MARCH MADNESS Numero 2 - Marzo 2015
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PREVIEW DEI REGIONAL PAGINE 14 E 16
L’INVINCIBILE KENTUCKY E I PROBLEMI DI MICHIGAN PAGINE 18 E 38
I GIOCATORI DA TENER D’OCCHIO
PAGINA 22
WATANABE L’ULTIMO DEI COLONI DA PAGINA 26
storie da torneo ncaa
HELLO, MY NAME IS MUSSINI: I PENSIERI DI FEDERICO SUL COLLEGE BASKETBALL INSIDE GONZAGA: RICCARDO FOIS RACCONTA I SUOI ZAGS D3SIGN+ MGZ
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regional preview
UNLIKELY HEROES
La presentazione del Torneo NCAA a cura di Niccolò Costanzo, Filippo Antonelli, Claudio Pavesi e Alessio Bonazzi
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14 l’invincibile kentucky Quali sono i segreti dei ragazzi di Calipari? L’analisi di Michele Pasquali sulla stagione perfetta dei Wildcats
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22 WATANABE L’ULTIMO DEI COLONI Con l’aiuto di Takashi Aoki, Claudio Pavesi racconta la nuova pietra angolare del basket giapponese
8 GIOCATORI DA UPSET
8 giocatori da tenere d’occhio Claudio Pavesi e Niccolò Costanzo illustrano i talenti più interessanti da seguire nel Torneo NCAA
MELO 2.0 L’approfondimento di Niccolò Costanzo sul talento di Maryland che ha già conquistato la NCAA
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Filippo Antonelli presenta le stelle delle squadre meno in vista che potrebbero essere protagoniste
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HELLO MY NAME IS MUSSINI
COME CAMBIA ILGARDEN TRA NCAA E NBA Le 48 ore di Giuseppe Matarazzo al Madison Square Garden, tra le Big East Finals e i Knicks
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INSIDE GONZAGA
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TORNARE A CASA 2
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IL TABELLONE DEL TORNEO NCAA
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Scritto da Niccolò Costanzo
NCAA TOURNAMENT: MIDWEST PREVIEW Kentucky è imbattuta e conta di rimanere tale. Dietroi di lei tutto può accadere Il Midwest Regional 2015 si presenta con una conformazione piuttosto singolare. Dietro ad una #1 apparentemente imbattibile, ci sono molte squadre con legittime ambizioni di raggiungere le Elite Eight. Dietro Kentucky, regna l’equilibrio. Questo comporta due cose: la prima, che enormi sorprese potranno esserci solo nella parte alta del tabellone; la seconda, che avremo il piacere di assistere ad incontri equilibratissimi da subito. LA NUMERO UNO - KENTUCKY San Francisco, North Carolina, UCLA, Indiana: Sono le squadre ad aver vinto la NCAA da imbattute. Quest’anno tocca ai Wildcats provarci. La stagione perfetta è sintomo di pressione, non solo di certezze. Dal 1979 in poi, la possibilità di vincere il titolo senza essere mai sconfitti è sempre stata frustrata (UNLV, Saint Joseph’s, Wichita State). Interessante notare che le ultime due squadre ad aver chiuso la stagione regolare con uno score perfetto, per giunta consecutivamente, siano ancora una volta pronte a darsi battaglia, con gli Shockers speranzosi di poter mandare all’aria i sogni di gloria di coach Cal. La squadra di Lexington ha dimostrato quest’anno di non avere punti deboli, facendo del gioco corale,
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e della solidità le sue armi vincenti. Concludere una stagione senza sconfitte, avendo il proprio miglior realizzatore a poco più di 11 punti di media, è qualcosa che deve seriamente mettere in guardia gli avversari dei Wildcats, ancor più di quanto già non siano. Solo Aaron Harrison e Devin Booker, infatti, sono sopra la doppia cifra per realizzazioni a partita. Dietro, ben sette giocatori tra i 5 ed i 9 punti di media, segno che la democrazia autoritaria di coach Calipari è arrivata al massimo del suo compimento, ancor più che nell’anno del ritorno alla vittoria, quello del 2012 targato Anthony Davis. Cerchiamo un punto debole ai Wildcats. Forse c’è, ovvero la mancanza del classico “go-to-guy”. Misera consolazione per gli avversari, dato che, fino ad oggi, colui che ha avuto il compito di portare la squadra alla vittoria, si è eletto da solo, con la benedizione dei compagni, come facevano gli aristòs, i migliori, nella repubblica, anche quella piuttosto autoritaria, ateniese. Attenzione, però, la strada per la terza F4 in 5 anni non è spianata. LA RIVALE - WICHITA STATE Scelta molto rischiosa. Gli Shockers
hanno la testa di serie #7, di certo non la migliore e la prima gara contro Indiana non è, senza dubbio, una passeggiata. Per molti, infatti, la Kansas (#2) di Bill Self è la legittima rivale di Kentucky, tutt’al più Notre Dame (#3). La mia scelta però va a premiare il triennio della squadra di Gregg Marshall, iniziato nel 2012-2013, con il raggiungimento delle Final Four NCAA, dopo aver sconfitto il meglio della Division I, perdendo in una partita al cardiopalma (68-72 il punteggio finale) contro Louisville. Quella squadra è rimasta però pressoché intatta ed è riuscita a ripetersi chiudendo la seguente stagione regolare da imbattuta. Risultato che ha proiettato gli Shockers, nonostante la sconfitta (7678) patita da Kentucky al terzo turno del torneo, tra le migliori squadre della NCAA. Impossibile quindi non apprezzare la terza annata stabilmente vissuta nella Top 25 nonostante la partenza del miglior giocatore della squadra che
del miglior giocatore della squadra che raggiunse le F4, Cleanthony Early. Grazie alla crescita di Baker, VanVleet e Carter, i ragazzi di Marshall hanno chiuso la stagione con 28-4 di record, anche se va detto, con alcune macchie. La mancata vittoria nel torneo della MVC, e le sconfitte contro Utah e Northern Iowa, ovvero i tre appuntamenti più importanti della stagione, sono stati bucati dagli Shockers. Ciò che però me li ha fatti scegliere come potenziali rivali di Kentucky è la voglia di rivalsa nei confronti del college di Lexington che motiverà enormemente la squadra di Marshall (nella foto a sinistra). Non solo; quest’anno la Kansas di Bill Self, benchè più compatta dell’anno scorso, ha perso tante (troppe) partite contro squadre di alta caratura e non solo (Temple, Kansas St. etc.). La Big 12, inoltre, è una conference storicamente sopravvalutata, come dimostrano le sole due partecipazioni alle F4 negli ultimi
dieci anni (entrambe di Kansas, questo va detto); è quindi difficile pronosticare un facile cammino per Ellis e Selden Jr. (nella prima foto a destra), andando a vedere il livello delle rivali. Il discorso vale, ovviamente, anche per gli Shockers, che rispetto a Kansas, hanno anche un primo turno piuttosto complesso. OUTSIDERS, NON CENERENTOLE Tante, troppe squadre d’alto livello quest’anno nel Midwest. Le cenerentole potrebbero spuntarla, ma al massimo nella partita secca. Mi sento di negare la possibilità di un cammino dalla #12 in poi. D’altra parte alla #11 abbiamo Texas, mai pericolosa nel torneo, ma da tenere sempre d’occhio. Le outsiders sono Maryland (4), Butler (6), Notre Dame (3), W.Virginia (5) e Kansas (2), forzandoci a dimenticare Purdue, Cincinnati e Indiana, buone squadre. Nella parte bassa del tabellone, Notre Dame e Kansas hanno un primo turno accessibile, grazie al
piazzamento, ma le sfide con Butler/ Texas e Wichita St./Indiana saranno durissime. Dovendo scegliere, punterei sull’affidabilità di Notre Dame che, non solo grazie a Jerian Grant, sembra avere più certezze delle rivali. Lo scontro in potenza più interessante al terzo turno è però nella parte alta, quello tra Maryland, sorpresa dell’anno, e W. Virginia. La squadra di Juwan Staten (nella seconda foto a destra) è chiamata ad un torneo importante, l’ultimo per il senior. Le guardie con esperienza solitamente trascinano la propria compagine in fondo nel torneo, ma quest’anno negli scontri più duri i Mountaineers hanno sofferto. Ad ogni modo, la vincente sfiderà plausibilmente Kentucky, e la loro pasta da outsiders verrà saggiata con la più difficile delle prove.
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Scritto da Filippo Antonelli
NCAA TOURNAMENT: WEST PREVIEW Sarà rivincita tra Wisconsin e Arizona? Attenzione a Harvard, la regina degli upset Portland, Jacksonville e Omaha ospiteranno le prime partite del West Regional, che poi si concluderà nella suggestiva cornice di Los Angeles. Sembra tutto apparecchiato per la rivincita tra Arizona e Wisconsin, che un anno fa si giocarono, sempre in California, l’accesso alle Final Four. Ma attenzione a squadre come North Carolina, Baylor e VCU che potrebbero far saltare il banco. E poi c’è Harvard, la regina degli upset. LA NUMERO UNO - WISCONSIN Un anno fa, dicevamo, i Badgers sorpresero tutti eliminando Arizona e conquistando l’accesso alle Final Four di Arlington. Kaminsky e soci si presentano questa volta come squadra favorita nel loro Regional, dopo una stagione quasi perfetta e la vittoria del titolo della Big Ten, in finale contro Michigan State. La corazzata di Bo Ryan ha perso solo tre partite, nonostante abbia avuto uno dei calendari più tosti nella nazione. Il successo di questa squadra è basato sull’attacco: i Badgers gestiscono ogni possesso senza accelerare e senza forzare, sapendo di poter trovare il canestro da qualsiasi situazione. In stagione tirano con percentuali vicine al 50% dal campo. Giocatori come
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Hayes, Dekker e Kaminsky uniscono una struttura fisica invidiabile a mani di tutto rispetto. Wisconsin può essere un incubo per qualsiasi difesa. LA RIVALE - ARIZONA A livello di record, non c’è alcuna differenza tra Arizona e Wisconsin: 31-3 in generale, 16-2 nella propria conference. I Wildcats hanno vinto la Pac-12, schiantando in finale gli Oregon Ducks con quasi 30 punti di scarto. Come al solito, Arizona fa paura per l’atletismo e la versatilità dei suoi giocatori. Il freshman Stanley Johnson (nella foto a sinistra della pagina successiva) ha avuto un buon impatto ed è il miglior marcatore della squadra, di fianco ad un giocatore efficace ed esperto come Brandon Ashley e ad un’autentica forza della natura come Rondae Hollis-Jefferson. Non bisogna lasciarsi ingannare dal dato dei punti segnati, che vede Arizona tra le migliori 25 squadre della nazione: è nella metà campo difensiva che i Wildcats costruiscono le loro fortune. E i migliori realizzatori della squadra avversaria tendono a cadere nella rete di Hollis-Jefferson. LE OUTSIDERS - BAYLOR, NORTH
CAROLINA, VCU Il record di Baylor (24-9) potrà non essere impressionante, ma sono poche le squadre che possono vantare in questa stagione un calendario duro come quello dei Bears. La squadra di coach Drew ha affrontato per dodici volte una squadra inserita nel ranking, strappando sette vittorie. Nel roster non figurano elementi di particolare fascino, ma il collettivo è affidabile e sotto le plance detta spesso e volentieri legge. Attenzione in proposito a Rico Gathers, che può essere un incubo per i diretti avversari. Per ovvi motivi, quello di North Carolina è sempre un nome affascinante nel college basketball. Come già accaduto negli ultimi anni, la squadra non appare tra le favorite, ma il suo record (2411) è stato guastato dalla difficoltà del calendario e dalla spietata competizione all’interno della ACC. Comunque, i Tar Heels sono riusciti ad avanzare
aver eliminato Louisville e Virginia. La squadra di coach Williams è la seconda migliore per rimbalzi e assist nell’intera nazione. Le chance di fare strada sono legate all’efficacia di un attacco più veloce del solito e alle prestazioni di Marcus Paige (nella prima foto a destra) e Brice Johnson. Testa di serie numero 7 del Regional, VCU è stata in grado di vincere il torneo dell’A-10 partendo dal quarto posto in regular season. L’assenza di Briante Weber potrebbe risultare eccessiva da fronteggiare per i Rams, ma comunque Shaka Smart sulla panchina è una certezza, così come Treveon Graham in campo. VCU ha già uno scoglio importante da superare al secondo turno, quando incontrerà Ohio State. Poi, sulla carta, dovrebbe arrivare alla sfida con Arizona. Un cammino complicato, ma non da giudicare a prescindere impossibile.
LA POSSIBILE CENERENTOLA HARVARD, OREGON Ebbene sì, tra le sorprese del Torneo potrebbe esserci ancora Harvard. I Crimson sono stati protagonisti di due clamorosi upset, ai danni di New Mexico e Cincinnati, nelle due scorse edizioni. E quest’anno un loro sgambetto a North Carolina è possibile. Certo, i campioni della Ivy League dovrebbero sfoderare la partita perfetta. Se quest’anno Siyani Chambers è cresciuto meno del previsto, è dominante l’impatto del suo compagno Wesley Saunders. I Tar Heels sono avvisati. Oregon è stata una bella sorpresa di questa stagione. Non ha sofferto più di tanto la partenza di giocatori come Mike Moser e Jason Calliste e si è confermata come realtà importante della Pac-12. Nel torneo di conference, i Ducks hanno raggiunto la finale, ma nulla hanno potuto contro lo strapotere di Arizona.
La sfida coi Wildcats potrebbe aver dimostrato che i ragazzi di Dana Altman, questa volta, non hanno le carte in regola per realizzare grandi imprese. Ma mai dire mai quando in campo scende un giocatore come Joseph Young, autore in stagione di 20.2 punti di media con il 44.4% dal campo. La prima gara vede i Ducks contro Oklahoma State, la vincente affronterà Wisconsin nel terzo turno.
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Scritto da Alessio Bonazzi
NCAA TOURNAMENT: EAST PREVIEW Villanova è la grande favorita di questo Regional. Alle sue spalle regna l’equilibrio L’East appare come il Regional più equilibrato, dove Villanova parte con tutti i favori del pronostico e sembra essere almeno uno gradino più su rispetto alle rivali maggiormente accreditate. Guai però a sottovalutare Virginia, ammesso che Justin Anderson possa tornare quello visto prima dell’infortunio. Senza dimenticare Louisville, Michigan State e, soprattutto, Northern Iowa. La Providence di Kris Dunn è pronta per sorprendere e ha tutte le potenzialità per far parlare di sé, ma attenzione anche a Georgia. LA NUMERO UNO - VILLANOVA I rivali dei Wildcats dovranno sperare che i ragazzi di Jay Wright incappino in qualche serata no, per poter avere qualche chance di vittoria. Dal 19 gennaio in poi, data dell’ultima sconfitta, Villanova non solo è imbattuta ma sta giocando un basket offensivo di grande levatura. I Wildcats non hanno delle vere e proprie stelle ma negli ultimi tre mesi hanno segnato 1,28 punti per possesso (più di ogni altra squadra), riuscendo comunque a presentare una difesa attenta e difficile da affrontare. Certo, il ricordo della sconfitta al secondo round dello scorso anno è ancora vivo, ma questa
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versione di Villanova sembra essere più competitiva e sembra anche più difficile poterne trovare un punto debole, se non forse l’attacco troppo sbilanciato sulla vena da oltre l’arco dei suoi tiratori. LA RIVALE - VIRGINIA I Cavaliers hanno vinto l’ACC, mantenendo la propria imbattibilità per le prime diciannove partite della stagione. Il capolavoro di Bennett nel riuscire a ripetere un’annata da grande, la seconda di fila nonostante un roster in parte cambiato, è da sottolineare. Ed allora perché Virginia non è la numero uno? La risposta ha un nome e un cognome. Quello di Justin Anderson (nella foto a sinistra della pagina successiva). Per puntare al titolo, i Cavaliers avranno bisogno dell’Anderson visto sul parquet prima dell’infortunio alla mano di febbraio, quando Virginia era uno degli attacchi più efficienti dell’NCAA e Anderson uno dei giocatori più interessanti, viste le percentuali alte al tiro e l’atletismo devastante mostrato in più di un’occasione. L’Anderson visto all’ACC Tournament, invece, sembrava solo un lontano parente di quello della prima parte della stagione. Dalla sua condizione dipenderà, in buona
parte, la lotta per il titolo di Virginia. LE OUTSIDERS - NORTHERN IOWA, LOUISVILLE, OKLAHOMA, MICHIGAN STATE Con l’espulsione giusta di Chris Jones, coach Pitino si è ritrovato a dover reinventare o, nel migliore dei casi, modificare i suoi piani, soprattutto offensivi. Il sostituto in quintetto di Jones, Quentin Snyder, garantisce una buona attenzione difensiva ma, nell’altra metà campo, è ancora lontano dall’essere un atleta di peso. Ma Louisville rimane una outsider di livello e da tenere in conto, non fosse altro per l’attitudine difensiva e per la presenza in panchina di Pitino. Anche perché i Cardinals sono sempre duri a morire. Difesa, difesa, difesa. Questo il motto in casa Oklahoma, anche se la presenza di Buddy Hield (nella prima foto a destra della pagina successiva), che rappresenta al momento uno dei
migliori prospetti della nazione nel suo ruolo, costituisce già una buona base. I Sooners sono forse una delle squadre più interessanti, almeno ai blocchi di partenza, di questa March Madness. Kruger è riuscito a plasmare una difesa davvero compatta e dai meccanismi ben oleati. Non sarebbe una sorpresa se arrivassero molto lontano. Una delle sorprese di questa stagione, Northern Iowa sta coronando, fino a questo momento, un lavoro partito da lontano. Un lavoro che porta la firma di coach Jacobson. Dalla sua promozione a capo allenatore (2006), i Panthers hanno raggiunto risultati da non poco. Se il 30-5 del 2009-10 portò alle Sweet Sixteen, il 30-3 di questa stagione è di sicuro ben augurante. Anche perché Northern Iowa gioca bene e ha in Tuttle un’arma devastante. Attenzione ai Panthers. Tom Izzo è la garanzia che ci fa segnalare gli Spartans come possibili outsider. Il roster non è da urlo anche se Trice e
Valentine sono due giocatori dalle ampie potenzialità. Non entusiasmano ma sono in crescita continua e l’atteggiamento è quello giusto. Ma con Izzo a guidarli non potrebbe essere diversamente.
