Amodio

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Alta Definizione Gallucci



Maurizio Fiorino

Amodio


Maurizio Fiorino Amodio ISBN 978-88-6145-744-7 Prima edizione ottobre 2014

ristampa 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2014 2015 2016 2017 2018

© 2014 Carlo Gallucci editore srl - Roma © 2014 Maurizio Fiorino Pubblicato in accordo con l’agenzia Otago Foto di copertina: Ennio al faro verde di Crotone © 2014 Maurizio Fiorino

Il marchio FSC® garantisce che la carta di questo volume contiene cellulosa proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. L’FSC® (Fo­ rest Stewardship Council®) è una Organizzazione non governativa internazionale, indipendente e senza scopo di lucro, che include tra i suoi membri gruppi ambientalisti e sociali, comunità indigene, proprietari forestali, industrie che lavorano e commerciano il legno, scienziati e tecnici che operano insieme per migliorare la gestione delle foreste in tutto il mondo. Per maggiori informazioni vai su www.fsc.org e www.fsc-italia.it Tutti i diritti riservati. Senza il consenso scritto dell’editore nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e da qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, né fotocopiata, registrata o trattata da sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni.


A Francesca Magnani, preziosa amica


“La verità che mi propongo d’esporre qui non è particolarmente scandalosa, o meglio non lo è se non nella misura in cui non c’è verità che non susciti scandalo. Non m’aspetto che i tuoi diciassette anni ne capiscano qualcosa; ci tengo, tuttavia, a istruirti, fors’anche a urtarti” Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano “Oportet ut veniant scandala” Vangelo di Matteo, 18,7

Avvertenza I fatti narrati in questo romanzo sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni riferimento a eventi realmente accaduti e a persone realmente esistite o esistenti è pertanto casuale.


Prima parte



Bar Moka

Il Sud è davvero bello, pensai guardando fuori dal finestrino dell’autobus. Un’alba rosa, che dal fondo del mare si espandeva lenta verso il cielo, aveva da poco illuminato la strada che mi stava riportando a casa. «Che spettacolo, eh?» l’autista del Roma-Crotone sembrò leggermi nel pensiero. «Peccato che poi si guasta». Annuii con un mezzo sorriso e pensai che quel­ l’uomo doveva essere uno dei soliti pessimisti crotonesi, per i quali ogni bellezza deve necessariamente nascondere qualcosa. Poi gli occhi mi si chiusero nuovamente, pieni di sonno. «Eh sì» sospirò lui tentando in ogni modo di tenermi sveglio. «Troverai Crotone uguale a come l’hai lasciata. Qui non esiste né l’inverno né la primavera e c’è ancora un caldo! A proposito, l’hai portato il costume?» mi domandò subito dopo. «Vedrai quanti giovanotti ci sono a mare, fanno ancora il bagno, beati loro». Lo seguivo a stento. Ogni tanto riemergevo dal torpore aggrappandomi alle ultime parole che pronunciava, e subito dopo precipitavo nel sonno. 9


«Vero è che sono un po’ esagerati» aggiunse fissandomi dallo specchietto, con un tono di voce improvvisamente severo. «Già non si capisce niente, adesso non rispettiamo più neanche madre natura… Sai che dice muddjerma?» mi chiese, ma ero più addormentato che sveglio. «Ooooh» urlò «ci sei??? Come hai detto che ti chiami?» «Armando» feci, svegliandomi di botto. «Lo sai che cosa dice muddjerma?» ripeté. Mi arresi. Dischiusi gli occhi e mi sistemai meglio sul sedile, seguito dal suo sguardo che mi spiava. «Scusi, che ha detto?» domandai con la voce assonnata e reprimendo uno sbadiglio. «Muddjerma, mia moglie, dice che non esistono più le mezze stagioni!» disse continuando a fissarmi. Sbadigliai maleducatamente e a bocca aperta verso di lui. «Va bene» risposi. «Vedrai, Armandino, ti riabituerai subito al dialetto crotonese! Da quant’è che non vivi più qui?» «Quattro anni» risposi riuscendo a trattenere a stento un altro sbadiglio. «Comunque, io mi chiamo Michele, ma tutti mi chiamano Mico». Annuii ancora una volta, poi guardai in direzione della strada. Mico, che aveva parlato ininterrottamente per quasi tutto il viaggio, si fece silenzioso, per poi riprendere, un attimo dopo, a borbottare. «Quattro anni, quattro… Quattro anni, eh, quattro…» ripeteva come se stesse recitando un mantra, 10


