Riflessione 2_Il componente principale

Page 1

Rifle s s i o n e 2*

* Enrico Giacopelli /// Compendio al Corso di Composizione Architettonica ////////////////////// FacoltĂ di Architettura /// Politecnico di Torino /////////////////////////////////////////////////////

Il componente principale



Riflessione 2*

Indice

Il componente principale di progettazione I.

Tre oggetti a confronto

II.

Primo esempio

III.

Secondo esempio

IV.

Terzo esempio

V.

Riflessione finale (o anche: le dimensioni non contano)

Enrico Giacopelli

/////////////////////////////////////////////////////////// / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / / /

g r a f i c a e c o n t ro c a n t o a c u r a d i Andrea Cassi


2


Riflessione 2*

Il componente

I. Tre oggetti a confronto Riprendiamo la riflessione attorno al tema dell’importanza delle idee come fondamento del progetto introdotto nella prima riflessione, analizzando tre oggetti - un piccolo interruttore elettrico, un vaso portafrutta e un collegio universitario1 - che forniscono una concreta esemplificazione di questo concetto. Profondamente diversi per dimensione, finalità d’uso, qualità estetica, consistenza materiale, tempo e luogo di realizzazione, ciascuno dei tre oggetti è chiaramente frutto di un’idea guida, di quello che Achille Castiglioni (autore di uno dei tre oggetti) definiva con felice espressione “il componente principale di progettazione” e che rappresenta l’ingrediente fondamentale di ogni progetto che non si riduca a pura esercitazione stilistica o ad un assemblaggio di luoghi comuni. Talvolta le idee trovano la via di una preventiva rappresentazione grafica attraverso un “concept” (è il caso in particolare del vaso); in altri casi restano invece impresse direttamente nell’anima degli oggetti che da esse scaturiscono (come nell’interruttore). In ogni caso esse determinano l’azione dei progettisti e danno un senso compiuto alle loro opere.

“Faccio raccolta di oggetti trovati, conservo un po’ di tutto, oggetti anonimi. Li tengo da parte ogni volta che capita un oggetto con una intelligente componente di progettazione.” Achille Castiglioni

Nei tre oggetti le idee originano in modo assai diverso, a seconda della sensibilità, dei punti di vista sul senso del progetto e dei propri obiettivi artistici e professionali degli autori. Ma quella che sostiene il progetto del piccolo interruttore contiene una qualità in più, essendo frutto di ciò che potremmo definire uno “scarto creativo”, ovvero di quello speciale atteggiamento che appartiene ai progetti più innovativi e deriva dalla loro capacità di modificare radicalmente il modo di affrontare un problema o di risolverlo formalmente. Nel caso dell’interruttore l’idea risiede infatti nel desiderio di interpretare in modo non conformistico le esigenze funzionali connesse al sua realizzazione, assemblaggio ed uso. A confronto, la suggestione figurativa astratta che guida il progetto del vaso e la ricerca di un’immagine in grado di rappresentare il carattere dell’edificio sviluppata dal progetto del collegio, appaiono per ciò che sono: idee intelligenti di soluzioni formali utili a governare correttamente progetti che non aspirano a produrre esiti innovativi.

5


Riflessione 2*

Il componente

Non è affatto poco, ovviamente. La maggior parte dei progetti che vediamo realizzati (ed anche alcuni di quelli che sono celebrati dalle riviste di architettura) non sono neppure sfiorati da tanta grazia ed intelligenza. Tuttavia la differenza tra questi due prodotti di eccellente qualità e un piccolo capolavoro del design, resta ed è evidente.

II. Primo esempio

Interruttore rompitratta, Achille e Pier Giacomo Castiglioni, 1968

“L’esperienza non dà certezza né sicurezza, ma anzi aumenta la possibilità di errore. Direi che è meglio ricominciare ogni volta da capo con umiltà perché l’esperienza non rischi di tramutarsi in furbizia.”

