le sue poesie, e l’acerbo Guardasigilli, impeccabile nel piantonare l’uscio e scattare a ogni ordine. Il Primo Ministro concede loro pochi minuti di colloquio tra le sette e le otto del mattino. Quindi, preferisce restar solo fino a notte fonda e, complici la penombra prima il buio dopo, libera i suoi pensieri: sa di avere in mano il destino di un intero Paese che il corpo elettorale per la terza volta gli ha consegnato con un indiscusso plebiscito. La missione lo intimorisce ma non può dribblare le sue responsabilità. Deve salvare una nazione che affonda sotto i colpi dei Pm, bonificare un Parlamento avvelenato da un’opposizione corrosiva e irriconoscente, imbavagliare giornali che pubblicano quotidianamente pruriginose intercettazioni telefoniche, offrendo in pasto ai palati più famelici vizi privati che offuscano le
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pubbliche virtù. E tutto questo a pochi giorni dalla sentenza di un processo che lo vede ingiustamente imputato per corruzione di magistrati. Serve un gesto clamoroso agli occhi dei generosi elettori e del mondo intero per sventare una volta per tutte i ripetuti attentati alla sua onorabilità. Bisogna alzare le dighe per arginare l’onda giustizialista che vuole spazzare via il suo progetto politico. Arrivare illeso all’imminente vertice del G8 e alla successiva assemblea Onu che animerà con un suo intervento è fondamentale. Un ritorno in grande stile sulla scena mondiale gli consentirà di rigiocarsi su quei banchi la credibilità e il prestigio, gettati alle ortiche in passato per quella insopprimibile vena goliardica che ha lasciato più segni tra gli osservatori internazionali dei suoi contributi al dibattito politico. L’incolumità di Berlusconi trova però nei giudici l’acerrimo nemico. Toghe troppo zelanti non possono fermare la storia di un Paese officiando processi utili solo a delegittimare gli eletti dal popolo. Il Capo del Governo non può essere messo in discussione, né ora né mai. Neppure nei luoghi istituzionali, specie se ad agitare la contestazione è una minoranza pretestuosa e arrogante, che presta il fianco a magistrati livorosi, solidali coi primi nell’intralciare l’opera di rilancio del Paese avviata dal Governo. Non sono i deliri di un uomo con un ego spropositato, ma ciò che gli italiani si attendono. Volontà urlata anche nei più recenti sondaggi che, trascorsi due mesi dalle elezioni, disegnano una curva di gradimento per il nuovo esecutivo in costante e straordinaria ascesa: 89% di consensi a fronte di un anemico 9% per le opposizioni e un 2% di indecisi. E proprio i fragranti sondaggi sfornati a ripetizione dagli istituti di ricerca hanno inebriato Berlusconi al punto che dopo l’ennesima rilevazione a suo favore ha sciolto le riserve e deciso di scendere in campo con una veste autoritaria ancora sconosciuta. Alle tredici convoca lo staff di fiducia, il suo Gabinetto, i vertici delle Forze Armate, il Nunzio Apostolico in Italia, gli ambasciatori americano e russo, quindi i direttori dei giornali e dei tg a lui vicini. Dopo quaranta giorni e quaranta notti di clausura assoluta, senza mangiare e bere (salvo un bicchiere d’acqua al giorno come Pannella insegna), il Presidente è pronto ad annunciare al Paese, in diretta televisiva, la “Rivoluzione dolce”: chiudere con la Repubblica e con la Carta Costituzionale per dar vita al Regno della Felicità! Prima dell’ufficializzazione, Berlusconi fa tre telefonate importanti nelle quali anticipa ai rispettivi interlocutori la filosofia della sua rivoluzione. 162