Rispetto a Providence non ha le stesse chance di sorprendere, ma il match con Michigan State al primo turno potrà dire molto su quanto possano essere temibili i ragazzi di Mark Fox.
LA POSSIBILE CENERENTOLA PROVIDENCE, GEORGIA Kris Dunn (nella seconda foto a destra) è uno degli atleti più attesi del torneo. Dopo i problemi fisici degli ultimi due anni, i suoi 15.8 punti, con 7.6 assist, 5.6 rimbalzi, 2.8 recuperi e il 48% dal campo hanno fatto strabuzzare molti occhi. E i Providence Friars si appoggiano a lui e alla mano di LaDontae Henton per provare a sorprendere tutti e arrivare molto lontano. Al primo turno ci sarà Dayton, al secondo probabilmente Oklahoma. La possibilità per sognare c’è. Georgia non è una squadra dal grande tasso tecnico ma di sicuro può cambiare il volto delle partite grazie alla grande imprevedibilità del suo modo di giocare.
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Scritto da Claudio Pavesi
NCAA TOURNAMENT: SOUTH PREVIEW Alla scoperta del Regional offensivamente più impressionante e esaltante del Torneo NCAA Un Regional con Duke, Gonzaga, Iowa State, Georgetown e UCLA può sembrare un inno alla tradizione del college basketball. Se però si fa caso al fatto che UCLA possiede il peggior record dell’intero Regional e che la mina vagante potrebbe chiamarsi S.F. Austin, allora ecco che la tradizione si trasforma nella follia di Marzo. Andiamo ad approfondire il Regional offensivamente più impressionante del Torneo NCAA, con ben cinque delle prime undici squadre della Division I per offensive rating. LA NUMERO UNO - DUKE Si potrebbero scrivere pagine su pagine di come Duke sia la più forte per la presenza di tre dei freshman più quotati in NCAA, talmente forti e maturi che non sembrano nemmeno debuttanti. Jahlil Okafor infatti è una furia da 18 punti e 9 rimbalzi di media, quasi certamente il lungo freshman offensivamente più completo visto negli ultimi quindici anni. Ad assisterlo il playmaker Tyus Jones, un generale da 11.6 punti, 5.8 assist e gli attributi per segnare un tiro che conta, e il tuttofare Justise Winslow, un decatleta in grado di segnare ma sopratutto di difendere contro il miglior giocatore avversario. Come detto, Duke potrebbe
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essere la squadra da battere per questi tre motivi ma la verità è che la chiave dei Blue Devils è la stessa dal 1980 e di recente ha siglato la vittoria numero mille in carriera: Mike Krzyzewski. Anche quest’anno Coach K ha messo in piedi l’ennesimo capolavoro, non a caso Duke è una delle quattro squadre in Division I ad avere un offensive rating superiore a 120 (120.1). Fermarli è un’impresa ma non è impossibile. La sconfitta contro Notre Dame nella finale del Torneo della ACC è stata pesante, inoltre il defensive rating di 97.7 è solo il novantunesimo in America. LA RIVALE - GONZAGA Per ogni informazione su Gonzaga vi rimando alla lunga intervista presente su questo magazine con Riccardo Fois, membro dello staff dei Bulldogs. Gli Zags hanno il miglior record di questo Regional (32-2) e in WCC, la propria conference, non hanno lasciato prigionieri. Dominanti in attacco sotto ogni aspetto statistico, anche in difesa i Bulldogs mostrano qualità impressionanti: pur con poco atletismo sono tra le prime dieci squadre in NCAA per percentuale al tiro concessa agli avversari con il 43.4%. Pangos e Wiltjer sono tra i migliori venti giocatore
della stagione NCAA e il perfetto mix di esperienza, fisico e preparazione fanno pensare che mai come quest’anno i Bulldogs siano pronti per raggiungere le Final Four. LE OUTSIDERS - IOWA STATE, SMU, DAVIDSON Iowa State è una squadra quadrata. Da quando coach Hoiberg l’ha presa in mano nel 2010, i suoi gruppi basati sui transfer hanno sempre portato a casa risultati prestigiosi. Squadra esperta e bilanciata, Iowa State porta ben cinque giocatori in doppia cifra per punti segnati e ha in Niang una delle stelle del Torneo NCAA. Il plus di questi nuovi Cyclones si chiama Jameel McKay, ovvero l’uomo che tanto mancava a Hoiberg nel pitturato, sia in attacco che in difesa. La vera chiave dei Cyclones è però l’aspetto mentale: hanno infatti vinto il torneo della Big 12 rimontando ogni singola gara partendo da una doppia cifra di svantaggio. Mai
darli per morti. L’anno scorso SMU è stata rapinata non venendo inspiegabilmente inserita nel Torneo NCAA. Tutti si aspettavano un grande 2014-15 guidato da Emmanuel Mudiay, il super talento liceale destinato ai Mustangs. E invece no. Mudiay rompe la promessa e vola in Cina a guadagnare tonnellate di yuan. Le ambizioni sembravano scemare ma SMU, guidata da uno strepitoso Nic Moore, ha conquistato la American Athletic Conference. Il dominio a rimbalzo di Kennedy e Moreira compensa la discutibile difesa perimetrale dei ragazzi di Larry Brown: SMU infatti è diciassettesima per percentuale a rimbalzo (55.1%) ma ultima in NCAA per percentuale di triple concesse (45%) e trecentotrentaquattresima per percentuale di assist concessi (61.8%). Pur avendo perso nella semifinale del torneo della Atlantic 10, non si vedeva una Davidson così forte dai tempi in cui
Steph Curry indossava la canotta dei Wildcats. Mediocre in difesa, Davidson è quinta in NCAA per offensive rating (118.2) e primeggia in quasi ogni altro ambito statistico offensivo. La chiave? Tyler Kalinoski (nella seconda foto a destra), guardia senior da 17 punti, 5.6 rimbalzi e 6 assist a gara con un tiro da tre punti mortifero. Non sarà Steph Curry ma non per questo non potrà regalare qualche gioia ai Wildcats. LA POSSIBILE CENERENTOLA - SF AUSTIN, EASTERN WASHINGTON Stephen F. Austin è la definizione di “Cenerentola”. I Lumberjacks sono piccoli, veloci e ottimi tiratori, compensano infatti la mancanza di fisico con un fantastico gioco in transizione, come dimostrano l’offensive rating di 116 (undicesimi in Division I) e i 68.2 possessi su 40 minuti. Perché i Lumberjacks sono imprevedibili e pericolosi per chiunque? Basti sapere che sono un gruppo in cui
un solo giocatore sfiora i due metri di altezza ma, nonostante ciò, hanno una percentuale reale al tiro del 60% (quinti in NCAA), traguardo raggiunto perché ben nel 65.7% dei casi un canestro arrivo per mezzo di un assist (quarti in NCAA in questa statistica). Imprevedibili, divertentissimi Lumberjacks. Eastern Washington è, come S.F. Austin, un’altra meravigliosa potenza offensiva del sottobosco NCAA. 118.2 di offensive rating (sesta in NCAA), 59.3% di percentuale reale al tiro (ottava in NCAA) e un ritmo alto avvicinano gli Eagles ai Lumberjacks accrescendone la pericolosità. In questo caso la ciliegina sulla torta ha un nome e un cognome: Tyler Harvey (nella foto a sinistra), un tornado di 193 centimetri, sophomore, in grado di segnare 22.9 a partita con il 47% dal campo e il 43% da tre punti. Una forza della natura.
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L’INVINCIBILE KENTUCKY Quali sono i segreti dei Wildcats di John Calipari? Il nostro Michele Pasquali analizza i motivi della loro stagione regolare semplicemente perfetta 31-0 alla fine della stagione regolare, i Kentucky Wildcats hanno letteralmente dominato durante questa prima parte dell’anno e sembrano veramente essere una macchina inarrestabile e quasi destinata ad arrivare in fondo al torneo NCAA, tanto che alcuni hanno addirittura azzardato un paragone improbabile con le franchigie NBA, affermando che questi Wildcats sarebbero in grado di fare una stagione dignitosa nell’attuale Eastern Conference. I ragazzi di coach Calipari infatti hanno attirato l’attenzione di tutti gli appassionati – e non – di college basketball per la loro capacità di dominare qualsiasi tipo di avversario e anche per l’incredibile profondità di cui dispongono. Per questo motivo è interessante analizzare quelli che sono i motivi della loro stagione perfetta. ATTACCO – I Wildcats di coach Calipari si sono sempre distinti per una pallacanestro d’intensità ed energia, ma spesso poco ordinata, imprecisa – soprattutto al tiro – e spesso quasi “confusionaria”. Nonostante la sensazione che Kentucky sia una squadra che giochi in maniera molto veloce, il suo ritmo è di 64 possessi a partita, perfettamente nella media della Division I (65.1 possessi a partita) e pure in quella delle prime dieci squadre nel
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ranking della Associated Press (63.6), e questo è effettivamente accompagnato da percentuali “mediocri” al tiro, dato che il 51.6% di eFG% (percentuale effettiva di tiro) non è eccezionale ma appena sotto la media delle prime dieci del ranking (53.9% di eFG%). Tuttavia, da questi numeri non è comprensibile il perché del 115.3 di offensive rating dei Wildcats (contro il 102.7 di media della Division I e il 114.4 delle prime dieci del ranking) se consideriamo che le squadre che tirano con percentuali analoghe hanno un rating che si aggira attorno al 107. Qual è allora il segreto dell’attacco di Kentucky? Energia, come dicevamo prima. I ragazzi di coach Calipari sono perennemente in movimento e questo permette loro di essere sempre pronti a far accadere qualcosa, soprattutto a rimbalzo offensivo dove, grazie anche ai centimetri di cui dispone la squadra (i più bassi del quintetto sono i gemelli Harrison, dati come 6’6” ovvero 198 cm), i Wildcats riescono a conquistare addirittura il 40.3% (!!!) dei rimbalzi disponibili in attacco contro una media del 31.3% tra tutta la Division I. Questo significa che Kentucky può disporre di tanti possessi in più rispetto ai propri avversari e può spesso finire con conclusioni “facili” al ferro.
Scritto da Michele Pasquali Nella foto Willie Cauley-Stein
DIFESA – Se l’attacco non può essere considerato allo stesso livello di quello di Gonzaga, Duke o Wisconsin, allora il vero segreto dell’imbattibilità dei Wildcats può nascondersi solamente dietro alla loro grandissima difesa. Tutto ciò si fonda sulla grande fisicità dei ragazzi allenati da coach Calipari, i quali riescono quasi a “cancellare” i propri avversari stoppando addirittura il 17.4% (contro il 9.7% di media) dei tiri concessi ai propri avversari e forzando nel 19% (16% è la media della Division I) dei casi una palla persa. La parola “chiave” è sempre la stessa: energia. La perenne attività dei giocatori di Kentucky è il tassello fondamentale su cui si basa tutto il gioco difensivo ed è anche il motivo per cui riescono a costringere gli avversari a percentuali dal campo bassissime, come dimostra il 39.4% di eFG% concesso ai propri avversari. Per dimostrare che la qualità della loro difesa sia una questione d’intensità ed intimidazione è sufficiente dire che i Wildcats concedono solamente 0.314 tiri liberi per tentativo dal campo, ben sotto al 0.369 di media in tutta Division I, senza quindi aver bisogno di chiudere l’arco dato che permettono un rapporto di 0.315 tra tentativi da tre punti e dal campo, valore “nella media”. Il tutto si sintetizza con il dato più incredibile di tutti: 82.5 di defensive rating, il migliore dell’intera NCAA. Attacco “normale” e difesa “super” sono quindi gli ingredienti dell’imbattibilità di questi Kentucky Wildcats che sembrano non aver trovato ancora avversari in grado di far vacillare le loro solidissime convinzioni e, soprattutto, di batterli.
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MICHIGAN, ABBIAMO UN PROBLEMA I Wolverines sono gli assenti più prestigiosi di quest’anno. Il nostro Michele Pasquali analizza gli aspetti del loro fallimento 16
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Il record di 16 vittorie e 16 sconfitte e il mancato ingresso nel tabellone delle 68 squadre del torneo NCAA descrivono alla perfezione la stagione più fallimentare dei Wolverines di coach Beilein dopo quella del 2009/2010 (finita 15-17 e senza ingresso al torneo). Tuttavia, oltre ai numeri legati al record stagionale, quello che più preoccupa della Michigan di quest’anno è la povertà di realizzatori in alternativa ai soliti Irvin e LeVert – con quest’ultimo che si è anche infortunato a metà stagione – e la totale mancanza di giocatori “credibili”
sotto canestro. Come sembra essere evidente, i problemi dei Wolverines di questa stagione sono tanti e di natura differente e vale la pena provare ad analizzare i vari aspetti che hanno contraddistinto quest’annata fallimentare. CON/SENZA LEVERT – Dopo l’infortunio al piede di Caris LeVert, riportato il 17 gennaio contro Northwestern, la squadra di coach Beilein ha cambiato completamente volto, trasformando una prima parte di stagione dignitosa (record di 11-7 e
4-2 nella BIG 10) nel mezzo “disastro” che è poi stato il record finale di 1616 (5-9 da allora). L’impatto che aveva LeVert in questa squadra è evidente già dalle statistiche più standard: 14.9 punti di media tirando con il 43.4% da due, il 39% da tre e l’81% dalla lunetta, 4.9 rimbalzi, 3.7 assist, 1.8 recuperi. Più nel dettaglio, se l’attacco di Michigan in sua presenza era comunque un attacco appena sopra la media della Division I (107.9 di offensive rating contro 102.6), in sua assenza, nelle ultime 14 partite, è diventato un attacco da poco più di 104 di rating, ovvero “mediocre”. Discorso differente per la difesa, aspetto per cui LeVert non era effettivamente così influente, dove si è registrato un leggerissimo peggioramento da 102.7 a 103.0, pur rimanendo comunque in quella zona appena al di sotto (come qualità, non come valore) della media della Division I (101.1). L’impatto di Caris LeVert può non sembrare così evidente a causa del livello già non molto alto del resto della squadra, ma è innegabile, record alla mano, che in sua presenza i Wolverines fossero una squadra sicuramente migliore, nonostante il calendario difficile. ATTACCO – Con la distribuzione delle responsabilità offensive divisa essenzialmente fra tre giocatori (LeVert, Irvin e Walton), Michigan ha effettivamente mostrato parecchie lacune sotto quest’aspetto del gioco. La non eccezionalità dell’attacco dei Wolverines è evidenziata dalla loro percentuale al tiro: 49.8% di eFG% è un dato perfettamente nella media della Division I (49.4%), ma è ben lontano, per esempio, dal 53.9% delle prime dieci squadre del ranking. Più nel dettaglio, il rapporto tra tentativi da oltre l’arco e tiri dal campo effettuati dei ragazzi di coach Beilein è 0.404, ben al di sopra della media della Division I (0.342), e questo dovrebbe coincidere, teoricamente, con una eFG% tendenzialmente alta, cosa che, come
abbiamo visto, non accade e evidenzia ancora di più la loro mediocrità offensiva. “Di male in peggio” se guardiamo l’abilità a rimbalzo offensivo dei ragazzi di coach Beilein. Michigan, infatti, è 328esima per percentuale di rimbalzi offensivi catturati con un misero 25.5% contro il 31.3% di media della Division I e 315esima se consideriamo complessivamente la voce dei rimbalzi (47.0% contro 50.3%). Ritmi bassi (60.7 possessi a partita), percentuali più basse rispetto a quanto bisognerebbe attendersi con quella distribuzione di tiro e pochissimi rimbalzi offensivi sono i motivi principali del “fallimento” offensivo dei Wolverines. DIFESA – La mancanza di fisicità (i giocatori più alti sono dati come 6’9”, ovvero 206 cm) sotto canestro, ma più in generale di tutta la squadra, LeVert a parte (il ragazzo è 6’7” ovvero 201 cm), è la causa principale delle difficoltà difensive dei Wolverines di questa stagione. Come abbiamo già detto, i ragazzi di coach Beilein subiscono – soprattutto in una Conference difficile come la BIG 10 – il maggiore atletismo degli avversari e questo è evidenziato dal preoccupante dato della percentuale di stoppate per tentativi dal campo concessi (5.5% BLK%) che li vede nettamente sotto la media della Division I (9.7%). Questa mancanza di atletismo ed intimidazione all’interno dell’area purtroppo non è bilanciata da una maggiore aggressività sugli esterni, considerando che i Wolverines forzano un “normale” 16.9% di palle perse contro il 16.8% di media di tutta la Division I. L’attacco non eccezionale e la mancanza di fisicità dei giocatori guidati da coach Beilein sono quindi le cause principali del fallimento di questi Michigan Wolverines, i quali dovranno cercare di ripartire già dall’anno prossimo per colmare questi enormi problemi.
