L'arrotino che fa pensare

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l’arrotino che fa pensare La comunicazione fatta con un megafono non basta più. Fare rumore è sempre più difficile. Il pericolo più grande per un’azienda è di trovarsi con un piano di comunicazione poco strategico e molto copia-incolla. Se sei un’impresa che fa comunicazione, un’impresa che ama il proprio lavoro e che pensa, non puoi volere clienti così; a loro serve qualcuno che costruisca un abito comunicazionale su misura. Un sarto della comunicazione. Qualcuno che pensi assieme a loro, che li segua e li aiuti ad agire. Per fare ciò, e farlo bene, bisogna essere o grandi aziende o lavorare assieme. Questo storytelling racconta proprio questo: aziende innamorate del proprio lavoro che decidono di crescere e innovare non singolarmente ma insieme per offrire ai propri clienti non più servizi ma un servizio totalmente nuovo. Benvenuti sulle tracce del Polo della comunicazione: buona lettura!


L’arrotino che fa pensare

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1. Naming 2. Aggregazione 3. Open Business Model 4. Network 5. Condivisione 6. Crowdsourcing 7. PMI 8. Veneto 9. Comunicazione 10. Strategia

Lavoro in questa azienda da sempre e per me è tutto. Ma le cose stanno cambiando. Amo questo lavoro perché permette ai nostri clienti di comunicare chi sono ai loro clienti. Sembra uno scioglilingua. Sia ben chiaro non facciamo tutto da soli. Abbiamo delle aziende nei dintorni. Anche loro fanno comunicazione. Qualcosa di diverso. È venerdì pomeriggio ma potrebbe essere anche un altro giorno; ultimamente cose così succedono sempre più spesso. Paolo mi lascia sul tavolo il bozzetto di una nuova proposta di comunicazione di un cliente incontrato la scorsa settimana. I nostri clienti sono molto spaesati da quando la crisi ha ridotto il lavoro: qui in provincia le aziende non sono mai state abituate a doversi cercare il cliente. Fino a qualche anno fa, bastava lavorare bene, con impegno e la necessità di comunicare era ridotta all’essenziale; era più importante fare il giro delle visite e questo bastava a garantirsi un futuro. Passeggio per l’azienda, dall’altra parte del muro che divide gli uffici dalla produzione esce il profumo chimico della carta stampata, mi piace, mi rassicura, è la parte materiale della comunicazione. Rumori di rotative, plotter, mescolati a colori, polvere e quel sano odore di carta che adoro e che trovo irresistibile. Lo stesso fascino di un libro appena stampato. Da piccolo ordinavo i libri sugli scaffali per il loro profumo un misto di colla, carta e cultura. Prendo in mano il bozzetto: sulla copertina un signore d’altri tempi tiene un megafono in mano e urla, “Donne! E’ arrivato l’arrotino!”. Mario, l’arrotino del paese - quello che quand’ero piccolo passava col furgoncino e attirava l’attenzione di tutte le mamme del quartiere, quasi quanto il camioncino dei gelati stuzzicava me e i miei amici - ha deciso che deve provare a innovare. Al posto del furgoncino oggi vuole usare le email, sta realizzando un

sito web e vuole preparare con noi i nuovi cataloghi promozionali. Personalmente la trovo una cosa strana, ma Mario è convinto: dice che deve stare al passo con i tempi e che la sua azienda ha bisogno di cambiare. Il suo nuovo consulente gli sta proponendo dei cartelloni pubblicitari da affiggere in prossimità delle chiese del paese e sta anche pensando di aprire una pagina Facebook per i fan del coltello ben affilato. Sempre più spesso ci capita di prendere lavori di questo tipo. Non c’è molto da fare gli schizzinosi in questo periodo, ma a volte mi domando se le idee non siano semplicemente un copia-incolla legato alle mode del momento: piani di comunicazione auto-referenziali che emulano campagne di aziende famose, usando strumenti in voga ma che non sono realmente contestualizzati e contestualizzabili alla propria realtà d’impresa. Mi telefona Giuseppe, il titolare di una azienda partner. Lui è alle prese con un video. Mario ha deciso che vuole trasmettere sulla rete locale uno spot con delle ragazze in bikini che, con i capelli al vento, promuovono come nove donne su dieci trovino marito più facilmente con un set da cucina ben tenuto. Il video dovrebbe terminare con la frase “Donne! L’arrotino vi cambia la vita!”. Anche Giuseppe è perplesso. Sul sito internet che sta realizzando ha dovuto inserire la storia della signora Sandra che da vent’anni si fa affilare i coltelli da Mario e che racconta come ha conquistato il suo Maurizio cucinando le pommes allumettes tagliate fine fine. La sua vita è cambiata e da allora vive in una casa in campagna con due figli un cane, un gatto e la gallina Pia che sforna uova fresche ogni mattina per la colazione. Giuseppe, che si occupa dell’altra parte della comunicazione più tecnologica e meno legata alla produzione, dice spesso che bisognerebbe insegnare alle aziende a pensare, mettersi al loro fianco e fargli capire come si dovrebbero muovere,