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La prima a Bush (che ha subito garantito l’appoggio pieno e incondizionato degli Stati Uniti d’America, spingendosi, nel rispetto della tradizionale megalomania americana, a offrire la Flotta del proprio Paese, che entro quarantotto ore raggiungerà Ostia lido); la seconda telefonata raggiunge Putin (è lui che comanda ancora in Russia; lui ha garantito senza esitazioni l’appoggio al Cavaliere attraverso l’invio alla stazione di Roma Termini dell’Armata russa, che, c’è da giurarci, conoscerà presto i fasti del passato); la terza telefonata è per il Papa (Benedetto XVI si è detto felice. Ha quindi avvisato il Premier dell’imminente visita a Palazzo Chigi del cardinale vicario di Roma - quello influente, anche se dimissionario per limiti di età - per sottoporgli un elenco di richieste urgenti, tra cui spicca in cima alla lunga lista la tarsformazione dell’otto per mille in otto per cento che i contribuenti dovranno obbligatoriamente destinare alla Chiesa). È giunta l’ora. Asciutto e pragmatico come piace al relatore, viene accolto dallo staff al quale anticipa la Rivoluzione dolce. Grande la soddisfazione. Qualcuno si commuove, altri battono le mani, un paio si inginocchiano. Una statua della madonnina di Lourdes, adagiata sulla scrivania della presidenza, sembra voler piangere. Testimone del prodigio il sempre più fedele ministro della Cultura, che, per l’occasione, improvvisa a braccio versi profondi ed eleganti: «Lacrime. Gioia. Amore. La felicità oggi è con noi». Alle venti in punto è la volta della diretta televisiva che, da stime di tecnici dell’Auditel, raggiungerà picchi di audience elevatissimi (si parla di quarantaquattro milioni di italiani incollati al video). Il Presidente sfoggia l’abituale appeal mediatico, reso irresistibile dalla consapevolezza della svolta storica che sta proponendo ai cittadini. Legge tutto con passione e commozione il discorso costituente e invita i teleutenti a premere in chiusura il tasto verde del telecomando per approvarlo e quindi renderlo immediatamente efficace. Quel clic cambierà la storia del Paese, proiettandolo, dopo 60 anni, in una dimensione di eterna pace e prosperità. Questi i passaggi salienti della Rivoluzione dolce: «Da questo momento io sono il Signore, Capo e Padrone della nazione. Non avrai altro Capo all’infuori di me. Stante la fiducia accordatami dal corpo elettorale, con la certezza che stasera i telespettatori la confermeranno digitando il tasto verde del telecomando, affermo e stabilisco quanto segue: 1) la mia famiglia si assume il compito di garantire al Paese, ora e per sempre, una guida stabile e sicura; 2) le elezioni, che sono una perdita di tempo, costano troppo e producono solo 163
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guasti, saranno sostituite da periodici sondaggi e da consultazioni mediante il telecomando (si voterà con il già citato tasto verde per approvare); 3) tutti i poteri dello Stato - il Parlamento, il Governo e la Magistratura - dipendono dal Presidente del Consiglio, che è anche Capo della Stato. Egli li nomina, i cittadini ratificano con il tasto verde. Egli li licenzia nel caso di inadeguatezza, i cittadini lo assecondano. Nessun potere dello Stato può contraddire il Presidente, pena l’immediata decadenza; 4) i cittadini saranno d’ora in poi sudditi fedeli e felici, e riconosceranno nella famiglia del Presidente “l’unica, sola, santa famiglia d’Italia’’ da cui discenderanno per via ereditaria i futuri presidenti del consiglio, individuati tra tutti i primogeniti maschi della stirpe Berlusconi e destinati ad essere venerati nei secoli; 5) il popolo italiano sarà denominato d’ora in poi “popolo felice” e l’Italia riconosciuta dal mondo intero come la “nazione della felicità” per antonomasia, titoli acquisiti potendo vantare un presidente altrettanto felice; 6) la nazione della felicità sarà alleata degli Stati Uniti d’America e la stretta relazione di fatto tra i due Paesi sarà propedeutica ad una successiva annessione, che eleverà a cinquantuno gli stati della federazione americana; 7) il Presidente della Felicità, infine, sarà incoronato dal Papa nella Basilica di San Pietro. Così tutti i suoi successori». Come previsto, il 99% dei quarantaquattro milioni di telespettatori premiano il discorso e il relativo disegno