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Scritto da Claudio Pavesi e Niccolò Costanzo
8 GIOCATORI DA TENERE D’OCCHIO NEL TORNEO NCAA
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BOBBY PORTIS
JERIAN GRANT
D’ANGELO RUSSELL
ALA, SOPHOMORE, ARKANSAS
GUARDIA, SENIOR, NOTRE DAME
GUARDIA, FRESHMAN, OHIO STATE
17.5 punti, 8.6 rimbalzi, 1.1 assist, 55% dal campo, 46% da tre, 75% ai liberi
16.8 punti, 3.0 rimbalzi, 6.6 assist, 49% dal campo, 33% da tre, 78% ai liberi
19.3 punti, 5.6 rimbalzi, 5.1 assist, 46% dal campo, 42% da tre, 76% ai liberi
Portis e Michael Qualls formano una delle più entusiasmanti e concrete coppie dell’intero panorama NCAA. Ala grande dotata di un fisico piuttosto massiccio ma ancora da scolpire, Portis fa della sua mano vellutata la chiave del proprio gioco. Tagli, buoni movimenti senza palla, ottime iniziative in post basso e post medio, Portis demolisce i difensori aggiungendo all’arsenale anche un più che ottimo jumper da lontano, un’arma che rende persino un longtwo un tiro utile. Diciamo pure che ricorda LaMarcus Aldridge come stile di gioco. Non solo ottimo attaccante, Portis è anche una costanza a rimbalzo da entrambi i lati del campo ed è sempre pronto a prendersi una responsabilità, quest’anno infatti ha anche segnato il tap-in sulla sirena per la vittoria all’overtime contro Alabama. D’altronde questo ragazzo, per inseguire il sogno del basket, ha sconfitto la povertà, la fame, la violenza e le condizione disumane in cui viveva, al limite del racconto cinematografico. Quando si ha un passato del genere, nemmeno una scalata al successo nel Torneo NCAA sembra impossibile.
Fino all’anno scorso era il giocatore con più punti interrogativi nell’intera nazione, ora è uno degli assoluti leader della stagione, simbolo di una squadra che non solo entra al Torneo NCAA con un seed altissimo (#3) ma che ha anche conquistato il titolo della prestigiosa ACC contro North Carolina grazie ai 24 punti e 10 assist proprio di Grant. Guardia con una particolare attitudine per la realizzazione, Jerian ha un’accelerazione bruciante e la capacità di sapersi adattare in fretta alle situazioni: dopo aver battuto l’uomo, ad esempio, può segnare con un jumper, anticipare il raddoppio con un floater o usare l’ottima visione di gioco per trovare un compagno libero. L’anno scorso Grant fu sospeso dopo 12 partite per i suoi voti troppo bassi ma decise di non lasciare la scuola e di non diventare professionista, rimboccandosi le maniche per tornare in squadra. Disse che la sua carriera non doveva finire in quel modo. Grant ha già vinto un titolo di conference e ora, al Torneo NCAA, rischia di scrivere le pagine più importanti della storia degli Irish.
A inizio stagione in molti hanno definito Russell un grande giocatore ma in pochi se lo sarebbero aspettato così dominante. La guardia di Ohio State è il leader indiscusso dei Buckeyes ma è soprattutto il più probabile candidato al premio di freshman dell’anno, in un’annata che di freshman di qualità ne aveva a tonnellate. Combo-guard di 194 centimetri, Russell rappresenta il concetto del giocatore collegiale dominante grazie alla sua abilità di trattare la palla e alla precisione nei jumper. Come detto, è tutt’altro che basso per il proprio ruolo ma risulta ancora più impressionante se si nota l’incredibile lunghezza delle braccia, caratteristica che gli permette di tirare con un rilascio altissimo, quasi impossibile da stoppare per un pari ruolo, oltre che di catturare molti rimbalzi, non a caso ne strappa 5.6 a partita e ben tre volte in stagione è andato oltre quota 11. La specialità della casa resta l’attacco. Con la palla in mano Russell è inarrestabile, da quando è in NCAA infatti solo una volta non è andato in doppia cifra alla voce punti.
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TAUREAN PRINCE
KEVON LOONEY ALA, FRESHMAN, UCLA
GUARDIA, JUNIOR, ALBANY
14.1 punti, 6.6 rimbalzi, 1.7 assist, 45% dal campo, 37% da tre, 73% ai liberi
9.6 punti, 5.2 rimbalzi, 1.1 assist, 40% dal campo, 36% da tre, 67% ai liberi
13.8 punti, 5.3 rimbalzi, 1.3 assist, 47% dal campo, 39% da tre, 62% ai liberi
11.8 punti, 9.2 rimbalzi, 1.4 assist, 47% dal campo, 45% da tre, 64% ai liberi
13.7 punti, 3.0 rimbalzi, 2.3 assist, 43% dal campo, 35% da tre, 76% ai liberi
E’ tra i giocatori più giovani del Torneo NCAA (29/5/1996) ma non si direbbe. La struttura fisica ricalca quella di un dio greco, l’atletismo è impressionante ma è soprattutto la lucidità mentale nelle scelte operate in campo ad essere già quella di un veterano. E’ così rispettato che il veterano della squadra T.J. McConnell alla domanda “cosa vorresti fare in futuro?” ha risposto “l’agente di Stanley Johnson”. In attacco sa di non essere in grado di attaccare costantemente il ferro e per questo sa come posizionarsi al meglio per sfruttare gli spazi e le giocate dei compagni, se lanciato in transizione invece incominciate a segnare i 2 punti sul tabellone, al limite aggiungeteci un giro in lunetta. Di solito queste stelle si risparmiano in difesa ma non è il caso di Johnson, che anzi può difendere letteralmente su chiunque grazie alla combinazione di tecnica, fisico e atletismo.
Tutto pur di vincere. Questo è quello che ha deciso l’ala di Villanova nella scorsa estate, mentre si preparava all’ultima stagione della sua carriera collegiale, durata cinque anni. Pinkston, infatti, è uno dei giocatori più vecchi del torneo, avendo passato tutto il suo primo anno scontando una sospensione per rissa. Dopo due stagioni da leader offensivo, anche in termini di fatturato (14.1 e 13.3 punti a partita), ha deciso di cambiare pelle, e pensare solo ai risultati di squadra. Per questo l’abbassamento di tutte le categorie statistiche, con il solo innalzamento della percentuale di tiro da tre punti. Pinkston è un uomo in missione, e in ogni partita è facile notare come sia uno dei giocatori più vocali e concentrati di tutta la NCAA. I suoi Wildcats hanno vinto dopo un lunghissimo digiuno il titolo della Big East, rendendo la squadra una reale competitor per la vittoria finale. Non c’è dubbio che Pinkston sia disposto a tutto pur di far sì che il suo sogno si realizzi. Statene certi.
La vera forza dei Bears di quest’anno si chiama Taurean Prince. Il miglior sesto uomo della Division I, numeri alla mano, era reduce da 16 gare consecutive in doppia cifra, prima di fermarsi nell’ultima gara di regular season disputata da Baylor contro Kansas. Il suo score è impressionate: in sole sei gare stagionali il nativo di San Antonio non è arrivato ai 10 punti. Prince è diventato in un solo anno un realizzatore spaventoso, la prima soluzione offensiva per dei fantastici Baylor Bears, alla terza partecipazione in sei anni con la testa di serie numero 3. Prince è diventato un realizzatore completo, pur prediligendo il tiro da tre punti, che ricopre più del 40% del suo attacco. Il piccolo college texano sembrava chiamato ad un’annata interlocutoria, eppure, grazie ai miglioramenti di Gathers e Prince, ha saputo ribaltare tutti i pronostici, dimostrando di poter competere contro qualsiasi squadra. Servirà il miglior Taurean per battere Georgia State, e una tra BYU/ Mississippi o Xavier al terzo turno. Da lì in poi, sognare non costerà più nulla.
UCLA ha sicuramente santi in paradiso a cui appellarsi, vista che la partecipazione al torneo NCAA non è delle più meritate. In campo, però, si appella a uno dei giocatori più elettrizzanti della Divison I. Looney è una forza della natura, una macchina da doppie doppie, in grado di dare un’enorme mano ai suoi Bruins, anche in termini realizzativi. E’ un giocatore giovanissimo (’96) tutto da fare, e sarebbe un peccato se lasciasse Westwood dopo un solo anno. Un talento del genere non si può non amare: ha istinto per ogni fase del gioco, anche per recuperi e stoppate, le giocate difensive più appariscenti, che non ti rendono necessariamente un buon difensore, ma fanno capire, abbinate al resto delle qualità, come di limiti fisici e tecnici il giocatore non ne abbia. Serve ovviamente che si costruisca un gioco sia offensivo che difensivo più stabile, cosa che solo l’età, il competere e il poter crescere senza le pressioni della NBA potrebbero garantirgli. Difficile che UCLA passi il primo turno, ma se c’è un giocatore che può impensierire SMU, questo è proprio Looney.
La storia più bella del torneo delle storie. La parabola di questo ragazzo ha fatto il giro del mondo in poche ore, avendo realizzato il tiro allo scadere, disperato, per portare i suoi Great Danes al torneo NCAA, dove sfideranno gli Oklahoma Sooners. “Con gli angeli a guardarti, si può fare ogni cosa”, le dichiarazioni di Hooley, che aveva perso appena un mese e mezzo fa la madre, a causa di un cancro. E’ senza dubbio emozionante che sia lui il ragazzo ad aver realizzato un tiro storico per il suo college, dopo aver promesso alla madre, ricoverata in Australia, dove Hooley è nato, che sarebbe tornato negli Stati Uniti per giocare anche nel suo ricordo. Oltre alla storia, bellissima, non si può negare che Hooley sia un giocatore di talento, soprattuto nel contesto di una squadra affidabile, ma non di certo eccellente. Ottimo tiratore, guardia concreta, l’ideale per un upset, che Albany sogna. I Sooners sono la squadra adatta per far si che la favola continui. Oklahoma, infatti, ha dimostrato di poter vincere e perdere contro qualsiasi squadra. Chissà che non riaccada il miracolo.
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ALA, SENIOR, VILLANOVA
ALA, JUNIOR, BAYLOR
PETER HOOLEY
MY-BRACKET
JAYVAUGHN PINKSTON
ALA, FRESHMAN, ARIZONA
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STANLEY JOHNSON
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Scritto da Claudio Pavesi
WATANABE L’ULTIMO DEI COLONI Con l’aiuto di Takashi Aoki, andiamo alla scoperta di Yuta Watanabe, la nuova pietra angolare della pallacanestro giapponese In una Division I da 351 squadre non è facile emergere anche quando si segnano 20 punti a sera, figuriamoci se si è un freshman non molto celebrato con un ruolo da comprimario in una squadra non presente al Torneo NCAA. Eppure Yuta Watanabe è entrato nella storia diventando il quarto giocatore giapponese di sempre a ricevere una borsa di studio da un college di Division I dopo Michael Takahashi (Cal State Northridge), K.J. Matsui (Columbia) e Taishi Ito (Portland). Watanabe è però il primo a giocare in una grande conference, una di quelle le cui squadre ricevono inviti “at large” per il Torneo
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NCAA. La sua storia è particolare e inizia molto indietro, molto prima della sua stessa nascita avvenuta nell’ottobre del 1994. AMERICA, VICINA E LONTANA - La millenaria cultura giapponese è stata tra le più innovative e poliedriche nella storia di questo enorme pallone rotante che siamo soliti chiamare Pianeta Terra. Dalla pittura alla scultura, dal cibo alla musica, passando per letteratura, abbigliamento, medicina, innovazione tecnologica e militare, il Giappone è sempre stato una sorta di universo parallelo, diverso da ogni altro uso o
costume asiatico e mondiale. Anche nello sport la cultura giapponese è sempre stata diversa ma a suo modo fondamentale nello sviluppo del mondo occidentale grazie alla creazione di alcune arti di combattimento e di difesa come il karate, il judo e il sumo. Avvicinandoci all’era moderna, il Giappone non ha mai nascosto di essere la cultura asiatica più interessata ai costumi occidentali e ciò si è riflesso anche nello sport. Il baseball, sport americano per eccellenza, è lo sport di squadra più seguito e giocato in Giappone insieme al calcio (ecco qui il tocco europeo) ed è l’ambito in cui i giapponesi hanno trovato maggior
successo negli Stati Uniti. Masanori Murakami, lanciatore, ruppe le barriere addirittura nel 1964, anno in cui diventò il primo giapponese di sempre a giocare nella MLB, il massimo campionato americano. Non ci furono contatti per una trentina d’anni ma dal 1995 arrivò un’ondata di campioni giapponesi che prese d’assalto la MLB, non solo come simpatiche comparse ma come reali giocatori in grado di decidere una partita per le squadre di maggior profilo. Ad oggi si contano cinquantatre giocatori nati in Giappone con almeno una presenza in MLB, alcuni dei quali detengono anche dei record della Major League Baseball, uno su tutti l’esterno destro ancora in attività Ichiro Suzuki, destinato con tutta probabilità a diventare il primo giapponese di sempre a entrare nella Baseball Hall of Fame. Non quella giapponese, quella internazionale. Abbiamo appurato che il baseball in Giappone c’è. Il football americano non riscuote abbastanza successo, troppo distante dalla cultura. Meglio il football all’europea, ovvero il calcio. Anche l’hockey non ha molto successo, quando fa freddo infatti si preferisce prendere lo snowboard e iniziare a fare trick con cui ridefinire il concetto di gravità noto ai colleghi americani ed europei. E il basket? Arriviamo finalmente
al punto focale del nostro discorso: la tanto amata pallacanestro. Per qualche motivo il basket non ha mai fatto presa sul popolo nipponico, vuoi per un discorso culturale, vuoi per la promozione del prodotto. Almeno fino al 1990, anno in cui arriva sulle pagine del Weekly Shōnen Jump un nuovo manga dedicato alla pallacanestro chiamato Slam Dunk. Le avventure della squadra di basket del liceo Shohoku, grazie anche al successivo anime basato sul manga, hanno una tale popolarità che il basket inizia a diventare un sport da seguire. Gli anni passano, la cultura cresce ma i talenti faticano a decollare come invece succede nel baseball. Gli unici giocatori in grado di toccare un parquet NBA sono due, seppur con delle riserve. Yuta Tabuse infatti non ha mai giocato un singolo minuto in NBA dato che, pur giocando spesso in Summer League e in D-League, non è mai riuscito a entrare in un roster ufficiale entro la prima palla a due stagionale. Un altro nipponico ha effettivamente giocato in NBA ma il suo nome originale è J.R. Henderson, è nato in California e, prima di giocare in NBA, ha vinto un titolo NCAA con UCLA. Il fatto è che J.R. è diventato giapponese solo nel 2007 quando la sua carriera in NBA era effettivamente terminata. In cosa ha cambiato il suo nome? Ovviamente in J.R. Sakuragi, nome scelto sia per l’albero del fiore di ciliegio (sakura, appunto) e per il nome di Hanamichi Sakuragi, protagonista del manga Slam Dunk. Ed ecco che il cerco si chiude. LA CADUTA E LA SPERANZA - Arriviamo finalmente ai giorni nostri. Tutto sembra andare per il meglio con Tokyo che si aggiudica i Giochi Olimpici del 2020 e con la nazionale femminile giapponese in grado di vincere il suo primo titolo asiatico degli ultimi 43 anni. Nel novembre 2014 però arriva la notizia peggiore: la FIBA sospende la Japan Basketball Association per il mancato raggiungimento dei suoi standard a livello internazionale. Per capire al meglio la situazione mi servono le parole di un
fidato giornalista del posto e per questo ho contattato Takashi Aoki, giornalista di Tokyo con un passato nel Michigan e ormai tornato stabilmente in Giappone. «La squalifica della FIBA è stato un duro colpo - dice Aoki - ma è anche una grande opportunità per dare una svegliata all’intero movimento e migliorare la situazione del basket in Giappone. La NBL e la BJLeague devono unirsi e lavorare all’unisono, anche perché, fino ad oggi, il pubblico televisivo del basket giapponese è stato davvero ridotto e solo alcune squadre sono riuscite a vendere una buona quantità di biglietti. La task force guidata da Saburo Kawabuchi si sta comportando ottimamente, con idee chiare come l’obbligo per le principali squadre di avere arene da più di 5000 posti». Quando ormai la fiducia in questo sport sembrava scemare, ecco che arriva, come nella trama di un manga, il protagonista di questa particolare storia. Yuta Watanabe. Fin dall’inizio, la sua storia non ha avuto nulla di banale. Scordatevi le grandi città con grattacieli e tecnologia futuristica, Watanabe infatti nasce a Miki, nella prefettura di Kagawa, una cittadina da trentamila abitanti caratterizzata da un’umidità al limite del vivibile e circondata da boschi, campi di fiori e negozi di bonsai. In questa bella cornice provinciale hanno trovato casa il signor Watanabe, guardia di 190 centimetri con un passato da professionista in Giappone, e la signora Kumi, ottima tiratrice e miglior realizzatrice della nazionale femminile giapponese ai Mondiali del 1983 con 13.6 punti a partita. A Miki non c’è molto da fare, di conseguenza mamma Kumi inizia ad allenare una squadra di minibasket per i bambini del luogo. Alla squadra si aggrega anche il piccolo Yuta, vuoi per cercare di prolungare la tradizione cestistica di famiglia, vuoi perché lavorare con la propria passione e tenere contemporaneamente a bada il proprio figlio stando sempre nella stessa stanza è un’occasione che non ogni madre si può permettere. A Yuta però giocare con