e Paolo la pensa come lui. Come non essere d’accordo. Sempre più spesso ci troviamo a condividere clienti, Paolo per la parte stampata, Giuseppe per quella tecnologica e raramente riusciano a intervenire sulle decisioni già prese dagli imprenditori – o meglio dal consulente-commercialista-geometratuttofare di turno – che arrivano spesso con soluzioni precotte e sono anche poco lungimiranti: fantasiose nei risultati promessi e non nella forma. Altre aziende-amiche la pensano come loro, non è un sentire isolato. C’è bisogno di fare cultura. Da qualche mese so che si stanno incontrando; Paolo mi racconta qualcosa e mi aggiorna. A loro piacerebbe provare a proporre qualcosa di diverso, intervenire di più nella fase decisionale e strategica di definizione dei piani di comunicazione. Non essere più solo quelli che mettono in atto le soluzioni; al contrario le soluzioni si vorrebbero costruire assieme ai clienti. Noi che facciamo comunicazione abbiamo esperienze e conoscenze che messe assieme possono essere una soluzione efficace, creativa e abbordabile. Paolo e Giuseppe mi hanno detto che, confrontandosi, hanno imparato molto uno dall’altro e si sono resi conto che il mercato è vasto e che nuove idee per approcciarlo sono possibili. A fare queste riunioni sono partiti in pochi. Fidati. Ora sono molti quelli che apprezzano la loro idea. Io sono tra questi. Stasera, Paolo e Giuseppe e tutti i fedelissimi si trovano con degli amici. Quello che fino ad adesso hanno per convenzione chiamato Polo della Comunicazione - e che a volte scherzando gli ho sentiti nominare Pollo, quasi per esorcizzare la compita serietà e banalità del nome provvisorio – troverà un nuovo nome. Un nome che una volta pronunciato diventerà una nuova concreta realtà.

Un viaggio inizia sempre con una meta... anche il Playground per questa volta

Questa volta il Playground nasce strano. Non abbiamo sintomi né apparenti né reali, ma una percezione chiarissima. Il mercato si è contratto e non è una questione di volumi d’affari perché si è contratto come se dovesse esplodere in qualcosa d’altro. Probabilmente non sarà più un grosso mercato per tutti. Serve un nuovo modo di lavorare, un nuovo modo di approcciarlo. Per stare a galla e re-imparare a volare, è meglio stringersi assieme e condividere. Il nostro obiettivo, quindi, è dare un nome ad una “cosa-nascente”. Detto così fa quasi ridere, invece, dietro c’è tanto lavoro, tante idee, alcune visioni e, quindi, il Playground ha un compito davvero importante: aiutare una “cosanascente” a nascere. Il nome è un passo fondamentale per uscire dall’attuale stato sperimentale e presentarsi al mondo. La nascita di un nome la si immagina come un processo oscuro o creativo ma certamente sembra più adatto pensarlo come un passo che appartiene a chi ha creato una cosa o a dei professionisti del naming. Quello che abbiamo fatto, invece, è stato diverso. Abbiamo cercato di spiegare il progetto - la “cosa-nascente” - trasferendo alle aziende non tanto le finalità ma i perché e i come, ovvero i valori su cui il progetto si basa. Andiamo, tuttavia, con ordine spiegando questa “cosa-nascente”. Il progetto nasce sulla base di due esigenze: il mercato e il territorio. Per quanto concerne il mercato esso è percorso da due dinamiche: la prima congiunturale che ha visto nel corso degli ultimi anni una contrazione in termini d’investimenti; la seconda strutturale con l’affermazione dei digital