rivoluzionario cliccando il tasto verde. L’1% dei contrari, per ragioni tecniche (il telecomando non era dotato di altri tasti) non è riuscito ad esprimere il proprio voto. L’unica, sola, santa famiglia d’Italia ha garantito che l’imperdonabile svista sarà presto corretta. Perché la nazione della felicità sarà libera e democratica, anche se questo il Presidente della Felicità, “per una svista”, lo ha omesso nel suo proclama televisivo. Un dettaglio, nulla più, cosa di poco conto, in un Paese che da quel momento in poi avrebbe vissuto di felicità assoluta. Il mattino dopo, in San Pietro, spetta al Papa incoronare il presidente quale capo assoluto del Paese della Felicità. Presenti tutti i capi di Stato e di Governo in una Roma blindata e superprotetta, off-limits per i cittadini comuni, invitati a seguire la cerimonia sulla tv di Stato (l’unica superstite, a causa di un ennesimo guasto tecnico che dalla mezzanotte ha oscurato gli altri canali). La pandemia dei 164
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guasti tecnici, documentata ampiamente dai libri di storia e diffusa ancora oggi in molti stati africani e mediorientali, stava interessando anche l’Italia, in cui si cominciavano ad individuare i primi focolai. L’indomani, il solo giornale presente nelle edicole, “La Repubblica della Felicità”, racconta con ricchezza di particolari, ricorrendo a un registro un filino apologetico, l’investitura di Silvio III Emblematico il titolo a sei colonne: “Da oggi il Paese è felice”.
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Il metodo Obama!
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roviamo ad immaginare che effetto farebbe in Italia l’applicazione del “metodo Obama”! E cioè il criterio che il neo-presidente degli Stati Uniti ha adottato per assumere i consiglieri politici, i collaboratori, gli esperti e i consulenti dello staff presidenziale. Immaginiamo cosa accadrebbe nelle amministrazioni locali e nazionali del nostro Paese se questo metodo venisse adottato, ad esempio, per scegliere i candidati alle elezioni nazionali, regionali e locali. Se lo applicassero i partiti o se, meglio ancora, venisse adottato con legge dello Stato, con la decadenza dall’incarico per chi non dichiara il vero, il nostro Paese farebbe un enorme passo in avanti. E avrebbe certamente una classe dirigente migliore. Ma cosa ha chiesto di conoscere il Presidente Obama ad ognuno di coloro che si sono candidati a ricoprire posti di responsabilità nella nuova amministrazione democratica? Tantissime cose, alcune delle quali a noi italiani, leggeri e superficiali come nessun altro al mondo, sembrano perfino assurde. Oltre 60 domande alle quali dare risposte precise e dettagliate per sé, per la propria moglie e per i figli fino a 21 anni. Ecco qualche esempio: “Se l’aspirante è membro di qualsiasi ordine professionale o lavorativo, dire se è mai stata intrapresa qualche azione disciplinare; fare l’elenco dei nomi di tutte le società per azioni, aziende, società, di cui è stato o è attualmente socio, consigliere, procuratore o consulente negli ultimi dieci anni; fare l’elenco in ordine cronologico delle attività non riportate nei suoi curriculum vitae o nei
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suoi resoconti biografici, dalle quali ha tratto un reddito negli ultimi dieci anni; descrivere in sintesi le questioni più controverse nelle quali è stato coinvolto nel corso della sua carriera; elencare i nomi, gli indirizzi e i numeri di telefono di tre persone che possono offrire referenze sulla sua professione; descrivere le comunicazioni che, se rese di pubblico dominio, potrebbero suggerire l’esistenza di un conflitto di interessi o rappresentare una possibile fonte di imbarazzo per l’interessato o per la sua famiglia; elencare tutte le società per azioni, le società di persone, i trust o altre entità economiche di cui l’interessato è stato socio negli ultimi dieci anni in qualità