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la palla a spicchi piace davvero tanto e dalla madre eredita le doti da tiratore che in futuro avrebbero fatto comodo. Yuta continua a sbalordire tutti, specialmente quando inizia a giocare per la Jinsei Gakuen High School di Zentsūji, sempre nella prefettura di Kagawa. Qui Yuta diventa un giocatore interessante: una guardia con ottimo trattamento di palla e un tiro piazzato letale. Si pensava che Watanabe non sarebbe mai cresciuto molti centimetri più di quanto non fosse il padre e per questo si è sempre allenato come playmaker e guardia, al liceo però ha avuto uno sviluppo incredibile e ha rapidamente raggiunto i 203 centimetri che anche oggi gli permettono di giocare da ala. Non ci è voluto molto per capirlo: un ragazzo under-20 oltre i 200 centimetri con un background da playmaker e un tiro da fuori più che importante non può restare nella prefettura di Kagawa. Anzi, non può restare in Giappone. Il talento è enorme e Watanabe cerca fortuna negli Stati Uniti che tante fortune diedero ai colleghi del baseball, con precisione nel Connecticut, a St. Thomas More Preparatory School. SENZA PAURA - E’ con questa mentalità che Watanabe arriva negli Stati Uniti: senza temere niente e nessuno, che si tratti di un avversario, una cultura diversa o la lontananza dalla famiglia. All’inizio la lingua è un problema, ma neppure troppo. Non perché Yuta sia particolarmente rapido nell’imparare l’inglese ma semplicemente perché non parla mai. All’apparenza timido, basta un secondo per capire che il figlio di Kumi tende a comunicare con gli occhi, con quello sguardo tipico dei grandi uomini orientali che dice tutto senza dire effettivamente nulla, quello sguardo di chi sa già cosa fare e non ha bisogno di niente. A St. Thomas More Preparatory School capiscono subito il carattere del ragazzo e lo lasciano parlare sì con gli occhi, ma anche con il pallone da basket. Yuta comincia subito a mettersi in mostra per l’ottimo giocatore che è, e viene
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segnalato come uno dei migliori giocatori dell’anno tra quelli presenti nelle Prep School. Quasi a sorpresa, ma non più di tanto, viene inserito nella Top100 dei migliori liceali d’America secondo ESPN, alla posizione 77. La scelta del college però non è mai facile, per questo anche l’uomo con lo sguardo di chi sa sempre cosa fare accetta i consigli di persone fidate, come spiega anche Takashi Aoki: «Coach Quinn, l’uomo alla guida di St. Thomas More Preparatory School, è una figura importante per Watanabe. Grazie anche a lui Fordham e George Washington hanno deciso di offrirgli due borse di studio complete. La scelta è ricaduta su GWU per le maggiori possibilità di poter raggiungere un Torneo NCAA». A GWU si temeva non trovasse spazio perché troppo esile; invece, un po’ a sorpresa, è diventato in breve il sesto uomo della squadra. Nonostante ciò, il pubblico giapponese non sembra appassionarsi più di tanto: «Le prestazioni e l’elevato minutaggio fin dalla prima partita avrebbero dovuto garantirgli subito grandi titoli in Giappone e invece non è stato così - continua a dire Takashi Aoki - Solo i media specializzati nella pallacanestro erano soliti parlare di lui e nemmeno concedendogli molto spazio. Persino le sue partite non venivano (e non vengono tuttora) trasmesse in Giappone, tranne una o due, trasmesse peraltro in notevole differita». Poi però Watanabe inizia a fare sul serio e tra dicembre e gennaio infila sei prestazioni consecutive in doppia cifra che regalano ai Colonials cinque vittorie. L’exploit del talento di Miki genera molte attenzione tanto che persino il New York Times e il Washington Post gli dedicano articoli importanti. La voce si diffonde e in breve tempo il sito di GWU fa registrare un record di visualizzazioni, molte delle quali dal Giappone, che diventa il secondo paese per di ingressi sul sito dei Colonials. L’Atlantic 10 Conference si rivela però un ostacolo troppo grande per i giovani giocatori di GWU che, nonostante il career-high di Watanabe da 21 punti
con 7-10 da tre punti nell’ultima gara stagionale contro UMass, escono in fretta dal torneo di conference contro Rhode Island venendo di conseguenza esclusi dal Torneo NCAA e ripiegando sull’NIT. UN NUOVO INIZIO - Nonostante una stagione ricca di alti e bassi, Watanabe ha vinto una sfida più grande, quella con il basket americano. Molti non lo ritenevano pronto tecnicamente, altri non lo ritenevano abbastanza fisico e altri ancora lo consideravano troppo distante dalla cultura del basket a stelle e strisce. Ma lui ce l’ha fatta. E’ diventato
il sesto uomo di una squadra di Atlantic 10 ed è diventato un punto fermo, un futuro leader su cui costruire, come sostiene anche Takashi Aoki: «Se riuscirà a costruirsi un buon fisico potrà diventare tranquillamente il leader tecnico ed emotivo della squadra. Ricordiamoci che è un giocatori di 203 centimetri in grado di giocare da playmaker, ed è solo al suo primo confronto con una realtà in cui il fisico fa la differenza. Il potenziale è davvero enorme. Fondamentale sarà il suo anno da junior in cui, senza Larsen, Garino, Savage e McDonald, gli attuali senatori della squadra, toccherà a lui prendere le redini dei Colonials. Non mi stupirei se
potesse diventare una futura scelta al secondo giro al Draft NBA». Non solo le carte in regola tecniche ci sono tutte, anche l’aspetto mentale sta cambiando. Ricordate lo sguardo di ghiaccio di chi non ha bisogno di parole per farsi capire? Ecco, a questo aspetto sta aggiungendo tratti più conformi all’esplosiva mentalità dello sport americano come il gesto delle tre dita puntate alla testa eseguito sistematicamente dopo aver segnato una tripla importante. Il cosiddetto “three to the dome” tanto caro a Carmelo Anthony, uno dei suoi modelli della NBA contemporanea insieme a Kevin Durant. La nuova mentalità più aperta e le prestazioni in campo lo hanno reso uno degli atleti più amati del campus, ed ecco che anche il basket americano inizia a osservare il Giappone con maggiore interesse. «Ryogo Sumino, - rivela Takashi Aoki - guardia di 189 centimetri con un tiro da tre punti anche migliore di quello di Watanabe, andrà quasi certamente a frequentare un liceo americano. Sumino ha anche partecipato al primo camp della nazionale maggiore giapponese a soli 16 anni. Rui Hachimura è però il miglior prospetto in circolazione. Ala di 198 centimetri nato nel 1998, è stato il miglior realizzatore del Mondiale Under-17 con 22.6 punti di media e una prestazione da 25 contro gli Stati Uniti. Pare che molti college di Division I siano interessati a lui». Talvolta serve qualcuno che apra la strada, qualcuno che, con intraprendenza e un po’ di fortuna, permetta di scoprire i tesori nascosti di un paese. Come quando Petrus Gyllius nel 1545 scoprì quasi casualmente la Cisterna Basilica, capolavoro di età Giustinianea rimasto nascosto per tanto, troppo tempo nella città che oggi conosciamo come Istanbul. Yuta Watanabe è al tempo stesso Petrus Gyllius e la Cisterna Basilica, mentre Ryogo Sumino e Rui Hachimura sono i tanto enigmatici quanto affascinanti volti di Medusa all’interno della Basilica stessa. Excursus storico-artistico a parte, non è un caso che Ryogo Sumino abbia scelto come liceo per la sua esperienza
americana (anche se deve ancora fare un annuncio ufficiale a riguardo) proprio St. Thomas More Preparatory School, lo stesso di Watanabe. Appena arrivato sul palcoscenico, già c’è chi segue le sue orme come se fosse un modo per confrontarsi, per usare gli stessi blocchi di partenza. E’ Watanabe quindi la nuova pietra angolare del basket giapponese, la base su cui costruire la prima cattedrale del basket nipponico, un ideologico mattone dopo l’altro. Un mattone per la carriera collegiale, un mattone per un futuro in NBA e un altro pesantissimo mattone in vista di Tokyo 2020.
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Scritto da Niccolò Costanzo
MELO 2.0 Alla scoperta di Trimble, il fenomeno che ha sconvolto la NCAA nella sua prima stagione E’ il 2001-2002, su per giù ci troviamo a metà Marzo, momento in cui le cose nella NCAA si fanno serie; coach Gary Williams stava spiegando ai suoi giocatori come aver perso la quarta partita dell’anno, la semifinale del torneo della ACC, non inficiasse assolutamente la stagione favolosa appena trascorsa, e che le possibilità di vincere il primo titolo NCAA della storia dei Maryland Terrapins fossero tutt’altro che basse. Chris Wilcox, Steve Blake e la stella della squadra, Juan Dixon, fecero tesoro delle parole del coach. Come dargli torto. Williams è uno degli allenatori più vincenti della pallacanestro collegiale grazie ai 668 successi in carriera, e all’epoca, poteva già vantare un curriculum inoppugnabile. Il risultato? Terrapins per la prima volta vincenti e carriera NBA assicurata per i cavalieri di Williams. Dopodiché, una Sweet Sixteen, nell’anno immediatamente successivo, e tante delusioni. Bisognerà attendere tredici anni, passare attraverso stagioni più che interlocutorie, una sola vittoria nel torneo della ACC, un cambio di allenatore, un cambio di conference, per ripetere un risultato di questa portata per quanto riguarda la stagione regolare. I Maryland Terrapins, infatti, dal 20012002 in poi, hanno chiuso solamente due stagioni al di sotto della doppia cifra di sconfitte, collezionando cinque partecipazioni al Torneo NCAA, quattro
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al NIT, e tre anni di semplici vacche magre. Di questi ultimi, due sono stati targati coach Mark Turgeon, che ha avuto il tanto prestigioso quanto ingrato compito di sostituire una leggenda come Williams, ad inizio 2011. MELO - Una delle prime mosse del nuovo allenatore dei Terrapins fu quella di convincere un ragazzo sedicenne nato a Washington DC, ma vissuto nel Maryland, ad Upper Marlboro, ad andare nel college del suo stato di appartenenza. Questa combo-guard in fieri, per quanto interessante, all’epoca si trovava attorno alla trentesima/quarantesima posizione nelle classifiche di valutazione di Rivals. com (39°) ed ESPN (29°). Il cognome del ragazzo? Trimble. Il nome? Piuttosto interessante, se si considera che l’altro giocatore a portarlo, è, come la nostra combo-guard, nato sulla costa atlantica, e adottato successivamente dal Maryland, avendo vissuto a Baltimora. Si tratta niente meno che di Carmelo “Melo” Anthony. Ecco, il diminutivo, Melo, è lo stesso di Romelo Trimble, che quel “Ro” lo sta facendo sparire, facendosi chiamare semplicemente come l’All Star NBA, chissà se per assomigliargli un po’ di più o se per una scelta esclusivamente di gusto. I due, a parte la questione di essere nati fuori per poi trasferirsi nello stesso stato in tenera età, condividono
poco sul campo da pallacanestro. Non intendendo sciorinare le qualità e i titoli di Carmelo Anthony, basti pensare che Trimble è una guardia di appena un metro e novanta, con abilità più legate alla finalizzazione che alla costruzione del gioco, abilissima a trovare contatti per poter realizzare indisturbato dalla lunetta, da cui mantiene una media ottima (87%). Un giocatore totalmente differente dal giocatore franchigia dei derelitti New York Knicks. PRECOCI - Una cosa, però, i due la condividono. Il fatto di aver sconvolto il panorama della NCAA già nella loro prima stagione collegiale. Se Anthony ha vinto il titolo con Syracuse al primo tentativo, Trimble può vantare una stagione da record con i Terrapins, che, alla prima apparizione in una conference d’altissimo rango come la Big Ten, dopo aver militato per una vita nella ACC di Duke e North Carolina, non hanno deluso le attese, dominando in lungo e in largo per la Divison I. La stagione di Maryland è stata fino ad oggi qualcosa di indescrivibile. Confermato l’assetto
della passata stagione, che vedeva in Jake Layman e Dez Wells due elementi fondamentali, la sola addizione di Trimble non sembrava poter rendere i Terrapins competitivi nelle forche caudine della Big Ten, cosa immediatamente smentita dal miglior inizio di stagione del college da sedici anni a questa parte. Il freshman si è subito imposto come miglior realizzatore della squadra, grazie ad un gioco perimetrale di altissimo livello, e alla già citata capacità di attaccare il ferro e subire falli come nessun altro nella Division I della NCAA. Qualche dato in disordine potrà aiutare a capire il tipo di gioco di Trimble. Nove volte in stagione, la guardia, ha tentato 10 o più tiri liberi, chiudendo solo una volta sotto il 70% di segnature, due volte ben oltre l’80%, cinque al 90%, e una con il 100%. Se a questo aggiungiamo una media attorno al 40% da 3 punti, con più di quattro tentativi a partita, sono presto spiegati gli oltre 16 di media con cui il ragazzo ha aiutato Maryland a battere squadre del calibro di Indiana, Iowa State, Michigan State, Nebraska, per tutto il corso della stagione, mantenendo un irreale 14-4
nelle partite di Conference, piazzandosi dietro solo ad una grandissima favorita per la vittoria del torneo NCAA, Wisconsin. BIG WINS - Andiamo al 24 Febbraio scorso. Maryland contro Wisconsin. I Terrapins non hanno bisogno di una vittoria contro i Badgers per risultare credibili agli occhi della NCAA; hanno già ottenuto nel corso della stagione questo status. La squadra di Bo Ryan, però, è una corazzata, e le sconfitte contro Illinois, Ohio State, Indiana, e Virginia patite nel corso della stagione, hanno rappresentato una piccola macchia nella credibilità della squadra dei tre moschettieri, Wells, Layman e Trimble. La partita è a basso punteggio, cosa insolita per i Badgers. Il 31-20 con cui si conclude il primo tempo, in favore Terrapins, infiamma l’XFINITY Center, ma la risposta di Wisconsin non si fa attendere, e rapidamente la partita si riapre, fino a giungere sul 50-53 per Maryland, dopo i liberi della forte ala di Wisconsin, Nigel Hayes. Mancano tre minuti alla fine della partita, e Trimble
prende per mano i suoi compagni realizzando sei punti consecutivi, con due canestri dal campo e due tiri liberi che chiudono la partita in favore di Maryland, sul 52-59. Vittoria storica per i Terrapins, e prestazione da assoluto campione di Trimble, per la prima volta decisivo contro una squadra della Top 25, tanto più importante se fatta contro Wisconsin, all’epoca numero cinque del ranking nazionale. Per esagerare oltre ogni misura, Trimble sembra aver mixato alcune caratteristiche, tra la precocità di Carmelo Anthony, le doti tecniche di Juan Dixon, profeta del primo titolo NCAA dei Terrapins, giocatore a cui il Melo 2.0 assomiglia, con l’estro un po’ maledetto di uno come Steve Francis, che dopo due anni di junior college, fece entusiasmare tutti gli Stati Uniti nella sua annata in maglia Maryland del 98-99; come negare che queste tre componenti non siano presenti in Trimble? Soprattutto l’ultima, quella dell’esaltazione, che ormai pervade il campus di Maryland, ad oggi numero otto del ranking (27-5 di record, 14-4 nelle gare di conference) in
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attesa di sfidare Michigan State, battuta due volte in stagione, nelle semifinali del torneo della Big Ten. MIGLIOR FRESHMAN - Arriviamo al paradosso. Com’è possibile che un giocatore come Melo Trimble, che coniuga prestazioni d’altissimo livello ai migliori risultati di squadra da dieci anni a questa parte, rischi di non vincere il titolo di miglior freshman dell’anno, non della nazione (titolo a cui a mio avviso potrebbe aspirare) ma addirittura della conference di appartenenza? Il motivo si chiama D’Angelo Russell, guardia come Trimble, in modo diverso da Trimble, che ha fatto girare la testa non solo alla Division I, ma anche alla NBA tutta, essendo un giocatore assolutamente fenomenale nonostante l’età (classe 1996). Russell è più completo rispetto alla guardia di Maryland, tira meglio da tre, è un passatore più abile, per tecnica e letture, rimbalzista migliore (e non lo abbiamo visto ancora ad un terzo di quello che potrà essere il suo sviluppo
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fisico a livello NBA), per molti aspetti anche un difensore più forte ed un leader nato. Insomma, a parte ai liberi è migliore di Melo in ogni singola categoria statistica. A livello di squadra, non c’è paragone, Terrapins meglio dei Buckeyes, ma Russell ha il merito di aver ridato entusiasmo ad una piazza un po’ depressa come quella di Ohio State, tappando alcune falle che si erano create strutturalmente nel gioco della squadra di Thad Matta ai tempi di Aaron Craft. Non solo, nello scontro diretto Russell ha stravinto nei confronti di Trimble, chiudendo con 18 punti, 14 rimbalzi, 6 assist e 4/6 da 3, con il Terrapin fermo ad un pietoso 0/8 dal campo, di gran lunga peggior prestazione stagionale (ed in carriera). Eppure, un dubbio mi resta. Se valutiamo in termini di incisività e di miglioramenti delle due squadre, in relazione alle prestazioni dei due giocatori, passeremo da un’analisi positiva, quella che vale per Russell, ad una strabiliante, quella di Trimble, che non
solo ha portato i compagni a realizzare una stagione da record, senza che avessero neanche fatto il torneo NCAA o NIT l’anno precedente, ma per giunta in una conference nuova, più difficile della ACC, vincendo contro una delle squadre più forti della nazione, Wisconsin. Si potrà ribattere che con Layman e Wells, la struttura portante della squadra fosse più solida di quella dei Buckeyes; vero, ma i due Terrapin, benché decisivi nel loro contesto, non avevano mai giocato il torneo NCAA, e venivo da stagioni perdenti, a differenza di Sam Thompson, Amir Williams, Shannon Scott e anche Anthony Lee, addizione di quest’anno dei Buckeyes, che il torneo lo aveva giocato per i Temple Owls. Questo basterebbe a giustificare un titolo individuale in favore di Trimble? Forse no, ma non si può non considerare, per la causa di Trimble, che due squadre di diversa caratura, con Ohio State favorita su Maryland, perlomeno ad inizio stagione, abbiano avuto un cammino, una “semplicemente” positivo, mentre l’altra,
superlativo, trascinate dai due freshman di riferimento. Chiacchiere da bar, probabilmente, per due motivi. Il primo, perché in casa Terrapins, l’obiettivo che ci si può legittimamente porre sembra essere decisamente più importante di un semplice titolo individuale, il secondo, perché comunque vada, questo premio riservato al freshman della Big Ten o della Division I, verrà consegnato ad un fenomeno.
