Tirreno. Costa Viola, sentiero del Trecciolino
Indice 3
INIZIA IL VIAGGIO
di Antonio Alvaro - Presidente G.A.L. BaTiR
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DAGLI INCOMMENSURABILI FONDALI ALLE CIME MAESTOSE DELL’ASPROMONTE Tra cielo e mare, paesaggi d’incanto di Francesco Bevilacqua
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QUANDO TRADIZIONE E “DESIGN” CONVIVONO
L’artigianato artistico e rurale del comprensorio di Rosario Previtera
11 COSTA VIOLA: VIGNETI
ACROBATICI TRA GIARDINI DI PIETRA
Dove si pratica ancora la “viticoltura eroica” e di “forte pendenza” di Rosario Previtera
18 LA VARIA PATRIMONIO
DELL’UMANITÀ
Verso il riconoscimento UNESCO di Patrizia Nardi
23 PIÙ SANI E PIÙ FORTI
CON IL LATTE D’ASINA
È una vera panacea per l’infanzia e la terza età: previene le allergie e l’osteoporosi di Gianfranco Manfredi
35 LA VALLIS SALINARUM
FRA SANTI E SOLDATI
Viaggio in un tempo non ancora trascorso di Giorgia Gargano
37 IL PARCO ARCHEOLOGICO
DEI TAURIANI
Dalla protostoria al Cinquecento di Maria Teresa D’Agostino
40 SCIVOLANDO
TRA GLI SCOGLI
Snorkeling in Costa Viola di Francesco Turano
Direttore responsabile Santino Salerno Cura redazionale Maria Teresa D’Agostino hanno collaborato a questo numero: Francesco Bevilacqua, Maria Teresa D’Agostino, Mimmo Gangemi, Giorgia Gargano, Gianfranco Manfredi, Patrizia Nardi, Rosario Previtera, Francesca Valensise, Francesco Turano Foto di: Pagg. 1-7 Francesco Bevilacqua, pagg. 8-9 Antonio Renda, pag. 17 Enzo Penna, pagg. 18-22 Patrizia Nardi, pagg. 26-30 Francesca Valensise, pag. 31 Antonio Renda, pagg. 42-47 Francesco Turano
Copyright Rubbettino Editore S.r.l. Direttore Editoriale Luigi Franco Redazione Giuseppe D’Arrò Progetto grafico Inrete
25 ARCHITETTURA E PAESAGGIO nel territorio del G.A.L. BaTiR di Francesca Valensise
31 FRANTOI E PALMENTI
Impaginazione Tiziana Chirillo Stampa Rubbettino print per conto di Rubbettino Editore S.r.l. 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)
Tra ricordi e sapori di un tempo
Numero 1 in attesa di registrazione
di Mimmo Gangemi
Finito di stampare nel mese di aprile 2013
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INIZIA IL VIAGGIO di Antonio Alvaro - Presidente G.A.L. BaTiR
Le straordinarie e innumerevoli ricchezze del Basso Tirreno Reggino meritavano di essere raccontate attraverso un organo ufficiale del Gal. Uno strumento che potesse racchiudere paesaggi, storia, cultura, prodotti del territorio seguendo “itinerari” in grado di restituirne tutta la bellezza e la vitalità di cui è dotato. Un mezzo che potesse divenire voce di un comprensorio che ha molto da dire e da offrire. Nasce così In viaggio con Barlaam, rivista trimestrale immaginata quale “manifesto” dell’ambiente, delle radici e delle attività dell’area racchiusa tra l’Aspromonte, il Petrace e la Costa Viola. Barlaam ha l’obiettivo di valorizzare le tante e varie realtà che sono preziosi tasselli di un’identità unica nelle sue molteplici e ricche espressioni: il BaTiR, con la storia che affonda le origini nell’antichità, e di cui si conservano importanti vestigia, con le fascinazioni dell’Aspromonte da una parte e la vastità brillante del mare dall’altra, con i suoi tanti paesi – gioielli incastonati tra le pendici della montagna e la costa –, con le filiere produttive e le botteghe dell’artigianato, con la forza di tradizioni millenarie. In questo primo numero abbiamo voluto offrire una sorta di itinerario che spaziasse, a trecentosessanta gradi, in ognuno di questi aspetti, riservandoci focus e approfondimenti per le prossime uscite. Abbiamo affidato la redazione degli articoli a specialisti e firme illustri per aggiungere altro valore al “racconto” di un territorio che merita di essere conosciuto meglio e di più. Immagini capaci di catturare l’anima del territorio stesso fanno da corredo ai testi e tracciano una “strada” vivida per il lettore. Veri e propri itinerari, dicevamo. Escursioni in montagna e immersioni nei fondali marini, la scoperta delle antiche dimore nobiliari e della Vallis Salinarum, un percorso tra vecchi frantoi e la visita al Parco dei Tauriani, la scoperta dei
sapori tipici e dell’artigianato locale, e la Varia che potrebbe divenire patrimonio Unesco. Raccontare il territorio del BaTiR vuol dire farlo conoscere, ampliarne i confini, dargli voce in maniera corretta e completa. Vuol dire creare i presupposti per attrarre sviluppo, per darci un’altra occasione di crescita. Esaltare le peculiarità dell’area, quindi, e valorizzarne le diverse espressioni culturali, storiche, artistiche, naturalistiche e produttive significa dare luce alle eccellenze e aprirsi a nuove opportunità. Barlaam vuole essere appunto un viaggio alla riscoperta di un territorio che offre una coinvolgente molteplicità e che, per la sua collocazione geografica e per le infinite risorse di cui dispone, si propone come ponte ideale tra i Paesi del mondo e tra un passato antico e nobile, un presente attivo e propositivo e un futuro che vogliamo all’insegna dello sviluppo economico, turistico e culturale.
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Tra cielo e mare, paesaggi d’incanto
DAGLI INCOMMENSURABILI FONDALI ALLE CIME MAESTOSE DELL’ASPROMONTE di Francesco Bevilacqua
Aspromonte, i Piani di Carmelia e la costa tirrenica dalla vetta del M. Misafumera
Se è vero che la Calabria
è “un vestito d’arlecchino”, come scriveva Astolphe de Coustine, il segmento più meridionale della costa tirrenica, con le sue scogliere impervie, le sue montagne incombenti, ne è la prova. Quando si osserva il paesaggio della Costa Viola, percorrendo l’aereo sentiero del Tracciolino (che
taglia a mezza costa la scogliera tra Palmi e Bagnara), viene naturale pensare, per l’appunto, ad un mosaico. Centinaia di minuscoli terrazzamenti, trattenuti da muretti di pietre a secco – anticamente (e in parte, oggi, nuovamente) adibiti a vigneti – disegnano lunghi, sinuosi gradini sulle ripide pendici che scendono a mare da almeno seicento metri di quota. Dove l’uomo manca da anni, la macchia di ginestre, corbezzoli, lentischi, mirti, ferule, ampelodesmi, ha ripreso il sopravvento, chiudendo i tanti camminamenti che solcavano, in ogni direzione, queste balze. In alto imponenti rupi di granito, colorate di giallo, ocra e cinabro s’innalzano verso il cielo. In basso, promontori rocciosi, rupi, cale, piccole spiagge, scogli, grotte, ricamano la costa con un complesso ordito.
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Costa Viola
Sotto l’osservatore e di fronte ad esso, è la visione strabiliante del mare, dello Stretto di Messina, delle Eolie, che, al tramonto, giacciono, poggiate sull’orizzonte come petali azzurrini. Scriveva Alberto Savinio nel 1948: «Avevo veduto brillare un fuoco in mezzo alle tenebre. Non determinai a tutta prima la vera natura di quel fuoco solitario, laggiù, su l’invisibile mare. Poi, per induzione geografica, capii che era lo Stromboli. Allora qualcosa di profondo avvenne in me. Come se avessi traversato una ineffabile soglia. Come se mi fossi affacciato a una stanza buia e sconosciuta. Mentre dormivo nella cuccetta traballante, ero entrato nella regione dei prodigi naturali». Interrompono la continuità della scogliera, gli stretti alvei delle fiumare, che incidono il terreno
come spacchi portentosi, prodotti da chissà quale cataclisma. Precipitano dall’alto, le fiumare, rovinose d’inverno e secche d’estate, gli alvei pensili, colmati dal dilavamento delle pendici e dall’accumulo di detriti. Nelle forre si aprono canyon e cascate come quelle del torrente Barvi, del Palata, del Calivi. La costa, le scogliere, le foci delle fiumare sono, in realtà, vere e proprie “terre di mezzo”, strette tra il mare, con i suoi incommensurabili fondali, e la montagna, che s’innalza senza tregua verso le alte cime d’Aspromonte. Ad interrompere la linea obliqua delle montagne, solo grandi terrazzi marini, dovuti al periodico sollevarsi della terra, nei millenni, ed all’azione livellante delle onde del mare. Unica eccezione all’incombere dei monti sul mare, la Piana di Gioia e Rosarno che, solo per un segmento, ricade nel territorio del GAL, e si estende, invece, verso nord. Vi è qui, un vero e proprio dedalo inestricabile di colline in gran parte ulivetate (ulivi enormi e slanciati che producono piccoli frutti), per il resto ricoperte di macchia mediterranea, intagliate da una pletora di corsi d’acqua, interrotte qua e là da bianchi paesini artigliati alle alture. Ma anche la piana sale ai monti. Anch’essa, come le scogliere, aspira alle alte quote d’Aspromonte. E, in effetti, tra torrenti e contrafforti montuosi, tutto s’innalza verso la punta di una piramide naturale, al cui apice vi è la cima del Montalto (m.
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Aspromonte, boschi sul crinale di Pietra Tagliata
1950). Da quassù, la vista spazia a 360 gradi. È davvero unica questa singolare disposizione della terra, che, nel giro di una manciata di chilometri, da costa diviene monte, mescolando, in un ineguagliabile dedalo geomorfologico e botanico, le caratteristiche di entrambe le zone. Senza perdere mai di vista il mare, che giace lì, apparentemente immobile, sconfinato, imperturbabile. E in alto, sulle cime d’Aspromonte, un vello irsuto di pini, abeti, faggi, querce, castagni, ontani, aceri, pioppi, ricopre quasi interamente le tondeggianti groppe dei rilievi, interrotte solo da qualche rupe,
da qualche glabra cresta che prelude a nuovi abissi, a nuovi contrafforti che si susseguono senza sosta. Scriveva nel 1812 Astolphe de Custine: «Non credo che esistano al mondo dei luoghi più belli di questa parte della Calabria. [...] I dintorni di Bagnara sono diversi da quelli di Palmi, e mentre Palmi è un giardino, Bagnara è la Svizzera con la luce, il mare e la vegetazione dell’Italia. Alti castagni coronano le cime delle montagne i cui pendii sono coperti da pergolati che crescono su dei terrazzamenti».
