Vers. in Post. – 45% – Art. 1 Abs. – Ges. 35 3/2003 (abg. GEs. 27.02.2004 Nr. 46) CNS Bozen – Poste Italiane SpA – Taxe percue/Tassa pagata
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Index
Editorial
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Quadri, scarpe e microchip di Fabio Gobbato 8
Liebesbriefe an die Unternehmer 10
la venezia sommersa di Eleonora di Lauro 16
Reise in den Kulturpott von Kunigunde Weissenegger 22
L’altra frontiera di Anna Quinz 26
Questa è la mia vita e da essa ti sto scrivendo di Reinhard Christanell
franzmagazine.com ff–extra franz–Magazin, October 2011, Beilage zu ff 43, Herausgeber: FF-Media GmbH, Eintrag. Landesgericht Bozen 9/80 R.ST. vom 27.08.1980, Presserechtlich verantwortlich: Kurt W. Zimmermann — Editor-in-chief Fabio Gobbato — Creative & Writing Direction Anna Quinz, Kunigunde Weissenegger — Editorial staff Marco Bassetti, Evelyn Gruber-Fischnaller — Art Direction Riccardo Olocco Photo Direction Alexander Erlacher — Marketing Tessa Moroder — Franz Production Matteo Moretti, Sarah Orlandi Text Reinhard Christanell, Fabio Gobbato, Eleonora di Lauro, Eleonora Psenner, Anna Quinz, Kunigunde Weissenegger Photo Claudia Corrent, Manuel Guadagnini, Luca Meneghel, Tiberio Sorvillo Thanks to Elisa Bergmann, Giulia Cavazzani, Tommaso Cazzaro, Ermanno Zanella, Daniele Zanoni — Cover Illustration Armin Barducci con il contributo della Provincia Autonoma di Bolzano
Cultura
come cura, dicevamo nel primo numero di Franz allegato a Ff. Come cura dell’anima, si intendeva, perché a Turku, Finlandia, capitale europea di quest’anno, i medici prescrivono concerti e teatro a chi non se la passa troppo bene con ansia e depressione. Ma la cultura può essere una cura anche per un sistema economico che fatica a stare in piedi? Una ricerca della Fondazione Symbola rivela che il pianeta cultura del Nordest occupa 336 mila persone e incide per il 6% sul Pil. Cifre enormi, che da un lato rappresentano senza dubbio costi per il ‘pubblico’, ma anche pura e semplice ‘ricchezza’ prodotta. Se non è una cura, dunque, la cultura di certo non è un tumore da asportare come vorrebbe il ministro Tremonti. Innocenzo Cippolletta, manager pubblico tra i più noti, presidente dell’università di Trento e inventore del festival dell’Economia, è stato scelto per guidare il comitato scientifico che elaborerà il progetto per la candidatura dell’intero Nordest a capitale europea della cultura nel 2019. Il rapporto tra economia e cultura – dice nella sua prima intervista sul tema – sarà uno dei perni attorno a cui ruoterà tutto. Ma il professore indica pure strategie e obiettivi nel percorso che porterà alla fondamentale tappa, nel 2013, in cui l’Ue deciderà il territorio vincitore. I punti fermi sono fondamentalmente due: un’ampio coinvolgimento della popolazione, e il proposito di ‘lasciare cose’ che rimangano anche dopo il 2019. Del rapporto tra economia e cultura ragionano anche alcuni imprenditori operanti in provincia. In questo numero proponiamo poi un viaggio alla scoperta dei partner: uno sguardo sulla Venezia” alternativa”, un viaggio nella Trieste istituzionale, un reportage dalla Ruhr, capitale dello scorso anno, per vedere ciò che è rimasto. In chiusura un ritratto della poetessa Roberta Dapunt, una delle eccellenze nel panorama letterario sudtirolese. Fabio Gobbato
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Classe 1941, Innocenzo Cippolletta è stato presidente di Ferrovie dello Stato, del Sole 24 ore, della Marzotto Spa e Direttore generale di Confindustria dal 1990 al 2000. Oggi presiede l‘Università di Trento ed ècoordinatore del comitato scientifico per Nordest capitale europea della cultura 2019.
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Quadri, scarpe e microchip
P Testo di Fabio Gobbato Foto di Tiberio Sorvillo
Il legame tra cultura e economia nella candidatura del Nordest a capitale europea 2019. “Tutto questo avrà senso se lasceremo qualcosa sul territorio”, dice Innocenzo Cippolletta, l’uomo scelto per guidare il comitato scientifico. Il ruolo del Sudtirolo e delle Università nella progettazione. Il sogno di ricerche innovative nella conservazione dei beni culturali rofessor Innocenzo Cippolletta, per il ministro Tremonti, con la cultura non si mangia. In realtà una recente indagine rivela che il sistema cultura fa il pieno di occupati nel Nordest, ben 336 mila, e realizza addirittura il 6% del Pil. Lei è stato direttore di Confindustria, oggi presiede l’Università di Trento ed è stato chiamato a guidare il comitato scientifico per la candidatura del Nordest a capitale europea della cultura nel 2019. Com’è oggi, in Italia, il rapporto tra economia e cultura? Sicuramente molto stretto. Presiedo l’associazione Economia della cultura, nata una ventina di anni fa proprio per studiare i rapporti tra i due mondi, dato che già allora appariva evidente che il numero di occupati del settore, il reddito prodotto, e i legami anche indiretti fra cultura e produzione, fossero estremamente alti e in continua crescita. Tanto
che quando mi hanno proposto di assumere la carica di coordinatore del comitato scientifico per la candidatura del Nordest a capitale europea della cultura 2019 ho subito detto che uno dei temi che dovremo sviluppare è proprio quello del legame tra produzione e cultura. E non dimentichiamo che si parla di produzione di cultura ma anche di cultura della produzione. Se pensiamo al Nordest non possiamo non pensare all’idea di crescita economica. E la crescita economica in misura non trascurabile è proprio legata al mondo della cultura sia delle vecchie tradizioni di un tempo, dal vetro all’attività di restauro, sino a produzioni più moderne. I Calzaturieri del Brenta non fanno solo scarpe, fanno anche cultura. Non producono scarpe solo per camminare, producono scarpe che sono la riproduzione del bello e quindi hanno un elemento di cultura molto forte. Dire che con la cultura non si
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mangia è stato uno svarione. Immagino che il ministro dell’economia si sarà morso le labbra dopo aver pronunciato la frase, o almeno spero (ride). Parliamo di pittura, musica, letteratura, ma è cultura anche la ricerca tecnologica. Io presiedo un’università e non ho dubbi che le università del Nordest facciano cultura anche attraverso l’ innovazione tecnologica. Lavorare sui materiali che servono per riparare i corpi umani è cultura. Bisogna che gli italiani stessi, ragionando di cultura, escano dallo stereotipo ‘bello e futile’. La cultura è educazione, è coltivazione di se stessi, come dice la sua etimologia. E come tale è necessaria. Le sembra che l’atteggiamento dell’imprenditoria italiana stia mutando e gli investimenti di tipo mecenatistico stiano aumentando? Della Valle che ristruttura il Colosseo a sue spese è una mosca bianca o l’espressione di un trend che sta cambiando? Ai tempi in cui ero direttore di Confindustria costituimmo l’Associazione delle imprese per la cultura istituendo il premio Guggenheim con l’omonima fondazione di Venezia. Lo scopo era premiare gli imprenditori che investono in cultura in una pura logica mecenatistica. L’Italia ha un tale patrimonio culturale e artistico che assorbe molti soldi per il suo mantenimento e lo Stato non ce la fa. I privati fanno degli interventi, ma siamo ancora molto lontani da ciò che accade nel mondo anglosassone. In Italia il prelievo fiscale è molto
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elevato e gli imprenditori, come dire, si sentono ‘sollevati’ dopo aver pagato le loro tasse. Nel mondo anglosassone la pressione fiscale è inferiore e poi lo Stato ti dice: “Io ti abbasso le tasse se tu fai delle cose utili per la società”. L’imprenditore detrae questi investimenti e si sostituisce quindi allo Stato. Ciononostante, sia in Veneto che nel resto del Nordest, ci sono sia imprese che Fondazioni protagoniste nel mondo della cultura. Mi auguro che siano sempre di più, anche perché c’è indubbiamente un ritorno. Della Valle investe sul Colosseo e non mette cartelloni, ma è abbastanza intelligente per sapere che tutto il mondo ora sa che ha fatto quell’operazione. Ed è giusto così, perché deve pensare anche alla sua azienda. Che idea si è fatto di questa candidatura del Nordest? Le voci critiche dicono che il territorio è troppo vasto e disomogeneo. Un problema o un punto di forza? Finora ho sentito poche critiche, ma c’è indubbiamente un grande lavoro da fare per costruire un consenso intorno alla candidatura. A Bolzano l’idea della candidatura è radicata nelle amministrazioni e quindi piano piano si estende alla popolazione, nel Trentino la si sta portando avanti, in alcune province del Veneto la cosa si sa e non si sa, a Venezia se ne incomincia a parlare. Per ora c’è una forte discontinuità nell’approccio e il lavoro che io mi sono proposto di fare è quello di costruire, accanto al progetto, il consenso. Nell’arco dei
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prossimi 40 giorni girerò nel territorio con un documento aperto per raccogliere tutte le osservazioni e far sì che questo progetto, che contiamo di completare l’anno prossimo, nasca da una reale collaborazione di tutto territorio. Uno dei focus credo debba essere proprio quello del rapporto tra cultura e economia. Dobbiamo trovare gli elementi distintivi di questa regione, e uno di questi è anche il commercio. Bolzano e Trento sono la porta per il mondo tedesco, Trieste e Gorizia per quello slavo. Venezia è il legame con il vicino e il lontano Oriente. L’Unione europea ci chiede una dimensione europea e questa noi già ce l’abbiamo. Abbiamo un vero sistema multiculturale, che a parte episodi del passato, convive pacificamente. Questo è un elemento distintivo sul quale noi lavoreremo. Il fatto di avere un territorio vasto può essere sì un problema, ma è anche la forza del nostro progetto. L’Europa sta spostando sempre più il concetto da ‘città della cultura’ a territorio della cultura e quindi ci siamo. Come si immagina il lavoro del comitato scientifico? Elaborare un dossier di candidatura è un procedimento piuttosto complesso. Dobbiamo costruire qualcosa di nuovo, ma partendo da ciò che c’è oggi. Una volta conclusa la ‘ricognizione’ con il documento aperto, faremo un progetto nel quale ciascuno troverà in qualche forma il proprio contributo, in modo che tutti lo sentano proprio. Organizzeremo
degli eventi anche prima del 2013, anno in cui l’Ue deciderà chi vince la candidatura. Al 2019 ci vogliamo arrivare con dei prodotti fatti e la cosa più importante che vorremmo è ‘lasciare qualcosa’. Ce lo chiede l’Europa, ma è un dovere che noi sentiamo come irrinunciabile. Non avrebbe senso fare i fuochi d’artificio per 365 giorni e poi tutto torna come prima. A noi non interessa tanto attrarre più turisti, non siamo una regione dimenticata: dobbiamo mettere in moto meccanismi di cooperazione per i prossimi decenni. Che ruolo possono avere gli atenei? A breve si terranno importanti incontro con il sistema universitario del Nordest che, del resto, ha già diversi legami al proprio interno. Credo che l’università sia il luogo ideale per elaborare idee per la candidatura. Università e cultura sono quasi sinonimi. La cosa importante sarà andare oltre le collaborazioni più scontate tra le facoltà umanistiche. La tecnologia oggi è indispensabile. Faccio un esempio: noi abbiamo un forte problema di conservazione del nostro patrimonio culturale e artistico. Servono dei laboratori che facciano ricerche specifiche e un sistema informatico per la trattazione dei dati. Chi, se non l’università, può dare contributi in questo senso, ed esportare le conoscenze? Se noi facciamo grandi passi nella conservazione del patrimonio, magari domani possiamo esportare queste tecnologie in Cina o in Egitto o in Messico.