Achille e Pier Giacomo Castiglioni

L’interruttore progettato da Achille e Pier Giacomo Castiglioni per VLM nel 1968, per i fini pedagogici che si prefigge questa riflessione, è un oggetto perfetto. A renderlo tale non sono le sue modeste implicazioni tecnologiche o la sua pur invidiabile pulizia formale, ma piuttosto il fatto di essere frutto di un atteggiamento nei confronti del progetto che ha condotto (si potrebbe quasi dire, costretto) i suoi autori durante la loro lunga carriera professionale a profondere ingegno anche in occasioni che molti altri – designer e architetti - avrebbero stentato a considerare degne di attenzione. Il segno caratteristico di questo atteggiamento è costituito da una profonda attenzione e dal rispetto per le esigenze di tutti i soggetti che hanno a vario titolo a che fare con il prodotto (il costruttore, il montatore e l’utente finale). Non di rado, nell’attività dei Castiglioni, ciò ha condotto a interpretazioni originali e innovative di temi progettuali già percorsi da molti altri da cui sono scaturite numerose “re-invenzioni” di oggetto esistenti a cui vengono però attribuite nuove qualità da cui ogni futura variante non potrà più prescindere2. Ciononostante non c’è mai – e quindi anche nel caso dell’interruttore - nulla di eclatante nel risultato progettuale dei Castiglioni, nessun gesto scomposto o tentativo di caratterizzare con una forma “griffata” e riconoscibile il prodotto. Solo la capacità di individuare e percorrere con leggerezza l’itinerario più diretto tra la domanda iniziale e la risposta progettuale più semplice; un percorso solo apparentemente scontato e, talvolta in grado persino di nobilitare la domanda stessa. Una lezione di modestia e di abilità che non può non essere additata ai giovani progettisti come un esempio a cui guardare per procurarsi un antidoto alle derive dell’autoreferenzialità e della “bizzarria a tutti i costi” verso cui li sospingono una pubblicistica modaiola e, purtroppo talvolta anche cattivi maestri.


Riflessione 2*

Il componente

A proposito dell’interruttore, la breve descrizione tecnica contenuta nella scheda del Museo del Design della Triennale non accenna ad alcun valore formale dell’oggetto (pur evidentemente presente) ma si concentra sui suoi contenuti funzionali: “Prodotto in grande numero, è acquistato per le sue qualità, nessuno nei negozi di materiale elettrico, ne conosce l’autore. L’interruttore è un rompitratta di un filo di conduzione elettrica, applicabile in qualsiasi situazione di illuminazione priva di interruttore. Il corpo è formato da due gusci di materia plastica termoindurente (urea bianca o nera). Il piano convesso del guscio superiore presenta al centro una rientranza circolare dove è alloggiato il nottolino per la variabilità dei contatti, mentre i bordi del guscio inferiore sono arrotondati per agevolare il movimento sul piano d’appoggio. La sua particolare conformazione lo rende individuabile anche al buio: percorrendo a tastoni il filo, si riescono a trovare con il pollice i piani inclinati dell’interruttore che conducono il polpastrello al pulsante”. E’ proprio nella soluzione di alcuni nodi “tecnici” e funzionali irrisolti negli interruttori fino ad allora in commercio che gli autori ricercano il “componente principale” di questo progetto individuandolo in modo apparentemente banale nella necessità di semplificazione della fase di cablaggio, una scelta che però si rivela fondamentale anche per le sue ricadute in termini produttivi e di semplificazione d’uso. Questo modo di affrontare il tema risulterà perciò determinante per determinare la forma e la qualità complessiva dell’oggetto. La forma piatta, le due scocche ben divisibili, il fissaggio dei contatti alla scocca inferiore permettono infatti di cablare l’interruttore appoggiandolo su un piano, sicuri di non vederlo rotolare via al momento buono come avveniva con i vecchi interruttori cilindrici e di effettuare un collegamento sicuro e saldo. Risolto questo tema, tutto il resto segue in modo apparentemente semplice ed il risultato che ne deriva è un piccolo oggetto che testimonia la capacità dei suoi autori (una capacità innata ma anche coltivata con un esercizio continuo e pervicace praticato durante tutta la loro carriera professionale) di introdurre qualità e bellezza anche in oggetti modesti e di uso comune. In tal modo anche un oggetto concepito fino a quel momento come un accessorio marginale e “naturalmente” inefficiente dell’impianto elettrico, grazie allo “scarto” introdotto dai Castiglioni è diventato un degno complemento di ogni lampada, anche di quelle più connotate sul piano formale, ed un oggetto finalmente 7