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The Landscape This truly unique area goes from coast to mountain in the space of a few kilometres, combining the characteristics of both in an incomparable geo-morphological and botanical maze. While the sea is never out of sight, apparently motionless, boundless and imperturbable, the rounded peaks of the Aspromonte up above are almost entirely covered with pine, fir, beech, oak, chestnut, alder, maple and poplar.
Aspromonte, Monte Scorda, faggio
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L’artigianato artistico e rurale del comprensorio
QUANDO TRADIZIONE E “DESIGN” CONVIVONO Nome Cognome di Rosario Previtera
Ceramiche di Seminara
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La necessità di costruire, di
manipolare e trasformare la materia prima in qualcosa di utile ovvero in manufatti da utilizzare, è insita in ogni popolo ed in particolare è la manifestazione della cultura contadina o marinaresca di ogni area geografica. Tanto più in aree montane o marginali ed isolate, caratterizzate dalla scarsità di scambi commerciali e culturali nonché di vie di comunicazione. Aree nelle quali è stata possibile la salvaguardia di idiomi e tradizioni, di etnie, di “antichi mestieri” o semplicemente di innumerevoli tipologie di oggetti artigianali che a pieno titolo andrebbero ad arricchire specifici musei. Tanto più quando si tratta di popolazioni e antichi nuclei abitati stabili, spesso dotati di fortezze, che derivano dall’atavica necessità di rifuggire le orde di invasori e conquistatori provenienti dal mare e che la terra calabra, da sempre, ha suo malgrado subito. L’artigianato diviene arte quando all’utilità del prodotto si aggiunge (o si sostituisce) la creatività finalizzata alla ricerca del bello tramite la decorazione. Possiamo dunque affermare che spesso l’arte e l’artigianato popolare si fondono in esempi mirabili di vera e propria arte popolare che coniuga tradizione, cultura, storia. Oggi le forme di artigianato, ovvero quelle attività produttive realizzate con semplici attrezzi ed in cui la manualità è fondamentale e la tecnica si tramanda da generazioni, sono poche ed in via di estinzione e come tali vanno tutelate e valorizzate. In ogni comune o borgo, vi sono le tracce di botteghe artigiane del passato: artigiani o veri artisti del legno, del ferro, della pietra, del vetro e delle ceramiche, dei tessuti. Qualche esempio di artigianato e di artigianato artistico ancora sopravvive; qualcun altro è “vivo” ma in sordina, quasi da scoprire come un tesoro nascosto; altri ancora si trasformano in attività semi-industriali. In ogni caso, ogni produzione ha alle spalle una storia secolare ed è depositaria di antiche e preziose tradizioni che spesso si basano sulle
risorse del territorio in termini di materia prima disponibile. Spesso siamo di fronte a puro “design”: ogni oggetto è diverso dall’altro poiché fatto a mano. Quasi ovunque, soprattutto in area rurale, l’attività di tessitura, di ricamo e di uncinetto da parte delle donne, addestrate sin da bambine, avveniva (ed avviene) con varianti diverse a seconda dell’area di riferimento. Lo stesso dicasi, in area aspromontana e pre-aspromontana per quanto concerne la costruzione di strumenti musicali quali la zampogna, il tamburello, lo zufolo, pifferi e fischietti, gli strumenti a corda. Rinomati risultano nell’ambito dell’arte
Scilla, Chianalea
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pastorale i bastoni ed i collari in legno (ai quali fissare il campanaccio) per greggi e mandrie, sapientemente scolpiti dai pastori così come le fascine per le ricotte e le forme lavorate per ricotte e formaggi, gli stampi per i prodotti da forno e per i dolci delle festività, rocche e conocchie incise con figure simboliche, cucchiai e forchette lavorate finemente. Da non dimenticare le botti in legno e sempre in legno le madie per l’impasto del pane o per la lavorazione delle carni, le forme per la colatura del sapone fatto in casa. Straordinarie le pipe realizzate con la radica di erica e le ceste in canna, in giunco ed in castagno. Anche la lavorazione del metallo e le produzioni in terracotta risultavano importanti: le caldaie in rame stagnato per le “frittole” (permangono in alcuni centri rurali gli ultimi stagnini) ed i contenitori per l’essenza di bergamotto così come le giare per l’olio, le bumbule e le quartare per l’acqua, le pignate per le pietanze, sono testimonianze di epoche passate. Alla stessa stregua degli artigiani della cera che realizzavano gli ex-voto, dei “pastorai” per i presepi o dei “bumbàri” che realizzavano giochi pirotecnici. Falegnamiartisti in aree rurali urbanizzate riescono oggi come un tempo a produrre preziosi manufatti per l’arredamento in legno di castagno, di olivo, in radica. Anche quella del ferro battuto costituisce un’“arte” remunerativa ma poco diffusa. Sono quasi estinti invece l’arte orafa e l’artigianato del mare. In ogni località rivierasca in cui si pratica la pesca vivevano gli anziani depositari dell’arte della pesca: costruttori di arpioni, inventori di esche e strumenti vari, riparatori di reti e di barche. È il caso degli arpioni artigianali per la “caccia” del pescespada a Bagnara e Scilla, nei cui quartieri dei pescatori ancora oggi è possibile ammirare le colorate reti distese per decine di metri durante la manutenzione periodica. Alcuni comuni e comprensori, presentano ancora oggi vere e proprie “eredità” artigianali specifiche, patrimoni culturali, oggetto di un riscoperto turismo sostenibile. È il caso dei cestai di San Giorgio Morgeto, dei ceramisti di Seminara, di Bagnara (ove si lavora anche il vetro), degli scultori e “plasmatori” della tipica “pietra verde” di Delianuova, dei produttori di pipe di Scido. Particolari e molto ricercate risultano infine le tabacchiere realizzate a Varapodio prodotte con le bucce essiccate di bergamotto e rese profumate con l’essenza.
Le ceramiche arTisTiche e TradizionaLi di seminara: daL “babbaLuTo” aL “gabbacumpàri” La lavorazione dell’argilla a Seminara ha origini antiche ed è legata a simbolismi religiosi, alla tradizione ed alle credenze popolari. Ancora oggi è possibile ammirare il luccichio e gli armonici cromatismi di maschere apotropaiche in ceramica tradizionale, bottiglie e vasi a forma di “pigna” e di “riccio” spinoso per tenere lontano il “malocchio”, bottiglie ed oggetti antropomorfi portafortuna o con funzione satirica ed umoristica (ritraggono il signorotto locale o il soldato spagnolo o borbonico dell’epoca) come i babbalùti, sono tuttora in voga insieme a oggetti dalle forme più disparate, che conservano arcaici significati e funzioni “magiche” e di scongiuro. Predominano i colori “bizantini”: l’ocra, il giallo, il verde, il blu. Particolare è il gabbacumpàri (detto anche mbivi-si-ppòi), una statuetta-anfora costituita internamente da una serie di camere stagne che risultano un vero e proprio prodigio di ingegneria idraulica in miniatura: “solo chi beve con animo sereno riuscirà a farlo e senza bagnarsi gli abiti” racconta la legenda che si ispira all’antico tribunale magnogreco per il quale solo chi era innocente, ovvero aveva animo puro, sarebbe riuscito a bere e quindi a salvarsi la vita. Oggi il gabbacumpàri, lo dice la parola stessa, è motivo di allegria e scherno tra amici… fin quando non si scopre il “trucco” per bere l’acqua o il vino in esso contenuto. Contemporaneamente vengono prodotte anfore, anfore “a ciambella” come quelle che consentivano di mantenere fresco il contenuto quando immerse nelle acque dei ruscelli, giare di foggia e grandezza varie, piatti dipinti rappresentanti paesaggi, fauna e flora locali, ma anche statuette finemente decorate con soggetti rappresentanti le diverse culture e civiltà che hanno nei secoli segnato l’intero territorio calabrese. Opere d’arte che raccontano l’essenza di un popolo, a volte la sua storia tra dominazioni, re e regine, leggende e religione, che vengono grandemente apprezzate soprattutto quando è possibile vedere dal vivo le sapienti mani degli anziani artigiani che plasmano l’argilla bagnata così come facevano i loro padri e i loro avi.
handicrafts Every town has artisans or authentic artists of wood, iron, stone, glass, pottery and fabric producing articles with centuries of history and ancient traditions. Some places present a genuine heritage of specific craftsmanship for rediscovery within the framework of sustainable tourism. Examples include the baskets of Saint Giorgio Morgeto, the pottery of Seminara and Bagnara, the objects in the typical green stone of Delianuova, the pipes of Scido, and the particular and highly prized snuff boxes made out of the peel of bergamot oranges at Varapodio.
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Dove si pratica ancora la “viticoltura eroica” e di “forte pendenza”
COSTA VIOLA: VIGNETI ACROBATICI TRA GIARDINI DI PIETRA di Rosario Previtera
Vigneti
La rocca apparve d’improv-
viso. Scura e maestosa, dominante la sottostante baia sabbiosa e desolata, era protetta alla base da aguzzi speroni rocciosi semisommersi da violenti flutti, giganteschi e spumosi, minacciosi sul mare agitato, tanto da farli sembrare quasi in movimento.