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Scritto da Luca Ngoi
TORNARE A CASA Le storie intrecciate di Kevin Ware e Ryan Harrow, due grandi talenti legati dallo stesso destino e dall’amore profondo per la pallacanestro Quando Kevin Ware è entrato per la prima volta nella palestra di allenamento di Georgia State deve aver pensato a quanto liberi ci si possa sentire tenendo un pallone da basket in mano. Correre, tirare, difendere: semplici azioni di routine per qualsiasi giocatore, dalla più bassa lega alla NBA. I precedenti due anni della sua vita sportiva e non erano sembrati molto simili a un inferno, un baratro dal quale tornare più forti sembrava ormai un’utopia, dopo il secondo infortunio successivo a quello terribile, trasmesso in mondovisione nelle fasi finali della partita di Elite Eight contro Duke. Eppure adesso era lì. Era tutto finito. Il campus della Georgia State University si trova ad Atlanta, il fulcro di questo
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Stato del Sud degli USA, nel quale la famiglia di Kevin Ware si era trasferita dal Bronx quando il giovane ragazzo aveva quattordici anni. Il basket era già tutta la sua vita, in una famiglia della quale era stato l’unico figlio maschio dopo le sorelle Donna, Brittney e Khadijah, figure femminili che insieme a mamma Lisa avevano significato supporto e sostegno nei momenti più delicati della vita di Kevin Jr. La mentalità del Bronx lo aveva reso immune alle paure: non lo spaventava la caotica vita di Atlanta, ma si era ritrovato leggermente spaesato al secondo trasferimento in così poco tempo. La famiglia infatti si sposta dalla città che aveva dato i natali alla Coca Cola alla piccola Rockdale County proprio in cerca di serenità e tranquillità. Il
microcosmo di Rockdale è proprio come lo immaginate: villette con giardino ben curato, piccoli negozi, strutture a misura d’uomo per un paese di 85.000 anime o poche di più, che sarebbe perfetto per ospitare una serie tv di quelle che vanno per la maggiore negli ultimi due anni. Rockdale è però soprattutto la cittadina perfetta per Kevin in quanto prende sin da subito il comando dell’omonimo liceo, dove si mette in mostra come uno dei migliori giocatori dello Stato della Georgia. È la prima opzione di una squadra che non ha l’appeal delle grosse powehouses americane, le scuole private dalle strutture modernissime, rifornite da sponsor internazionali come Adidas o Under Armour: è paradossalmente molto simile al liceo che avrete frequentato
anche voi in Italia. In un contesto simile è piuttosto difficile farsi notare, anche nell’era di Youtube, a meno di numeri esorbitanti o prestazioni di squadra più che sbalorditive. Nonostante tutti gli svantaggi possibili e immaginabili Ware attira le attenzioni di molte squadre di Division I, in particolare dopo gli ottimi scouting report di ESPN e di Rivals, che gli attribuiscono alternativamente quattro o cinque stelle. Lo cerca la Tennessee di Bruce Pearl, un omaccione robusto, al quale da anni viene attribuita la fama di grande “sviluppatore” di talenti. I suoi Volunteers giocano un basket divertente, esplosivo e a ritmi altissimi: dal 2005 al suo cospetto sono esplosi sul palcoscenico nazionale giocatori come Scotty Hopson, Wayne Chism e Tyler Smith (il quale meriterebbe una storia a parte): potrebbe realmente essere il posto giusto per Kevin, che infatti firma la lettera di intenti che lo legherebbe ai bianco arancio. Il giovane Ware però non può sapere che ultimamente Pearl e i vertici dell’Università sono in rotta, e così alla fine della stagione 2010-11 il corpulento allenatore dal carattere esplosivo quanto il gioco della sua squadra in campo viene allontanato. Immediatamente Ware si disimpegna dalla lettera firmata con i Volunteers: torna ad essere l’oggetto di diverse squadre, ma dopo aver considerato diversi atenei decide di legarsi ad un altro allenatore dal grande carisma e sceglie i Louisville Cardinals, i quali peraltro potrebbero garantirgli anche più soddisfazioni sul piano dei risultati. Mentre Kevin Ware è impegnato con tutte le sue forze a farsi notare dagli scout di Division I per una borsa di studio, in un altro angolo della Georgia, precisamente a Marietta, Ryan Harrow è il segreto peggio tenuto del basket liceale americano. ESPN gli assegna senza esitare le cinque stelle d’ordinanza, Rivals fa lo stesso, gli allenatori della George Walton Comprehensive High School sono sommersi dalle telefonate e dalle lettere dei coach collegiali di
tutta la Nazione e la piccola palestra della scuola ribolle come la Bombonera al Super Clasico ogni volta che il loro playmaker ha la palla in mano. Ogni secondo potrebbe essere buono per ammirare qualcosa che in quella scuola non si è mai visto, e gli spettatori di tutta la Georgia pensano di aver appena visto il talento più entusiasmante dai tempi di Josh Smith. Harrow è il prototipo del talento da reclutare negli anni 2000: i suoi video di highlights infiammano il web, con la palla in mano è in grado di fare letteralmente qualunque cosa e gli appassionati di basket lo adorano. Ryan Harrow, a diciotto anni, tiene il mondo sul palmo di una mano: innamorarsi di lui è facile, ma il problema è essere corrisposti. In tanti provano ad avanzare un’offerta, ma il pretendente scelto sarà soltanto uno e risponde al nome di Mark Gottfried. Capelli ordinati, assomiglia al tizio che pensi ti debba sempre vendere qualcosa, e sai che alla fine ci riuscirà: con quella faccia avrebbe potuto tranquillamente essere a Hollywood, e l’abbronzatura perenne non fa altro che accentuare questo concetto, invece di professione siede sulla panchina di North Carolina State University, dove ha imposto un sistema di gioco molto rigido e rigoroso, basato sull’attacco a metà campo e su principi difensivi solidi. In una sola classe di reclutamento hanno scelto di giocare per lui il nostro protagonista Harrow, CJ Leslie (definito da Ballislife “la più eccitante ala nella storia dei licei del North Carolina”) e il playmaker Lorenzo Brown, altro grande oggetto del desiderio dei coach di college americani. Ryan sente di aver fatto la scelta giusta, ma finirà per giocare come vuole soltanto nella partita che conta meno in tutta la stagione, quella in famiglia che apre la stagione di tutte le squadre di Division I. A Louisville, nel Kentucky, Kevin Ware era un perfetto sconosciuto. L’ennesimo freshman venuto da lontano, che aveva lasciato una piccola cittadina per trovare fortuna sportiva alla corte di un santone della pallacanestro di chiare origini
italiane. La sua era una storia come se ne vedevano ogni anno all’interno del campus. In palestra le urla di coach Pitino si facevano più forti con l’avvicinarsi dell’inizio della stagione. Prima del primo giorno di training camp anche Kevin era stato convocato nell’ufficio del capo allenatore, come aveva fatto ogni freshman sin da quando allenava a Providence. Tre parole: “Poor, Hungry, Driven”, che insieme formavano la sigla PHD, che nella terminologia anglosassone sta anche a significare il Dottorato di Ricerca che si ottiene come primo step della carriera accademica di un qualsiasi professore. Anche Ware, come gli altri, doveva comportarsi seguendo quei tre pilastri di vita: umile, affamato e portato a conseguire l’obiettivo, in campo come nella vita di tutti i giorni. Ware non era un talento problematico, ma questa “filosofia” aveva permesso a ragazzi come Terrence Williams, Edgar Sosa e Peyton Siva di trasformarsi da “grandi talenti che non ce la faranno mai a causa del loro carattere” a “leader assoluti dei Louisville Cardinals”, e non è
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un caso se tutti e tre questi ragazzi hanno toccato il loro prime tecnico proprio negli anni in Kentucky. Seguendo quelle tre semplici parole e imprimendosi in testa quella sigla, anche Kevin avrebbe potuto finalmente emergere dall’anonimato. Poco più di 16 minuti a partita possono sembrare pochi, ma per i Louisville Cardinals del 2012-13 il minutaggio e la produzione di Kevin Ware era inestimabile. In poco tempo era riuscito a diventare una preziosissima arma tattica, in grado di fornire un apporto significativo sui due lati del campo, in particolare in quello difensivo, e allo stesso tempo pur essendo un ragazzo del primo anno si era già affermato come uno dei migliori compagni di squadra: un ragazzo molto più maturo della sua età, completamente concentrato sulla pallacanestro. Tutta la stagione vede i Cardinals mietere un successo dopo l’altro, vincere il titolo della Big East in una intensa finale contro Connecticut e arrivare in carrozza alle Elite Eight del Torneo NCAA, dove ad attenderli ci sono i Blue Devils di coach K, squadra molto più abituata a quel tipo di palcoscenici. Personalmente ricordo alla perfezione dov’ero e cosa stavo facendo quel giorno: è uno dei momenti sportivi che non dimenticherò mai. Nonostante la stanchezza indossavo la mia maglia di Louisville e, dopo anni di soddisfazioni frustrate ancora prima di concretizzarsi, un accesso alle Final Four si delineava ormai in modo chiaro. O almeno la sensazione era quella. Poi, all’improvviso, si fa tutto buio. Kevin Ware si trova a bordo campo. Piange. Si copre il volto, mentre al suo fianco Luke Hancock, uno dei senatori della squadra, gli dice che andrà tutto bene, che i suoi compagni vinceranno quella partita e poi il titolo NCAA per lui. La gamba di Ware si è letteralmente spezzata in due. Louisville vince la partita, va alla Final Four e ha la meglio anche su Michigan, laureandosi campione nazionale. Kevin Ware, con indosso la sua maglia bianca numero 5, taglia l’ultima retina dell’anno. Mentre pensa che la stagione seguente
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nulla riuscirà a fermarlo, sorride. Ho sempre pensato che a Raleigh, North Carolina, facesse molto freddo. Essendo una città del Sud degli Stati Uniti, invece, durante l’anno è molto difficile vedere una nevicata, e il clima è piuttosto afoso. Il caldo umido ti si appiccica alla pelle, e non è così raro andare a mangiare un gelato anche a Febbraio. Nonostante il clima, non dissimile da quello della sua Georgia, Ryan Harrow faticava a sentirsi a casa. Il primo anno di college si era già dimostrato piuttosto duro, anche se dopo il primo scrimmage in famiglia nel quale aveva lanciato alley hoop a CJ Leslie un’azione sì e l’altra pure, aveva fermamente creduto che avrebbe continuato a dominare come aveva fatto fino a qualche mese prima a Walton High School. I dettami di Gottfried prevedevano però trattamento chirurgico della palla, coinvolgimento di tutti i giocatori in campo, circolazione fluida e, soprattutto, meno iniziative personali possibili. I Wolf Pack di quell’anno erano, dopo anni di vacche magre, una squadra che avrebbe dovuto competere da subito per il titolo della ACC, senza paura di sfidare le rivali statali Duke e North Carolina: non potevano permettersi di dipendere in alcun modo da un unico giocatore, ma neanche da una coppia (leggasi Harrow-Leslie). Ryan, che era sempre stato abituato ad essere il protagonista assoluto dell’azione da quando era alle elementari, si trovava in un contesto mentale completamente diverso: da centro vitale ad anonimo ingranaggio di un macchinario idealmente perfetto. Non c’è stato nulla di perfetto nella prima stagione da giocatore di Division I di Ryan Harrow, anche se guardando i numeri scopriamo che ha prodotto 9.3 punti, 1.9 rimbalzi e 3.3 assist a gara (a fronte di 1.8 palle perse), tirando però con il 43.8 percento da due e appena con il 22.2 da tre punti. Nella sua annata ci sono anche 15 punti (12 in un tempo) contro Kyrie Irving. Il suo anno da freshman si chiude nella maniera
peggiore: fuori al primo turno del Torneo ACC contro Maryland, battuti 67-75 in una competizione che li avrebbe dovuti vedere competere almeno per un posto in semifinale, e il computo finale recita un più che deludente 15-16. Le possibilità per coach Gottfried sono due: adattarsi alle caratteristiche tecniche dei suoi giocatori più rappresentativi, accontentandoli attraverso un sistema differente, oppure continuare dritto per la sua strada. L’opzione perseguita è la seconda, e constatando così un’evidente incompatibilità di vedute tecniche Ryan Harrow decide di abbandonare la nave di NC State per approdare sull’isola chiamata Kentucky, governata da un altro tecnico di chiare origini italiane che, guarda caso, ha fama di rendere grandi giocatori i playmaker di talento: John Calipari. Nulla poteva fermare Kevin Ware. Eccetto se stesso. Non si torna da un infortunio come quello subito soltanto pochi mesi prima senza riportare qualche scoria. È il 7 novembre, la stagione è iniziata da poco e Louisville gioca quella che è poco più di un’amichevole contro la piccola Pikeville. A poco più di sei minuti dall’inizio del secondo tempo il numero 5 dei Cardinals si alza dalla panchina e sembra essersi appena risvegliato da un sonno profondo: è fresco, è pronto, è un uomo nuovo. Il pubblico si alza in piedi, lo accoglie con sorpresa ed emozione, così come fanno anche i telecronisti di ESPN, spiazzati da quella mossa che, stando alle indicazioni della vigilia, non doveva avvenire. Ware prende parte ad altre otto partite in quella stagione, ma qualcosa non va. Avrebbe dovuto stare a riposo ancora per qualche altra settimana. Forse per qualche altro mese, perché lo stesso Pitino lo dichiara non pronto a giocare come ci si aspetterebbe da lui, e riporta lo stesso parere anche da parte dei fisioterapisti della squadra. Nella stagione 201314 Ware gioca un totale di 53 minuti segnando 15 punti, ma di fatto non vede il campo da fine dicembre in poi. Lo staff
tecnico gli fa pressione per star fuori, e Kevin non può sopportarlo. Non ora che è finalmente tornato. La decisione però è forzata, e a malincuore la guardia decide consensualmente di non partecipare più alle attività della squadra. Ware si chiude in sé stesso, passa il tempo da solo, in una camera del campus di Louisville che per uno studente senza borsa di studio costerebbe migliaia di dollari l’anno. La situazione mentale nella quale si ritrova non è delle migliori: quando vorresti fare ciò che ti rende felice e sei costretto a non poterlo fare anche rimanere fedele alla filosofia del PHD diventa più dura del previsto. Tutto quello che ci vuole è un po’ di serenità: un luogo in cui non essere sotto i riflettori e poter vivere come un ragazzo normale al quale piace giocare a basket. Bisognerebbe tornare a casa. Prima della stagione 2012-13 si diffonde su internet un video che vede Ryan Harrow dominare in qualsiasi zona del campo. Non sono partite ufficiali: Harrow è a torso nudo e si prende letteralmente gioco degli avversari. Si gioca in palestra, ma è come se si fosse al campetto per il livello dell’intensità e per la facilità con la quale riescono alcune giocate. L’ormai ex playmaker di NC State effettua un crossover dopo l’altro, salta, va in penetrazione, segna da distanze siderali, ma soprattutto sorride. Si diverte genuinamente come non faceva da tempo. Non è più prigioniero di complicati giochi offensivi, non deve controllare il ritmo e può dare libero sfogo alla propria creatività. Nel frattempo ha già visitato il campus di Kentucky, dove coach Calipari gli ha apertamente detto: “I don’t need you, but I want you”. Queste parole rimangono nella mente del giovane playmaker, che sa benissimo che soltanto perché quell’uomo si chiama John Calipari e allena l’Università di Kentucky potrebbe avere qualunque giocatore in America, e nonostante questo ha scelto proprio lui, contravvenendo anche all’abitudine di non prendere dei transfer da altre scuole. Calipari sottolinea la necessità
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per Ryan, in quanto playmaker e leader della squadra, di parlare, farsi sentire (ma soprattutto ascoltare) dai compagni, guidarli in ogni fase del gioco. Ed è proprio questa la cosa che sembra fare più fatica ad eseguire. Il problema non è tecnico: è di personalità, ma nel basket moderno per essere un playmaker di successo bisogna necessariamente parlare molto. In una squadra piena di talento, con una classe di reclutamento tra le prime nel Paese che comprende giocatori come Nerlens Noel, Archie Goodwin, Alex Poythress e Willie CauleyStein, ancora una volta Harrow si trova ad essere soltanto una pedina in mezzo a una scacchiera piena di alfieri, anche se in un sistema che incoraggia totalmente la creatività e il talento puro dei singoli. A differenza di Gottfried, se qualcuno in allenamento lancia un alley hoop Calipari grida “Great job!”, è entusiasta e vorrebbe davvero che Ryan esplodesse in tutto il suo potenziale, eppure tutto ciò non si realizza. Tira meglio da tre (poco più del 29 percento, ancora insufficiente) e segna leggermente di più (9.9 a partita), ma gli altri numeri sono in sostanziale linea con l’anno di NC State, e ancora una volta la squadra attraversa un’annata disastrosa. Per la prima volta dopo molti anni Kentucky non arriva al Torneo NCAA, e addirittura perde al primo turno del Torneo NIT (57-59 contro Robert Morris), concludendo una delle peggiori stagioni della propria storia. Eppure la seconda stagione di college basketball di Ryan Harrow, la sua prima in maglia Wildcats, non avrebbe neanche dovuto cominciare. In estate, proprio quando si diffondeva quel video dei suoi probabili progressi, il 19enne aveva saputo dell’infarto di suo padre. Era stato l’ultimo della famiglia ad esserne informato poiché la madre non voleva scuoterlo troppo nel bel mezzo degli allenamenti con la sua nuova squadra, ma appena informato dell’accaduto era volato a casa, in Georgia, dove era stato vicino alla famiglia e aveva deciso: “Non voglio tornare a Kentucky”. Dopo pochi giorni di degenza il padre si era
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ripreso, ma nonostante si fosse salvato era tornato come una persona non più autosufficiente. Ryan aveva preso un impegno, e a malincuore era tornato, ma aveva giocato per una stagione intera con la testa da un’altra parte, col pensiero che ogni giorno potesse succedere qualcosa di brutto. Anche per Ryan Harrow era giunto il momento di tornare a casa. Per restare. Kevin Ware e Ryan Harrow nel 2015 sono il playmaker e la guardia titolare dei Georgia State Panthers, che da due anni vanno ad una partita dal centrare una storica qualificazione al Torneo NCAA. La finale della Sun Belt Conference l’anno scorso sorrise a Louisiana Lafayette, che riuscì ad avere la meglio su GSU per 8281 dopo un overtime, in una partita che Harrow chiuse con 37 punti, 7 rimbalzi e 2 assist: la sua miglior prestazione in carriera. Ancora una volta non era bastata e anche in quell’occasione lo straordinario talento offensivo di questo ragazzo, nel frattempo diventato uomo, aveva sovrastato la collettività del gruppo. L’annata 13-14 di Georgia State li ha visti chiudere la stagione regolare con 10 vittorie e 8 sconfitte, in un più che rispettabile limbo visto lo stato di ricostruzione totale del programma cestistico rilevato da Ron Hunter (quest’anno alla terza stagione sulla panchina dei Panthers), che per la prima volta dopo tre anni ha reso Ryan Harrow il capo della squadra. Non era pronto per esserlo a Kentucky. Non nella sua condizione psicologica. Dopo un anno di vicinanza alla famiglia è cresciuto ed è riuscito a prendersi con successo la squadra sulle spalle. Un gruppo coeso e in rampa di lancio era pronto ad accogliere anche Kevin Ware, e soprattutto a farlo sentire nuovamente apprezzato come si era sentito al liceo e al primo anno a Louisville.
che ho seguito in prima persona per vari motivi di affezione personale. A casa ti senti coccolato, hai le tue comodità, i tuoi amici, la tua stabilità. Atlanta è una grande città, a tutti gli effetti una metropoli, ma può essere vista anche come il microcosmo nel quale due ragazzi hanno finalmente trovato il loro posto nel mondo. Sarebbe bello vederli un giorno competere in NBA con la maglia degli Hawks, così questa storia si chiuderebbe con un lieto fine nel quale il talento viene riconosciuto ed emerge senza alcun problema. Per motivazioni tecniche e fisiche temo che non vedremo mai né Ware né tantomeno Harrow su un palcoscenico prestigioso come un’arena NBA, ma sarebbe molto bello tifare per loro in un palazzetto vicino a casa nostra. Entrambi diventeranno giocatori di basket professionisti perché la pallacanestro è stata tutta la loro vita, e a questo punto mi sentirei di dire che è stata anche la loro unica costante in un universo di problemi di diversa natura. Prima palla a due del Torneo NCAA 2015: Ryan Harrow palleggia e passa in angolo a Kevin Ware. Non è Kentucky o Louisville, forse è solo un sogno o forse è l’ennesima, reale, follia di marzo.