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Venezia è una presenza ingombrante. Non c’è il rischio di rimanere schiacciati? Se Venezia si fosse presentata da sola e avesse vinto, sarebbe stata una non notizia. D’altra parte, se fosse stata da sola, con quale obiettivo lo avrebbe fatto, con quello di attirare ancora più turisti? E dove li avrebbe sistemati? E inoltre non è detto che avrebbe vinto, visti i criteri della candidatura. Con il Nordest, invece, Venezia può avere una forza trainante, ma tutti possono trovare i loro spazi. Si dovrà ragionare come una macroregione, in cui territori con radici storiche diverse, si connotano come una grande area metropolitana, una sorta di Los Angeles. Non dobbiamo presentare all’Europa un prodotto già esistente, dobbiamo costruirlo. Siamo qui per questo. Bolzano è già quasi pronta per il pre-programma ed ha già fatto degli investimenti. Se vogliamo, c’è il rischio che il progetto sia troppo spostato con il baricentro qui, visto che qui agiscono e ci credono. I progetti camminano sulle gambe di chi li porta avanti. Il mio compito, ora, è infervorare gli altri. Qual è la cosa concreta che le piacerebbe vedere realizzata? La candidatura rappresenta una sfida civile importante, perché negli ultimi anni si è mostrata una forte difficoltà di collaborazione fra i diversi soggetti del Nordest. Riuscire a mettere insieme soggetti diversi, senza che
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nessuno domini sull’altro, è una grande sfida. Se sul territorio, ad esempio, rimanessero dei laboratori universitari creativi per la conservazione dei beni culturali, ne sarei molto orgoglioso. Che tipo di investimenti si aspetta? Oggi mi chiedo: come si va da Bolzano a Trieste? L’idea che la candidatura diventi un propulsore per opere infrastrutturali è molto interessante. Da ex presidente delle Ferrovie dello Stato mi piacerebbe che per il 2019 il treno veloce arrivasse fino a Venezia e penso che ciò sia possibile. Ma non faremo un programma che contiene opere, perché non possiamo fallire per decisioni che non competono a noi. Riuscirete a fare un progetto non tecnocratico che coinvolga, per dire, tutti i produttori di cultura, centri sociali compresi? L’Ue vuole che vi sia crescita culturale della popolazione e chiede partecipazione. Noi andremo in giro per tutto il territorio per raccogliere idee e iniziative. Metteremo a disposizioni di queste iniziative un marchio e la possibilità di far parte di una rete. Ma tutto sarà su base volontaria, ovviamente. Due musei o due associazioni collaborano se ne hanno voglia. Noi lavoreremo molto affinché queste collaborazioni siano molto numerose.
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Luca Meneghel
Brücken schlagen Richtung 2019 Text von Eleonora Psenner
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ie Vorbereitungen zur Bewerbung für das Mega-Event der Europäischen Kulturhauptstadt 2019 gehen voran. Für Ende 2013 muss ein klares Konzept ausgearbeitet sein, und die Europäische Kommission wird darüber entscheiden, ob das vom lokalen italienischen Kulturassessorat vorangetriebene und mit Triest und Venedig verbundene überregionale Projekt durchgeführt beziehungsweise fortgesetzt werden kann. Landesrat Christian Tommasini über den neuesten Stand der Dinge. Welches sind die zentralen Kräfte, die man in das Projekt Nord-Ost 2019 integrieren möchte? Es hat soeben eine neue Phase im Projekt begonnen, in der man sich um die Gründung eines Promotorenkomitees bemüht. Dafür kommen alle öffentlichen und privaten Einrichtungen in Frage, die sich an der Bewerbung zur Kulturhauptstadt beteiligen wollen. Wir sind dabei auf der Suche nach Promotoren aus dem wirtschaftlichen Sektor. Wie wichtig die Wirkung von Kultur auf Wohlstand ist, zeigt dabei die Tatsache, dass in Finnland kürzlich ein neuer Studiengang unter dem Motto Culture Does Good speziell für Culture and Well-being gegründet wurde. Da Sie die Universität erwähnen: Welche Rolle kommt eigentlich unserer Universität im Projekt zu? Natürlich wollen wir die Freie Universität Bozen involvieren und gleichzeitig wollen wir auch das Netz der Universitäten im ganzen Gebiet des Nordostens inklusive Innsbruck stärken. Es haben bisher einige Treffen mit der Universität stattgefunden, aber ich
weiß nicht, ob sie bereits formell zugesagt hat. Wir arbeiten daran. Im Bereich der Zusammenarbeit mit den verschiedenen Institutionen tendiert man generell dazu, aus der Sicht der Provinz Bozen zu agieren. Wäre diese Bewerbung vielleicht eine gute Gelegenheit, um die Verbindung zum Trentino hervorzuheben? Dieses Projekt baut auf eine sehr wichtige Weltanschauung, die nicht darauf beharrt, sich als kleine, geschlossene Heimat zu sehen, sondern sich nach dem Vorbild einer Brücke zwischen Nord und Süd orientiert. Wir möchten also unsere geographische Lage, unseren Multikulturalismus und unsere Mehrsprachigkeit als Brückenelement nutzen. Stichwort Euregio. Bietet die Bewerbung eine gute Gelegenheit die Zusammenarbeit mit dem Trentino zu stärken? Wir sind keine Insel. Im Zug der Globalisierungsprozesse müssen wir eine Öffnung anstreben und dabei unser Potential nutzen, kulturelle und wirtschaftliche Verbindungen zu schaffen. Wir werden sowohl mit dem Trentino als auch mit Tirol zusammen arbeiten, allerdings wäre eine Bewerbung als Euregio nicht möglich gewesen, weil die Richtlinien der Kulturinitiative bis 2019 vorsehen, dass sich jeweils zwei Städte in ihrem jeweiligen Land bewerben. Mit 2019 enden diese Richtlinien der Kulturhauptstadt und somit könnten wir den idealen Übergang zur neuen Tendenz schaffen, gesamte Regionen einzubeziehen, eventuell auch grenzüberschreitend.
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Liebesbriefe an die Unternehmer Südtirols Kulturpolitik investiert in modernes Kulturmanagement und möchte Kunst und Wirtschaft verkuppeln. Die Hochzeit soll 2019 gefeiert werden – falls Italiens Nord-Ost zur Europäischen Kulturhauptstadt ernannt wird.