L’impressione suscitata ai marinai dalla visione della rupe, tanto temuta e decantata quale periglioso e misterioso mostro latrante a guardia dello Stretto, unitamente all’altrettanto pericoloso Charybdis posto di fronte, in realtà fu tutt’altro che angosciante: il caldo sole pomeridiano illuminava l’intera costa, a picco sull’acqua, rocciosa ma intervallata da brevi ed amene bianche cale e per gran parte scolpita e manipolata dall’uomo sottoforma di infinite strette terrazze, coltivate dalla sommità fin quasi sul mare. Un mare dai riflessi viola. «Quale migliore posizione per stabilirvi un avamposto ed un rifugio per i naufraghi», dovette pensare il figlio di Priamo osservando la rocca dalla vasta spiaggia: Ulisse decise di fondarvi Scylla, al centro di quell’indimenticabile litorale, ove il
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fascino di Venere che emerge dai flutti pervade il regno di Bacco che dall’alto si protrae fin sulla battigia. La bellezza del mare violaceo e l’unicità della costa frastagliata che, probabilmente sin da allora, si fonde con i terrazzamenti vitati, esaltano uno scenario unico e suggestivo, avvolto dal mito e dalle leggende che tutt’oggi resistono. È la Costa Viola: più di venti chilometri di costa terrazzata che interessa cinque “perle paesaggistiche” affacciate sul mare tra le storiche torri di avvistamento e batterie di difesa: Porticello di Villa S. Giovanni, Scilla, Bagnara Calabra, Seminara, Palmi. La Costa Viola prende il nome dal caratteristico colore che assumono in certe ore del giorno le limpide e profonde acque che lambiscono le sue spiagge, spesso raggiungibili solo dal mare ed interrotte da tipiche falesie rocciose, le quali, senza soluzione di continuità, dall’Aspromonte s’immergono ripidamente in mare, facendo sì che si possa attribuire alla Costa Viola la denominazione di “montagna a mare”. La principale caratteristica della Costa
I terrazzamenti della Costa Viola
Viola è la sistemazione a terrazze del suo impervio territorio; terrazzamenti costituiti da migliaia di chilometri di muretti a secco sui quali, da secoli, viene coltivata la vite. Da qui, il nome di Enotria (“palo di vite” e poi “terra del vino”) attribuito a tutta la Calabria dagli antichi greci. Un paesaggio unico, in cui i “giardini di pietra” secolari, costituiti dalle tipiche armacìe o armacère arrivano sin sugli scogli a picco sul mare, tant’è che era uso durante la vendemmia trasportare l’uva dal mare, anziché risalire infiniti scalini malfermi. In Europa altre aree sono simili alla Costa Viola. Tra queste si ricordano la Costiera amalfitana e ancor di più le Cinque Terre liguri, la Val d’Aosta, la Valtellina e l’Oltrepò pavese, la Galizia spagnola, il Douro portoghese, il Banyouls francese. Ed è proprio l’attività agricola a caratterizzare il “paesaggio viticolo-terrazzato litoraneao” della Costa Viola: quasi dal livello del mare e fino a 300 m. di altitudine, i terrazzamenti che sostengono le ripide pendici grazie ai caratteristici muri a secco, costituiscono un imponente opera di ingegne-
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ria naturalistica “tradizionale” assimilabile ad un gigantesco monumento naturale. I muri a secco della Costa Viola, ricostruiti ed ampliati dopo ogni sisma, presentano altezze variabili da uno a tre metri e sostengono terrapieni, costituenti i terrazzamenti, con larghezze che non vanno mediamente oltre i quattro metri. Sono raccordati da scalette in pietra spesso irregolari e costituenti acquidocci, o raramente da rampe atte all’accesso, ove possibile, di piccoli motocoltivatori e simili. L’opera certosina dell’uomo che per secoli ha strappato superfici coltivabili all’impervia “montagna a mare”, è diventato, in armonia con l’ambiente circostante, un elemento paesaggistico naturale. Le vie di comunicazioni utilizzate erano proprio quelle che oggi costituiscono la rete sentieristica. Lavorare la vigna in condizioni difficili, ovvero in situazioni di “forte pendenza”, dove gli uomini le donne “trasportatrici di pietre e di uve”, per generazioni hanno percorso e percorrono migliaia di instabili scalini, significa riuscire a praticare la cosiddetta “archeoviticoltura eroica”.
Vigne e vini dai giardini di pietra Sono veri e propri eroi superstiti, gli ultimi contadini che ancora oggi coltivano le vigne della Costa Viola, consentendo tramite la minuziosa e costante manutenzione dei terrazzamenti, dei sentieri e della viabilità poderale, di attenuare il diffuso fenomeno del dissesto idrogeologico che colpisce tutte le aree ove l’abbandono e l’esodo rurale avanza: laddove infatti si continua a coltivare la vigna, le frane sempre più frequenti nel comprensorio, arrecano meno danni o non avvengono, rispetto invece a quelle aree abbandonate dove la macchia mediterranea ha sovrastato i resti di antichi vigneti su costère con pendenze superiori al 100 per cento. Dall’anno mille ad oggi si è passati da 1000 ettari a meno di 200 ettari coltivati a vigneto. Con i lavori autostradali dell’A3 ulteriori superfici vitate sono state cancellate o rese inaccessibili. Per fortuna dal 2004 i piccoli viticoltori riuniti nella cooperativa agricola “Enopolis Costa Viola” stanno lentamente riuscendo a ripristinare e a razionalizzare i vigneti che danno vita dal 2006 ad “Armacìa – il vino dei terrazzamenti” un IGT Costa viola rosso che è diventato l’emblema del riscatto e della voglia di rinascita del “sistema Costa Viola”. Sui tipici muri a secco che si stagliano da pochi metri sul livello del mare fino in collina, dove la vigna si confonde col castagno, si coltivano uve da vino come la Prunesta, il Nerello, il Pinot nero, la Malvasia nera e la Malvasia bianca, la Nocera, l’Insolia, il Gaglioppo, il Castiglione, il Sangiovese, con sistemi ad alberello, a pergola alta e recentemente a spalliera (con potatura a Guyot e a cordone speronato) o con forme di allevamento miste, di tipo tradizionale. Si produce inoltre il Moscato d’Alessandria (Zibibbo) venduto come uva da tavola soprattutto a Bagnara e trasformato in proprio dai vignaioli in un raro e prezioso vino passito. Il vigneto viene ovunque condotto a livello familiare in appezzamenti minuscoli di poche migliaia o centinaia metri quadrati e spesso anche con varietà probabilmente autoctone e non del tutto conosciute, denominate con sinonimi dialettali di vitigni forse più famosi (Patri niru, Marcarisa, Chianisi, Ligànti, Minna ì vacca e tante altre ancora). I vini a marchio prodotti nell’area sono due IGT (Indicazione Geografica Tipica): il “Costa Viola” rosso o bianco, si ottiene da uve coltivate nei comuni di Scilla, Bagnara, Seminara e Palmi, mentre lo “Scilla” rosso, viene realizzato con le uve prodotte nei vigneti scillesi.
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L’utilizzo del “sistema monorotaia” in qualche vigneto, ha consentito di abbattere i costi di produzione e di consentire il perdurare dell’attività agricola, così come avviene in tutte le aree viticole-terrazzate. Oggi le monorotaie o “trenini” come vengono dette, vengono spesso utilizzate dai turisti lungo gli itinerari guidati della “Ecostrada del vino e dei sapori della Costa Viola” proposti da “Ecotouring Costa Viola”. i sapori “mare-monti” e gli artigiani della creta La varietà territoriale della Costa Viola, consente agli appassionati enoturisti di degustare peculiarità enogastronomiche sia della tradizione marinara sia di quella collinare pre-aspromontana: formaggi, salumi, funghi e ortaggi sottolio, melanzane grigliate e pomodori secchi, olive sottolio, frittelle di fiori di zucca, ragù e sughi a base di carne di capra e di maiale per condire la pasta fatta in casa (maccarrùni i casa). Quest’ultima, con diverse varianti, viene condita e cucinata anche con ricotta, melanzane, peperoni, cipolle, peperoncino, fagioli e fagiolini, zucca e zucchine. E su tutto non manca mail il vino “locale” oltre che quello a marchio di qualità. Le principali specialità gastronomiche marinare si basano su pesci caratteristici come il pescespada, la spatola, la aguglia, la mola, le costardelle, crostacei vari e polpi. Tra le pietanze caratteristiche si rammentano: involtini e cannelloni di pescespada, involtini e polpette di spatola, pescespada alla bagnarese, pescespada alla ghiotta, pescespada al salmoriglio, tortiera di alici, occhiata fritta con cipolle. Antiche ricette a base di spatola (spatola alla scigghitàna), con aceto in dosi particolari ed erbe aromatiche prodotte un tempo tra i filari di vite lungo i terrazzamenti, confermano la vocazione sia agricola che marinaresca della popolazione rurale del luogo. Sicuramente tradizionale e molto particolare, definibile come “il caviale della Costa Viola”, è una particolare pietanza ottenuta con le uova di pescespada ricavate dopo la sua cattura. Tra i dolciumi sono rinomati il torrone alle mandorle di Bagnara, insieme alle “dita di apostolo” ed ai “sospiri di monaca”. In tutta la zona si producono durante le diverse festività i caratteristici mustacciòli o ’nzuddhi, piparèlle, susumèlle e petrali, a base di miele e mandorle, fichi secchi aromatizzati. Creme, dolci e liquori a base di limone, arancia, bergamotto, non mancano mai a fine pasto.
Tra le produzioni caratteristiche riscontriamo il limone sfusato di Favazzina, coltivato tra Favazzina di Scilla e Bagnara, l’uva Zibibbo (Moscato d’Alessandria), il “pane di grano” ed il “pane biscottato” di Pellegrina di Bagnara, la pitta, i granetti e le friselle da condire con pomodoro, basilico ed origano, olive ed olio oppure con olio, peperoncino ed origano. monumenti naturali e bellezze paesaggistiche da tutelare per turismo sostenibile Il fascino rivestito dai vigneti terrazzati e la loro importanza dal punto di vista ambientale è evidente fin dagli scritti degli antichi viaggiatori del cosiddetto “Gran tour” di qualche secolo fa. Oggi l’importanza ecologica dell’area si ripropone soprattutto nei momenti di emergenza ambientale ovvero quando le piogge, brevi ma intense, determinano frane e smottamenti di un certo rilievo, danneggiando le vie di comunicazione principali. Solo il recupero integrale dei vigneti terrazzati e della sentieristica di un tempo, unitamente alla viabilità poderale, potrà risolvere il problema. Numerosi risultano i progetti di valorizzazione e recupero già conclusi e in atto sia di tipo comunitario che regionale e locale. Ma occorre ancora operare incessantemente per mettere in connessione ulteriore ed a fini turistici e senza alcun impatto ambientale i vigneti, le torri, le risorse naturali e paesaggistiche tra il mare e i monti, quelle enogastronomiche ed artigianali di questa antica terra ricca di suggestioni, vero patrimonio dell’umanità da tutelare. Oggi come un tempo. noTizie uTiLi COME ARRIVARE In auto: Autostrada A3 Salerno Reggio-Calabria, uscite di: Palmi, S.Elia-Melicucccà-Bagnara, Scilla, Villa San Giovanni.Tutta la Costa Viola sulla SS 18 da S. Elia di Palmi a Villa San Giovanni In treno: Stazioni FF.SS. di Palmi, Bagnara, Scilla, Villa San Giovanni In bus: Varie autolinee da Villa San Giovanni (P.zza Stazione) a Palmi. C.A.I. – Sez. Aspromonte Via S. Francesco di Paola, 106 89127 - Reggio Calabria Tel e fax 0965/898295
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products Dry-stone walls delimit vineyards using alberate, trellis, espalier and a host of other traditional systems to produce wine grapes such as Prunesta, Nerello, Pinot noir, Malvasia (red and white), Nocera, Insolia, Gaglioppo, Castiglione and Sangiovese, starting a few metres above sea level and continuing up the hillsides. Sold also for eating, especially at Bagnara, Moscato d’Alessandria (Zibibbo) grapes can be transformed into a rare and precious raisin wine by producers. Characteristic products include the sfusato lemon of Favazzina, grown between Favazzina di Scilla and Bagnara, and the bread and rusks of Pellegrina di Bagnara with pitta, granetti and friselle to be eaten with tomato, basil and oregano, olives and olive oil, or oil, chili and oregano.