Riflessione 2*

Il componente

adatto ad essere maneggiato con la dovuta semplicità – e persino con un certo piacere tattile, ricordava Castiglioni, dai propri utilizzatori.

La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra. Mao Tse-Tung

Il caso dell’interruttore VLM introduce anche un tema ricorrente nella storia del design: quello delle “micro- rivoluzioni” progettuali che nascono dal superamento di inerzie legate all’uso, alla percezione culturale o all’abitudine produttiva e riescono ad imprimere sostanziali incrementi di qualità agli oggetti d’uso comune attraverso l’applicazione di modifiche apparentemente minime e marginali che si rivelano però rivoluzionarie e in grado di mutarne per sempre i connotati e le modalità di utilizzo. Esistono due casi che chiariscono bene il senso e la portata di queste “micro-rivoluzioni”che, come spesso accade nel mondo della progettazione di oggetti di uso comune, entrambi non sono attribuibili a nessun autore in particolare. Il primo caso riguarda la modifica al senso di apertura delle porte delle automobili (l’oggetto di uso comune per eccellenza) applicata a tutti i modelli solo a partire dal 1965, quando gli organismi internazionali ne decretarono l’obbligatorietà per rendere più sicuri i mezzi scongiurando il pericolo di impreviste aperture in corsa. In realtà non è che le automobili del 1965 viaggiassero a velocità fino allora mai raggiunte o che le automobili più vecchie non raggiungessero velocità potenzialmente pericolose per l’apertura delle portiere durante la marcia. Eppure fino a quel momento solo pochi modelli (e piuttosto per esigenze stilistiche che per ragioni di sicurezza) avevano adottato portiere ad apertura “contro-vento” né si era mai avvertita la necessità di dare diffusa applicazione alla cosa. Attorno alla metà degli anni ’60 però si era verificata una significativa convergenza fra considerazioni di ordine tecnico e di ordine culturale. L’avvento della motorizzazione di massa rendeva infatti irrilevante il riferimento alla carrozza quale archetipo dell’automobile e l’aumento del volume di traffico e del conseguente numero di incidenti rendeva il legislatore più sensibile ai problemi di sicurezza. Erano passati quasi cent’anni dall’invenzione dell’automobile, solo da pochi anni le ruote erano entrate definitivamente nel profilo della scocca abbandonando la posizione che era stata loro propria fin dai tempi dei carri Assiri, ma le porte delle auto, a metà degli anni ’60, si aprivano ancora in avanti come nei landò. Se questa persistenza semantica aveva ancora un senso per gli aristocratici proprietari di automobili della prima