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1. Bewerbung zur Europäischen Kulturhauptstadt 2019: Die Wirtschaft rückt als Partner der Kultur immer mehr in den Mittelpunkt. Im Bild: Michael Seeber
eethovens Nummer 5 donnert durch den Meraner Kursaal, Hans Oberrauch sitzt mitten drin. Er hat für seine Karte mehr bezahlt als andere, denn er hat den Abend gesponsert und sein Firmenwappen ziert das Programmheft. In die Wucht des Royal Philharmonic Orchestra mischt sich der Stolz des Großunternehmers, aber „was man da genau fühlt, ist schwer zu beschreiben“, sagt Oberrauch nach dem Gefühlsgewitter. Der Fensterhersteller vom Ritten ist im Bereich der Kultur als Privatsponsor stark präsent, „denn es muss etwas passieren in einem Land, damit es für Unternehmer und für Mitarbeiter attraktiv bleibt.“ Ein anderer kunstinteressierter Großunternehmer holt ein gutes Stück weiter aus. „Kultursponsoring ist eine Frage der Lebenseinstellung und Firmenphilosophie“, sagt Michael Seeber. „Ich nenne das ‘Gewinn und Gewissen’: Dass wir als Unternehmer Gewinn machen wollen, ist klar, aber es geht auch darum, dass das was man tut, Freude macht. Im inneren und äußeren Bereich Initiativen zu starten, das zählt zum Gewissen.“ Seeber exportiert Südtirol in Form von Technik und beizeiten auch in Form von Kunst. Dennoch sagt Seeber: „Ich verkaufe sicher keinen Skilift und keinen Windgenerator zusätzlich,
nur weil ich Kultur sponsere. Ein Getränkehersteller hat hier sicher einen anderen Zugang, einen anderen Marketingeffekt, wenn er mit seinen Produkten auf diesen Veranstaltungen präsent ist. Ich baue keine Seilbahn mehr, weil ich Kultur sponsore.“ Unternehmen wie Leitner und Finstral stehen nun auf einer Liste ganz weit oben: Südtiroler Unternehmen sollen nicht nur finanzielle Unterstützer, sondern auch kreative Projektanten der Kulturhauptstadt 2019 werden. Der Kulturpolitik schwebt ein neues Traumpaar vor Augen, Kunst und Wirtschaft sollen nun offiziell verkuppelt werden und 2019 sollen die Hochzeitsglocken läuten unter dem Banner des italienischen Nord-Ost als Europäische Kulturhauptstadt. „Wir werden in naher Zukunft Dialogforen veranstalten“, sagt Karin Dalla Torre vom Kulturressort. Das sind so etwas wie erste Rendezvous zwischen unternehmerischer Wirtschaft und kulturellen Veranstaltern. In der Zwischenzeit sind die ersten Liebesbriefe an die Unternehmer geflattert. Die Europäische Kulturhauptstadt 2019 soll die Form einer großterritorialen NordOst-Region haben, die sich zwischen Triest, Venedig und Bozen aufspannt. Das ist ein heterogenes und unübersichtliches Terrain und SMG-Direktor Christoph Engl betont:
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Manuel Guadagnini
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„Es wird darum gehen, Kulturprodukte zu entwickeln, die Südtirol überhaupt erst die notwendige Aufmerksamkeit verschaffen können.“ Dennoch könne die Bewerbungsphase in Südtirol dazu dienlich sein, „bestimmte Themen genauer unter die Lupe zu nehmen und Netzwerkarbeit zu machen“, meint der Chef der Tourismuswerbung. Zum Mediator zwischen Politik, Kultur und Wirtschaft wurde im Lauf der vergangenen Jahre Peter Paul Kainrath. Mit einem simplen Konzept hatte er die Unternehmer zu einem Teil von Kulturereignissen gemacht und erschloss damit zugleich auch neue Publikumsmärkte für die Kultur. Ihm kommt eine Schlüsselrolle zu im Bewerbungsprojekt Kulturhauptstadt 2019 zu. Er vertritt Südtirol im wissenschaftlichen Komitee (dem der ehemalige Confindustria-Direktor Innocenzo Cippolletta vorsteht, siehe Interview) und ist so etwas wie der Chefvermittler zwischen kulturellem Programm, öffentlicher Verwaltung und privater Unternehmerschaft. Die Südtiroler Unternehmen, sagt Kainrath, seien aufgeschlossen und interessiert. „Es ist höchste Zeit“, meint Museion-Direktorin Letizia Ragaglia, „dass wir mit dem ernsthaften Sponsoring beginnen und Pakete schnüren.“ Michael Seeber legt Wert darauf, dass keine
vorschnellen und unüberlegten Projekte für das Rendezvous zwischen Wirtschaft und Kultur vereinbart werden. „Es geht darum, zu überlegen, wohin man will. Südtirol als Teil der Bewerbung, versteht man das im erweiterten Sinn oder geht es um die Stadt Bozen? Wenn, dann soll etwas geschaffen werden, was auch langfristig von Bedeutung ist und dafür braucht es eine Spezialisierung, eine tiefergehende Idee, die konkret angegangen wird.“ Die Landesämter jedenfalls haben sich mit einem prall gefüllten Proviantbeutel bereits auf den steinigen und tückenreichen Weg durch die Bewerbungsphase gemacht. Nichtsdestotrotz: Um Niveau und Qualität zu gewährleisten, sind alle intellektuellen und kreativen Kräfte Südtirols gefragt.
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La venezia sommersa
Un fantastico trip nella città sull‘acqua, tra il Collegio degli Armeni, il Magazzino del sale, il Morion. Il design con gli scarti della Biennale e gli architetti che occupano le case. Cosa rimane in Laguna dei movimenti no global e alternativi?
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Giacomo Cosua
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Testo di Eleonora Di Lauro
“Stai attenta al contesto” mi dice A. passandomi una sigaretta bella carica, appena arrotolata. “Venezia è un inganno. Follemente romantica che ci affondi dentro, brutalmente cinica quando la conosci. Esistere e resistere non è facile”. Un’altra boccata di fumo e questa faccia di poco meno di trent’anni socchiude gli occhi un po’ assorta. Vista così, mi appare già intaccata dalla scoperta che niente sarà gratis. Quella cosa vischiosa, la via di mezzo che fa adulto il mondo, da un po’ di tempo riguarda anche A. Forse per questo chiede di rimanere anonimo. A. ha visto rompersi il Movimento dopo il G8 di Genova, e ha capito che ad un certo punto le strade delle persone si dividono. “Rivoluzionari di professione” chiama quelli che utilizzano le connessioni giuste per fare Cultura Alternativa. “Ma non c’è nulla di indipendente – dice un po’ piatto – sono dentro il sistema anzi . Del sistema sono il meccanismo di controllo. Io non sono contro tutto questo. Che alle MegaFeste circoli parecchia roba. Che la musica sia tale e quale a quella delle MegaDiscoteche. Però lo si dica: noi siamo uguali a tutti gli altri. La cultura alternativa è morta. Ci interessa solo vendere birrette e acciuffare qualche centinaio di voti a Venezia. Non possono dire di aver occupato il Sale: hai visto che immenso portone ha quel magazzino? Otto metri. Dieci metri. Dovevano farlo saltare con la dinamite se volevano entrarci e occuparlo. Sono solo passati dall’ufficio del sindaco (ndr Cacciari) e si sono fatti dare le chiavi. Per me le cose sono andate così. E dopo due mesi, siccome cominciava a fare freddo, si sono fatti sgombrare. Mai sentito parlare di polizia da quelle parti”. VENEZIA Venezia a fine settembre è stupenda. Galleggia leggera come una creatura fantastica. L’Italia, quella che fa male e fa ridere il mondo è su un altro pianeta. Qui ogni campo, ogni calle, quasi ogni palazzo contiene qualcosa che ti spinge ad uscire da te stesso. Arte, Arte, Arte. Quella dei mecenati, dogi e mercanti, incapsulata nei musei e nelle chiese. Continui a divorarla anche se hai i piedi gonfi per tutti ponti che sali e scendi, e con i cataloghi mai leggeri che ti porti appresso da affamato bulimico.
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Cà Pesaro Museo Fortuny Cà Foscari
Fondazione Querini Stampalia Stazione Santa Lucia
Laboratorio Morion
Piazzale Roma
Collegio Armeni
Biennale – Arsenale Piazza San Marco
Biennale – Giardini
Galleria A+A
Museo Correr
Gallerie Accademia
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Palazzo Grassi
Fondazione Vedova Perry Guggheneim Magazzini del Sale
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L’arte contemporanea è più insidiosa. Si nasconde nei luoghi più impensati. Spazi microscopici, illuminati a mestiere. Buchi pieni di idee da cui si riemerge nella luce accecante con qualche anno di più o leggeri come farfalle. Buchi o spazi immensi, modernissimi, tirati a lucido. Forse il Rinascimento è stato così: decine di artisti, architetti, musicisti a raccontare il mondo. Che ricominci ad amare per la sua forma, il suo colore, la sua apparente innocenza anche nella brutalità. A Venezia lo chiamano ‘effetto Biennale’. Ed è particolarmente atteso perché porta una marea di soldi. Come un’acqua alta che copre d’oro la città. La Biennale d’arte da tempo non è più solo ai Giardini o all’Arsenale, ma in molti posti della città. Da giugno a novembre Venezia è il palcoscenico su cui tutti vogliono salire e farsi vedere.