Vigneto di Zibibbo a Bagnara Calabra.
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GLI ANTICHI VIAGGIATORI SCRISSERO
Intellettuali, pittori, scrittori, studiosi, antesignani dell’ecoturismo e dell’escursionismo, viaggiarono numerosissimi nell’Italia Meridionale del ‘700-‘800 in quello che fu definito “Grand Tour”. Alcune testimonianze ed illustrazioni d’epoca ci indicano come alcuni luoghi siano rimasti quasi intatti a distanza di secoli e come i “nostri” sentieri fossero le uniche vie di comunicazione del tempo. La Costa Viola impressionava proprio per i suoi terrazzamenti e si ricordava per il vino e le pietanze a base di pescespada. Padre Giovanni da Fiore nel 1619 scriveva a proposito del vino di Scilla: «Fa dello Sciglio copia
d’uve diverse, moscatello, greco, insolia, vernaccia, malvasia, della quale si fa un vino “principalino”». Giuseppe Maria Galanti nel 1792 scriveva sulla Costa Viola: «Forma un grato spettacolo in questa riviera come è coltivata. Gli scoscesi pendii de’ monti sono coltivati colla maggiore industria possibile a vigne. Si formano de’ muri a secco l’uno sopra l’altro a forma di scalini, e nell’intervallo che passa dall’uno all’altro si piantano le viti. Uno di questi muri che rovina si trascina seco tutti gli altri. Si raccolgono in questo litorale ottimi vini». Arthur John Strutt nel 1838 annotava sul suo diario: «Arrivammo subito a Scilla di classica memoria, a cinque miglia da Bagnara (…). Lo spettacolo era troppo pittoresco per non tentare la mia matita, mentre si stava preparando il “breakfast”. I nostri appetiti erano stati sufficientemente svegliati dalla cavalcata per abbandonarsi al piacere di questo pasto che consisteva in maccheroni, fette di pesce spada fritto, servite con olio e aceto, insalata, giuncata, arance e mandorle: il tutto innaffiato con un fiasco di quel vino scuro calabrese, la forza ed il profumo del quale gradatamente aumentano a mano a mano che ci si sposta verso Sud».
LE “CONCHIGLIE D’ASPROMONTE”
Così le definì Donatella Bianchi durante una celebre puntata di “Linea Blu”. Si tratta dei fossili marini che caratterizzano tutto l’entroterra collinare ed Aspromontano a ridosso della Costa Viola. È possibile infatti ammirare di fossili del bivalve del genere Pecten che costellano intere pareti di sabbia compressa risalenti al periodo pliocenico: un tempo immerse sul fondo del mare e venute alla luce del sole milioni di anni fa, con l’emersione
delle terre. Tali fossili unitamente a quelli di altra fauna marina ricoprono le volte delle Grotte di Trèmusa in località Melìa di Scilla a ca. 500 m slm. All’interno delle grotte (probabilmente scavate dal passaggio di un antico fiume), costituite da diverse camere ed anfratti, è possibile ammirare il fenomeno carsico ancora “vivo” della formazione di millenarie colonne calcaree derivanti dalla congiunzione di stalattiti e stalagmiti. Diverse sono le leggende legate a questo interessante sito geologico. Una di queste vede le “tre muse” che abitavano l’antro, uscire di notte facendosi gioco dei pastori che nei paraggi custodivano le greggi, spegnendo loro i fuochi ed importunandoli in vario modo. Ma la leggenda più affascinante è quella inerente al canto delle sirene o alternativamente al “latrato” proveniente dal “mostro di Scilla” nascosto sotto la rocca: il vento incuneandosi all’interno delle grotte collinari, fuoriusciva poi dalle grotte sulla costa assumendo sonorità particolari, quasi come se le grotte e le loro cavità più profonde costituissero un gigantesco strumento musicale naturale.
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LA “CACCIA” AL PESCESPADA
La cultura marinaresca dello Stretto di Messina e della Costa Viola, presenta come in ogni area del Mediterraneo, peculiarità tipiche di ogni litorale ma con un comune valore di base: l’amore verso il mare. Il mare è l’ambiente affascinante ed allo stesso tempo ostile e severo per eccellenza, al quale i pescatori sono legati da un rapporto di profondo rispetto. Il mare, con la sua fauna ittica, è fonte di sostentamento ed allo stesso tempo, nella sua misteriosa immensità, è l’emblema di Madre Natura. La natura è spesso incomprensibile e imprevedibile con tutto ciò che ne deriva: a giornate di sereno, in cui le imbarcazioni si stagliano numerose all’orizzonte, si alternano burrascose e rischiose battute di pesca col mare grosso. Nonostante sia dura la vita per le popolazioni costiere, il pescatore accetta da sempre queste condizioni. Anch’egli deve sottostare al volere divino, così come la sua preda: il pescespada. Il rapporto pescatore-pesce è molto particolare: il pesce non è vittima, ma preda. Orgogliosamente, vige infatti un particolare sentimento nei confronti del pescespada, il quale è vittima solo di quel processo, quasi naturale ed unico, governato dalle severe leggi della natura, tale da rendere sia esso che il suo cacciatore, appartenenti ad un unico sistema, alla naturale catena alimentare. Il pescespada, per tradizione si “caccia” con l’arpione. La caccia o arte del pescespada ha origini antichissime. È infatti di origine fenicia l’imbarcazione tipica utilizzata per la caccia al pescespada fino a qualche decennio fa, denominata luntri, oggi sostituita dalle moderne passerelle. Così come antichissimo è il tipico gergo, ormai scomparso, utilizzato dagli avvistatori sulla Costa Viola, appostati sui promontori, presso le torri di avvistamento o presso le “poste” lungo i terrazza-
menti a picco sul mare, per orientare le barche in mare in direzione del pescespada. Un linguaggio che passava da toni e frasi cantilenanti (và fora, và intra, di suso, di terra) a toni drammatici, man mano che il luntri si avvicinava all’agognata preda. Segnalato il pescespada, il nero luntri sotto la spinta dei rematori scivolava veloce sull’acqua, mentre il faleròto posto sul “falere” (il piccolo albero centrale) indicava la direzione da seguire. Il fiocinatore, diritto sulla poppa, non appena si trovava a qualche metro dalla preda, afferrava l’arpione posto sulle maschitte e con abilità e perizia colpiva, allora come oggi inesorabilmente “il re dello Stretto”. Il pescespada infiocinato, cercando di divincolarsi, si dava a lunghe ed estenuanti fughe fino morire dissanguato. Se la preda è femmina, la stessa fine fa il maschio in quanto segue la compagna fino alla fine. Oggi i pescatori operano sulle imbarcazioni a motore munite della lunghissima “passerella” (anche 50 m) alla cui estremità si pone il fiocinatore e dell’altissima “antenna”, dalla quale a più di 20 metri di altezza la barca può essere anche pilotata. Ancora oggi, alcuni tipi di pesca, come la caccia del pescespada, si confondono armonicamente con ataviche tradizioni, retaggio di culture marinare del passato. Culture, a volte molto legate alla religione. Rituali propiziatori e religiosi, patrimonio culturale di antichi popoli che sopravvivevano esclusivamente grazie allo sfruttamento della fauna ittica, molto spesso vengono evocati anche durante l’attuale caccia al pescespada: il pesce dopo essere stato issato in barca viene graffiato all’altezza dell’occhio con segno di croce, mentre viene pronunciata la frase propiziatoria a nomi i centu!. Il mare dello Stretto e della Costa Viola è quello sul quale da sempre si sfidano l’uomo-cacciatore ed il pescespada-preda.
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Verso il riconoscimento UNESCO
LA VARIA PATRIMONIO DELL’UMANITÀ di Patrizia Nardi
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Il tardo pomeriggio dell’ultima
domenica d’agosto, a Palmi. Tutto è pronto: l’Animella a 16 metri da terra sulla sommità della nuvola, i lunghi capelli ad un vento tiepido di fine estate.