Riflessione 2*

Il componente

metà del XX secolo che avevano conosciuto e usato le carrozze a cavalli – simbolo di una mobilità elitaria - non lo aveva certamente più per le ignare masse urbane del boom economico che correvano a comprare le loro “500”. Era dunque giunto il momento di abbandonare definitivamente un riferimento inutile anche se, come spesso accade, anche questa volta una decisione che riguarda un cambio di mentalità si è mascherata da scelta tecnica per farsi accettare più facilmente. Il secondo caso riguarda la posizione delle ruote dei trolley, il che ci porta a parlare della cattiva progettazione di un’invenzione originale e moderna e del tempo necessario per porvi rimedio. La valigia con le ruote (se si esclude il riferimento agli ingombranti bauli su ruote utilizzati dai pochi ricchi viaggiatori del tempo passato) è infatti un oggetto apparso all’orizzonte alla fine degli anni 1980 direttamente come progetto industriale e non – come per l’automobile – l’evoluzione di un oggetto artigianale. Bastava forse mettersi meglio nei panni degli utilizzatori finali per azzeccare al primo colpo il progetto giusto! Eppure, i primi modelli in commercio avevano due sole ruote fisse, collocate sul lato corto posto in diagonale rispetto a quello dove era collocato il manico, sicché il trascinamento (che avrebbe dovuto essere il vero scopo del progetto e il centro della sua novità) era possibile solo a costo di sottoporre il polso della mano trainante a sforzi disumani per avere ragione dell’andamento imbizzarrito della valigia. Un oggetto apparentemente creato per facilitarci la vita sottraendoci il peso dei nostri bagagli, si rivelava in realtà un formidabile produttore di stress e di problemi ortopedici! Per molti anni (probabilmente fino a quando lo stock di valigie a due ruote fu tutto piazzato…) a nessun produttore venne in mente di aggiungere altre due ruote, magari pivottanti, o di cambiare posizione a quelle esistenti collocandole nell’unica posizione che avrebbe reso stabile l’oggetto semovente. La modifica è stata poi applicata almeno vent’anni dopo l’invenzione del primo infernale oggetto, grazie al contributo di qualche anonimo progettista che si è posto il problema nel modo corretto e si è finalmente messo nei panni dell’utilizzatore. Per questo oggi tutti ci aggiriamo felici per il mondo con valigie che ci seguono docilmente, inconsapevolmente grati a chi ha deciso che rischiare la distorsione del polso per utilizzare un oggetto nato per renderci la vita meno faticosa fosse la cosa più stupida del mondo. Questi due esempi fra i tanti che potremmo trarre dall’esperienza

“I had no idea it would take off like it did” Robert Plath, ex pilota della Northwest Airlines e inventore del trolley.

9


Riflessione 2*

Il componente

quotidiana ricordano almeno due cose utili ad un architetto. La prima, che talvolta dietro a scelte di progetto che riteniamo scontate, logiche e razionali si celano in realtà solo inerzie mentali dure da superare e la nostra pigrizia a riconoscerle come tali. La seconda, che ogni progetto è migliorabile. Ma che per compiere il salto verso migliori prestazioni occorre avere uno sguardo libero, aperto e non conformista verso i problemi e la capacità di porsi le domande corrette sul senso e la destinazione di ciò che stiamo progettando. Solo così si possono realizzare le grandi e piccole micro-rivoluzioni che producono miglioramenti significativi ai luoghi ed agli oggetti e, di riflesso, alla qualità della vita di chi – pochi o tanti che siano – avrà a che fare con loro.

III. Secondo esempio

Mario Trimarchi, La Stanza dello scirocco, 2009

James Welling, Two Tile Photographs, 1985

A volte l’idea alla base di un progetto è da ricercarsi in ambiti diversi da quelli legati alla funzione e all’uso3. Nel vaso La stanza dello scirocco, ad esempio, tali riferimenti non solo non hanno nulla a che fare in senso stretto con l’uso finale dell’oggetto, ma neppure in senso lato con il concetto stesso di vaso, essendo il progettista attratto dalla possibilità di fissare in un oggetto d’uso la leggerezza e la magia dell’immagine dinamica e fugace di un turbine di carte da gioco scompigliato dallo scirocco. Ma un vaso è qualcosa di ben diverso da un mazzo di carte; né fra i due oggetti sembra correre alcuna relazione formale, funzionale o financo metaforica, per cui l’autore (con una procedura vagamente ispirata a quella del “ready made” di ispirazione dadaista) applica un procedimento creativo fondato sulla determinazione di nessi casuali tra gli elementi. Solo così può apparire legittima l’idea di realizzare un vaso con un mazzo di carte da gioco unite sugli spigoli. Sul piano formale le cose sono forse meno “improbabili”, per quanto appaia comunque chiaro che la forma dell’oggetto finale non ha rapporti diretti con il probabile assetto delle carte alla fine dello sbuffo di vento, ma solo con una delle possibili combinazioni reciproche che le carte potrebbero assumere durante il turbine e che il designer fissa (quasi si trattasse del fotogramma di un film estrapolato dall’insieme) in modo perentorio nell’acciaio del vaso. Questo procedimento lontano anni luce da quello adottato dai Castiglioni non conduce tuttavia ad un risultato privo di relazioni con l’uso e con la funzione di un vaso portafrutta : la forma dell’oggetto è congrua per