IL COLLEGIO DEGLI ARMENI E I MAGAZZINI DEL SALE Abito a palazzo Zenobio, o Collegio degli Armeni. Ha una foresteria molto molto basic rimaneggiata, purtroppo male, decine di volte. E alcuni commenti in rete, ai preti armeni gliene cantano quattro. Però i prezzi sono incomparabili, almeno quanto la storia del posto e il giardino peripatetico e per peripatetici, con i padiglioni di Islanda e Armenia nelle dependance. Da vedere, anche con la nebbia. I Magazzini del Sale di cui A., e non solo lui, mi ha parlato non sono distanti. Direzione Zattere agli Incurabili, e non serve spiegare cosa c’era prima. I Magazzini del Sale si stagliano a blocchi, enormi hangar, dove la Serenissima per secoli stoccò una delle sue ricchezze: il sale. Dismessi da decenni vengono adocchiati dal Movimento e uno, nel settembre 2007, viene occupato da una trentina di ragazzi.
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MARCO “Abbiamo rotto il lucchetto e siamo entrati – racconta Marco Baravalle del Collettivo – dopo tre giorni eravamo già aperti con una mostra di artisti locali. A novembre arriva la polizia e ci sgombera. Però facciamo capire all’amministrazione della città che per noi quello è uno spazio importante, che non vogliamo vendere birre. Di fronte non ci siamo mai trovati un’amministrazione becera – continua Baravalle – cosi abbiamo potuto lavorare. Abbiamo presentato un progetto di gestione. Ogni mese dovevamo produrre un evento nuovo. Perché il Comune controllava. È stato un anno bestiale. Ci hanno messo parecchio sotto pressione”. Ciò che Marco rivendica a sé e ai suoi compagni è aver individuato un luogo prima abbandonato, averci puntato un faro sopra tanto da farlo rientrare in quella nuova mappa
Padiglione. Ma siamo in pochi a farlo”. Marco con il Magazzino del Sale non ci campa, il suo lavoro vero è presso una banca etica. E quando gli dico che il regista bolzanino Andreas Pichler definisce il Sale una vera potenza, Marco non dice di no. I vicini del Sale sono La Fondazione Vedova, – il celeberrimo pittore aveva lo studio da queste parti –, l’antica Associazione vogatori di Venezia, e doppiata Punta Dogana a fianco della chiesa della Salute, la Fondazione Pinault. Il Sale rimane collegato però al Rivolta, enorme centro sociale di Mestre e a Radio Sherwood, la sua voce. Con il ciuffo grigio che gli definisce la fronte e quel poco di tempo che ha a disposizione intuisco da Marco che per tenere il Sale aperto si fa il possibile. Ci sarà anche del calcolo politico, ma l’idea di non mollare quello spazio indipendente sembra più forte. “Venezia è un posto con enormi potenzialità
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1. Reading ai Magazzini del Sale. 2. Inaugurazione al Laboratorio Morion. 3. Locali interni del Morion.
che il Comune di Venezia sta disegnando in questi ultimi anni: il Chilometro dell’Arte. Parte dai Giardini, attraversa Giudecca e Dogana e arriva fino a Ca’ Foscari, l’Università. Il Magazzino del Sale occupato dal collettivo ha soffitti altissimi. Non è facile riempirlo, riscaldarlo, arredarlo. Il Collettivo non paga a∞tto, diciamo che lo ha in cura. “Non hai idea – racconta Marco di ciò che succede a Venezia quando sbarcano i Padiglioni della Biennale. Considera che adesso sono in corso a Venezia più di 100 eventi. Noi ci siamo in mezzo. Ospitiamo il Padiglione catalano. Ovviamente gratis. È un modo per fare cultura alternativa se pensi al link che troppe volte si crea fra l’arte anche la più radicale e grandi patrimoni. Per esporre opere dissacranti contro tutti e tutto alle società immobiliari vengono pagati affitti stellari. I palazzi vengono affittati per pochi mesi a non meno di 70–80 mila euro. Non siamo gli unici a ospitare gratuitamente un
che non riescono ad esprimersi – spiega – è molto faticoso viverci. Il turismo è devastante. Masse immense, prezzi altissimi. L’humus culturale creato dall’Università è molto vivo ma non le rimane attaccato. Dopo la laurea la gente se ne va. È un passaggio continuo che comunque lascia uno strascico nella città e nelle singole vite. Se si è fortunati si ritorna”. MARIA Davanti a un cappuccino Maria Fiano mi racconta cos’è il Morion. “Negli anni d’oro ci si dormiva dentro. Ma è successo vent’anni fa. E io non c’ero, lo hanno fatto i più vecchi – dice ridendo. Il centro sociale è in un quartiere molto popolare fra Arsenale e San Francesco della Vigna. Per alcuni anni è stato chiuso. Ha ospitato homeless. Poi lo abbiamo riaperto, e ora è uno spazio molto in contatto con il quartiere. Organizziamo concerti con collettivi musicali, cucina biologica, feste.
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Il Morion era un ricovero e ancora oggi appartiene all’Elemosiniere Comunale, che voleva venderlo e farne un supermarket. Ora la questione sembra essersi placata e noi stiamo preparando un progetto di gestione”. Il Morion ha riaperto i battenti all’inizio di Ottobre. Trovarlo non è difficile e se si è fortunati ci si può imbattere nei suoi microscopici manifestini attaccati sui muri che informano di qualche concerto. Piccole opere d’arte a tiratura limitata. Maria ha sempre vissuto in case occupate, sin da quando era studentessa, una decina di anni fa. Definisce la sua area politica, la stessa del Sale e del Rivolta: ex – no global, di mobilitazione di base, no Tav, e dei Beni Comuni. Un’area molto fluida, dice. Insegnante precaria, vive in una casa di 45 metri quadri di proprietà della Provincia di Venezia, decadente e in disuso, occupata un paio di anni fa, per
è facile aprirsi un varco nello strabordante palcoscenico veneziano, creare connessioni al limite del paradosso fra un mondo ‘alternativo normale’ e l’impeto visionario dei grandi eventi artistici che hanno la regia di scaltri e adorati curatori di mostre. Un canale, minimo non ancora troppo conosciuto, è il movimento Ri-Biennale, attivo da tre – quattro anni. Ne fanno parte anche Maria e i suoi amici architetti. “Ciò che facciamo – dice Maria – è recuperare e riutilizzare i materiali dei Padiglioni. Con alcuni siamo già in contatto. C’è moltissimo legno, ferro, sabbia. Tutte cose che possono essere rimesse in circolo, Qualche artista ci ha già chiamato, ma non per darci opere d’arte. Quello è successo pochissime volte. Abbiamo rapporti con collettivi analoghi franco tedeschi, austriaci e olandesi, tutti operativi sulla ri-funzionalizzazione dei materiali.
abitarci e prendersene cura. Sull’esempio di Giulio e Paola Grillo, architetti, che hanno occupato un’altra delle case fatiscenti della Provincia, restaurandola con la terra cruda. Dopo una causa infinita, pubblicazioni su riviste, il Tribunale ha dato ragione a loro. Ci possono abitare. Come dire: l’Ente Pubblico non può far ammuffire il suo patrimonio e impedire ad altri di usarlo. Maria per ora ha rifatto solo il bagno della sua micro-casa, e anche se la vita rimane sempre un po’ sospesa spera di arrivare prima o poi all’obiettivo, già raggiunto in altre città europee: creare una cooperativa per gestire un parco case che l’Ente Pubblico non riesce più a mantenere.
Ciò che vorremmo, però, è che la Biennale stessa diventasse più ecologica. Usando meno moquette e cartongesso, ad esempio”.
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RI-BIENNALE Saranno anche troppo politici o politicizzati e forse anche un po’ bolsi, questi alternativi istituzionalizzati, ma non sono bolliti. Non
A+A Ciabatte, scale, ciabatte, scale. Lingue. Sento molto russo, spagnolo, tedesco, americano. Dopo Rialto lascio lo sciame, taglio per una calle secondaria. Sollevo lo sguardo su una targa. In ricordo di “Elena Cornaro Piscopia, che qui nacque nel 1646. Prima donna laureata nel mondo”. Leggo, registro e riferisco. Pochi minuti dopo a Palazzo Grassi, la scultura di un’altra donna Johanna Vasconcelos. Giocattolo coloratissimo di pezza immenso e all’apparenza buono. Sinistro quando lo si incontra in ogni angolo, e si legge che non è ancora finito, e forse non lo sarà mai. Perché è una cosa immonda. Un virus che cambia e si diffonde per l’intero palazzo. Genialmente schifoso.
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di Aurora, è un part time. Cura i rapporti con i giovani artisti: “C’è molta richiesta espositiva – racconta – soprattutto per progetti di arte e scienza. Le migliori energie creative escono dall’Università, lo Iulm, ma è difficile che si aprano una strada. Ti sei mai chiesta perché tanti di loro si buttano sull’arte concettuale? Perché costa poco, così come i video. Appena un artista ha un po’ di soldi e fortuna può concedersi un’installazione e spende di più”. Chi a Venezia si occupa dei giovani artisti è la Fondazione Bevilacqua La Masa . Mette a disposizione 12 atelier, cinque alla Giudecca, 7 a Palazzo Carminati. Essere selezionati può significare la svolta della vita: “Ma i giovani artisti devono stare attenti a non farsi spremere come limoni – dice Aurora – da un ciclo vorticoso che dura quattro-cinque anni e poi finisce. Perché non servono più mentre si cerca il prossimo fenomeno”. Giorgio Zucchiatti
MERCATO e MERCANTI Ma di quale mercato stiamo parlando? Chi viene a Venezia va ad una mostra e dice: “Prendo questo, prendo quello. Quanto è?” Il business non si fa con le migliaia di biglietti che si pagano all’ingresso? Aurora Fonda, curatrice del Centro di Cultura Sloveno, mi guarda come se fossi uno degli alieni di Mirko Bratusa in esposizione in Galleria A+A. “Secondo te – mi dice – perché tutti sono qui? Perché la Fondazione Pinault ha preso Palazzo Grassi e Punta Dogana per un euro all’anno per decine d’anni? E Prada, Ca’ Corner della Regina per i prossimi sei anni, con l’impegno di far ‘girare’ quel palazzo?” “Per il pubblico” rispondo generica. “Ma non quello dei biglietti, cara mia, quello dei collezionisti”. E quanti saranno, domando senza azzardare
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un numero, ma pensando a cinque o sei. “Sono tanti, proprio tanti – dice Aurora da ex-curatrice a Palazzo Grassi, in epoca Agnelli. “Ora c’è un mercato totalmente esplosivo. I collezionisti – puntualizza – arrivano dalla Cina, dalla Russia, dai Paesi Arabi. Vengono qui a comprare. La gente che ha soldi vuole opere d’arte, anche se non ne capisce nulla. Le Fondazioni servono a questo: attirare, promuovere, vendere. L’unica cosa certa è la ricerca di soldi. Farli, trovarli. Trovarli e farli”.