media come elemento emergente in termini d’investimento e di audience. Per quanto concerne il territorio, anche il settore della comunicazione è caratterizzato da PMI che, in questi ultimi anni per sopravvivere alla crisi, hanno cercato di aprirsi e aggregarsi nel tentativo di offrire al cliente progetti di comunicazione sempre più integrati e strategici. La molla di partenza del progetto è pertanto stata l’emergenza, il cambiamento e, perché no, lo spaesamento. Il Polo della comunicazione, coinvolge due comparti profondamente diversi come approccio filosofico alle questioni economiche e di business. Il primo comparto è quello che denomineremo del terziario innovativo ovvero: • aziende di consulenza tecnica/ informatica; • agenzie di comunicazione strutturate, realizzatrici per lo più di campagne ADV e di comunicazione in genere su supporti on-line e off-line; • agenzie specializzate nella realizzazione e gestione di eventi complessi, creatori quindi sia dell’evento in sé che di tutta quella serie di operazioni pre e post evento; • aziende creatrici di contenuti specifici. Questa tipologia d’imprese è stata ritenuta d’importanza strategica per il progetto dal momento che esso si prefissa come obiettivo quello di avere un approccio innovativo al mondo della “comunicazione”. La positiva realizzazione del progetto richiede una condivisione pressoché totale delle conoscenze specifiche del settore ad un livello strategico prima ancora che operativo. A tale scopo la presenza tra i partecipanti di aziende del settore del terziario innovativo appare utile allo sviluppo del progetto in quanto il loro campo di manovra quotidiano si gioca esattamente su questi temi. Il secondo comparto è quello delle aziende appartenenti al raggruppamento cartario, cartotecnico e grafico. Questo segmento si posiziona su di un settore appartenente al

manifatturiero classico, alla creazione reale di prodotti in “contrapposizione” al precedente che si specializza perlopiù nella creazione immateriale. Le aziende manifatturiere prese in considerazione sono state selezionate ed analizzate per le proprie conoscenze specifiche (ad esempio sui materiali tecnici piuttosto che sulla conoscenza delle dinamiche di comunicazione, sempre riferite al prodotto finito) e si integrano con le precedenti, completando la base di competenze e conoscenze delle imprese del terziario innovativo in linea con le dinamiche del settore e dei grandi player del mercato. Al di là del settore a cui appartengono, tutte le imprese che hanno partecipato all’aggregazione si contraddistinguevano per i metodi e la qualità, sia in termini di propensione all’innovazione e continuo miglioramento dei propri prodotti e processi interni, sia in termini di attitudine al networking. Il terziario innovativo ricerca nel progetto un nuovo valore aggiunto derivante da un’offerta diversa sotto l’aspetto del business model per differenziarsi da quei centri d’offerta storicamente riconosciuti, spesso stereotipando i giudizi, come centri d’eccellenza per il mercato. Il raggruppamento cartario, cartotecnico e grafico, settore che ha risentito in maniera importante dell’avvento dell’economia digitale, ricerca in maniera esplicita nuove possibilità di business. Nonostante le differenti motivazioni di fondo, per entrambi i comparti vi è una propensione a individuare e a mettere in atto percorsi di innovazione alternativi che vadano a modificare la situazione presente e permettano di uscire da questa fase di cristallizzazione. Il progetto di aggregazione nasce, quindi, dall’idea condivisa che l’innovazione legata agli aspetti immateriali e strategici (brand, identity, ecc.) abbia ricadute positive sulla capacità di generare valore delle aziende. Le imprese che hanno partecipato alla nascita del progetto hanno svolto un percorso formativo e di coaching che le ha aiutate a costruire un’identità, dei valori e una cultura condivisi. Il viaggio inizia, dunque, con un


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progetto non semplice, non comune, insomma visionario! E spiegare le visioni e cercare loro un nome può non essere semplice.