Riflessione 2*

Il componente

accogliere un numero adeguato di frutti; i fori lasciano trasparire il colore dei frutti che diventano elementi del decoro del vaso e permettono la traspirazione che ne evita l’imputridimento; la finitura e le proporzioni dell’oggetto appaiono adeguate a far fare bella figura alla padrona di casa che esponga la fruttiera a centro tavola; l’acciaio è materiale adeguato a garantire l’igiene necessaria ad un oggetto legato al cibo….e così via. Quel che lascia appena un po’ perplessi forse è la perfetta coincidenza tra la narrazione e la forma finale dell’oggetto, quasi che il racconto sulla generazione dell’idea fosse stato ricostruito – non solo graficamente come ammette lo stesso autore - ma addirittura “concettualmente”, a posteriori. Anche se ciò fosse vero però, la ricostruzione non annullerebbe il valore della spiegazione. E’ ampiamente probabile infatti che un processo analogo a quello ricostruito razionalmente e in modo narrativamente coerente, sia stato realmente percorso dall’autore – magari in modo inconscio – durante la progettazione del vaso. D’altronde il procedimento della ricostruzione ex-post del processo ideativo di un progetto da parte degli architetti è cosa diffusa. Si pensi ad esempio ai molti “schizzi” di Renzo Piano così incredibilmente simili al progetto realizzato da rendere manifesto il fatto di esser stati prodotti non tanto all’inizio del processo come tracce grafiche dell’idea primigenia, ma piuttosto a valle della realizzazione quali momenti di riflessione sintetica su un’esperienza conclusa, a beneficio del pubblico e delle proprie riflessioni su progetti futuri. Ciò che conta – come sempre - è l’onestà dell’autore, la sua volontà di non mistificare il proprio pensiero a puri scopi pubblicitari e la sua capacità di restituire con semplicità un processo di elaborazione mentale e di sperimentazione concreta certamente più complesso, articolato e meno lineare.

IV. Terzo esempio Il terzo esempio – il dormitorio universitario ad Austin di Alejandro Aravena, ci aiuta infine a comprendere come anche nel caso di un edificio – dunque di un oggetto molto più complesso e meno legato al mondo dell’arte di un oggetto di design – il processo progettuale possa fare riferimento ad una idea guida che non necessariamente ha a che fare, almeno direttamente ed in modo esplicito, con l’uso e la funzione dell’edificio stesso, ma piuttosto con la rappresentazione che di quell’uso

11


Riflessione 2*

“ Il mio metodo di progettazione si può spiegare con questo esempio: quando credevo che una sedia non potesse essere meno di questo…

ho visto questo...

Si possono dire tre cose della sedia in cui è avvolto questo indiano Ayoreo: 1. L’unica sedia che questo uomo può permettersi è questo umile pezzo di tessuto. Saper progettare disponendo di pochi mezzi è importante. 2. Questo uomo è un nomade, e perciò qualsiasi altro tipo di sedia non avrebbe senso, anche se lui fosse più ricco. Il design deve essere adeguato. 3. Il pezzo di stoffa è l’ultimo limite prima che il sostantivo (sedia) diventi un puro verbo (sedersi). Il design deve essere irriducibile. Il mio metodo di progettazione segue la seguente equazione: Il pezzo di stoffa sta alla sedia come X sta all’architettura. Per la X io cerco sempre il valore più appropriato, preciso e irriducibile.” Alejandro Aravena