Gli angioletti, trenta, seduti sui loro seggiolini tra le pieghe argentate del “cielo empireo”. I mbuttaturi, duecento, sotto le travi, la mascella serrata e lo sguardo attento. La Città alle corde. È irreale il silenzio che precede la scasata della Varia dopo la vivacità del corteo pomeridiano. Pochi minuti di un silenzio pesante, nervoso, rotto soltanto dagli ordini secchi dei capistanga. Ventimila, cinquantamila, centomila persone che aspettano il colpo di cannone ovunque, sulla strada, sui balconi, sui tetti delle case. Che puntuale, alle sei, arriva. Senza sconzu Maria di la Littara. Con un sobbalzo il pesante carro sacro inizia la sua corsa. L’Animella in alto oscilla, ma sorride: la bambina ha superato la paura del vuoto perché sotto di lei c’è una comunità intera che la sostiene e che in quella corsa tra sacro e profano vuole ancora unire passato e presente, storia e identità. Una corsa che ha un fascino antico che guarda al futuro. Perché la Varia di Palmi è candidata a diventare Patrimonio dell’Umanità insieme ad altre tre feste della cultura della tradizione mediterranea, i Gigli di Nola, i Candelieri di Sassari e la Macchina di Santa Rosa di Viterbo. È la Rete delle grandi Macchine a spalla italiane che fin dal 2006 è riuscita a far dialogare territori geograficamente distanti e comunità con storie differenti, che hanno scoperto di condividere una simbologia cerimoniale dai tratti comuni. Modelli collaudati di rete erano stati concepiti soprattutto per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale materiale: monumenti, città, paesaggi. La Rete delle Macchine a spalla ha indicato un nuovo modo di concepire il patrimonio culturale rispetto ad una prospettiva Unesco, ponendosi come la prima candidatura tematica o seriale di beni immateriali all’interno di uno stesso Stato e fornendo di fatto un “modello” estremamente inclusivo e rappresentativo. Propone elementi antichi – il rituale del trasporto, l’offerta votiva
La Varia
della forza, la partecipazione collettiva – che si coniugano all’impegno delle comunità in favore della valorizzazione delle feste nel contesto nazionale ed internazionale. Si è rivelata un forte strumento di conoscenza, partecipazione e aggregazione e ha generato una comunità patrimoniale allargata, le capacità e conoscenze della quale hanno creato nuovi inediti
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La Varia (particolare)
percorsi di cui il riconoscimento Unesco è diventato un obiettivo importante, risultato di una sinergia che ha coinvolto le comunità della Rete che “dal basso” hanno proposto la candidatura delle feste che gli Organi sussidiari e il Comitato intergovernativo dell’Unesco prenderanno in esame nel corso del 2013. La Calabria partecipa, con la candidatura della Varia, ad un’importante azione di salvaguardia della cultura intangibile, che ha avuto origine a livello internazionale in seguito all’adozione della Convenzione di Parigi del 2003 e che ha spostato l’interesse degli organismi internazionali di tutela, degli enti pubblici e delle comunità sul patrimonio culturale in cui prevale la dimensione “immateriale”: le conoscenze, i saperi acquisiti e tramandati di generazione
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La Varia (particolare)
in generazione, le feste popolari, i rituali, il linguaggio, le arti dello spettacolo, l’artigianato tradizionale, le prassi legate alla natura e all’universo, tutto un mondo rimosso e sacrificato alle esigenze di una “modernizzazione” che avrebbe voluto congelare per sempre l’immagine, ritenuta nostalgica e incomunicabile, di un contesto che invece è oggi più che mai patrimonio vivo e sintesi del rapporto tra tradizionale e nuovo. Un patrimonio che può considerarsi “valore aggiunto”, uno degli aspetti più interessanti e promettenti nell’ampio quadro delle articolazioni contemporanee della cultura. Una risorsa a cui attingere per limitare i danni dell’omologazione derivanti da una globalizzazione esasperante e a cui riferire il nesso tra identità,
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cultura, valorizzazione dei territori, sviluppo locale e ambiti nazionali ed internazionali di promozione, soprattutto quando lontani risultano i circuiti di un turismo consolidato. E che in Calabria può diventare elemento importante di un progetto di sviluppo sostenibile che parta dal patrimonio culturale e paesaggistico della Regione e che incoraggi decisori politici, forze imprenditoriali e operatori culturali a definire un nuovo focus che nell’industria culturale, abbinata ad una seria e articolata programmazione di sviluppo turistico, possa dare una chance alle future generazioni di calabresi.
The Varia of palmi The last Sunday of August in Palmi: an event of age-old fascination that looks to the future. The Varia of Palmi is now a candidate to become part of the Heritage of Mankind together with three other celebrations of the Mediterranean tradition, namely the Gigli of Nola, the Candelieri of Sassari and the Macchina di Santa Rosa of Viterbo. The association of these events, featuring the human transport of festive constructions through the streets, has succeeded since 2006 in establishing dialogue between geographically distant places and communities with different histories, which have discovered that they share a common ceremonial symbolism.
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È una vera panacea per l’infanzia e la terza età: previene le allergie e l’osteoporosi
PIÙ SANI E PIÙ FORTI CON IL LATTE D’ASINA di Gianfranco Manfredi
C’è una riscoperta della raz-
za asinina autoctona calabrese. Oltre a salvarla dalla estinzione, si mira alla rivalutazione del suo latte. Il Gal del Basso Tirreno reggino ha messo a punto un progetto di filiera che punta alla produzione di un latte che è assai simile a quello materno.
Si torna a contare sugli asini in Calabria. Parlo dei quadrupedi, s’intende. Ciùcci, scecchi, sumari, bagàgghi, che fino a pochi decenni orsono facevano ancora schioccare di buon mattino i loro inconfondibili zoccoli ferrati anche sull’asfalto di molti centri cittadini e adesso sembrano estinti. Quest’umile, utilissimo equino ora, invece, è diventato oggetto di un’operazione di riscoperta. A Riace, gli asini sono stati riabilitati come il massimo ecologico possibile quanto a mezzi di trasporto per la raccolta differenziata dei rifiuti. Sicuramente sono trasporti «verdi» e «slow», anche se non assicurano partenze brucianti. Nel comune ionico, diventato un punto di riferimento per l’accoglienza dei profughi di mezzo mon-
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do, raccolgono i rifiuti porta a porta con gli asini che recano sul dorso una bandiera con la scritta: «Noi la differenza la facciamo solo dei rifiuti!». Più a nord, a Sersale, sul versante ionico catanzarese, c’è l’area delle Valli Cupe. Con chilometri di canyon selvaggi, sono un tesoro naturalistico diventato «un fenomeno», un autentico «cult» per gli appassionati di trekking, cultori della natura e della fotografia naturalistica. E sono entrati a far parte a pieno titolo del «fenomeno» anche i sei asini che una cooperativa di giovani ambientalisti utilizza per le escursioni e per rendere accessibili le valli anche a chi non ha buone doti atletiche. La creazione e il potenziamento di microfiliere integrate del latte di asina è invece nei programmi del Gruppo di azione locale del Basso Tirreno reggino. C’è un progetto preciso, con l’obiettivo dichiarato della promozione di un settore dalle significative potenzialità. Ci sono risvolti in campo medico, infatti, ma anche nutrizionale, zootecnico, turistico e sociale. Che il latte d’asina sia il più simile a quello materno non è certo una novità. In Calabria era risaputo e a tal proposito ne offriva tangibile testimonianza il compianto Antonio Delfino, giornalista e scrittore, che ogni qual volta incontrava un asino correva ad accarezzarlo e, abbracciandolo – come ricorda Bruno Gemelli –, lo chiamava «fratello di latte». Le più recenti acquisizioni scientifiche confermano in pieno la tradizione popolare. Medici e nutrizionisti concordano: il latte d’asina riduce a livelli molto bassi il rischio di allergie o intolleranze permettendo specialmente nei bambini lo sviluppo di un sistema immunitario completo, senza correre il rischio di deficienze nutrizionali e reazioni allergiche proprie dei più comuni tipi di latte e derivati. Grazie alla marcata presenza nel latte di asina di lattosio si ha la garanzia di una valida mineralizzazione delle ossa del bambino durante le fasi della sua crescita. E non basta. Oltre all’utilizzo per i bambini, il latte d’asina è indicato per gli adulti debilitati o anziani, che grazie alle sostanze probiotiche presenti nella composizione del latte traggono benefici per l’assorbimento intestinale del calcio. Anche con un rimedio naturale come il latte d’asina si può prevenire efficacemente la patologia dell’osteoporosi che si accentua in età avanzata, e si può raggiungere il giusto equilibrio fisico. Gli ottimi rapporti tra i calabresi e gli asini, del resto, risalgono alla notte dei tempi. La nostra
razza asinina autoctona è una variante della razza pugliese. C’è un apposito progetto finanziato ed avviato dall’Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte che la sta recuperando. L’Asino Calabrese è citato in atti ufficiali che risalgono al 1240, quando Federico II ordinava a Pietro Ruffo di Calabria di rivolgersi a Ruggero, monaco di S. Giovanni, perché – da intenditore quale era – gli fornisse buoni asini «pro cooperiendis jumentis nostris». Ma ci sono anche altre testimonianze di pregio. Come quella che riferisce Annarosa Macrì, nel suo L’ultima lezione di Enzo Biagi (Rubbettino, 2008). Erano gli anni Cinquanta e il grande giornalista era un giovane cronista in visita a una specie di collegio-colonia impiantata in Romagna dalla società Edison. Ospitava bambini bisognosi che arrivavano da ogni parte d’Italia e quelli della Calabria, che aveva subito una disastrosa alluvione, erano tanti. Ma ecco le parole di Enzo Biagi, che era andato ad incontrarli per raccontare uno spaccato dell’Italia più vera attraverso le loro storie: «Qual è l’animale che preferisci?». A tutti i bambini della colonia era stato proposto da svolgere un tema così e io andai a curiosare. Un bambino decise: la tigre, perché è la più forte; un altro scrisse: l’aquila, perché vola più in alto… e fin qui: carino, ma tutto come nelle previsioni. Poi lessi il tema di un bambino calabrese. Lui scrisse: «L’animale che io preferisco è l’asino, perché mangia poco e lavora tanto». Non lo dimenticherò più: quel bambino aveva capito tutto, e certamente aveva già visto tutto, nella sua terra difficile: che intelligenza! Io lo dico sempre: i Calabresi hanno testa!».
asses’ milk The creation and development of an integrated micro-industry of asses’ milk is one of the primary aims of the GAL (local action group) of the Basso Tirreno Reggino area. There is a precise project for the promotion of a sector with significant potential in the fields of medicine, nutrition, stockbreeding, tourism and social activities connected with the milk of this humble animal, the closest to human milk. The autochthonous species of ass also plays a key part in a redevelopment project of the Aspromonte National Park Agency.
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nel territorio del G.A.L. BaTiR
ARCHITETTURA E PAESAGGIO di Francesca Valensise
Costa Viola, Edward Lear
Lo sconvolgimento fisico
che colpisce la Calabria Ulteriore con il terremoto del 5 febbraio 1783 modificherà l’intero contesto ambientale del territorio, compreso tra l’attuale Piana di Gioia Tauro e il versante aspromontano tirrenico; l’evento sismico, alla mutata morfologia del paesaggio, aggiunse la formazione di laghi stagnanti che trasformarono fertili terreni in paludi malsane.