4. Discreet form set, live set di Mugen alla galleria A+A. 5. Biennale di Venezia: padiglione centrale, Josh Smith. 6, 7. Biennale di Venezia: Padiglione tedesco, Christoph Schlingensief Eine Kirche der Angst vor dem Fremden in mir, 2011.
YOUNG ART Il Centro di cultura sloveno vive dei 120 mila euro annui del governo sloveno. La galleria annessa, A+A , organizza una trentina di mostre all’anno per giovani artisti. “Molto difficili da sostenere – racconta Aurora – perché è più facile trovare 200 mila euro per Anish Kapoor che 200 euro per un giovane sconosciuto”. Tommaso Zanini, collaboratore
A. “Tu stai cercando la Venezia alternativa, l’arte indipendente. Ma non sarà il Sale, il Morion, o Forte Marghera a scoprirla. Quelli sono pezzi del sistema. Code del passato. Che non variano i rapporti di forza economici” dice a bassa voce A. “L’arte indipendente a Venezia c’è. Ci sono artisti di ogni parte del mondo che lavorano in posti bui. Stanno facendo cose bellissime e forti. Se la luce della notorietà li sfiora potrebbero morire. Perciò rimangono dove sono, nascosti. Poi se ne vanno. E io non te li farò conoscere”. Così mi dice A. spegnendo la sigaretta.
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Reise in den Kulturpott
2010 war ein besonderes Jahr für die Menschen im Ruhrgebiet: Zusammen mit Pécs in Ungarn und Instanbul in der Türkei waren sie Kulturhauptstadt. Erstmals wurde eine Region berücksichtigt. 53 Städte arbeiteten zusammen für den Wandel durch Kultur und machten mit 300 Projekten und 2.500 Veranstaltungen auf sich aufmerksam.
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des Kulturhauptstadtprogramms, wie ich lese) und: „Ruhr 2010 Ausverkauf“ und die Erklärung dazu: „Das Kulturhauptstadtjahr 2010 ist vorbei, doch für Schnäppchenjäger…“ Stimmt, vorbei ist das Kulturhauptstadtjahr in Bochum, Essen, Werne, Voerde, Schwelm, Duisburg und Selm, in Unna und Dortmund, in Wetter und Holzwickede und wie sie sonst noch alle lauten, die äußerst originellen Namen der 53 Städte des Ruhrgebietes oder besser der Metropole Ruhr, wie es neuerdings heißt.
1. Schlacke-Abschüttung bei Thyssen, Duisburg, 2010. 2. Unesco-Weltkulturerbe Kokerei Zollverein, Werksschwimmbad.
ch sitze im Zug und fahre Richtung Norden, schaue manchmal aus dem Fenster, nicke wieder ein, überlege mir, dass ich Zug fahren angenehm finde. Und ich finde auch, dass es dorthin, wohin ich fahre, nicht einmal so weit ist. Meine Schwester meinte vor meiner Abreise zu mir, das liegt ja um’s Eck von Belgien und den Niederlanden. Und Polen auch. Naja, Polen ist nun doch etwas weiter entfernt. Aber, stimmt, nicht weiter als Italien. Oder Österreich. In Grenzen gerechnet. – Ich sitze also nichts Bestimmtes tuend im Zug, tipsle auf meinem Notebook herum und suche im Internet den Anlass meiner Reise: „Kulturhauptstadt“. – 310.000 Treffer. (Nicht einmal so viele!). Und weiter: „Ruhr 2010“ – 17.900.000 Einträge. Das ist schon etwas mehr. Da diese Suchmaschinen neuerdings oder auch schon länger Suchvorschläge anbieten, fällt mir auch „Ruhr 2010 GmbH“ ins Auge (die verantwortliche Gesellschaft zur Vorbereitung und Realisierung
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Text von Kunigunde Weissenegger
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Geschichten Nichts mehr mit Kohlenpott, Ruhrpott oder einfach nur Pott. Das Schlagwort heißt: Die neue Metropole Ruhr. Bravo und Komplimente an die kreativen Menschen, die dafür sicher gut bezahlt wurden. Doch wie ist das gemeint? – Das ist meine erste Frage an Oliver Scheytt, den Geschäftsführer von Ruhr2010. Er antwortet mir, dass es nicht darum ging, jede ein-
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zelne Stadt zu vermarkten, sondern das Ganze, die Metropole Ruhr eben. Und er präsentiert mir weitere schlagende Sätze: „53 Städte als Gesamtheit – wie Europa, das aus vielen verschiedenen Staaten besteht und verschiedenste Kulturen in Europa vorhanden sind. Die Europäische Kulturhauptstadt ist ja dazu da, dass diese Städte ihre Geschichte erzählen. Diese Geschichte ist immer Vielfalt, mit wechselvollen Ereignissen, Kriegen und Kämpfen.“ Und er weiß auch gleich Parallelen zu Südtirol zu ziehen: „Bei uns im Ruhrgebiet ist es das Thema, dass hier die Waffenschmiede des Reiches stand, eine Krupp-Kanonenschmiede, die auch Unglück über Europa gebracht hat. Bei Ihnen sind es die Auseinandersetzungen zwischen den verschiedenen Sprachkulturen, die zusammen leben.“ Oliver Scheytt weiss genau, wieso das Ruhrgebiet Kulturhauptstadt wurde: „Wir hatten eine spannende Geschichte erzählt: Aus einer alten Stahl- und Industrieregion machen wir einen neuen Kulturort. Wir erzählen Europa eine Geschichte mit 53 Städten. Diese Geschichte war überzeugend. Und wir haben gezeigt, dass wir das unbedingt machen wollen. Dass wir die Richtigen sind. Und dass wir tolle Kulturinstitutionen und Leute hier haben.“ Stimmt, jede Kulturhauptstadt sollte eine Geschichte zu erzählen wissen, die dann optimalerweise bei der Präsentation vor der Europäischen Jury von
Museen als Kraftwerke Auslöser für den Zusammenschluss von 20 Museen moderner Kunst der Region Ruhr – von der Antike über das 19. Jahrhundert und die Klassische Moderne bis zur Gegenwart – war die Bewerbung des Ruhrgebietes zur Kulturhauptstadt. Seit 2010 treten die RuhrKunstMuseen als dichtes Netzwerk gemeinsam auf. Kurt Wettengl ist der Direktor eines der 20 Museen – des Museums Ostwall – und Sprecher der RuhrKunstMuseen. Was war für Sie 2010 ein eindrückliches Kulturhauptstadterlebnis, an das Sie sich gern und genau erinnern? Insbesondere fallen mir die Aufführungen des Ensemble Modern in Essen ein, das Komponisten beauftragt hat, in Weltstädte zu fahren, dort einige Zeit zu leben und daraus Kompositionen zu machen. Das fand ich sehr beeindruckend.
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dieser geschluckt und gut aufgenommen wird, damit sie sich ‚richtig‘ entscheidet. „Unsere Geschichte ist eine europäische Geschichte, weil es darum ging, aus der Vielfalt eine Einheit zu schaffen, nicht im Sinn, es wird alles einheitlich angestrichen, einheitlich gemacht, sondern dass man das verbindende Element herausarbeitet. Und das haben wir mit den Mitteln von Kunst und Kultur gemacht“ fügt Oliver Scheytt hinzu. – Das Motto der Kulturhauptstadt fällt mir ein: Wandel durch Kultur – Kultur durch Wandel. Der Satz stammt von Karl Ernst Osthaus, dem Begründer des Museums Folkwang – des ersten Museums der Moderne in Deutschland. Er hatte ihn einst aus der Überzeugung formuliert, dass Kunst und Kultur einen entscheidenden Anteil an einer menschenwürdigen Gestaltung unserer (Um-)Welt haben können und sollten. Für Ruhr2010 wurde der Gedanke aufgefasst und weitergesponnen – wobei sich bis heute die Frage stellt, was Kunst und Kultur zu unserer Lebensqualität beitragen können… – Ich jedenfalls bin in Essen – ohne Kulturhauptstadtjahr wäre ich nicht hierher gefahren und hätte mit meinen Geldausgaben nicht die Ruhr-Wirtschaft unterstützt. Und ich bin mir auch sicher, dass sensiblere Themen, die ansonsten gern elegant umgangen werden, wie beispielsweise Immigration oder Behinderung, um nur zwei zu nennen, in solchen wichtigen Jahren eher zur Sprache kommen. Wie zu meiner Bestä-
Was ist Ihr Eindruck, hat die Bevölkerung das Kulturhauptstadtjahr mitbekommen? Und wie hat sie es aufgenommen? Mitbekommen hat sie es sicher. Wie sie es aufgenommen hat, darüber bin ich mir nicht so ganz im Klaren. Es gab sehr populäre, spektakuläre Ereignisse, wie dieses Still-Leben auf der Autobahn, über das auch alle Welt spricht. Das sind im Grund genommen populistische Blockbuster-Programme, von denen ich relativ wenig halte, weil das sehr aufwändige Events sind, die aus meiner Sicht keine große Nachhaltigkeit haben. Dort wo Ruhr2010 hingegen an Vorhandenes anknüpfen konnte oder neues Schaffen konnte, war es am wirkungsvollsten. Man kann nur hoffen, dass es in Deutschland besser ist, als beispielsweise vor einigen Jahren als Athen Europäische Kulturhauptstadt war, und am Ende des Jahres nur 60% der Griechen davon wussten.