Tornare a casa è un bisogno primario dell’uomo, o almeno sono giunto a questa conclusione osservando da vicino le storie di questi due ragazzi,
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Scritto da Gabriele Galluccio
UNLIKELY HEROES Diventare immortali per un singolo momento: gli eroi improbabili sono l’essenza della March Madness
Nel marzo del 2013, per almeno un’ora il mondo della pallacanestro non ha fatto altro che parlare di Spike Albrecht. L’allora freshman di Michigan mise in piedi uno degli show individuali più impronosticabili e incredibili nella storia del Torneo NCAA, emergendo praticamente dal nulla e realizzando 17 punti nel primo tempo della finale per il titolo nazionale. In particolare, spedì il pallone sul fondo della retina per quattro volte da oltre l’arco nel giro di 10 minuti, e l’ultima tripla la segnò dopo essersi permesso il lusso di mandare a vuoto Russ Smith con un crossover. In quel preciso momento, Albrecht era il principale argomento mondiale su Twitter, nonostante a condividere il campo con lui ci fossero All-American e
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future prime scelte del Draft. Le celebrità e le stelle della NBA avevano occhi solo per lui, era l’eroe, il ragazzo sconosciuto che stava salvando i Wolverines mentre Trey Burke era mestamente bloccato in panchina con due falli a carico. Quella magica notte di Albrecht fu però rovinata da Louisville e soprattutto da Luke Hancock, il quale firmò quattro triple nel giro di due minuti, cancellando i 12 punti di vantaggio di Michigan e ribaltando completamente l’inerzia della partita. Quindi i Cardinals conquistarono il tanto agognato titolo, ma Spike divenne per qualche settimana l’idolo dell’America sportiva, da sempre una grande amante delle storie come la sua. Pochi giorni prima, anche la stessa
Louisville aveva avuto bisogno di un eroe. Sotto di 12 con soli 13 minuti da giocare nelle Final Four, coach Pitino pescò un aiuto insperato dalla panchina. Prima di quella partita, Tim Henderson aveva segnato la miseria di tre punti negli ultimi due mesi, tra l’altro inutili, dato che arrivati nel garbage time contro Duke. Da gennaio era rimasto a secco di canestri, eppure in 42 secondi si guadagnò le luci della ribalta e cambiò la storia dei Cardinals, che senza le sue due triple dall’angolo in rapida successione forse non sarebbero riusciti a centrare una delle rimonte più difficili mai viste in una semifinale nazionale. Quei suoi 6 punti, infatti, furono fondamentali per ridare entusiasmo alla squadra, oltre che per riavvicinarla a Wichita State, la quale alla fine si arrese con il punteggio di 72-68, permettendo che la favola di Henderson, per quanto breve, terminasse con il più lieto dei finali.
appariscente o determinante, ma è ricordato da chiunque per un singolo momento, per un tiro specifico. Più di 300 squadre e 4000 giocatori iniziano ogni stagione con la speranza di partecipare alla competizione nazionale più seguita e prestigiosa del panorama cestistico collegiale. Solo in 68 ci arrivano, dopodiché la palla viene lanciata in aria, si inizia a giocare e a volte qualcosa che nessuno avrebbe mai osato prevedere avviene, permettendo di alimentare il mito degli eroi improbabili. E proprio a questa categoria appartiene Farokhmanesh. Il suo momento è arrivato nel terzo round, quando la sua Northern Iowa stava guidando per 63-62 il match contro Kansas, testa di serie #1. A 38 secondi dal termine, il prodotto dei Panthers ha ricevuto dietro l’arco e, dopo aver pensato un attimo e compreso che quel tiro doveva per forza prenderselo in quanto smarcato, ha lasciato partire la tripla che si è adagiata nella retina, mettendo al sicuro una vittoria storica per la sua università e sopratutto concretizzando uno dei più memorabili upset dell’ultimo decennio.
con la massima competizione collegiale. Sono gli “unlikely heroes” che in una singola notte possono passare dall’anonimato alla celebrità, facendo qualcosa di speciale che resta impressa per sempre nella memoria degli appassionati di pallacanestro. In definitiva, sono l’anima della March Madness, e la verità è che tutti noi seguiamo con così tanta passione questo evento perché è l’unico che è in grado di regalare storie come le loro.
Quelli di Albrecht, Henderson e Farokhmanesh sono solo i casi più eclatanti delle ultime edizioni del Torneo NCAA. Rappresentano una categoria di giocatori che ogni anno, in modo apparentemente casuale, rendono magnifico e imperdibile l’appuntamento
La carriera nel college basketball di Ali Farokhmanesh è terminata il 26 marzo 2010, ma ancora oggi chiunque ha seguito il Torneo NCAA di quell’anno si ricorda il suo nome. Non a caso, dovunque è poi andato a giocare nella sua avventura da professionista è sempre stato riconosciuto come “il ragazzo che ha segnato quel tiro”. Farokhmanesh non ha frequentato un’università importante né è mai stato un giocatore particolarmente
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Scritto da Filippo Antonelli
8 GIOCATORI DA UPSET
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LAWRENCE ALEXANDER
TYLER HARVEY
TYLER KALINOSKI
GUARDIA, SENIOR, NORTH DAKOTA
GUARDIA, JUNIOR, EASTERN WASHINGTON
GUARDIA, SENIOR, DAVIDSON
18.9 punti, 4.6 rimbalzi, 1.8 assist, 42.8% dal campo, 44.1% da tre, 81% ai liberi
22.9 punti, 3.7 rimbalzi, 2.6 assist, 47% dal campo, 42.8% da tre, 85% ai liberi
17 punti, 5.6 rimbalzi, 4.1 assist, 47.1% dal campo, 43.1% da tre, 78.7% ai liberi
Per North Dakota State, la numero 15 del South Regional, si prospetta subito un match proibitivo contro i fortissimi Gonzaga Bulldogs. Vale comunque la pena di seguire le gesta di Lawrence Alexander in quella che potrebbe essere la sua ultima partita in NCAA. L’esterno dei Bison è letteralmente esploso nella sua stagione da senior, guadagnandosi il premio di miglior giocatore della Summit League e trascinando North Dakota State al Torneo NCAA. Nella finale del torneo di conference, Alexander ha segnato sei canestri dall’arco e i Bison hanno vinto per 57-56. Da tre punti, infatti, è un autentico cecchino e quest’anno in ben otto occasioni ha segnato 5 o più canestri pesanti. Volete saperne di più? Bene, se non ve lo ricordate Alexander fu protagonista con 28 punti dell’eliminazione di Oklahoma al secondo turno dello scorso Torneo, segnando tra l’altro la tripla per l’overtime a fine secondo tempo. Se Gonzaga dovesse sbagliare qualcosa, Alexander si farà trovare pronto.
Ad inizio anno vi avevamo avvisati di tenere d’occhio Harvey e la guardia di Eastern Washington non ci ha deluso. Anzi, Harvey è stato il miglior marcatore della nazione davanti a Zikiteran Woodley di Northwestern State. Realizzatore completo, ha anche affinato ulteriormente il suo tiro dalla lunga distanza, pur non avendo una tecnica di tiro molto ortodossa. In stagione ha sfidato due squadre del ranking, SMU e Washington, e in entrambi i casi ha superato quota 20 punti segnati. Oltretutto, l’accoppiamento del secondo turno con Georgetown potrebbe essere favorevole per gli Eagles, che tirano molto bene da fuori e hanno uno dei migliori attacchi dell’NCAA. La miglior prestazione di Harvey è arrivata nella prima partita dei Playoff della Big Sky: 42 punti contro Idaho, con 13/20 dal campo e 8/12 da tre. Gli Eagles dovranno sperare in una serata di grazia della loro stella per avere ragione degli Hoyas.
Come Alexander di North Dakota State, anche Kalinoski è arrivato alla definitiva esplosione nella sua stagione da senior. L’ultimo anno della guardia di Davidson è stato all’insegna della costanza, con prestazioni sempre convincenti e dieci partite con più di 20 punti segnati. Il nativo del Kansas si è tolto lo sfizio di realizzare anche un nuovo careerhigh: contro Duquesne ha segnato 32 punti in aggiunta a 9 assist, con un assurdo 12/14 al tiro e 8/10 dall’arco. La corsa dei Wildcats nel torneo della Atlantic-10 si è interrotta in semifinale contro VCU, dopo che Kalinoski aveva segnato il canestro vincente per eliminare La Salle nel turno inaugurale. C’è abbastanza materiale perché Davidson possa sognare di passare il secondo turno per la prima volta da quando Steph Curry ha lasciato l’ateneo. E Iowa, la testa di serie numero 7 del South Regional, potrebbe essere un’avversaria abbordabile per i Wildcats.
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R.J. HUNTER
JACOB PARKER
WESLEY SAUNDERS
JUSTIN MOSS
ALA, SENIOR, S.F. AUSTIN
GUARDIA/ALA, SENIOR, HARVARD
ALA, JUNIOR, BUFFALO
19.8 punti, 4.8 rimbalzi, 3.6 assist, 39.4% dal campo, 30.4% da tre, 87.3% ai liberi
16.5 punti, 3.4 rimbalzi, 2 assist, 46.1% dal campo, 34.9% da tre, 78.6% ai liberi
14.1 punti, 5.5 rimbalzi, 1.7 assist, 52.6% dal campo, 47% da tre, 83.7% ai liberi
16.3 punti, 6.1 rimbalzi, 4.2 assist, 44.8% dal campo, 41.4% da tre, 76.7% ai liberi
17.7 punti, 9.3 rimbalzi, 0.6 assist, 0.8 stoppate, 52.1% dal campo, 73.5% ai liberi
Un grande realizzatore come Tyler Haws ha dovuto affrontare, senza successo, lo scoglio del turno preliminare. R.J. Hunter, invece, è già dentro il tabellone delle 64. Certo, la testa di serie numero 14 nel West Regional pone Georgia State tra le grinfie della temibilissima Baylor. I Panthers non hanno grandi chance di passaggio del turno, vero, ma con Hunter tutto è possibile. Tiratore di primo livello, l’esterno di Georgia State ha un’ottima struttura fisica ed è un prospetto NBA. Le sue cifre sono state in costante crescita nel corso della sua carriera NCAA, ad eccezione della percentuale dalla lunga distanza che è crollata rispetto al 39.5% della scorsa stagione. Poco male: nella semifinale della Sun Belt, Hunter ha segnato 32 punti con tre canestri dall’arco per eliminare i Ragin’ Cajuns campioni in carica. Saremmo pazzi a consigliarvi di giocare il passaggio del turno di Georgia State nel vostro bracket, ma comunque tenete d’occhio la loro stella.
Abbiamo già parlato di Lawrence Alexander e Jacob Parker, che nel Torneo 2014 forzarono un upset con un canestro decisivo. Manca qualcuno? Sì, Jordan Sibert. La guardia di Dayton, per la verità, ha esordito in NCAA con la maglia di Ohio State. Poi, ha optato per il trasferimento. I Flyers hanno eliminato proprio i Buckeyes al secondo turno dello scorso Torneo, con un canestro decisivo di Vee Sanford, e si sono trovati davanti Syracuse nella sfida successiva. Con 50” da giocare, Sibert ha segnato la tripla che ha chiuso l’incontro. Il cammino di Dayton non si è fermato lì: i Flyers hanno eliminato anche Stanford e si sono arresi solo a Florida nelle Elite Eight. Quest’anno Sibert si è guadagnato definitivamente i gradi di leader della squadra e punta a ripetere l’impresa di un anno fa. Nel turno preliminare ha già fatto intravedere qualcosina: Dayton ha dovuto rimontare 8 punti di svantaggio e ha sorpassato Boise State con una tripla decisiva proprio di Sibert a 37” dalla fine. Ora i Flyers affronteranno Providence.
L’anno scorso, Stephen F. Austin sorprese tutti arrivando al Torneo con un record di 31-3 in stagione. Non solo: i Lumberjacks sfruttarono un canestro decisivo di Parker a 1’ dalla fine dell’overtime per eliminare VCU in uno dei più incredibili upset dell’edizione 2014. La squadra di coach Underwood ha disputato un’altra stagione di alto livello (29-4) e sogna di ripetersi nel secondo turno di questo Torneo, quando affronterà Utah. I destini dei Lumberjacks passano dal gioco organizzato, dai ritmi controllati, dal tiro da tre e, soprattutto, dall’efficacia di Jacob Parker. L’ala di Stephen F. Austin ha percentuali clamorose al tiro e alterna con sapienza le situazioni in cui gioca sul perimetro a quelle in cui si mette alla prova spalle a canestro. È raro trovare un giocatore che abbini così bene l’intelligenza alla tecnica, per cui gli Utes dovranno fare molta attenzione.
Quando si parla di upset, il nome di Harvard è il primo che viene in mente. Due anni fa eliminarono New Mexico, l’anno scorso Cincinnati. Wesley Saunders era in campo in entrambe le occasioni e, anzi, tentò di portare i Crimson al colpaccio anche nel terzo turno contro Michigan State, segnando 22 punti. Stella assoluta di Harvard quest’anno, la sua importanza è aumentata anche in relazione al fatto che la crescita di Siyani Chambers sta procedendo a rilento. In stagione ha fatto registrare un nuovo career-high, collezionando 33 punti e 10 rimbalzi nel match contro i Brown Bears. Saunders è un ottimo atleta e un giocatore di grande impatto, con attitudini difensive di notevole importanza per i Crimson. Non solo punti e palle recuperate, comunque: in attacco la visione di gioco dell’esterno di Harvard permette a coach Amaker di avere un playmaker aggiunto in determinate situazioni di gioco. North Carolina ha i favori del pronostico, ma sicuramente avrà timore di un avversario così insidioso.
I Buffalo Bulls sono la testa di serie numero 12 del Midwest Regional. Al secondo turno affronteranno West Virginia e, se state cercando un potenziale upset per il vostro bracket, questa sfida potrebbe fare al caso vostro. La stella della squadra campione nella Mid-American è Justin Moss, un’ala atletica che ha per la verità sofferto nei due scontri di cartello che ha affrontato in stagione: 3/13 al tiro contro Kentucky e 6/15 contro Wisconsin. Moss ha vinto con ampio margine il premio di giocatore dell’anno della sua conference e potrebbe approfittare della vetrina del Torneo per riportare in scena prestazioni come quella contro Miami (OH), quando mise assieme 31 punti e 15 rimbalzi. E pensare che Moss rischiava di non giocare a basket a causa di un problema al cuore che, per fortuna, non gli ha precluso una carriera collegiale di tutto rispetto.