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...cosa abbiamo imparato? Lezioni da un esperimento. Lezioni da un esperimento. Si perchĂŠ sperimentare, sporcarsi le mani, tentare e testare non è un modo sbagliato per riuscire. Anzi, solitamente, se si è assistiti da una buona dose di lavoro preparatorio questo è un buon metodo. Possiamo quindi dire che abbiamo sperimentato e imparato alcune cose. In primo luogo, il Polo della comunicazione può volare alto molto piĂš del Pollo della comunicazione. PerchĂŠ? PerchĂŠ riesce a coinvolgere e a creare entusiasmo ed energia e ad affascinare. La sua complessitĂ non spaventa ma ammalia. Parlare di crowdsourcing o open business può mettere soggezione. Sono paroloni. Bisogna toccare il significato valoriale dei modelli di business che s’ispirano a queste teorie, solo cosĂŹ è possibile trasferire alle imprese le opportunitĂ andando oltre i timori. Il racconto fatto del progetto, della visione che l’ha creato e il fatto che abbia non solo un cuore che pulsa ma molti, ha reso possibile l’insperato... spiegare in pochissimo tempo - lo spazio del Playground - un progetto articolato, coinvolgendo gli ascoltatori. La prima lezione è dunque questa: parla come pensi, come hai imparato a pensare quando eri piccolo, non lasciarti mai affascinare dai paroloni teorici. Le mani sporche piacciono piĂš dei colletti bianchi. Il Playground è stato un laboratorio che ha insegnato alle aziende coinvolte nel progetto ad imparare come comunicarlo all’esterno per creare sempre maggiori sinergie ad di lĂ del nome. In secondo luogo, il processo che porta ad avere un nome può essere esteso e condiviso. Il Playground come sua tradizione ha portato alla proliferazione di idee e di punti di vista che illustriamo di seguito lasciando al singolo lettore trovare il fil rouge. Il processo di naming è un’azione che va oltre la razionalitĂ e che quindi rimane sempre soggettiva, l’importante è che rispetti


alcuni parametri e linee guida che il Playground ha ben individuato. Sono emerse queste proposte: branco, value for me, drovepoint, pinguino, bolla, peloton, simbiosi, contaminazione, motore creativo, medusa, co share, ecoshare, share value, shareway, sciami, collettivamente, po.co, way out, virus, cellule, ...e probabilmente molti altri che potevano sbocciare se il tempo non fosse stata una variabile da tenere in considerazione. A fianco ai nomi sono emersi anche alcuni concetti interessanti per la decisione finale. Il tema della rete e del network che sebbene già usato e già sentito non può che essere al centro del naming visto il progetto. Vi è quindi la necessità di farlo percepire uscendo da luoghi - e nomi - comuni come sinapsi e nodi. Il tema della condivisione e del crowsourcing intesa come capacità diffusa di azione e decisione. Abbiamo pertanto la necessità di far vedere e trasmettere il senso di un gruppo di aziende capaci di offrire soluzioni creative attraverso una collaborazione reale e non gerarchica. Il tema dell’intelligenza del gruppo e del ruolo delle imprese che sono chiamate ad un agire nuovo contraddistinto dalla capacità, non solo di attirare clienti, ma anche di filtrare e distribuire richieste ed esigenze all’interno del Polo, condividendo clienti e progetti in una sorta di impresa territoriale. A questo si abbina il tema della competitività data dalla spinta alla specializzazione verticale del Polo dovuta alla selezione delle aziende migliori per soddisfare le commesse. Il tema della conoscenza inteso come professionalità e condivisione, qualità e specializzazione. Il Polo della Comunicazione si identifica anche come un’area di scambio di conoscenza che eleva la specializzazione orizzontale di tutti i componenti. Il tema dello stare insieme e dell’aprire l’azienda passando dalla figura del paron a quella di un manager aperto in una sorta di triplice salto mortale. Il tema dell’apertura, dell’innovazione manageriale: un’innovazione che si trasferisce dal prodotto al servizio offerto.

Il tema dell’emozionare come elemento umano per un progetto capace di ridare aria non solo economica ad un settore che sente la congiuntura e la concorrenza esterna. L’emozione e l’empatia - piuttosto che la simpatia come elemento aggregante ma anche come parte integrante del brand. Seconda lezione: condividere arricchisce, avvicinano di più le idee che i soldi. La serata ha evidenziato quando esplicitati i valori sia facile, quasi naturale, per uomini e imprenditori aprirsi e scambiarsi idee e opinioni. Il Playground è stata una prima prova di come dovrà essere un confronto tra le imprese del Polo: aperto, sereno, guidato ma non governato. In terzo luogo, il modello di business è un passo centrale. La discussione si è spesso focalizzata su questo aspetto. Al momento non esiste. Probabilmente, sarà necessario uno studio, ma l’attenzione ricade lì. Perché? Perché fa parte della natura dell’imprenditore comprenderlo. Tuttavia, proprio il non averlo avuto forse ha permesso di ascoltare e farsi coinvolgere dal progetto. Terza lezione: il business model è importante per un’aggregazione di imprese ma i valori e l’identità sono alla base se volete assicurarvi un seguito entusiasta. Una aggregazione diventa utile ed eccellente solo quando è capace di generare qualcosa di nuovo partendo dai singoli asset di conoscenze e competenze piuttosto semplicemente ridistribuire. Partendo dall’identità definita è emersa la visione e la volontà di creare un progetto che non sia a somma zero! Infine, anche se tre è il numero perfetto, c’è una quarta lezione. Il modo principale per dare il via ad un progetto aggregativo di successo non è concentrarsi sui numeri, gli input, i schei, la bazza, il bottino, ma iniziare con quegli imprenditori che hanno un volere comune. Per avere un volere comune significa che l’aggregazione deve sapere da dove parte e dove vuole andare. Tutti vogliamo più soldi, non è un motivo sufficiente per aggregarsi e stare assieme. Bisogna partire identificando, organizzando, emozionando ed eccitando quelle persone - gli