di funzionario, direttore, fiduciario, socio; elencare ogni associazione e ogni organo collegiale di carattere politico, civico, sociale, caritativo, educativo, didattico, alla quale la persona interessata ha aderito negli ultimi dieci anni; se ha mai fatto parte di una associazione che per statuto o prassi negano o limitano l’appartenenza o l’affiliazione in base alla razza, al sesso, alla disabilità, alla provenienza etnica, alla religione o all’orientamento sessuale; descrivere in modo dettagliato i rapporti associativi che ha avuto con qualsiasi istituzione di carattere finanziario, bancario, ipotecario o assicurativo attualmente oggetto di intervento da parte del governo federale a causa della crisi economica in atto. Fornire copia di ogni dichiarazione del suo patrimonio netto che ha compilato e utilizzato negli ultimi dieci anni per qualsiasi motivo (ad es. prestiti bancari); fornire copia di tutti i mandati di investimento azionario che ha richiesto negli ultimi dieci anni; fornire elenchi di tutti i prestiti superiori a 10.000 $ richiesti; fornire copia di ogni modulo attestante il pagamento di tasse federali e statali riferite al 2005 e agli anni successivi. Dire se è mai stato o potrebbero essere soggetto a qualunque verifica contabile o inchiesta per via delle tasse, delle finanze o per altre questioni; elencare tutte le cause legali che ha avuto in qualità di querelante o come imputato o in qualità di terze parti; fornire dettagli precisi se è mai stato oggetto di investigazione da parte di qualunque agenzia esecutiva, oppure se arrestato, imputato o dichiarato colpevole per aver violato qualunque legge, regolamento o ordinanza. Elencare qualunque esposto per molestie sessuali o per altre pratiche scorrette tenute nell’ambiente di lavoro. Dire se si avvale attualmente o si è avvalso nel passato di servizi di collaborazione domestica (ad esempio per le pulizie, per la sorveglianza dei bambini o per il giardinaggio) in modo continuativo; fornire nomi e informazioni a proposito. Fornire l’indirizzo URL di qualunque sito web che la riguarda sia da un punto di vista personale che in relazione alle sue capacità professionali (ad es. Facebook, My Space, ecc.). Conosce qualcuno o qualche 168
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organizzazione, sia privata che pubblica, compresa qualunque organizzazione del mondo dell’informazione, che potrebbe apertamente o di nascosto, in modo onesto o disonesto, fare qualcosa per criticare la sua nomina?”. Le richieste sono molte altre. E tutte finalizzate a sapere ogni dettaglio della vita professionale, sociale e privata del candidato ad un qualsiasi incarico politico o amministrativo. Questo negli Stati Uniti d’America, nell’era di Barack Obama. Com’è lontano dal nostro Paese tutto ciò! Un Paese in cui una delle più alte cariche istituzionali, il Presidente del Consiglio, da anni sfugge ai processi e per evitare problemi si fa approvare una legge che lo rende immune e intoccabile; un Paese in cui nel Parlamento siedono non solo indagati, ma anche condannati per reati anche gravi; un Paese in cui gli Enti locali e le Regioni sono colmi di eletti che hanno avuto rapporti “pericolosi” ben oltre il lecito e consentito. Un Paese in cui perfino nel Governo siedono personaggi di cui i pentiti di camorra hanno detto cose molto interessanti! Un Paese in cui i condannati della Pubblica amministrazione continuano a rimanere nei loro posti di dirigenti. Un Paese in cui dominano affari illegali, corruzione e rapporti tra politica-criminalità-massoneria. Se il metodo Obama fosse applicato al nostro Paese, prima di ogni elezione, molte cose cambierebbero. Ma sarebbe necessario stabilire la pena per chi dice il falso o dichiara solo in parte la verità. Ad esempio il licenziamento per i burocrati e i dirigenti, e per i politici la sospensione e poi la decadenza da qualsiasi incarico pubblico elettivo. Accadrà mai tutto questo in Italia?