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3. SchachtZeichen-Luftbild: Blick auf den Schacht Rheinpreußen 4 in Moers. 4. Kurt Wettengl, Direktor des Museums Ostwall und Sprecher der RuhrKunstMuseen.
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Bei der Promotion des Kulturhauptstadtjahres wurde sehr viel Wert darauf gelegt, zum Einen bei der Bevölkerung ein neues Selbstbewusstsein zu fördern, was die Herkunft aus dem Ruhrgebiet betrifft, zum Anderen die Wahrnehmung des
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Deutsches Zentrum für Luft— und Raumfahrt (DLR)
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Gebietes nach Außen hin positiv zu ändern. Da, glaube ich, hat Ruhr2010 einen entscheidenden Fehler gemacht, indem man ganz stark den Mythos vom Ruhrgebiet – Arbeitergegend, Bergbau, Kohle – immer wieder aufgegriffen hat, um zu sagen, wir sind nicht so. Schon bei der Eröffnungsveranstaltung wurde auf große Ölfässer getrommelt. Das fand ich schrecklich, weil man ein neues Bild von der Region zeigen will, dies aber meines Erachtens nicht damit tun kann, indem man immer wieder diesen alten Mythos bemüht. Wenn Sie etwas Neues propagieren wollen, müssen Sie auch etwas Neues setzen. Denn wenn Sie sagen, das Ruhrgebiet ist anders als vor 50 Jahren, dann brauchen Sie nicht ständig wieder an die Zeit von vor 50 Jahren zu erinnern. Dann müssen Sie Gegenwart und Zukunft bringen. Kommen wir nun zu den RuhrKunstMuseen, deren Sprecher Sie sind: Wie und warum ist es zum Zusammenschluss gekommen? Wir haben uns bald nach der erfolgreichen Bewerbung zusammengefunden. In der Tatsache, dass die Kulturhauptstadt in die Region kommt, haben wir unsere Chance gesehen, uns als Museen in anderer Form gemeinsam sichtbar werden zu lassen.
Wir wollten ein Netzwerk bilden, das sich konstituiert im Hinblick auf die Kulturhauptstadt, das aber auch darüber hinaus wirksam ist und besteht. Was sind die Ziele dieser gemeinsamen Arbeit? Wir versprechen uns eine verstärkte Wahrnehmung von Außen, indem wir gemeinsam auftreten, eine Stärkung in kulturpolitischer Sicht innerhalb der Städte, dadurch dass wir Partnerschaften haben und wir erhoffen uns eine verstärkte Wahrnehmung durch die Landespolitik. Wir versprechen uns auch eine Stärkung im inhaltlichen Sinn, was Marketing, Öffentlichkeitsarbeit, Vermittlung, Projekte und Entwicklung angehen. Das Vermittlungsprojekt Collection Tours wollen wir auf andere Weise fortsetzen und zweimal im Jahr am Tag der RuhrKunstMuseen besondere Kunstwerke der jeweiligen Sammlung vorstellen. Wir planen auch thematische Ausstellungen, an denen die Häuser abwechselnd teilnehmen. Als Museum Ostwall versuchen wir einen Museumsbegriff zu entwickeln, der das Publikum mit einbezieht: Das Museum als Kraftwerk – ein Ort, an dem die Leute das Gefühl haben, es lohnt sich dorthin zu kommen und es werden dort Fragen angesprochen, die mich tatsächlich betreffen.
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Ruhr.2010/Matthias Duschner
Stadt Dortmund/Johanna Fischer
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Tiefen Lustig und Sonnenschein war aber auch nicht immer alles. Das Gesicht des ansonsten heiteren Geschäftsführers wird auf meine Frage, ob auch etwas schief gelaufen sei, ernst und nachdenklich: „Ja. – Also das Schlimmste war sicher die Love Parade. Das ist ja nicht nur schief gelaufen. Das war schrecklich. Das war der Tiefpunkt.“ Fritz Pleitgen, Fernsehmann mit unzähligen Kontakten, Auslandsberichterstatter, den „hier deshalb jeder über 50–60 kennt“, wie Scheytt erzählt, und langjähriger Westdeutscher-Rundfunk-Intendant, der aufgrund genannter Gründe als Vorsitzender der Geschäftsführung ins Team geholt wurde, habe damals nach dem Unglück gemeint, „wir haben eine moralische Mitverantwortung, weil wir es zwar nicht organisiert haben, aber in unser Programm genommen haben.“ Und Scheytt weiter: „Wir haben innerhalb von einer Woche den Höhepunkt und den Tiefpunkt erlebt: am 18. Juli die Sperrung der gesamten RuhrAutobahn von West nach Ost für Still-Leben Ruhrschnellweg und am 24. Juli die Love Parade. In der Geschichte der Bundesrepublik gibt es kein Ereignis, das so viele Menschen auf die Beine gebracht hat wie bei der Stilllegung der Autobahn – auch kein Papstbesuch. Ebenfalls
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tigung erzählt mir der Ruhr2010-Boss, auf meine Frage, an welche Veranstaltung er sich gern erinnere, von einer solchen Initiative: „Ich möchte ein ganz kleines Projekt nennen: Im Rahmen des Partnerschaftsprojektes TWINS kam ein russisches Taubstummentheater zu uns – in Russland war Kommunikation mit Gebärdensprache bis vor Kurzem noch verboten.“
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gab es auch noch nie eine Kulturveranstaltung, bei der so viele Tote waren.“ Zahlen Ehe ich Oliver Scheytt verlasse und zum Zug sause, will ich noch ein paar Fakten von ihm. Was ist geblieben? Konkret? „Sichtbare Zeichen der Kulturhauptstadt sind beispielsweise die fünf neuen touristischen Zentren, die gebaut wurden. Die Touristenzahlen sind bei uns gestiegen, da können Sie in Südtirol nur darüber lachen. Wir haben im Ruhrgebiet 6,5 Millionen Übernachtungen pro Jahr, Berlin hat 20 Millionen. Wir haben es aber erreicht, dass im Jahr 2010 30 Prozent mehr Übernachtungen kamen. Also eine erhebliche Steigerung. Und diese Steigungsrate ist heuer nicht abgesunken auf 2009, sondern weiter
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Menschen Ich sitze wieder in einem Zug, bin auf dem Weg ins Gasometer nach Oberhausen oder nach Dortmund ins Dortmunder U oder zurück nach Essen ins Unfertighaus und frage mich, ob diese Menschen, die mich dort umgeben wirklich mitbekommen haben, dass sie Kulturhauptstadt waren. Auf diese Frage hat mir Scheytt zuvor sehr überzeugt mit „Ja, es waren immerhin 3 Millionen Menschen“ geantwortet. Es sei nicht zu übersehen gewesen, denn beispielsweise haben bei SchachtZeichen an 311 Standorten neun Tage lang riesige gelbe Ballone am Himmel gestanden und auf alte Schächte verwiesen. Und weiter meinte er zum Thema: „Das Entscheidende, das uns gelungen ist, ist ein neues Bewusstsein vom Ganzen erzeugt zu haben. Das kann man die Leute hier fragen. Und wir werden noch einmal am Ende des Jahres 2011 mit einer Befragung bundesweit evaluieren, ob es stimmt, dass es eine neue Wahrnehmung gibt. An den Zahlen, die sich abzeichnen, jedenfalls ja.“ Außerdem seien 2.000 Programmvorschläge gekom-
Ruhr.2010/Rupert Oberhäuser
Stadt Dortmund/Johanna Fischer
5. Endgültige Eröffnung des Dortmunder U zum Finale der Kulturhauptstadt Europas Ruhr2010. 6. Quadrangle: 360°-Projektionsperformance mit Licht und Sounds an der SANAA-Fassade. 7. Das Tetraeder in Bottrop: frei begehbarer Aussichtsturm in 60 Metern Höhe. 8. Vertreter der Kommunen der Metropole Ruhr mit gelben Orteingangsschildern. 9. Generalprobe für das Finale von Ruhr.2010 im Nordsternpark Gelsenkirchen: jBM junges Blasorchester Marl. 10. Duisburg Still-Leben Ruhrschnellweg. 11. Das Finale von Ruhr2010: Show auf dem Nordsternplatz der Zeche Nordstern in Gelsenkirchen.