Il provvedimento d’emergenza più significativo fu la nascita della Cassa Sacra, ente preposto dal Governo borbonico ad incamerare e amministrare i fondi rustici e gli immobili urbani di proprietà ecclesiastica, successivamente rivenduti ai privati per sostenere, con i proventi, gli oneri della bonifica e della generale ricostruzione urbana. Il provvedimento cambierà molto rapidamente la struttura sociale; l’aristocrazia terriera, unita nel controllo delle vendite ai rappresentanti della nuova società emergente (dottori fisici, notai, preti), riuscì infatti a controllare il mercato dei terreni accumulando, con l’acquisto a contratto di vendita, ingenti quantità di fondi rustici. A questi si aggiunse il ceto subalterno dei mezzadri che con la meno onerosa forma del censo perpetuo, risultarono presenti nell’acquisto di numerosissimi appezzamenti di uliveto; coltura che già in passato aveva consentito una discreta commercializzazione dell’olio, con la conseguente elevazione del reddito, e che all’occasione rese possibile anche a piccoli proprietari l’acquisto di terre di pregio in
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Bagnara, Palazzo Ruffo
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Chiesa Sinopoli
vista di una produzione altamente remunerativa e propedeutica all’anoblissement necessario al salto di classe. La fine del XVIII secolo coincise peraltro, con la fase più acuta della crisi del gelso, e la sistematica
Sinopoli, stemma Ruffo
eliminazione dei numerosi gelseti, sostituiti dagli uliveti nel perimetro del comprensorio della Piana e Aspromonte, contribuì alla trasformazione del territorio in un immenso oliveto1 con il trasferimento di circa 1.300 ettari dalle proprietà della Chiesa ai privati. Le nuove colture, oltre al cambiamento dell’economia del luogo, sono il motivo di quella trasformazione ambientale causata dalla natura stessa dell’olivo, poco proclive alla dispersione dell’umidità, che a seguito della massiccia coltivazione ha modificato il microclima dei luoghi, con il forte ridimensionamento di antichi ambiti di bosco ceduo, terreni irrigui, gelsi, seminativi, e la conseguente scomparsa di secolari attività manifatturiere. Ai primi anni del XIX secolo tutti i centri collinari della piana presentano caratteristiche olivicole monoculturali, che consentono buone rendite e spese di gestione sostenibili. L’eversione della feudalità2 con il sopraggiunto governo francese, innesca la frammentazione dei feudi e la consistente riduzione del patrimonio fondiario a cui corrisponde la nascita di una nuova edilizia, spesso derivata dalla trasformazione di quella esistente e riferita a nuovi criteri costruttivi e abitativi. Si delinea dunque una fisionomia
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Chiesa Sinopoli, interno
borghese della proprietà, all’interno delle grandi estensioni fondiarie che rimangono comunque la base della struttura agraria; accanto alla classe baronale nel corso del XIX secolo si afferma infatti un ceto benestante di civili e nobili viventi che incarnano la nuova classe imprenditoriale oltre che il soggetto principale della produzione edilizia nella seconda metà del secolo. Ai castelli e palazzi baronali, trasformatisi nel corso dei secoli da strutture fortificate in imponenti magioni, si inizia ad affiancare una tipologia costruttiva più semplice che vede nel palazzo signorile l’esemplificazione del progressivo cambiamento della società. Questo nuovo tipo edilizio corrisponde nella maggior parte dei casi, a determinate regole costruttive che si uniformano secondo precisi paradigmi definiti dalle norme antisismiche imposte per la ricostruzione successiva al terremoto del 1783. In molte residenze del territorio sono tutt’oggi riconoscibili alcuni elementi architettonici distintivi che hanno caratterizzato l’edilizia religiosa, gli insediamenti produttivi e le dimore dei benestanti del XIX secolo. I numerosi portali granitici costituiscono l’elemento che caratterizza il grado sociale; attraverso un portico interno, semplice ambito a pianta ret-
tangolare spesso voltato a botte, si aprono i locali del piano terreno destinati all’amministrazione e al deposito dei prodotti agricoli. Le norme antisismiche divulgano la necessità di una corte
Bagnara, Palazzo Ruffo e ville De Leo
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Cosoleto
interna, spazio di isolamento fra le varie parti del fabbricato; la presenza di un oratorio privato, elemento di particolare distinzione sociale, conferisce particolare valore formale dell’intero edificio. Nelle abitazioni di maggior volume, è spesso presente uno spazio verde di esclusiva pertinenza dei padroni di casa dove, con il corso del tempo, le piante da frutto cederanno il posto a specie vegetali più ricercate e significative. Infine, il «gusto ritardatario settecentesco»3 dei fronti principali qualifica la decorazione nell’adozione di linee neoclassiche importate dagli architetti napoletani, sopraggiunti a seguito dell’intervento d’emergenza.4 Malgrado le successive calamità naturali e l’inappropriato intervento di privati e pubbliche amministrazioni, il panorama architettonico e ambientale del Basso Tirreno Reggino mantiene tutt’oggi numerose, sottovalutate, testimonianze di edilizia storica comprese in un ambito di particolare interesse naturalistico, tramandato nella memoria collettiva da numerosi cronisti che, dal tardo Quattrocento in avanti, descrivono un territorio felice dove nascono quasi tutte le cose, non solamente necessarie per il vivere de’ mortali ma, eziandio, per le delizie e piaceri d’essi. [dove coesistono] utili fiumi, dilettevoli colli dell’Appennino, e folti Boschi di altissime Ilici. E Non vi mancano le fertili Valli, producevoli di frumenti e d’altre Biade. [Una
terra] dalla grande abbondanza delle buone e necessarie cose, per il vivere de’ mortali (...).5 Note 1. F. Valensise, Dall’Edilizia all’Urbanistica, Gangemi (Roma) 2003, p.55. 2. L’eversione del regime feudale fu istituita da Giuseppe Bonaparte con la legge del 2 agosto 1806. 3. A. Frangipane, Calabria artistica dal 1783 al 1860, Atti del II Congresso Storico Calabrese (1961), Ed. Fiorentino (Napoli), p. 99. 4. Progettarono numerose residenze, chiese, insediamenti produttivi gli architetti di scuola Vanvitelliana: Filippo Frangipane, Biagio Scaramuzzini, Giovambattista Vinci. 5. G. Pontano, Meteorum Libri. (XV sec.)
architecture and Landscape The architectural and environmental panorama of the Basso Tirreno Reggino area still includes numerous and insufficiently appreciated examples of historical building in a natural setting of particular interest. The transition from castles to baronial palaces and then stately mansions reflects the gradual change in society that shaped the middle-class physiognomy of property-owning in the 19th century. Many houses in the area display recognizable architectural elements that characterized religious and industrial buildings as well as the homes of the prosperous classes.
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Tra ricordi e sapori di un tempo
FRANTOI E PALMENTI di Mimmo Gangemi
Frantoio, S. Cristina d’Aspromonte
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C’è lo spettacolo di un’unica
massa grigioverde di giganteschi ulivi mentre risaliamo le campagne costeggiando l’alveo della fiumara “Lago”.
I passi scricchiolano sulle foglie secche. Il fiato non è più quello dei giorni migliori, affanna, gli occorrono pause. Le reti per la raccolta tingono di colori forti l’ombroso sottobosco perforato da lunghi e polverosi cilindri di luce, che vanno a schiacciarsi e a morire in terra. Sapienti muri a secco, con gradini in pietra a sbalzo da altre pietre, sostengono i terrazzamenti. Nella fiumara, la scarsa acqua sopravvissuta all’estate seccagna restituisce in irrequieto riverbero il sole a picco e si trascina lenta e serpeggiante verso il mare, con un fruscio di sottofondo che a stento riesce a separarsi dai pacati rumori della natura. L’aria dei primi di ottobre è ancora calda: l’estate non s’è fatta bene i conti e non s’è accorta ch’è tempo d’arrendersi all’autunno. A ridosso dell’alveo, che è il confine tra i comuni di S. Cristina d’Aspromonte e di Scido, i ruderi di antiche macchine olearie, a cui è rimasto appiccicato il nome delle famiglie che le possedettero – c’è quella dei Tallarida, dei Vergara. Sono muri in pietrame e calce diroccati, con il tetto rovinato giù e l’interno impedito ai passi da un groviglio disordinato di spine e di rovi e dall’idea che vi si annidino vipere, qua e là si vedono le loro mute. All’incrocio tra due fiumare – neppure congiungendo le forze hanno dignità di corso d’acqua – il trappeto dei Longo Mazzapica che ha resistito al tempo e all’abbandono. Spicca più in alto, in cima a un costone degradante a petto di colomba. È adagiato sul triangolo di terra delimitato dai due alvei. La posizione felice, il riguardo usato dalle fiumare e la cura dei proprietari hanno conservato la preziosa testimonianza di una civiltà contadina da non disperdere. Si intravede il canale per l’acqua, deviata dalla fiumara, con cui si attivava la gigantesca ruota porziana e, attraverso essa, tutta una serie di sincronismi, incastri, ingranaggi, fino alla rotazione delle due grandi macine in pietra. Più a monte, la macchina olearia della Turca, solo mozziconi di muri ormai. Prima scompare ogni traccia e meglio è, ci si augura da queste
parti, perché le aleggiano intorno leggende terribili, che sconsigliano dal passarci vicino di notte, per non incocciare nelle urla strazianti della Turca che da oltre cent’anni tranciano il silenzio, le stesse di quando il marito turco la sgozzò, e per non impattare faccia a faccia con il morto suicida appeso a mezz’aria a una corda tesa giù dal cielo ma fissata a niente. Il trappeto più cocciuto ha lavorato fino al ’65. Se ne vanta, sempre e a bocca piena, compare Cicco Terreti. E si smarrisce nei ricordi: «facevamo certe mangiate, topi di fiumara grassi, e lunghi così, saporiti assai, e vino», mostrando l’estensione del braccio e roteando una mano per un maggiore apprezzamento alla bontà di quella dieta giornaliera a base dei fratellastri dei ghiri, pietanza invece di alta nobiltà, questa. C’era l’ingegno dell’uomo nel ciclo meccanico delle macchine olearie, una modernità che aveva soppiantato le macine prima ruotate con la forza di asini e di muli, in un eterno giro in tondo che ne consumava le vite in pochi anni. Come ogni altra modernità, invecchiò a sua volta, il sistema ad acqua fu soppiantato dalla corrente elettrica e i nuovi manufatti vennero costruiti nei paesi, gli ultimi senza nemmeno le macine. Qua gli uliveti ci sono da sempre. Hanno avuto un incremento alla fine del XVIII secolo, per fare fronte alla richiesta inglese di olio per la prima industrializzazione. In precedenza, gli alberi erano piantati molto più larghi, a quadrilatero e con uno al centro. Ciò consentiva altre colture al suolo – ortaggi, grano, mais – e i braccianti avevano maggiori occasioni di lavoro, distribuiti in più periodi dell’anno. Fino allora, più importante dell’olio era stata la produzione della seta, con i gelsi, i bachi. Non si tirava granché per vivere. Apposta gli ulivi ne sbaragliarono facilmente la concorrenza. Solo le vigne resistettero, il vino non aveva e non ha cali di richiesta, ogni classe sociale ne ha sempre fatto un largo consumo. Anche nelle tavole bandite di miseria, a non trovare mai pace erano l’unico coltello da spartire tra tutti e la bottiglia con il vino. Apposta, assieme ai trappeti, abbondavano i palmenti. Ci si imbatte in molte campagne, oggi uliveti, dove la vigna, pur estirpata, non si rassegna e resiste caparbia, spanciano infatti la terra tralci inselvatichiti con tronchi scuri e nodosi che non trovano appigli da accerchiare, a cui aggrapparsi, e tuttavia capaci ancora di grappoli, sebbene dai chicchi minuscoli e induriti.