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Il ratto delle proteine
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coperto l’elisir di giovinezza» hanno titolato le testate giornalistiche di mezzo mondo. È stata individuata dai ricercatori dell’Harvard Medical School la proteina in grado di rallentare il processo d’invecchiamento del patrimonio genetico. L’esperimento, ripreso dall’equipe italiana del Cnr, ha dato esiti incoraggianti sulle centinaia di topi testati e sulla più nutrita pattuglia di parlamentari che si è prestata a far da cavia, nella speranza che la scienza argini i segni del tempo e moltiplichi il numero delle legislature in cui poter varcare il Palazzo reggendosi sulle proprie gambe. Se gli studiosi si danno una mossa - e il ministro Brunetta sta già lavorando in questa direzione, agitando lo spettro del licenziamento per i più svogliati e la successiva collocazione presso la Clementoni a curare la versione 2009 del Piccolo Chimico - in pochi mesi sarà pronto il farmaco per stimolare tale proteina. Si potrà assumere comodamente al proprio banco, senza schiodarsi dalla poltrona istituzionale. La longevità, compresa quella politica, sarà un’imminente conquista. Il Presidente del Consiglio, appresa la novità e vinto dall’impazienza di mettere le mani sul prodigioso ritrovato, ha subito sguinzagliato i suoi bravi e fornito loro due dritte su come convincere la multinazionale in possesso del brevetto a somministrargli in anteprima il prodotto, di fatto non ancora sul mercato. Ma al posto di un vile curato, supino alle prepotenze del signorotto di turno, essi hanno trovato un direttore arcigno, forse comunista, che li ha rimbalzati con l’intransigenza che si riserverebbe a una comitiva di militanti azzurri in blazer blu e cravatta regimental imbucati in una festa reggae di un centro sociale. Tornati a mani vuote, i ragazzi, desolati, hanno informato don Silvio dello sgarro
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subito. Egli, in qualità di vero destinatario dell’affronto, punto nell’orgoglio, ha decretato la morte commerciale di quell’azienda ingrata. Schiodandosi con un colpo di reni dalle sabbie mobili della sua poltrona relax modello Samantha, ha istruito la sua segretaria a cancellare tutti i consueti ordini di pillole blu, incidendo rovinosamente sul fatturato della casa farmaceutica. Al suo staff non ha risparmiato critiche, arrivando a sostenere di preferire a loro quegli altri bravi ragazzi: meno belli a vedersi ma, come molti italoamericani cresciuti nei quartieri caldi, più concreti nel raggiungimento della mission aziendale. Mosso dalla grande pietà verso il prossimo, ha poi regalato loro una seconda chance per riscattarsi: rapire la senatrice Montalcini, il senatore Andreotti e Lino Toffolo per estrarre la maledetta proteina, seguendo le indicazioni di Scapagnini, abile nei prelievi e contento di impratichirsi con l’originario mestiere dopo l’infelice epilogo della sua sindacatura. È stato un sequestro lampo, nessuno ha denunciato l’assenza delle tre vittime che, narcotizzate e rimesse al loro posto senza destare sospetti, non hanno sporto denuncia perché allo scuro di tutto. La perfezione del piano e l’impunità dei suoi autori si stava incrinando con la dichiarazione a sorpresa di Francesco Storace. Il leader della Destra ha pubblicamente denunciato l’accaduto, dichiarando di aver visto coi propri occhi il Premier inveire contro Bonaiuti e Bondi, incapaci di immobilizzare i malcapitati e persino di contenere un debole tentativo di divincolarsi dalla presa prodotto dall’esile fisico della Montalcini. Nella stanza c’era anche Capezzone, che, vantando anni di flebo per alimentare Pannella tra uno sciopero della fame e l’altro, fungeva da anestesista. All’ultimo momento Scapagnini, impressionato dall’ago, ha delegato proprio il giovane portavoce di Berlusconi a procedere nel prelievo delle proteine del Dna per iniettarle quindi al suo capo, evitando le zone già interessate dai vari lifting. L’ignobile j’accuse di Storace ha raccolto uno sdegno bipartisan per l’inconsistenza delle prove a sostegno della tesi. Nella registrazione di una puntata di Porta a Porta la mano nervosa della Mussolini lo ha invitato con un gesto epidittico a ritirarsi in buon ordine per liberarsi dell’eccessivo livore accumulato in questi anni verso il suo ex presidente, Media, politici, opinione pubblica, che nell’occasione si sono distinti per garantismo, hanno presto cominciato ad annotare comportamenti inusuali per un capo di governo. È pur vero che Silvio non ha mai rinunciato alla sua goliardia, infilando barzellette scollacciate e battute da caserma ogni volta che se n’è presentata l’occasione. 172