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MY-BRACKET
GUARDIA, SENIOR, DAYTON
Compila il tabellone del Torneo NCAA
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JORDAN SIBERT
GUARDIA, JUNIOR, GEORGIA STATE
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Scritto da Giuseppe Matarazzo
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COME CAMBIA IL GARDEN TRA NCAA E NBA
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Perdersi a New York è praticamente impossibile. Il sistema di strade, con le avenues che vanno da nord a sud e le street da est ad ovest, rendono tanto la vita del turista quanto quella del newyorkese estremamente agevole. Nell’infinita rete urbana di Manhattan, Penn Station rappresenta un punto nevralgico per il traffico di centinaia di migliaia di pendolari della rete metropolitana. Uscito dalla stazione però l’appassionato di pallacanestro medio si ritrova costretto a combattere contro un enorme momento di spaesamento e meraviglia: tra la trentunesima e la trentatreesima strada, settima e ottava avenue, la sagoma del Madison Square Garden si apre su tutta Penn Plaza, circondata dagli uffici di Midtown, con l’Empire State a guardarla dall’alto. Il Garden ha un aspetto dignitosamente retrò, reso ancora più affascinante dal peso della storia che si porta sulle spalle, ma solo visto dall’esterno. Nel 2012 infatti i lavori di ammodernamento, costati poco più di un miliardo di dollari, hanno trasformato the world most famous arena in un gioiello in grado di tenere testa alle più moderne strutture concorrenti, come il vicino Barklays Center di Brooklyn o l’O2 Arena. Dal 1968 - anno dell’apertura di questo Garden, il primo era 10 isolati più giù, sulla ventitreesima - è stato ospite di alcuni dei più importanti eventi del secolo scorso in un mix di epicità, kitch e patriottismo che rendono la struttura stessa un’icona pop, più pop delle star che ospita. Marzo è l’occasione giusta per ammirare il Madison al suo meglio, impegnato tra le Big East Finals e la regular season dei derelitti New York Knicks. A due giorni di distanza l’arena ha ospitato le finali della Big East (Villanova - Xavier, dominata dai Wildcats) ed il match tra i padroni di casa orfani di Carmelo ed i campioni uscenti, privi di Ginobili. Vederle entrambe dal vivo in 48 ore è un’enorme lezione su quello che è il concetto stesso di sport professionistico in America. La parola chiave, manco
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a dirlo, è professionismo. Sì, anche nell’NCAA, dove i ragazzi si avvicinano al mondo dei grandi. Professionismo è nell’organizzazione, nella maniera di intendere la competizione e nel modo di viverla. Ovviamente NCAA e NBA sono su due piani diversi, a causa di una serie infinita di fattori. Il filo rosso che le accomuna segue però due strade, passione ed entertaining. La parola intrattenimento che tanto spaventa i puristi del gioco in Europa, terrorizzati dall’idea che una sana organizzazione e gestione dell’evento possa trasformare la competizione in un circo. E non c’è nulla di più sbagliato, una paura a-priori che mai come nel 2015 risulta ingiusta ed ingiustificata. Ma partiamo dall’NCAA. La sfida tra Villanova e Xavier ha visto i ragazzi di coach Wright imporsi sin dai primi minuti, legittimando così il loro seed n.1 al torneo. L’ambiente è variopinto: a farla da padrone sono ovviamente i tifosi dei due atenei. Pochi ma compatti quelli di Xavier, rumorosissimi e convinti di poter arrivare in fondo - non solo nella Big East - quelli di Villanova. Il Garden si traveste da Inkle Fieldhouse ed il camuffamento riesce bene: le bande delle due università si posizionano sotto un canestro a testa, lanciandosi sfide a colpi di cover musicali dei pezzi più in voga del momento. Prendono il proscenio, una volta a testa, anche le cheerleader. La partita in sé non c’è mai stata: troppo superiori Hart (MVP uscendo dalla panchina, caso unico nelle Big East) e compagni, troppo poco precisi i tiratori di Xavier per mettere in difficoltà la difesa di Nova. Le due ore scorrono in maniera piacevole, tra buon basket - grazie coach Wright - e piacevoli intermezzi fino ad arrivare al classico momento della premiazione: interviste di rito, dichiarazioni, retina presa e tutti a casa. Una partita di NBA è un’altra cosa: è tutto semplicemente di più. Per darvi un’idea, vi racconto dell’ingresso di chi scrive. 20 minuti dal fischio d’inizio, mi ritrovo Walt Frazier con basette d’ordinanza che si prepara per il commento tecnico,
di fronte ci sono Derek Fisher e Carmelo Antony - in borghese con un vestito sponsorizzato da Bergdorf Goodnam ed un orologio che da solo basta a risolvere i problemi della Grecia - mentre un po’ più in là Popovich e Messina catechizzano un concentratissimo Thiago Splitter sotto gli sguardi di papà Tim Duncan. Il tutto mentre nelle prime file prendono posto alcuni degli attori più cool del momento, insieme ai New York Rangers, che qui sono di casa, ed alla nuova stella del calcio locale David Villa, capitano e goleador del New York City. Non male. Fortuna ha voluto che ci sia stata anche una partita: vittoria Knicks dopo un overtime. Anche qui i detrattori della pallacanestro oltreoceano resterebbero delusi: Shved, scuola Cska, sta pian piano entrando nel sistema e alcuni attacchi della famosa Triple Post Offense riescono al meglio, complici anche degli Spurs a corrente alterna. Quando l’area nero-argento si chiude è però sempre uno spettacolo per gli occhi. Vale il prezzo del biglietto la rimessa del 96 pari siglato da Belinelli in uscita dal timeout, meraviglia semplice ed efficace che da sola basta a spiegare come e quanto i ragazzi seguano i dogmi del coach. L’Arena è - come sempre - praticamente sold out in ogni ordine di posto. I biglietti vanno via a prezzi impressionanti, 5000 dollari per le prime file, poco più di 100 per le piccionaie. Un buon posto ha una media di 250 dollari. Questo genera un enorme problema per la squadra: al Garden di tifosi dei Knicks «veri» ce ne sono pochi. I ticket creano una voragine tra chi vorrebbe andarci e non può, molti dei presenti sono turisti, appassionati dal portafoglio capiente o presenzialisti. «Non conosco neanche i nomi dei giocatori, vivo a New York da 10 anni e se c’è una bella partita vengo a tifare Knicks perché vivo qui, altrimenti... who cares?», ci dice amabilmente il nostro vicino di posto israeliano, preso il giusto dai movimenti spalle a canestro di Tim Duncan. La passione della NCAA cede il posto alle bollicine e ai diamanti della NBA. In entrambi i casi il Garden è un
meccanismo perfetto, un padrone di casa gentile ed ospitale ma allo stesso tempo severo e borghese. Funziona tutto a meraviglia, decine di bar e pub sono pronti ad accogliervi (se avete voglia di spendere 20 dollari per una Bud...), non ci sono ultras e giocatori mercenari. Solo la voglia di vedere lo sport più bello del mondo al suo massimo, tra esagerazioni, atleti inconfrontabili - se non vedete Leonard giocare i due lati del campo non potete capire quale sia la voragine che separa una stella NBA dal resto del globo - estremismi e passione. Perché al centro c’è sempre una palla a spicchi, e a noi piace così.
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Scritto da Claudio Pavesi
Quello di Federico Mussini è ormai un nome conosciuto ad ogni appassionato di basket italiano, e non solo. Il talento nato e cresciuto a Reggio Emilia si è messo in mostra al grande pubblico nel corso della Coppa Italia 2014 di Legabasket e da quel momento si è ritrovato addosso gli occhi di tutti i tifosi e gli addetti ai lavori che gli hanno affibbiato etichette importanti, come quella di “futuro del basket italiano”. L’Italia non è l’unica nazione che si è accorta di Federico Mussini, anche negli Stati Uniti infatti si fa un gran parlare di questo fantastico talento. Non a caso è dell’11 marzo la notizia della sua convocazione al Nike Hoop Summit di Portland (manifestazione che dal 1995 oppone i migliori liceali americani contro i migliori pari età dal resto del mondo), meno recenti invece sono le voci che riguardano i corteggiamenti di alcuni prestigiosi college. Il 12 marzo 2015 Federico Mussini ha compiuto diciannove anni e per l’occasione, precisamente il giorno successivo, lo abbiamo contattato per parlare dei suoi pensieri riguardo il college basketball. Ciao Federico. Per prima cosa buon
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compleanno, anche se con un giorno di ritardo. «Grazie mille!» Il diciannovesimo anno di età sta anche a significare che sei nel tuo ultimo anno di scuola superiore. Tempo fa dicesti che avresti aspettato la conclusione della scuola prima di prendere una decisione in merito a una possibile avventura americana. Sei un conoscitore del mondo NCAA o ti stai informando maggiormente in questo ultimo periodo in vista della scelta? «Diciamo che è un panorama che conosco ma ancora non benissimo, è per questo che sto aspettando a prendere una decisione. Voglio avere le idee molto chiare a riguardo. Inoltre voglio aspettare di avere il diploma di scuola superiore, anche perché quella che potrei andare a frequentare in America è un’università e credo sia importante non forzare le tappe. Ogni giorno cerco di saperne di più e di prendere più informazioni possibili sulla NCAA, non solo relativamente ai college che mi hanno cercato». A proposito, quali sono i college che più si sono interessati a te? «Mi hanno contattato St. John’s,
Davidson, Providence, Central Florida, Gonzaga e Virginia. Senza dubbio questi sono stati i più attivi. Alcune di questi sono college di altissimo profilo, da tanti anni costantemente ad alti livelli, su tutti Gonzaga e Virginia, e sono molto orgoglioso del fatto che abbiano cercato proprio me per continuare la loro tradizione vincente. Mi fa capire che sto lavorando nel modo giusto e che devo continuare su questa strada per diventare un giocatore sempre più forte e completo». So che alcuni di questi programmi ti corteggiano ormai da molto tempo e immagino che tu abbia seguito la loro stagione con particolare attenzione. C’è una squadra che ti ha colpito particolarmente a livello di gioco e di prestazioni? «Senza dubbio ho seguito con molto interesse la stagione dei college che mi hanno contattato, molto di più rispetto a
“Gonzaga mi ha colpito per il suo gioco all’europea. Della Valle mi ha detto che in NCAA potrei crescere moltissimo dal punto di vista individuale”.
quanto abbia mai fatto. Detto questo, mi ha colpito molto Gonzaga perché il suo gioco mi è sembrato diverso rispetto a quello mostrato da tutti gli altri college, molto più “all’europea”, se così possiamo definirlo. E’ una realtà interessante, non a caso molte persone mi hanno indicato proprio Gonzaga come programma NCAA più adatto per le mie caratteristiche».
sia per quanto riguarda il basket che, soprattutto, per la vita al di fuori del parquet. Me l’ha sempre descritta come un’avventura unica e bellissima, un’avventura che, potendo tornare indietro, rifarebbe sempre. Mi ha anche detto che dal punto di vista cestistico individuale potrei crescere moltissimo in NCAA, più che in ogni altro posto».
Quella dell’avventura in NCAA è una decisione molto importante e difficile. Hai chiesto qualche consiglio al tuo compagno Amedeo Della Valle? Uno che il mondo collegiale americano lo ha toccato con mano. «Certamente. Mi ha sempre detto che quella NCAA è un’ottima esperienza
E’ quest’ultimo quindi l’aspetto in cui il basket NCAA pensi possa offrirti di più rispetto a quello italiano? E’ una questione tecnica e legata al player development? «Secondo me la principale differenza sta in quello. In un college potrei migliorare di più individualmente perché la loro
impostazione è diversa dalla nostra proprio a livello di mentalità. In NCAA si fanno più allenamenti individuali e esercizi più mirati al miglioramento di alcuni aspetti del singolo giocatore. Questo avviene per forza di cose dato che una squadra NCAA è formata interamente da giocatori molto giovani. Le squadre europee invece giocano in campionati professionistici e, giustamente, gli allenamenti sono più mirati al miglioramento del gioco di squadra. Riassumendo, l’aspetto tecnico che più mi ispira della NCAA è proprio il player development». Ci sono altri aspetti del basket collegiale che lo rende ai tuoi occhi
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un mondo unico e assolutamente da sperimentare? «Nel vedere le partite da casa resto sempre affascinato dall’ambiente e dal pubblico. I palazzetti sono molto grandi e sempre pieni. Trovo bellissimo come i ragazzi siano molto affezionati alla squadra del proprio college e ogni volta riempiano gli spalti vestiti tutti con gli stessi colori creando così un colpo d’occhio stupendo, e cantando dall’inizio alla fine. Il tifo e questo tipo di cultura sono gli aspetti che più mi attirano della NCAA». Indipendentemente da cosa deciderai di fare, una tappa negli States sarà obbligata: quella per il Nike Hoop Summit previsto per l’11 aprile a Portland. Sarai circondato dagli scout. «Ce ne saranno sicuramente tantissimi perché in quell’occasione possono seguire anche gli allenamenti e farsi quindi un’idea a tutto tondo dei giocatori. Nonostante ciò cercherò di restare concentrato sulla partita e di giocare al meglio, per me infatti è un onore far parte di un evento così importante». Va detto però che le partite di questo tipo negli Stati Uniti non sono una totale novità per te, nel 2012 infatti hai partecipato al Jordan Brand Classic a Charlotte, partita in cui c’era anche Domantas Sabonis, ora proprio a Gonzaga. «Esatto. Quella del Jordan Brand Classic fu un’esperienza unica (Mussini fu il miglior realizzatore della gara con 21 punti, ndr) anche perché fu la mia prima di quel genere. Spero che il Nike Hoop Summit possa essere anche migliore. Confrontarsi con i pari età migliori al mondo è sempre un modo fantastico per mettersi alla prova, specialmente perché si parla molto bene di alcuni ragazzi presenti quest’anno già in ottica NBA. Non vedo l’ora». Quindi possiamo dire che il Nike Hoop Summit sarà una tappa importante relativamente alla tua futura scelta tra
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basket italiano e NCAA? «Certo. Credo che mi aiuterà moltissimo a prendere questa decisione». Non posso non chiudere senza chiederti se vedrai il Torneo NCAA e, se sì, chi è la tua favorita. «Certamente lo guarderò e avrò un occhio di riguardo per le squadre che si sono interessate a me nel corso dell’anno. Come favorita non posso che dire Kentucky per il semplice fatto che è imbattuta dall’inizio dell’anno. Il Torneo NCAA è imprevedibile ma se una squadra ci arriva da imbattuta non si può non identificarla come favorita».
“E’ un onore partecipare al Nike Hoop Summit. Non vedo l’ora di confrontarmi con i pari età migliori al mondo”.
INSIDE GONZAGA... Vogliamo giocare tanto in transizione e dare spesso la palla ai lunghi, siamo infatti la squadra che più dà palla dentro ai lunghi in tutta la NCAA insieme a Purdue. Questa filosofia ci sta dando ottimi risultati, Sabonis infatti è quinto (67.8%) in tutta la Division I per percentuale al tiro da due punti mentre Karnowski è diciottesimo (61.8%). Come si può vedere il nostro non è un basket complesso. Noi scegliamo giocatori dall’alto QI cestistico e facciamo un gioco di letture in cui ci fidiamo completamente dei nostri ragazzi. Offensivamente siamo davvero difficili da fermare. Hai parlato di giocatori dall’alto QI cestistico. Vedendo il recruiting di Gonzaga, capita
Riccardo Fois guida il nostro Claudio Pavesi alla scoperta di una delle squadre più dominanti della stagione NCAA Domenica 8 marzo 2015 In Italia sono le 17:30, proprio l’orario in cui i principali luoghi sportivi dello stivale si dividono: gli stadi calcistici si svuotano e i palazzetti cestistici si riempiono. C’è una differenza rispetto al solito, è infatti marzo, il mese preferito di ogni appassionato di college basketball. A Las Vegas invece sono le 9:30 del mattino e gli addetti ai lavori si preparano a un nuovo giorno di lavoro. La sera precedente si sono giocati i quarti di finale del Torneo della West Coast Conference e la super favorita Gonzaga ha portato a casa la vittoria contro San Francisco per 81-72 (alla fine la stessa Gonzaga ha trionfato nel Torneo, a seguito della vittoria in finale contro BYU). Las Vegas di domenica mattina non è propriamente scintillante come lo è di notte quindi ne approfitto per contattare Riccardo Fois, elemento italiano (sardo, per la precisione) dello staff degli Zags, per cercare di scoprire qualcosa di più di quella che è una delle squadre più dominanti della stagione 2014-15. Per prima cosa, come si arriva dalla Sardegna a Gonzaga? «Sono cresciuto nella Santa Croce Olbia con cui ho vinto anche uno scudetto nella categoria allievi insieme a Gigi Datome. Successivamente sono venuto negli Stati Uniti e ho frequentato il college a Pepperdine per poi tornare in Italia e giocare per tre anni tra le allora B1 e B2
(ora LegaDue Silver e Serie B, ndr) ma non ero abbastanza forte per i livelli in cui volevo giocare, per questo motivo sono tornato a Pepperdine, la mia vecchia università, cominciando con il ruolo di graduate assistant. Proprio quest’anno ho avuto l’opportunità di venire a Gonzaga in cui al momento faccio il video coordinator. In realtà, come tutti qui del resto, faccio un po’ di tutto perché il nostro è uno staff piuttosto piccolo rispetto alla media NCAA, specialmente considerando le squadre più importanti. Che sia un lavoro sui video piuttosto che di analytics o qualsiasi altra cosa, quello che c’è da fare si fa». Direi che come primo anno a Gonzaga ti è andata davvero bene, i Bulldogs stanno facendo una stagione favolosa.