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Ulivi
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I vecchi palmenti sono più in rovina delle macchine olearie, muri in pietra nuda d’intonaco e muschiati, tane di serpi e ammassi di erbacce. Erano costituiti da due vasche con le pareti interne impermeabilizzate a coccio pesto – tegole frantumate e sabbia legate con calce – degradanti e messe in comunicazione da un foro. L’uva veniva versata nella vasca superiore, dopo aver occluso il foro di scolo con argilla pressata, e pestata e ripestata con i piedi. Poi si stappava il foro e il mosto percolava nella vasca sottostante, filtrato con un mazzetto di foglie di asparagi, e lì restava in macerazione per uno o due giorni. Le vinacce erano ulteriormente pigiate, ammucchiandole su un lato, mettendoci sopra una tavola e su questa un torchio rudimentale realizzato con una grossa trave in legno. Decenni che i palmenti sono stati dismessi, ci sono i torchi, più facili da usare e migliori nella resa. Così si è però persa anche la magia. E bisogna accendere la fantasia per rivivere quei momenti che si attendevano con ansia. Così, a concentrarsi sulle folate del vento, si riescono a separare i canti e le risate allegre di donne, uomini e bambini intenti a pestare l’uva con i piedi, in un giorno di festa qual era la vendemmia; ad annusare l’aria, si avvertono gli odori di allora, dell’uva, del mosto, della vinaccia, dell’olio appena spremuto, della morga dei frantoi. E la mente si colma dell’immagine di un asino che trasporta le olive al trappeto o le uve al palmento, i cofani caracollanti, la testa su e giù come per pompare le ultime forze prima di crollare
sfinito. Seguiva il percorso più agevole, il meno faticoso – sì, lo scecco, sembrerà incredibile ma a esso l’uomo affidava il tracciato di una strada di montagna: liberato ai piedi del dislivello da superare, sapeva scegliere la pendenza più abbordabile e i tornanti dove invertire direzione; bastava annotare il naturale istinto dell’animale e nasceva il tracciolino, meglio che sul tavolo da disegno di un ingegnere. Altri tempi, irripetibili, volti appannati, imbrattati di fuliggine, ombre antiche che penetrano la nebbia e vi si dissolvono piano, mentre il mondo procede frenetico e i ricordi diventano testimonianze da custodire.
olive presses and millstones The remains of ancient millstones and olive presses are to be found by the Lago river marking the boundary between Santa Cristina d’Aspromonte and Scido. The press that has best withstood the ravages of time and abandonment is the Longo Mazzapica with its canal for water deviated from the river to turn the huge wheel. Presses of this kind gradually gave way to new ones powered by electricity and located in towns. The olive groves have instead always been there, and indeed saw expansion in the late 18th century to meet the English demand for oil in the first industrial revolution. Wine production has also increased over the years, whereas the old millstones, superseded by presses, are in a state of abandonment. There are, however, still traces visible throughout the territory.
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Viaggio in un tempo non ancora trascorso
LA VALLIS SALINARUM FRA SANTI E SOLDATI di Giorgia Gargano
Ruggero il Normanno
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E se facessimo un salto
all’indietro, diciamo di… un migliaio di anni o giù di lì? Cosa vedremmo nella piana di Gioia Tauro e sulle colline che le fanno da corona?
Di certo, sapremmo di trovarci nella vallis salinarum e attorno a noi avremmo lungo la costa impaludamenti e laghi di acqua salata; sulle pendici delle colline, piccoli abitati isolati, arroccati su cucuzzoli o su pianori lontani dal mare; grotte preistoriche, ora bazzicate da religiosi, eremiti e asceti; rovine delle antiche città greche e romane, ormai mimetizzate con una natura invadente; antiche strade abbandonate e nuovi scomodi tratturi; nessun ulivo e invece vigneti, giardini e campi come feudi; «boschi produttivi» di castagni addomesticati a furia di innesti; mulini, a sfruttare l’energia dei ricchi corsi fluviali. Il popolamento dell’area era scarso e disorganizzato; la sicurezza lasciata al caso e messa a dura prova da continue battaglie, incursioni, scaramucce e conseguenti azioni di repressione; la mortalità infantile altissima, legata alla natura malarica delle coste e alla praticamente inesistente cultura dell’igiene, polverizzatasi insieme all’impero di Roma. Ecco da dove proviene il topos di un Alto Medioevo decadente e oscuro; veritiero fino a un certo punto, dato che fu questa l’epoca che incubò nel proprio ventre i grandi movimenti politici, religiosi e culturali che già a partire dai primi anni del secondo millennio tireranno la Calabria fuori dalla prospettiva provinciale nella quale era precipitata all’indomani della caduta dell’impero romano. La vallis salinarum è lo spazio geografico – ma anche cronologico – entro il quale ricade la cosiddetta eparchia o turma delle Saline, oggi corrispondente grosso modo ai confini dei comuni che ricadono lungo la valle del fiume Petrace: circoscrizione amministrativa già esistente sotto i re Normanni (una delle prime notizie è del 1051) ma erede della tradizione bizantina che ha informato di sé l’intero territorio. Non è chiaro se il toponimo voglia evocare gli acquitrini costieri o se invece vi si debba rintracciare il ricordo di un’antica via del sale. Fatto sta che, anche successivamente alla conquista di Reggio da parte di Ruggero il Normanno nel 1060, questa zona resisteva all’adozione del rito religioso latino, in favore di quello greco; memore del fatto che Reggio, già celebre per essere rimasta l’unica città di cultura greca
nell’Italia dell’impero romano, nel IX secolo era stata elevata a metropoli, divenendo il più importante centro religioso bizantino in Calabria, nonostante che, quasi contemporaneamente, gli Arabi dominatori della Sicilia avessero fondato solide enclaves a Tropea, Santa Severina e Amantea. Procedendo ancora nel nostro viaggio a ritroso nel tempo, il territorio della Calabria, poco meno di un secolo dopo la caduta dell’Impero romano, era stato conquistato dai Bizantini alla fine della guerra grecogotica, nel 553 a.C., quando ancora veniva indicato con il nome che l’imperatore Augusto gli aveva assegnato: Bruttium o, più precisamente, terra dei Bruttii. E anche quando i Normanni sancirono la divisione tra Calabria Citra e Calabra Ultra, assegnando al conte Ruggero il controllo delle terre a sud dell’istmo tra Squillace e Rocca Angitola, la diffusione della fede cristiana attraverso la pratica del rito greco di origine orientale fu uno dei tratti unificanti tra il nord e il sud della regio. Le strade interne rese tortuose da una natura aspra quanto rigogliosa furono percorse da monaci che, nel cercare ripari dove isolarsi dalla vita del mondo, andarono fondando monasteri e cenobi, a molti dei quali ancora dobbiamo la tradizione dei testi della cultura classica. San Fantino il Vecchio, sant’Elia lo Speleota, san Fantino il Giovane, san Filarete, sant’Elia juniore: nel loro inseguire un’ideale ascetico, divennero presenze politiche di reale pregnanza in quella Calabria, paladini della fede e della gente contro le invasioni dei temibili saraceni, figure enigmatiche attorno alle quali fiorì una nuova mitologia – non minore di quella classica, anche se meno nota -, attori ed eroi disarmati di una guerra di religione che era ancora ai suoi albori… e che non possiamo ancora dire esaurita. Questo è il quadro nel quale ci muoveremo alla ricerca delle tracce labilissime delle popolazioni che, tra la fine del V e la fine del XII secolo, mossero i loro passi in quella selvaggia, ricca, sfuggente, carismatica, incandescente vallis salinarum.
Vallis salinarum A thousand years ago the valley of the present-day Petrace river on the plain of Gioia Tauro was known as the Vallis Salinarum. With the its salt-water lakes and swamps, prehistoric caves, small villages, Greek and Roman ruins, vineyards, woods of chestnut trees and mills, this administrative area already existed under the Norman kings (the first mentions dates back to 1051) but was in fact heir to the Byzantine tradition that moulded the territory. Elevated to metropolitan status in the 9th century, it became the most important Byzantine religious centre in Calabria.