Il componente

vuol dare il progettista. Può capitare quindi che il riferimento siano altri edifici, anche tipici di culture lontane nello spazio e nel tempo, il cui ruolo nella gerarchia degli spazi urbani e la cui capacità di strutturazione del paesaggio urbano possa in qualche modo essere avvicinato a quello dell’edificio in progetto e che questo riferimento abbia una forza iconica così forte ed evidente da poter essere facilmente tradotta in un segno grafico (uno schizzo) sintetico ma inequivocabile. Nel caso specifico il riferimento del progetto è l’immagine dell’architettura compatta dei conventi e delle roccaforti caratterizzata sul piano della massa edilizia da una chiusura verso il mondo esterno e sul piano della struttura formale da una articolazione semplice di spazi gerarchicamente organizzati e basati sulla ripetizione di un modulo spaziale elementare (che nel caso dei conventi è costituito dalla cella e qui dalla camera le cui finestre sempre uguali danno il ritmo alle facciate forando in modo regolare la massa compatta delle murature). La sequenza dei bozzetti e dei disegni di progetto restituisce in modo efficace l’inevitabile processo evolutivo a cui è sempre sottoposta l’idea originale man mano che si precisano i problemi ed i vincoli progettuali diventano più cogenti; rende però anche giustizia alla capacità degli autori di mantenere vivo in ogni fase il riferimento all’idea originale che le immagini fotografiche testimoniano essere ancora ben presente nell’edificio realizzato. Evidentemente si trattava di un’idea forte e convincente, concretamente realizzabile, espressione di un pensiero concentrato sulla natura concreta dell’oggetto edilizio che rifugge da una visione astratta e formalistica del progetto. Ciononostante, senza la capacità di recuperare, rinnovare ed adattare le possibilità espressive di tale idea nelle varie fasi dell’iter progettuale, anch’essa si sarebbe persa per strada. Poiché alla fine invece l’idea è ancora riconoscibile, va dato merito ai progettisti di aver saputo gestire il progetto senza permettere – come troppo spesso capita per pigrizia, incapacità o sfinimento - che ragioni di ordine pratico o prosaico prendessero il sopravvento sull’idea originale fino ad annullarla.


Riflessione 2*

Il componente

V. Riflessione finale (o anche: le dimensioni non contano) Gli esempi utilizzati in questa rapida riflessione: un interruttore di pochi centimetri, un semplice vaso portafrutta ed un edificio di dimensioni significative, testimoniano in modo evidente che c’è sempre una ragione valida per applicare la propria intelligenza, fantasia, esperienza, sensibilità e abilità in qualsiasi occasione progettuale, indipendentemente dalla “scala” a cui tale occasione si manifesta. Non esistono progetti importanti e progetti di seconda classe: esistono solo problemi da risolvere con intelligenza e passione. Il progetto di un piccolo interruttore in plastica e quello di un collegio universitario grande milioni di volte di più possono e devono avere per un progettista la stessa importanza4, perché a seconda di come si affronta il problema e, soprattutto, di come lo si risolve, quel semplice pezzo di plastica o quell’edificio potranno finire nell’ammasso degli oggetti inutili o nel novero di quelli virtuosi che contribuiscono anche modestamente a migliorare la vita di molte persone, rendendo più facile, sicuro e piacevole compiere centinaia di volte le stesse azioni quotidiane5.

“Non riesco a capire perché le persone siano spaventate dalle nuove idee. A me spaventano quelle vecchie.” John Cage