aufgestiegen. Das bestätigt also, dass eine neue Wahrnehmung erzeugt worden ist.“ Diese Aussage bestätigt mein Gefühl, das mich auf meiner Reise durch das Ruhrgebiet begleitet: Die Gegend wurde bis vor einem Jahr eindeutig unterschätzt. Wenn die halbe Welt so tut, als ob es vor Ruhr2010 nichts gegeben hätte, kann ich dem nicht zustimmen. Es gab zahlreiche Museen, den Zollverein, das Gasometer, doch niemand beziehungsweise wenige wussten davon. Nicht einmal in der Nachbarstadt: „Durch Befragungen wissen wir, dass nun die Menschen nicht mehr nur in ihrer eigenen Stadt Kulturangebote besuchen, sondern auch weiter in andere Städte fahren und so dieses Erlebnis des Raumes haben“ erzählt mir Scheytt. Und ganz am Schluss wird’s dann richtig spannend. Bevor Oliver Scheytt den Ruhr2010Laden schließt, alles einer Arbeitseinheit bei der Ruhr-Triennale GmbH übergibt und sein eigenes Kulturhauptstadtberaterbüro öffnet, hat er noch für Nachhaltigkeit gesorgt. Zwischen 2006 und 2011 verfügte die Metropole über 60 Millionen Euro für die gesamte Unternehmung, 2010 standen ihr davon 36 Millionen Euro für die Programmgestaltung und 12 Millionen Euro für das Marketing zur Verfügung. „In Zukunft auf Dauer werden es nur mehr 10 Prozent davon sein“ klärt Oliver Scheytt mich abschließend auf. Das Land Nordrhein-Westfalen und der Regionalverband Ruhr haben vereinbart, 2011 bis 2020 jedes Jahr 4,8 Millionen Euro der Kultur zu geben. Kulturangebot zunächst gesichert.
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men – ohne dazu aufgerufen zu haben. Da ist richtig die Lust zu verspüren, die die Ruhrbewohnerinnen und -bewohner auf Veränderung hatten und haben. Die Menschen hier kommen mir generell sehr kommunikativ und unkompliziert vor. Direkt, was meines Geschmacks nicht fehl am Platz ist, manchmal vielleicht etwas schroff und empört – was mich allerdings nicht stört, sondern eher ein wenig schmunzeln lässt, und stets nett und äußerst höflich – was ich anfangs nicht verstehe, so ungewohnt erscheint es mir. Das „Sie“ ist obligatorisch – stört mich aber nicht weiter, schließlich haben wir mit den wenigsten von demselben Teller gegessen. Es ist zwar alles geregelt und hat seine Ordnung, aber dazwischen mischt sich immer wieder ein wenig Chaos und Spontaneität. Aber überall und immer gibt es solche und solche. Meine Gastgeberin, die ich zwecks meiner Reise bei der Recherche über das Internet kennen gelernt habe, ist auch eine solche: Sie hat mich aufmerksamerweise mit Auto und Hund vom Bahnhof abgeholt, weil S-Bahn und Bus um die Zeit nicht mehr so oft fahren und es auch kein Problem sei, wie sie meinte – so sind Ruhrmenschen eben. – Ich komme gerne hier an. – Bis spät nachts haben wir bei einigen Gläschen Wein über dies und jenes geplaudert. Im Zug Richtung Süden erinnere ich mich, wie sie einmal meinte, sie habe nie wirklich etwas mit Kohle zu tun gehabt, auch nicht ihre Familie oder Vorfahren und Ahninnen. Und mir fallen Oliver Scheytt und einige seiner Worte aus unserem Gespräch ein: „Da kommen wir her, aus der Kohle. So sind wir entstanden…“ Wie gesagt: Solche und solche…
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L’altra frontiera Incastrata tra mare e terra, tra Mitteleuropa e Balcani, Trieste è l’ultima propaggine della realtà sovra-territoriale che è il ‘Nordest’ d’Italia. Città di contrasti, di incroci linguistici e culturali, non ha ancora ben definito il proprio ruolo nella candidatura a Capitale della Cultura, ma ci sta lavorando. E forse ci stupirà Testo di Anna Quinz Foto di Claudia Corrent
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ì dove il Molo Audace, fedele al suo nome, si butta nel mare, rimanendo però ben ancorato alla città, lì dove con un solo sguardo si possono abbracciare la natura avvolgente e i palazzi silenziosi, lì, inizia Trieste. Pigramente sdraiata sul verde divano che è il Carso, con i piedi a mollo nel mare la città se ne resta lì, sempre seduta, come raccontano tutti i suoi abitanti, osservando ciò che porta il vento, o meglio i venti, che a volte l’accarezzano, altre volte la sconquassano. Trieste è una vecchia signora, strategicamente posizionata nel cuore dell’Europa, una città già europea ancor prima che l’Europa nascesse, che guarda un po’ ad est, verso i vicini Balcani, un po’ a nord verso l’Austria che la dominò, un po’ a sud, verso quel Mediterraneo che con i suoi porti accarezza. E che ora, con la candidatura insieme al Nordest a Capitale della Cultura per il 2019, dovrà guardare anche a ovest. Ma guai
chiamarla mitteleuropea. “Filologicamente il termine non è sbagliato”, mi dice Veit Heinichen, scrittore tedesco adottato ormai da anni da Trieste, e suo profondo conoscitore, “ma appartiene al passato, in realtà oggi con la velocità dei trasporti e delle comunicazioni, si deve parlare di città centraleuropea”. E proprio per questo, Trieste potrebbe per la candidatura essere una chiave di volta, per aprire, come anche l’Alto Adige, le prospettive in senso transfrontaliero. Ma forse, a differenza di Bolzano, la città giuliana non è ancora pronta ad assumere il ruolo che le potrebbe venire affidato. Infatti, nei giorni che passo lì, in cerca di informazioni utili per costruire un quadro di coinvolgimento del territorio nella candidatura, trovo soprattutto voci dubbiose, non tanto sulle potenzialità che questo ambizioso progetto potrebbe offrire, ma proprio sul ruolo della città stessa. È da premettere però che recentemente è
1. Riva 3 novembre, Molo Audace, di fronte a Piazza Unità D‘Italia
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cambiata l’amministrazione comunale, così, tutti gli sforzi politici e culturali sono diretti al cambiamento profondo della sostanza che tiene in piedi (o meglio, che fino ad ora ha tenuto seduta) la città. In generale dunque, l’atmosfera che si respira è di positività e ottimismo, c’è voglia di svegliare la vecchia signora e metterla in moto, ma come questo si colleghi al Nordest capitale, ancora non è cosa chiara (qui ancora non esiste un comitato competente, non sono stati stanziati finanziamenti a riguardo, tutto è ancora, insomma, allo stato embrionale). Altra indispensabile premessa, è sulla natura stessa della città, che per il suo essere di confine (“è la città con più confini, ma anche con tanti ponti possibili”, sempre secondo Veit Heinichen) è per definizione città borderline, in ogni senso possibile. Ricca di contrasti e contraddizioni, costruita su una multiculturalità magmatica (qui si fondono circa 90 etnie, ci sono ben 7 cimiteri, uno per religione presente in città), e su un tessuto culturale ancora troppo orientato al passato, Trieste non solo è e fu di ispirazione per tanta letteratura (come ogni luogo complesso e controverso), ma
anche sfondo di tante follie più o meno note, di angoli misteriosi, di battaglie vinte ed altre sotterrata dal tempo. Così, prenderne le redini e portarla nuovamente al centro europeo che merita, ridefinirne l’identità (anche in funzione di una messa in rete con il Nordest, così vario e variegato) non è impresa semplice, e il neoeletto sindaco, Roberto Cosolini, sembra saperlo bene. “È necessario risvegliare la città”, dichiara, “ricreando prima di tutto una cultura di comunità. Dunque rilanciando la spinta verso l’innovazione, invertendo la teoria del declino della città. Trieste non vuole morire su se stessa”. Ma, se la città guarda prima di tutto al suo interno rinnovamento, cosa potrebbe offrire, nella prospettiva della Capitale della Cultura? Sempre secondo Cosolini, Trieste potrebbe distinguersi soprattutto per ciò che concerne la cultura scientifica, qui particolarmente forte e all’avanguardia. Poi certo la multiculturalità, la multireligiosità e il ponte verso l’est europeo. Ma i passi da fare sono ancora molti. Il membro friulano del comitato scientifico della candidatura, Antonio Paoletti, si muove cauto, “il potenziale c’è, ma siamo ancora
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2. Largo Riccardo Pitteri 3. Piazza Unità d‘Italia 4. Via Cavana
abbastanza indietro, soprattutto nelle relazioni tra operatori culturali, istituzioni e mondo imprenditoriale. Ma sono fiducioso, la tela che il Nordest può tessere, è di certo di rilievo, e tutti noi rappresentanti delle ‘altre aree’ rispetto alla capofila Venezia, abbiamo un ruolo fondamentale. Con il nostro esserci, possiamo infatti creare un tessuto culturale nuovo, che porti, anche, allo svecchiamento di Venezia come città-museo”. Dunque, come si ripete in ogni angolo di questo nuovo Nordest, è necessaria la rete, la capacità di collaborare e creare scambi. “Sarebbe auspicabile riuscire a creare eventi congiunti e itineranti, tra le aree coinvolte” sottolinea Andrea Mariani, Assessore comunale alla cultura, “e portare il meglio di ogni città, nelle altre, così da creare un circolo virtuoso di turismo, agevolato da biglietti comuni, pacchetti, infrastrutture e trasporti efficaci”. Altro punto, toccato dall’Assessore, lo svecchiamento dei programmi e delle prospettive culturali: “A Trieste, l’offerta culturale è troppo classica, anche per questo che la popolazione tende a invecchiare, e i giovani a fuggire altrove.” E, dunque, i giovani in tutto questo? Mi risponde
Barbara Franchin, direttrice di ITS, concorso internazionale di creatività nella moda e nella fotografia: “qui i giovani attivi ci sono, il substrato culturale della città non è un corpo morto, ma manca ancora l’appoggio necessario delle istituzioni. Sono fiduciosa nella nuova amministrazione che sembra voler sostenere il nostro progetto, già ‘lanciato’ nel panorama internazionale, e che, in vista della Capitale della Cultura, potrebbe essere un notevole punto di forza per Trieste” (attualmente il concorso è finanziato per il 90 % da privati, in testa il colosso della moda Diesel. Ndr). Dunque, tra i pro e i contro, tra perplessi e convinti, tra vento in poppa e vento contro, riparto da Trieste senza troppe risposte conclusive, ma con la sensazione che qualcosa si stia muovendo. E nel verso giusto. La città si dimostra pronta ad alzarsi dal suo divano, ad allargare lo sguardo, e rimboccarsi le maniche. Che sia per il Nordest capitale, o semplicemente per se stessa, poco importa.