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Indimenticabile, a tal proposito, l’attacco di gallismo con cui si vantò di aver sedotto la presidente finlandese, bullandosi coi connazionali così come il Cummenda nelle commedie dei fratelli Vanzina farebbe con gli amici della Milano da bere. D’altronde se uno dorme solo tre ore a notte pur di non rinunciare alla propria intimità, la pubblicità è la miglior moneta con cui vedersi ripagati questi sacrifici. Un esempio per i giovani di oggi, che trascurano le donne e si svegliano alle tre di notte per guardare quei film un po’ porno: frase estratta della hit del momento, presente clandestinamente anche nell’iPod di Giovanardi e di altri teocon . Tuttavia gli attenti osservatori convengono che ci sia stata una svolta nel repertorio berlusconiano: quella delle gaffe e delle uscite imprudenti è diventata un’esigenza compulsiva, insopprimibile, più che un semplice errore in cui si può inciampare periodicamente. Pure i ghostwriter, che gli confezionano discorsi pacati e gli delimitano il perimetro di buonsenso da non oltrepassare, si sono rassegnati ai suoi ripetuti, ineluttabili scivoloni e ai graffi che ne conseguono. Nessuno ha voluto credere al “ratto delle proteine”. E lo stesso Primo Ministro ignora, per volontà dei suoi complici, timorosi della sua reazione, che l’esperimento ha presentato un grosso inconveniente: c’è stato il rigetto dei campioni prelevati dai due senatori, mentre l’interazione coi frammenti del Dna di Toffolo ha prodotto sul piano psichico effetti indesiderati come alterazione della coscienza, distorsione della realtà, perdita di lucidità, di memoria, ed improvvisi, ingestibili picchi di euforia. E pensare che la scelta di Toffolo non lo aveva mai entusiasmato: uno che fa l’apologia dei poliziotti bassotti col pessimo vizio di acciuffare i ladri di marmellata è un giustizialista ante litteram dal quale guardarsi bene. Il “cucù” alla Merkel a pochi giorni dall’“abbronzato” rifilato ad Obama vanno inseriti in questo nuovo quadro clinico. Al pari del suggerimento per le lavoratrici precarie di sposare un ricco e del consiglio spassionato rivolto a tutti i cittadini di guardare programmi distensivi per non accusare i sintomi della crisi, violando in quest’ultimo caso il copyright di cui fu titolare un suo predecessore, uguale nella stazza, ma un filo più autoritario e forse autorevole. Più grave il “disturbo bipolare” manifestato su altri temi delicati: si esortano le forze dell’ordine ad intervenire nelle scuole occupate dagli studenti, salvo smentire tutto il giorno dopo, quando l’euforia del manganello si è sciolta in una deprimente impotenza nella risoluzione dei problemi. Stessa discesa di entusiasmo per i tagli promessi in campagna elettorale, ora ricuciti con una noiosa ginnastica im173
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posta da Tremonti, instancabile nell’allenare i due arti superiori: con una mano dà, con l’altra prende, al ritmo di op op recessione, regalando ad un milione di poveri, dopo ogni serie da sessanta, un bonus di quaranta euro da spendere in generi alimentari, con l’avvertenza di non abbuffarsi per non intasare i pronto soccorsi durante le feste. Fortuna che nei momenti difficili ci sono gli amici che ti risollevano l’umore. Una rimpatriata informale con George e Vladimir è un toccasana: loro mettono le linguine al tartufo bagnate da bottiglie di Moët & Chandon, il nostro Premier le animatrici. La bisboccia si rivela il miglior esorcismo contro la