13


Riflessione 2*

Il componente

Note

1. L’esempio dell’interruttore da cui si sviluppa questa riflessione rappresenta omaggio al genio di Achille Castiglioni, l’eco delle cui pirotecniche lezioni permane nella memoria degli studenti della mia generazione che ebbero la fortuna di averlo come maestro . Gli altri due esempi sono deliberatamente tratti in modo casuale da un numero qualsiasi (il 495/2009) della rivista «Abitare». E’ infatti intenzione di chi scrive alimentare nel proprio giovane pubblico la convinzione che una lettura attenta, interessata e orientata anche dei più ordinari mezzi di comunicazione possa fornire utili spunti a riflessioni relative ad aspetti metodologici generali indipendentemente delle intenzioni esplicite degli autori. A patto però che si sappia guardare oltre il puro valore cronachistico e illustrativo degli articoli e, soprattutto, si abbiano domande a cui dare risposta. L’approfondimento degli argomenti trattati non è però – tranne rari casi – l’obiettivo di una rivista; quindi per affrontare in modo più maturo e completo ogni argomento che nasca – come quelli qui accennati – in tale ambito, occorre proseguirne lo studio utilizzando strumenti adatti a restituirne pienamente la complessità, le sfumature, le contraddizioni, le possibilità applicative e gli esiti concreti. Normalmente tali fonti vanno sotto il nome di libri! Per l’interruttore B-Ticino e i suoi autori, Achille e Pier Giacomo Castiglioni si vedano quindi i seguenti siti e testi: http://www.achillecastiglioni.it/ http://it.wikipedia.org/wiki/Achille_Castiglioni http://www.facebook.com/group.php?v=wall&gid=14693987789 http://www.museolaluce.com/?cat=7 Museo La Luce e anche : Ferrari, P., Achille Castiglioni, Milano, Electa, 1995 Bassi A., Design anonimo in Italia. Oggetti comuni e progetto incognito, Milano, Mondadori Electa, 2007 Per gli altri due oggetti : Pizzi, M. , 01 Alessi: La stanza dello scirocco in . «Abitare» n. 495-2009, pagg.122-125. Gallanti, F., Il guscio per dormire, in «Abitare» n. 495-2009, pagg. 50-63 2. L’esercizio della ri-progettazione è stato praticato dai fratelli Castiglioni, e da Achille in particolare, durante tutta la loro lunga e fortunata carriera diventando quasi un segno distintivo del loro metodo di operare e di intendere il mestiere di designer. 3. Questo accade soprattutto nell’ambito del design, in cui una certa “approssimazione funzionale” (ovvero un certo grado di libertà nell’interpretazione dei rapporti tra Forma e Funzione) e il libero e esplicito riferimento (ironico, imitativo, metaforico, ecc.) a universi iconici e formali esterni agli oggetti progettati ed al loro campo di utilizzo sono diffusi e ampiamente legittimati dalla sensibilità comune e dai principi estetici correnti, come testimonia il successo di certi oggetti del design pop e radicale e della corrente post-funzionalista i cui esiti commerciali più noti sono certamente i prodotti in plastica della Alessi come il “merdolino”di Stefano Giovannoni e il “birdfire” di Guido Venturin, tanto per citare solo i più famosi. Altro discorso invece in architettura. In questo ambito le implicazioni contestuali ed i riferimenti formali sono tradizionalmente più vincolanti e stringenti e riducono gli spazi ai riferimenti metaforici tagliando le gambe alle derive formali che un’applicazione troppo libera e personale di tale approccio potrebbe generare. Norme, consuetudini, regole di mercato, apparati teorici e una certa autocensura da parte degli architetti vigilano in questo caso affinché le forme degli edifici contengano quasi sempre la loro bizzarria all’interno di ambiti accettabili costringendo di norma in un ambito di relazione molto controllato il rapporto tra la metafora di partenza e la forma dell’oggetto finale. D’altronde laddove questi vincoli si sono allentati, come nei casi in