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iaminades, nel cuore dell’Alta Badia, è la heimat di Roberta Dapunt. Heimat geografico-storica, si capisce, e linguistica. Ma, soprattutto, patria letteraria. Stati d’animo che si avvicendano come le stagioni colorate di quassù, sogni spesso vertiginosi come le rocce immacolate, pensieri, sottili e forti come fili d’erba, nostalgie che scolorano melanconiche al tramonto come prati e boschi, sentimenti toccanti come l’aria penetrante che scende dal Passo: un variegato insieme che entra ed esce liberamente dalle
Testo di Reinhard Christanell Foto di Luca Meneghel
finestre di casa come dalle pagine dei suoi libri. “Questa è la mia vita e da essa ti sto scrivendo”, verrebbe da dire con parole sue. All’arrivo, incontro il marito di Roberta, lo scultore Lois Anvidalfarei. È una mite e luminosa giornata autunnale, non si può fare a meno di rivolgere lo sguardo al paesaggio che pare dipinto su una sfera di cristallo. Gli spazi tutt’attorno sono contrassegnati dai giganti buoni di Lois, ombrose reminiscenze scolpite nell’eternità del tempo. “Qui sono nato e qui vivo”, sorride soddisfatto. E, interpretando una
mia fugace impressione, soggiunge: “Fin da bambino sapevo che il mondo è rotondo, basta alzare gli occhi per capirlo”. Roberta Dapunt scrive versi che nulla hanno da invidiare alla bellezza dei luoghi che la circondano. È persona cordiale e accogliente ma nello stesso tempo raccolta in una dolce e garbata riservatezza. Mi parla subito della sua mucca personale, che ho intravisto sul prato sotto casa. Delle sue galline. Dell’erba e del fieno. Dei pascoli del Fanes. Del lavoro quotidiano nella stalla. Della madre di Lois. Dei lunghi inverni. Delle gioie e dei tormenti della vita ‘rurale’. Dell’‘Onnipresente sconosciuto’. Il suo essere contadina, la sua appassionata dedizione al lavoro manuale (“mani aperte, mie mani vuote”) ha conferito una dimensione, una luminosità quasi sacrale alla sua vita e alla sua opera poetica. La cui modulazione, il cui ritmo seguono perfettamente il ciclo naturale. “È cammino casto il ritorno dal Fanes, / zoccolo che pesta lento ogni fine di estate. / E così siamo soli nell’ampio paesaggio, / ci facciamo villani dai riservati silenzi, / accodati alle mucche per rispetto / verso il loro sentiero saputo”. Torniamo al mondo rotondo. “Ciaminades è un microcosmo, per me rappresenta il mondo intero. Qui avviene tutto, nascita e morte, malattia e lavoro nei campi, scrittura e silenzio”. In effetti, a Ciaminades il silenzio è di casa non meno della scrittura. Un silenzio voluminoso, corporeo, a tratti rotto – o plasmato (come le figure in gesso di Lois, i versi di Roberta) – da una voce, da una mano che attraversa lo spazio e scompare. Sono i suoni, le immagini, le storie, i personaggi che Roberta Dapunt cerca di ‘trascrivere’, sistemare in modo acconcio sulla carta nelle lunghe e solitarie giornate invernali, quando un grande manto bianco nasconde ogni cosa e costringe l’immaginazione a ricreare il paesaggio, la vita distante. “Questa è la vita che vivo e vedo, la vita che voglio descrivere nei miei versi. Ciò che accade al di fuori di questo universo mi raggiunge sempre in ritardo, ne sento parlare, più che altro sfiora la mia esistenza senza toccarla veramente”. Recita un suo verso esemplare: “Tutto è qui, qui è l’avvenire, / qui è il tempo che passa e la morte che viene…” E ancora: “Tutto è qui nella riservatezza rurale che ripeto / mattina e sera…” Che altro dire? La bella casa, maso secolare pazientemente ristrutturato da Roberta e Lois, è una riuscita combinazione di cultura contadina e arte. Non vi è sovrabbondanza di oggetti, lo spazio ‘libero’ regna comunque sovrano. Essenziale. Semplice. “I miei versi vogliono essere semplici,
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Questa è la mia vita e da essa ti sto scrivendo
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Lontana sono dal mondo, ciò che vedo, leggo è tempo scorso, minuti finiti. Che sempre, fuori così tanto succede fino al racconto e ogni volta io sono stata assente.
Fallire ogni giorno davanti al foglio di carta e non riuscire, seppure contro il vetro finiscono i sentimenti. Uno dopo l’altro si posano. Io a guardare, vederli rimanere e incontrarli uno ad uno nella mia miseria, o meglio dire non ho che da dare loro lo sconforto. Che stiano lì, ad aspettare allora, poiché non li so testimoniare, io non so far loro fede, io non ho i mezzi per farli ritornare, deporli uno ad uno sul foglio di carta. E sì che loro stanno lì sul vetro ad aspettare, aspettano indifferenti.
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Sopra: due testi inediti dalla prossima raccolta Le beatitudini della malattia 1. Roberta Dapunt nella sua casa a Ciaminades, nell’Alta Badia
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toccare la profonda semplicità dei fatti, delle cose; amo la semplicità”, dice Roberta. Semplicità che, grazie alla sorprendente, a tratti sconvolgente forza e umiltà della sua lingua, sulla pagina si trasforma in universalità. “Un lavoro lento, faticoso. Scrivo e riscrivo ‘ad alta voce’, recito una litania in divenire, riempio quaderno su quaderno, cerco la parola giusta, fino a raggiungere il risultato desiderato”. Nulla è lasciato al caso, nella poesia di Roberta Dapunt, ogni singolo verso segna la pagina e la mente del lettore. “Qui da ottobre a maggio è tutto bianco, un’enorme tovaglia stesa sul paesaggio muto”. Roberta lo osserva dalla finestra del suo studio, uno scrigno incantato (“tu mio tabernacolo, / custode della mia anima”) dove si cimenta nel faticoso e, nello stesso tempo, liberatorio corpo a corpo con il silenzio invadente. “Spesso siedo soltanto e guardo, non succede nulla”. Per giorni, settimane. “L’inverno è lunghissimo, a Ciaminades, siamo chiusi nella valle, già arrivare a Bolzano è un’impresa…” sorride. Eppure Roberta e Lois amano viaggiare. Russia e Polonia tra le loro mete preferite. Ma
anche Vienna. Le città d’arte. E i libri? “Ho amato soprattutto i grandi russi, poetesse come Achmatova e Cvetaeva. Odio i libri voluminosi, prolissi”. E i prossimi inverni? “Mi sto concentrando su due lavori: una raccolta di poesie in ladino dal titolo Nauz (mangiatoia, ma anche grugno, da Schnauze), dedicata ai contadini della mia terra, e una silloge intitolata Le beatitudini della malattia, che l’editore Einaudi pubblicherà tra qualche tempo”. Un lavoro difficile e intenso, che l’ha portata ai confini della propria capacità di condivisione del dolore. Il commiato non poteva che avvenire nell’aia. Le impavide galline, sorvegliate dal maestoso gallo Joachim, raspano volenterose sul letamaio. Non posso fare a meno di rivolgere loro un’occhiata misericordiosa. “Dopo un paio d’anni – mi spiega la Roberta contadina – depongono meno uova”. Ergo: il loro tempo è arrivato. Ovvero, citando l’autrice Roberta Dapunt. “Aspettare è il dovere che finge indifferenza, / a vita tolta è dato un tempo commovente per raffreddarsi”.
2011
ottobre → novembre
Oktober → November
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»Thomas Kronbichler bewegt sich gestalterisch auf der Schwelle von Design zu Kunst und Kultur. Er überrascht mit seinen Entwürfen und überzeugt mit seiner ungewöhnlichen Formsprache. Man kann gespannt sein, was man in Zukunft von ihm hören und sehen wird.« Antonino Benincasa Professor für Visuelle Kommunikation Freie Universität Bozen
www.kronbichler.eu