recessione. Il “baccanale” si conclude intonando l’inno di Baldan Bembo sull’amicizia, tutti abbracciati, con la voce impastata e un senso del ritmo compromesso dall’alcool e distratto dalle ingestibili risate. Che soddisfazione - pensa tra sè Silvio - esser ben voluto da tutti! Che fatica - prosegue - far credere a ciascun interlocutore di essere dalla sua parte. L’unico pensiero sobrio della serata viene smarrito tra i fumi dello champagne, dai quali emerge il dispiacere per l’assenza di Sarkozy. Colpa di Carla Brunì - con tanto di accento nuovo di zecca per la cittadinanza francese acquisita, e più grilli per la testa rispetto alle altre first lady - che ha minacciato il marito di usare in pubblico scarpe con tacco dodici se non rinuncia alle cattive compagnie. Finora gli italiani si sono lasciati accarezzare, sedurre, ingannare, schiaffeggiare, Sono stati ubriacati di slogan al punto da non distinguere più ciò che è una promessa da ciò che è stato realizzato. E quando il dubbio si risveglia ecco un immigrato su cui scaricare la propria inettitudine, un “diverso” da scodellare alla folla, arrabbiata e distratta ancora una volta da un meccanismo vizioso che fa impazzire la bussola e porta a cercare le cause dei propri problemi in direzione opposta al vero epicentro. Ad un abile intrattenitore, come al compagno megalomane ma simpatico, si perdonano più cose. Forse perché l’illusione dà un temporaneo piacere che una verità sgradita non regala. Ma la felicità, recita un adagio americano, riposa sulla verità e - parafrasando lo scrittore Bufalino - “essa è pericolosa quando non somiglia ad un errore”. Affidare le sorti di un Paese a chi si crede infallibile e imprescindibile è ingenuità e disperazione. Pare che nelle ultime ore il Presidente stia manifestando preoccupanti moti di irrequietezza e frenesia, che i collaboratori faticano a frenare. Vorrebbe - riferiscono le spie di Palazzo - scendere in stazione e riproporre la celeberrima scena di 174
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Amici miei in cui i protagonisti si divertono a schiaffeggiare i passeggeri affacciati ai finestrini dei treni in partenza. Neppure Matteoli e Cipolletta, rispettivamente Ministro dei Trasporti e Presidente di Trenitalia, sono riusciti a dissuaderlo. Si teme che i puntuali ritardi dei treni consentano ai viaggiatori di scendere dalle carrozze e rispondere allo scherzo con altrettanta goliardia. Pericolo scampato: l’ennesimo sciopero n dei trasporti. Pericolo rinviato: i cittadini si stanno già allenando per la prossima competizione elettorale.
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«... non è solamente il diario di bordo di un parlamentare, non si limita alla lettura intelligente degli avvenimenti, al ripercorrere attraverso il filo della memoria la vita di Montecitorio.» Dario Franceschini deputato - scrittore «... e c’è anche da dire che quello di Franco Laratta è uno dei pochi casi riusciti di giornalisti prestati alla politica. Evidentemente ha imparato i segreti del mestiere di politico facendo bene quello di giornalista.» Matteo Cosenza direttore de “Il Quotidiano della Calabria”
Miseria e Nobiltà della politica, della società
Giornalista, scrittore, è deputato della Repubblica dal 2006. Ha fondato e diretto: Il Cittadino, la Città di Gioacchino, Sila tv, Radio Sila Tre. Ha curato e diretto per Video Calabria trasmissioni di approfondimento politico e inchieste su mafia e criminalità; ha curato e diretto “Calabria punto e a Capo”, “Calabria-Verde”. Autore di alcuni saggi, scrive per Il Quotidiano della Calabria. Ha a lungo collaborato con Il Crotonese e Gazzetta del Sud. Ha pubblicato: La lunga notte della Calabria (2006), Riflessioni Libere (2004), Il Villaggio svanito (1999), Quando in Sila cade la neve (1994), La villa dei sette piani (1992), Non sparate sul cronista (1990), Biografia di P. Antonio Pignanelli (1987).
Franco Laratta
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Miseria e Nobiltà della politica, della società Prefazioni di Dario Franceschini e Matteo Cosenza
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