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Dalla protostoria al Cinquecento
IL PARCO ARCHEOLOGICO DEI TAURIANI di Maria Teresa D’Agostino
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Si estende a pochi chilome-
tri da Palmi, nell’area delimitata a nord dal fiume Petrace (l’antico Métauros). Un’altura pianeggiante, tutta ricoperta da alberi di ulivo, dove il fiero popolo dei “Tauriani” diede vita a un fiorente centro abitato. A ridosso dell’Aspromonte, ricco di legname, di spazi per il pascolo e di pece. E di fronte al mare. Proprio nelle aree delle odierne Palmi e Oppido Mamertina, i lavori di scavo hanno portato alla scoperta di laterizi e canalette di scolo
Strada romana Tauriana
bollati con il genitivo taurianoum, dei Tauriani. La conferma inconfutabile che, proprio lì, il valoroso popolo italico aveva dato luogo a uno sviluppato insediamento urbano. In posizione strategica, all’imbocco della zona settentrionale dello Stretto. Resti di armature bronzee tipiche del corredo italiota e, ancora, ceramiche dipinte con i loro tradizionali colori: bianco, rosso e violaceo. Dal IV al I sec. a.C., in età ellenistica, quindi l’altopiano fu territorio dell’importante città bruzia e, dalla seconda metà del I sec. a.C. al IV sec. d.C., di una polis romana che mantenne lo stesso nome. Plinio il Vecchio e Pomponio Mela, nei loro scritti, parlano infatti di una città romana chiamata Taurianum. Una storia lunga otto secoli e oltre. Il “Parco Archeologico dei Tauriani”, intitolato allo storico palmese Antonio De Salvo, che per primo già a fine Ottocento portò l’attenzione sul sito, racchiude tutta la magia della stratificazione dei tempi. Dalla preistoria, ancor prima della discesa della
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gente italica, ai romani, ma ancora avanti, fino al medioevo. Inaugurato nel 2011, custodisce uno straordinario patrimonio di storia e cultura finalmente riportato alla luce dopo sedici anni di lavori di scavo da parte degli archeologi della Soprintendenza. Al suo interno si trovano l’impianto urbano della città (di quella brettia prima e di quella romana poi), opere pubbliche, edifici sacri, luoghi destinati all’intrattenimento e strutture difensive. “La casa del mosaico”, risalente al I sec. a.C., il santuario conosciuto come “la casa di Donna Canfora”, una strada romana, e una struttura per spettacoli di forma circolare. A prevalere sono i reperti di epoca romana e strutture medievali come la Chiesa di San Fantino e la Torre Saracena. Ma sono ben visibili anche le tracce di un villaggio di capanne risalente all’età del Bronzo, più di quattromila anni fa. Il “teatro” che, molto probabilmente, era nato come anfiteatro, poteva ospitare fino a tremila persone. E al luogo dedicato allo spettacolo (manife-
stazioni ludiche, combattimenti di gladiatori e, pure, teatro vero e proprio) conduceva la lunga strada in pietra che, poi, andava a incrociare la famosa via Popilia, quella che congiungeva Reggio Calabria a Roma. Un lungo arco temporale quello di cui è possibile ritrovare i resti strappati al disfacimento del tempo, recuperati e offerti alla contemporaneità. Epoche differenti che si ritrovano tutte nella stessa dimensione spaziale per raccontare l’affascinante storia di un territorio e delle sue genti. Seducente “coesistenza” di tempi e di memorie. Un unicum, che dalla protostoria arriva alla civiltà magnogreca e alla Roma imperiale, fino agli splendori della cultura bizantina e l’epoca cinquecentesca. Proprio a quest’ultimo periodo risalgono la Chiesa di San Fantino (1552), ubicata a ridosso del Parco, e la torre saracena che domina lo Stretto con un’ampia visuale che arriva fino a Capo Vaticano, da una parte, e le Isole Eolie dall’altra. Non meno affascinante è il sito di contrada Mella, un’altura sul territorio di Oppido Mamertina, dove sono stati rinvenuti reperti, risalenti al periodo tra il IV e il II sec. a.C., e che secondo gli studiosi potrebbe nascondere ancora l’antica città di Mamertion. Monete, vasi, statuette, monete, e ancora i segni di una strada, i resti di condutture d’acqua e piante quadrate ricollegabili all’esistenza di abitazioni: testimonianze chiare della vita di un centro cittadino. Sempre nel comune di Oppido, si trovano inoltre il fortino di contrada Palazzo e, nella frazione di Castellace, i resti dell’antico centro di Buzano e nuclei sepolcrali dell’età del bronzo e di quella ellenistica. Mentre il Museo di Scido custodisce preziose testimonianze del mondo antico. Impossibile non rimanere affascinati da tante e tali stratificazioni del tempo, capaci di riportarci il respiro di epoche remote, in uno scenario paesaggistico che, invece, mantiene intatta la sua straordinaria bellezza attraverso i secoli.
The Tauriani park Named after the historian Antonio De Salvo from Palmi, the first to draw attention to the site in the late 19th century, the Tauriani archaeological park holds all the magic of stratified time: from the prehistoric era, even before occupation by the Italic people, to the Roman era and on into the Middle Ages. Inaugurated in 2011, it presents an extraordinary heritage of history and culture finally brought to light after 16 years of excavation by the archaeologists of the local superintendency.
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Snorkeling in Costa Viola
SCIVOLANDO TRA GLI SCOGLI di Francesco Turano
Costa Viola
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Ho provato proprio una sensazione speciale, come stessi scivolando tra gli scogli, in punta di pinne…
Acqua cristallina, superficie spazzata da un forte vento meridionale e disegnata dalle raffiche ma senza la più piccola onda (un angolo totalmente riparato), bassofondo cosparso di rocce franate su un fondo di sabbia e ghiaia chiara e altamente riflettente, atmosfera gaia e serena, con forti contrasti di azzurri e tinte calde offerte dalla
copertura algale delle rocce: tutti elementi che rendono a dir poco coinvolgente un percorso a galla con maschera e pinne; osservando la magia dei fondali, aiutati dall’insostituibile snorkel, quel semplice elemento dell’attrezzatura subacquea così importante da consentire di nuotare a testa immersa e nello stesso tempo respirare, scopriamo la vita nei primi cinque metri di profondità, ma soprattutto sotto il pelo dell’acqua, nello splendido mare della Costa Viola. Un mare dove le pendici d’Aspromonte rivolte a nord ovest riescono ancora a creare spettacolo, con pareti a picco che tra Bagnara e Palmi creano quel litorale roccioso dalle peculiarità uniche in tutta la Calabria. Ad accoglierci sott’acqua ci sono subito famiglie di allegri latterini, snelli
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pesciolini argentati dal nuoto tranquillo. Insieme a loro giovanissime salpe dorate, brillanti sotto i raggi del sole, splendide nei loro spostamenti sincronizzati che le vedono impegnate nel brucare sugli scogli affioranti. In acqua libera ancora pesciolini in movimento: giovani pagelli e piccole occhiate. Sospese a mezz’acqua le castagnole, con il loro nero, contrastano con l’azzurro intenso dell’orizzonte subacqueo percepibile, caratterizzando la visione d’insieme della scena, bellissima, osservata puntando lo sguardo al mare aperto e subito profondo. Il manto delle alghe, che riveste abbastanza uniformemente la roccia, ha tinte tiepide, giallastre o brune, e si specchia sulla superficie calma creando ambientazioni avvolgenti e rassicuranti,
un ambiente stupendo dove troviamo la felicità e la gioia di scoprire la vita al confine tra aria e acqua, tra terra e mare. Osservando da vicino con meticolosa attenzione sulla superficie della roccia, tra ciuffi d’alghe e interstizi, piccoli pesciolini si lasciano scoprire nel loro baldanzoso movimento continuo, alimentato dall’andirivieni del mare che lambisce le rocce affioranti e quelle di poco emergenti. Alzando il capo sulle pareti che, verticali, continuano il loro andare fino a sparire sott’acqua nel blu, possiamo scorgere famiglie di gabbiani che ci osservano incuriositi ma non turbati e, più in lato nel cielo, qualche poiana o un falco pecchiaiolo secondo la stagione. Le pareti costiere della Costa Viola custodiscono habitat emersi e sommersi delicati
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e affascinanti, e il confine tra aria ed acqua è un unicum straordinario di sorprese per il naturalista attento. La madrepora arancione (Astroides calycularis), la più vistosa macchia di colore reperibile lungo tali coste rocciose, è protagonista nei primi
metri sotto la superficie; il bell’aspetto di molti ambienti rocciosi, legato alle sue vaste colonie di polipi arancio saturo, distribuiti a tappeto all’ombra delle rocce a partire dalla superficie, è tipico di questo lembo di Mediterraneo calabrese. L’alternanza di tali colonie con altre specie
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animali, incrostanti il duro substrato, rende le pareti degli scogli vere e proprie tavolozze d’arte, dove forme e colori confondono l’osservatore; solo una fonte di luce artificiale e una spiccata abilità, con occhio allenato all’individuazione delle diverse forme di vita presenti, rende
giustizia alla magnificenza della biodiversità che qui si concentra in poco spazio; un metro quadrato di roccia può celare la presenza di molti tipi di celenterati, poriferi, anellidi, molluschi, crostacei ed altro ancora. Tutto questo visibile solo con la testa immersa, respirando dal fede-
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le e insostituibile snorkel, senza minimamente accennare ad immergersi… Nella fascia di marea, a volte immersa e a volte emersa, vivono quelli che volgarmente, per via del buffo aspetto simile a un pomodoro maturo, sono chiamati pomodori di mare. Eleganti attinie che aperte ricordano incantevoli fiori tipici delle terre emerse, sostituiscono l’assenza dei fiori nel mare, con i loro tentacoli disposti in cerchio intorno alla bocca, che nell’aspetto ricordano petali ma che in realtà sono parte importante di un animale; tutti i “fiori” del mare sono in realtà animali invertebrati, celenterati antozoi nello specifico. Il pomodoro di mare è spesso chiuso su se stesso, a meno che non lo si osservi durante le ore notturne o in situazioni particolari con l’alta marea. Nuotando a fior d’acqua, si ha modo di scoprire il loro mondo, frequentato da molluschi come le patelle e crostacei come il timido favollo, un robusto granchio cavernicolo. Lo spettacolo del mare illuminato dal sole si rinnova ogni volta sotto i nostri occhi di amanti del
Mare e della Natura di una splendida e sempre diversa Costa Viola; per chi sa apprezzare, tutto un mondo si concederà ai nostri occhi di semplici osservatori. Quegli ambienti colorati e vivi che, se conosciuti, potrebbero permettere di far nascere quel pizzico di sensibilità nei confronti del mare, potrebbero portarci ad apprezzare la nostra terra, il nostro paesaggio e quindi il nostro grande e sconosciuto patrimonio naturalistico sommerso.
The costa Viola The spectacle of waves glittering in the sun along the splendid and ever-changing Costa Viola never fails to enchant all lovers of the sea and nature. For those able to appreciate it, a whole world will open up to delight the eye. Once known, these places bursting with life and colour can engender responsiveness to the sea, appreciation for this land and this landscape as well as the great and unknown natural heritage beneath the waves.