Riflessione 2*

Il componente

cui i più banali princìpi del marketing hanno preso il sopravvento su quelli del buon gusto e della funzionalità o nei più volgari esperimenti di architettura post-modernista, i risultati sono stati piuttosto deludenti e non hanno prodotto niente più che ridicoli chioschi di panini a forma di hamburger, sale da concerto a forma di pianoforte, negozi per animali a forma di cuccia di cane, negozi di sanitari a forma di wc, grattacieli a forma di guardaroba, condomini in forma di tempio greco e altri orrori simili. Se dunque un portabiti a forma di cactus è un oggetto ormai accettabile e apprezzato per la sua carica ironica e per la capacità di proporre una critica efficace e pacifica alla dittatura del funzionalismo, non ha nessun senso – a meno di non considerare Disneyland un archetipo urbano auspicabile e replicabile - che un bar assuma la forma di una bottiglia di Coca Cola o che una facoltà di informatica sia contenuta in un edificio a forma di pc…e così via. 4. Spesso un pudore mal riposto impedisce di parlare in sede accademica di un tema “scabroso” come quello della redditività dell’attività professionale, negando che quello dell’architetto sia un mestiere con cui ci si guadagna il pane, si mantengono i figli a scuola e si pagano le vacanze al mare... Vale invece la pena di ricordare che l’equivalenza sul piano “morale” o professionale di due lavori così diversi, contrariamente alle apparenze, potrebbe esser valida anche sul piano più prosaicamente economico. Un buon contratto sulla base di royalities per il progetto di un “pezzo” con una diffusione pari a quella del piccolo interruttore VLM è in grado infatti di produrre nel tempo un guadagno – in termini assoluti – anche superiore a quello prodotto dal progetto del collegio universitario, la cui esecuzione richiede peraltro costi di produzione, tempo, risorse umane e oneri estremamente superiori a quelli necessari per progettare un qualsiasi oggetto di design. Ovviamente non è mia intenzione istigare i giovani studenti ad un rapporto sbagliato con gli aspetti economici del lavoro di architetto o ad assumere un atteggiamento mercantile nei confronti della professione. Voglio però solo metterli in guardia dal sottovalutare il risvolto economico della faccenda, soprattutto se vorranno fare questo bel lavoro per tutta la vita e tanto più se lo vorranno far bene. La qualità infatti costa e va quindi adeguatamente ricompensata. 5. E infatti Achille Castiglioni, che aveva piena consapevolezza di questo fatto, grazie ai suoi piccoli progetti intelligenti è passato alla storia del design.

15


Riflessione 2*

Il componente

* Tutte le immagini e le citazioni che accompagnano il percorso bibliografico sono rigorosamente estratte e prelevate dalla rete in nome di una non meglio identificata Open Source Architecture (OsArch) sviluppatasi dall’avvento del World Wild Web ad oggi. L’invito è quello di indagare, di rubare a vostra volta.


2




Rifle s s i o n i * Enrico Giacopelli /// Compendio al Corso di Composizione Architettonica ////////////////////// Facoltà di Architettura /// Politecnico di Torino //////////////////////////////////////////////////////

* Enrico Giacopelli (1959), architetto, parallelamente all’attività professionale svolge attività di ricerca e di docenza in campo universitario ed extrauniversitario, contribuendo ad orientare la propria attività professionale verso temi che comportano un approfondimento metodologico e una riflessione sui riferimenti storici dell’agire professionale. Ha sviluppato attorno al tema della conoscenza, della salvaguardia e della valorizzazione del patrimonio architettonico moderno parte della propria attività professionale attraverso progetti di restauro e recupero, approfondimenti scientifici, consulenze e attività di animazione culturale.Tra gli esiti di tale azione: la catalogazione del patrimonio dell’architettura moderna di Ivrea / la redazione delle Normative di Salvaguardia dell’architettura Moderna di Ivrea / la consulenza al Nuovo PRG di Ivrea relativa al tema dell’architettura moderna / la progettazione del MaAM / la consulenza per il restauro del Quartiere Canton Vesco / il restauro delle Officine ICO di Figini e Pollini / la consulenza per la conservazione del Centro Congressi La serra di Cappai e Mainardis. Al restauro delle Officine ICO sono stati assegnati nel 2009 la Menzione d’Onore “Medaglia d’oro all’architettura italiana” della Triennale di Milano e il “Premio In-Arch”. È professore a contratto di Composizione Architettonica presso la II Facoltà di Architettura di Torino ed è coordinatore e docente della “International Summer School of Ivrea”.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.