imprenditori sono uomini e le aziende sono fatte di uomini - che sono in linea con la visione prima ancora che con il progetto. La visione può influenzare e coinvolgere nel tempo. Gli input e gli output uniscono oggi e dividono domani.

...e ora che fare? Paolo, Giuseppe e i loro partner del Polo della Comunicazione hanno un’importante roadmap di fronte a sé ma hanno anche una missione. La missione dell’unicità e della diversità. Devono portare l’impresa Mario a pensare e a ripensarsi andando ad estendere lo spirito del Polo ai clienti. La missione dell’unicità consiste nel fare sentire i clienti speciali, di evitare l’omologazione, le mode, di essere meno fornitori e più stimolatori. Il Polo deve partire da un rapporto non solo di affinità con i propri clienti ma anche di curiosità, accompagnandoli e spingendoli a trovare la loro strategia di comunicazione e non l’aderenza ad un modello di comunicazione. La missione della diversità è triplice. Una diversità dal passato e dal modus operandi caratterizzato da chiusura, competizione locale, mode e, in taluni casi, dal vendere per vendere. Una diversità dalle grandi agenzie di comunicazione milanesi e/o europee caratterizzate da approcci generalisti, da strategie one size fits all e da soluzioni replicate su casi di successo con grandi aziende così da produrre una sorta di soluzione pre-confezionata e/o dimensionalmente ridotta. La terza diversità da perseguire è quella più avvincente e riguarda la capacità di farsi sentire, vedere, percepire e conoscere come diversi: richiede di trasferire e raccontare i valori, la storia, la visione del progetto. La difficoltà non sta nel farlo ma nel farlo in modo univoco raccogliendo le singole voci dei partner del Polo in un way of thinking caratterizzante. Il Polo è quindi un magma sotterraneo che ribolle, ha bisogno di farsi, mescolarsi, bollire per... esplodere! Il vulcano al momento di intenzioni, passioni e idee che ora chiamiamo Polo della Comunicazione ha di fronte a sé alcune passaggi, vediamoli. In primo luogo, il nome, il claim e il brand. Il Playground ha dato in tal senso una mano. In secondo luogo, il coinvolgimento di nuovi attori nel progetto al fine di completare la mappa delle professionalità in gioco nell’ottica di offrire nuove e maggiori soluzioni per i


clienti ma anche possibilitĂ di un melting e meshing delle competenze trasversali. In terzo luogo, un passo decisivo: il business model. Concretizzare l’idea di open business model e di crowdsourcing in un modello di business sostenibile, comunicabile, implementabile è la vera sfida. Uno dei grandi insegnamenti di questo Playground è che definiti i confini e alcune regole i processi co-creativi portano valore aggiunto, aiutano lo scouting di idee e problemi e permettono di creare una condivisione tra gli attori. La domanda con cui iniziare quindi crediamo che piĂš che essere “quale modello di business per il Poloâ€? è “come creare un modello di business per il Poloâ€?. Noi aspettiamo di sapere cosa il Polo proporrĂ all’arrotino, come lo farĂ pensare, come costruirĂ il suo abito comunicazionale, come lo aiuterĂ a non usare piĂš il megafono. La serata ha lasciato una certezza, aperto la mentalitĂ e delineato la visione: il tappo non può piĂš essere chiuso. L’Italia ha bisogno di nuovi modelli. Speriamo il Polo sappia scaldare con la sua forza i cuori e le menti di chi gli è vicino.

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Playground è un evento organizzato da

Frogmarketing

Per informazioni: www.play. frogmarketing.it info@frogmarketing.it

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