«E’ il tocco italiano, non credi?» Senza dubbio. A proposito di questo, Pepperdine è nella stessa conference di Gonzaga quindi è per forza una squadra che hai visto molte volte. Che differenza fa vedere dall’interno una squadra che dal 1999, ovvero dall’arrivo di coach Mark Few, ha vinto l’81% delle partite giocate? «E’ senza dubbio Few il segreto della squadra. Da fuori si apprezza il gioco di Gonzaga ma arrivando all’interno dell’organizzazione si scopre che c’è molto di più e che è tutto molto più bello di quanto ci si potesse aspettare. Può sembrare scontato da dire ma Few è in grado di rendere questo ambiente simile a quello che si respira in una famiglia, nonostante Gonzaga sia a tutti gli effetti
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“Coach Few è il segreto della squadra. Grazie a lui l’ambiente è speciale, simile a quello che si respira in una famiglia”.
una delle “big schools” della Division I NCAA. Degli esempi per dimostrare quello che sto dicendo: da noi i giocatori sono molti liberi, talvolta gli allenamenti cominciano in ritardo di qualche minuto perché coach Few è a pescare, altre volte invece dividiamo il campo con i figli del coach o col suo cane. E’ tutto molto rilassato. Anche lo stesso Few è molto rilassato, da lui infatti non ho mai sentito un insulto, inoltre non urla mai e se si arrabbia succede con il rapporto di un minuto ogni quattro settimane. Fondamentale per la squadra è anche la presenza dell’associated coach Tommy Lloyd. Ormai da quindici anni è al fianco di Few ed è il suo esatto opposto in molte situazioni: quando uno è teso, l’altro è calmo e viceversa. Come marito e moglie. Tutto ciò rende l’ambiente davvero piacevole per tutti. Per me è speciale». Ammetto che tutta questa rilassatezza è una cosa che non mi aspettavo per un programma della grandezza di Gonzaga. «In effetti è particolare. In tutti gli staff che conosco ci sono spesso allenamenti alle sette del mattino e i membri dello staff devono restare l’intero giorno in ufficio indipendentemente dalla mole
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“Siamo una squadra con uno stile di gioco europeo. La chiave del successo di Gonzaga sta nel puntare tutto sul player development”.
di lavoro da svolgere. Il più delle volte qui non ci sono orari. A volte coach Few arriva solo per l’allenamento, che è sempre nel primo pomeriggio, mai al mattino, e poi va via. Anche noi dello staff di solito ci presentiamo per le dieci o le undici e l’orario d’ufficio dipende dalla mole di lavoro. Lo stesso coach Few ci dice che se non abbiamo nulla da portare a termine possiamo andare a fare quello che vogliamo. Per certi versi è una mentalità molto europea, dato che in molti ambienti del vecchio continente si vive seguendo questa filosofia». Com’è quindi la giornata tipo di un giocatore e quella di un membro dello staff di Gonzaga? «Parto dallo staff. Arrivo verso le dieci e mi guardo subito un po’ di video che possono essere di una nostra partita, di un avversario o di un giocatore in particolare, infatti aiuto spesso nello scouting dei giocatori, specialmente di quelli internazionali. Successivamente guardiamo altre partite, soprattutto di Eurolega, per studiare gli aspetti tattici del gioco e successivamente prepariamo le clip delle situazioni che più ci interessano. Poi seguiamo l’allenamento, mangiamo tutti assieme con la squadra e infine ognuno, in base
alla mole di lavoro, può decidere se andarsene o continuare con quello che deve fare. Una cosa particolare dello staff dei Bulldogs è che non facciamo mai meeting. Per quanto riguarda i ragazzi, la situazione è ovviamente un po’ diversa. Alla mattina, come detto, non ci sono allenamenti ma alle volte hanno delle sessioni di pesi verso le nove. In alternativa a quello o successivamente alla sessione in palestra, devono seguire le lezioni. Al pomeriggio, come già accennato, fanno allenamento. Per il resto bisogna dire che Spokane non è propriamente Las Vegas. C’è poco da fare, specialmente in inverno, visto che alle quattro del pomeriggio già cominciare a fare buio». Probabilmente però questa circostanza aiuta la squadra a restare unita e concentrata. «Senza dubbio. Chi viene qui sa fin dal principio che il basket è una priorità assoluta. Però cerchiamo di chiarire un punto: la vita sociale non sarà il punto forte di Spokane ma i ragazzi della squadra da queste parti sono degli eroi. Non c’è nemmeno una squadra NBA in tutto lo stato e, come hai detto tu prima, gli Zags hanno l’81% di vittorie negli
ultimi sedici anni, infatti le nostre gare casalinghe sono sold out da quindici anni consecutivi. I ragazzi mi raccontano che quando vanno alle feste queste si interrompono perché la gente si mette a fare i cori per Sabonis o per gli altri. Inutile dire che anche avere successo con le ragazze è più facile da queste parti se si è un giocatore dei Bulldogs». Parliamo ora dell’aspetto tecnico della squadra. Gonzaga sta viaggiando a ritmi strabilianti come dimostrano le 31 vittorie in 33 partite. C’è di più. Gli Zags sono secondi in tutta la Division I per offensive rating (120.8), terzi per percentuale reale al tiro (61%), primi per percentuale al tiro effettiva (58.9%) e noni per percentuale a rimbalzo (55.6%). Come si diventa così dominanti? «Secondo me la chiave sta nel fatto che siamo una squadra molto “europea” a livello di stile di gioco, ed è una cosa che apprezzo moltissimo della mentalità di coach Few. Ricordi quando ti dicevo che noi dello staff vediamo tantissime partite di Eurolega? Appena vediamo un gioco che ci piace lo mostriamo all’associated coach Tommy Lloyd e studiamo come applicarlo e adattarlo alla nostra situazione. Lloyd tra l’altro
è uno dei migliori amici di David Blatt (attuale coach dei Cleveland Cavaliers, ndr) ed è un grande amante del basket europeo. Il nostro gioco è semplice: ci piace muovere molto la palla e infatti non abbiamo nemmeno una situazione di isolamento. Vogliamo giocare tanto in transizione e dare spesso la palla ai lunghi, siamo infatti la squadra che più dà palla dentro ai lunghi in tutta la NCAA insieme a Purdue. Questa filosofia ci sta dando ottimi risultati, Sabonis infatti è quinto (67.8%) in tutta la Division I per percentuale al tiro da due punti mentre Karnowski è diciottesimo (61.8%). Come si può vedere il nostro non è un basket complesso. Noi scegliamo giocatori dall’alto QI cestistico e facciamo un gioco di letture in cui ci fidiamo completamente dei nostri ragazzi. Offensivamente siamo davvero difficili da fermare». Hai parlato di giocatori dall’alto QI cestistico. Osservando il recruiting di Gonzaga, capita spesso di non vederla in corsa per i giocatori più quotati come ad esempio i primi cinquanta delle liste stilate dalle autorità del settore come ESPN Recruiting e Rivals.com, ma nonostante ciò non sbagliate un colpo. Come fate a identificare sempre il giocatore più adatto per il sistema dei
Bulldogs? «Se si parla con i giocatori ci si accorge subito del perché sono stati scelti per entrare in squadra. I nostri ragazzi sono persone fantastiche prima ancora che giocatori, nessuno di loro ha dietro un entourage che li spinga a prendere una decisione rispetto a un’altra, o persone che chiamano l’allenatore per chiedere di fare giocare il proprio ragazzo per più minuti. A Gonzaga si preferisce avere un giocatore che può essere meno atletico o addirittura meno talentuoso ma che abbia la mentalità giusta per il nostro sistema e il nostro ambiente. La chiave del successo di Gonzaga sta però nel puntare realmente tutto sul cosiddetto player development. E direi che si vede. Ogni nostro giocatore migliora costantemente nel corso degli anni in cui resta in squadra fino a diventare un giocatore totalmente diverso e molto più forte. Basti guardare ad Adam Morrison, Kelly Olynyk e attualmente a Przemek Karnowski, ma gli esempi potrebbero essere molti di più. Molti college dicono di focalizzarsi sul player development ma quanti lo fanno davvero? Noi spendiamo una o due ore al giorno concentrandoci solo su questo aspetto perché non possiamo permetterci di prendere degli one-and-done di prima fascia e in
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ogni caso non è nella nostra mentalità. Noi puntiamo sul fatto che un nostro giocatore al terzo o quarto anno sia più forte del celebrato McDonald’s AllAmerican che sta arrivando in qualche altra squadra». Questa del player development è un’ottima mentalità ma non sempre facile da realizzare. Gonzaga però ci riesce costantemente da più di quindici anni e ciò significa che anche il lavoro dello staff è particolarmente certosino. «Sì, non è sempre facile anche perché la cultura AAU, da cui la gran parte dei liceali americani proviene, è spesso discutibile. I giocatori internazionali, al contrario, aiutano molto a sviluppare la nostra idea di pallacanestro e di sviluppo. Non a caso siamo il programma NCAA che più di ogni altro punta sui giocatori internazionali. Tommy Lloyd infatti è stato tra i primi a decidere di puntare sul recruiting dei giocatori internazionali (il francese Ronny Turiaf e il tedesco Elias Harris furono tra i primi giocatori portati da lui agli Zags, ndr). Spokane è un ambiente perfetto per i giocatori internazionali, la
gente del posto infatti tende ad adottarli come se fossero dei ragazzi nati e cresciuti qui, inoltre coach Few non è uno di quegli allenatori che preferisce dare spazio al giocatore americano perché più atletico, non a caso Sabonis gioca quasi 22 minuti a partita nonostante la presenza di Karnowski e Wiltjer che sono probabilmente i due giocatori più forti in squadra. Sabonis gioca perché è importante per il programma, indipendentemente dal fatto che sia un freshman europeo, e perché è il modo migliore per permettergli di crescere così che tra uno o due anni possa diventare il leader della squadra. Questo è il nostro punto di forza, il fatto che non ci adagiamo mai sugli allori. Ora sappiamo di avere giocatori forti ma se possiamo assicurarci un ottimo talento lo prendiamo, anche se gioca in un ruolo in cui siamo coperti. Può sembrare una cosa banale ma se ci fai caso lo fanno in pochi. Molte squadre che, ad esempio, hanno nella posizione di ala piccola un junior particolarmente forte, si ritengono coperti in quel ruolo e non cercheranno di prendere un ricambio altrettanto
forte almeno finché la già citata stella non sarà un senior per non mettere in competizione il proprio miglior giocatore con un All-American. Da noi questo ragionamento non esiste. Quest’anno infatti il nostro freshman più quotato è Josh Perkins (infortunatosi dopo 5 partite, ndr) che era tra i sessanta migliori liceali d’America secondo ESPN ed è voluto venire qui pur sapendo che Pangos avrebbe giocato 35 minuti a partita per tutta la stagione. Questo vuol dire che i giocatori che scelgono Gonzaga sanno come giochiamo, conoscono la nostra mentalità e sono disposti ad aspettare il loro turno. Perkins ad esempio sa che dall’anno prossimo, con la partenza di Pangos, il backcourt sarà suo. Coach Few, come tutti in questo ambiente, è orgoglioso di far parte di qualcosa di diverso e te lo fa capire fin dal tuo primo giorno a Spokane. E’ difficile che un sistema del genere continui a funzionare da così tanto tempo, eppure succede». Abbiamo parlato dei singoli e delle diversità mentalità che deve avere un giocatore di Gonzaga. Pangos
ad esempio è uno dei giocatori che, statistiche alla mano, ha fatto la storia dei Bulldogs. E’ infatti primo nella classifica all time di Gonzaga per numero di partite vinte e triple segnate, secondo per quanto riguarda i recuperi, quinto per gli assist e sesto per punti segnati. Cosa lo rende così unico? «Lui è il numero uno, un ragazzo così incredibile che è difficile descriverlo. Altruista per eccellenza. Quest’anno ha chiuso partite con due tiri tentati. Io sinceramente non riesco a trovare in tutta la NCAA un altro giocatore di quel livello e con quella reputazione disposto a tirare solo due volte nell’arco di una partita per favorire i compagni. Ovviamente a lui non pesa per nulla tirare solo due volte in 35 minuti, anzi se ciò può aiutare i compagni e la squadra è disposto anche a non tirare mai. Questo è il suo segreto. L’altra sua specialità sta nell’abilità di spaccare le partite. Magari sbaglia sei tiri ma il settimo, decisivo, lo segna come se non fosse successo nulla. Inoltre ha una capacità incredibile nel selezionare i tiri. E’ un leader vero, uno disposto a fare il “gioco sporco”,
a difendere forte in ogni azione e a prendersi lo sfondamento avversario. Penso che nel basket moderno sia un giocatore pressoché unico». Direi che non ci sono dubbi su chi sia il giocatore che più di tutti ti ha colpito a livello di personalità. Per quanto riguarda invece le doti tecniche chi pensi sia il più impressionante dei Bulldogs? «Senza dubbio Kyle Wiltjer. Nella mia vita ho avuto la fortuna di allenarmi e di seguire gli i workout di giocatori fortissimi, alcuni dei quali in NBA, ma uno forte e completo come lui raramente l’ho visto. Pur facendo quasi fatica a correre, ha dei movimenti offensivi incredibili. Sa usare il gancio destro e sinistro senza distinzione, tira da tre punti, ha un footwork formidabile e sa pure passare bene il pallone. Sembra uno di quei giocatori che dominavano negli anni ‘80. Ad alto livello europeo potrebbe fare 20 punti a partita in scioltezza. Ho detto Europa ma anche a livello NBA non ci sono tanti giocatori in grado di raggiungere il suo livello
tecnico, l’atletismo però non è molto e in NBA conta tantissimo. Non credo possa fare show su un pick and roll a quei livelli e a quella velocità, e al tempo stesso non è nemmeno così grosso per proteggere costantemente il ferro nonostante abbia delle braccia molto lunghe. Per questo credo che non sia adatto alla NBA ma che possa essere illegale e oltremodo dominante in Europa. Ora ti dico una cosa per farti capire quanto sia forte offensivamente: Wiltjer è il miglior realizzatore della squadra e noi non chiamiamo un singolo schema offensivo per lui. Credo sia stato l’unico giocatore nella storia a segnare 45 punti (contro Pacific, ndr.) senza che sia stato chiamato un singolo schema per lui. Poi è chiaro che ci sono delle situazioni in cui lo si cerca, ad esempio molte squadre cambiano sui nostri pick and roll laterali e quando succede noi andiamo in automatico a sfruttare il mismatch, cosa che lui è bravissimo a fare, così come è fenomenale nel giocare il pick and roll alto. C’è da dire però che non sono situazioni studiate per lui e che noi non cominciamo questi giochi con l’idea
“Pangos è unico nel suo genere. Wiltjer forse non è adatto alla NBA, ma ha le qualità per essere illegale e dominante in Europa”.
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finale di servirlo. Insomma, fa quello che fa senza essere il terminale offensivo designato e questo è impressionante». Prima hai anche indicato Sabonis come futuro leader della squadra. Che idea ti sei fatto di lui nella sua prima stagione NCAA? «Se Wiltjer è il giocatore che mi ha colpito di più, Sabonis lo segue a ruota. Per prima cosa è un ragazzo d’oro, il tipico giocatore che ha una voglia di lavorare incredibile, ogni volta arriva all’allenamento col sorriso e gioca alla morte ogni singola partita. Ha grande senso del gioco e enorme QI cestistico e in questi mesi è cresciuto tantissimo, probabilmente è quello che più di tutti è migliorato nel corso della stagione. Questo lo rende speciale: basta dirgli di fare una cosa per migliorare il proprio gioco e lui la impara quasi istantaneamente. Per questi motivi credo che sia il nostro giocatore dal maggiore potenziale in ottica di NBA. Se continua così, già alla fine della prossima stagione può tranquillamente essere tra le prime quindici scelte del Draft 2016». Parlando invece degli obiettivi di squadra. Mi sembra chiaro che l’obiettivo, quest’anno più che mai, siano le Final Four. «Mentirei se lo negassi». C’è una squadra che vi spaventa in tutta la Divison I? «Direi di no. Posso capire che per chi non segue al massimo l’aspetto tecnico e tattico del gioco può sembrare strano ma è così. Il Torneo NCAA si basa principalmente sui matchup. Molte volte ci viene detto che gli avversari della nostra conference, la WCC, non sono all’altezza delle grandi squadre presenti al Torneo, ma chi sostiene ciò non tiene conto del fatto che noi giochiamo un’intera stagione contro squadre che, a differenza nostra, schierano un lungo e quattro piccoli che tirano da fuori, per cui se i loro tiratori sono in giornata mentre da noi Karnowski non punisce da sotto
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canestro, la gara è in salita. L’esempio più lampante è la partita che abbiamo perso contro BYU il 28 Febbraio. Al Torneo invece capita più spesso di trovare squadre che schierano il doppio lungo e difficilmente si trova un numero quattro che sappia tirare bene da tre punti quindi paradossalmente per noi è più facile sfruttare gli accoppiamenti. Per questo, considerando i matchup, temo molto meno una Duke rispetto a un’Arizona. Detto questo, è comunque ovvio che preferirei incontrare Kentucky solo alle Final Four anche se, secondo me, non è mai facile arrivare al Torneo come imbattuti». Chiaro, è come avere un mirino puntato costantemente addosso. «Esatto. Noi l’abbiamo vissuto in prima persona perché quest’anno abbiamo fatto la più lunga striscia di vittorie della storia di Gonzaga. Non è facile sentire i commenti della gente perché a quel punto tutti pensano che tu sia in grado di aggiustare la partita sempre e comunque, in qualsiasi momento e contro chiunque. A un certo punto però abbiamo perso (28 Febbraio contro BYU, ndr) e sono sicuro che i ragazzi, essendo anche giovani, accusino il colpo maggiormente rispetto a una normale sconfitta. La stessa Kentucky rischia grosso, non solo per il format del Torneo che non è mai facile da prevedere ma anche perché quest’anno hanno sì giocato contro squadre forti ma non sempre nel loro momento migliore. Tornando al Torneo, per noi sarebbe importantissimo giocare il primo turno a
Seattle e il secondo turno a Los Angeles per una questione di tifosi. I nostri tifosi infatti viaggiano moltissimo, ogni volta si spostano come i tifosi del Milan quando sono andati a Barcellona per la finale di Coppa dei Campioni contro lo Steaua Bucarest. Considera che qui a Las Vegas, per il Torneo WCC, i tifosi degli Zags sono settemila, cifra impressionante se consideri che quelli di BYU sono in mille mentre quelli degli altre college li conti sulle dita. Difficili da affrontare al Torneo saranno gli accoppiamenti con alcune squadre forti già nei primi turni. Questa è stata una stagione molto strana, molte squadre forti e dal grande blasone hanno infatti giocato una stagione mediocre e per questo c’è il rischio di trovarsele nel Regional con seed non altissimi come l’otto, il nove o il dieci, cosa che ci obbligherebbe ad affrontare delle grandi squadre come Michigan State e Ohio State fin dai primi turni. A quel punto non si può nemmeno parlare di squadre “Cenerentola”. Speriamo solo di sfruttare bene i matchup e di raggiungere le Final Four ma sempre pensando che se ciò non dovesse succedere non è una tragedia. L’anno prossimo avremo ancora una squadra fortissima, dovrebbero tornare tutti i nostri lunghi e saremo pronti per affrontare un calendario davvero tosto che vede sfide di livello come quelle casalinghe contro UCLA e Arizona e trasferte prestigiose come quella alle Bahamas e addirittura in Giappone per sfidare Pittsburgh. Diciamo che siamo fiduciosi, sia per questo finale di stagione che per l’anno prossimo».
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