desideroso di attirare la mia attenzione. «Caspita!» urlò infine, esplodendo. «Quattro, sì» risposi tirandomi su dal sedile in segno di resa. Ero in viaggio da sette ore, e a parte un paio d’ore di dormiveglia non avevo chiuso occhio un solo secondo e lui, Mico, se n’era approfittato spudoratamente. “Non dormo io, non dormi neanche tu” sembrava dirmi con quegli occhi che mi avevano fissato ininterrottamente dalla stazione di Roma Tiburtina in poi. «Sveglia, sveglia, Armando!» fece tutto allegro, vedendomi togliere gli occhiali da sole. «Che ci siamo quasi! Meno male che almeno tu mi tieni compagnia! E com’è che non sei mai venuto a trovarci in quattro anni?» Non seppi cosa rispondergli. «Non mi andava» dissi allargando le braccia e rimettendomi gli occhiali. «E i tuoi genitori?» mi domandò. «Stanno in Inghilterra pure loro?» Mi limitai a fare cenno di no col capo. Poi guardai fuori dal finestrino sperando che, così facendo, Mico smettesse di interrogarmi. «Perché hai deciso di tornare? Hai fatto quattro, fai trentuno!» fece ridendo da solo per il gioco di parole. «Qui non cambia nulla, si peggiora e basta, potevi rimanere in Inghilterra che era meglio». «Quanto manca?» chiesi. 11


«Siamo quasi alla montagna del brigante… Più o meno venti minuti. Ti fermi assai a Crotone?» «Soltanto pochi giorni» risposi, continuando a guardare fuori dal finestrino. Eravamo all’altezza di Rocca di Neto e il sole cominciava a salire tra le montagne. Man mano che mi avvicinavo a Crotone, un leggero senso d’ansia cominciava a montarmi su dallo stomaco, facendomi svegliare del tutto. Presi a mangiucchiarmi le unghie e mi venne una gran voglia di accendermi una sigaretta. «Perché il pullman è vuoto?» domandai a Mico. «A ottobre chi vuoi che scenda a Crotone?» disse lui. «Già non viene nessuno in estate, figurati adesso!» Che tristezza, pensai. «Eccola!» urlò indicando l’enorme masso dalla cui punta, secoli fa, un brigante inseguito dai gendarmi si era lanciato giù a capofitto riuscendo miracolosamente a salvarsi. «Quando superi la montagna del brigante, sei a Crotone» aggiunse. Il paesaggio, i campi sterminati invasi da pezzetti di spiaggia, e poi il mare azzurro, e i colori del cielo che andava man mano schiarendosi, mi ripagavano da quell’estenuante viaggio che, graziaddio, era quasi al termine. «Benvenuti a Crotone, la città di Pitagora» lesse Mico ad alta voce su un cartellone posto all’ingresso dell’abitato. «Come no?» aggiunse con tono 12


ironico. «Altro che la città di Pitagora, la città della merda è questa! Guarda qui, che schifo» fece, puntando il dito contro l’enorme ammasso di ferri arrugginiti che era la Pertusola abbandonata. Mi alzai dal sedile e mi stiracchiai: non riuscivo a crederci, ero a Crotone, dopo quattro anni. «Vuoi essere lasciato da qualche parte?» mi domandò. «Visto che sei l’unico passeggero e siamo in anticipo di dieci minuti, posso lasciarti dove vuoi». Scesi in piazza Pitagora, che a quell’ora era deserta. Un camioncino fuori dall’edicola di Mariuzzo stava scaricando pacchi pieni di quotidiani e lo spazzino, con un paio di cuffiette nelle orecchie, pu­ liva la strada fischiettando. La saracinesca del Bar Moka era alzata a metà, segno che mancava poco all’apertura, e si sentiva il profumo dei cornetti appena sfornati. «Non ti viene a prendere nessuno?» mi domandò Mico, vedendomi solo. «Nessuno» risposi abbozzando un mezzo sorriso, felice di non dover più rispondere a nessuna domanda, e accendendomi, finalmente, una sigaretta. «Grazie per la compagnia, Armandì» fece lui salutandomi con la mano. «Grazie Mico, e ciao» feci, ricambiando il saluto. Faceva assai caldo, considerando che erano appena le sette di mattina e che erano i primi giorni di ottobre. Avevo lasciato Londra col suo grigio e 13


il gelo e mi ritrovavo a Crotone con quindici gradi in più, pareva estate. Diedi uno sguardo a piazza Pitagora e pensai a quanto avesse ragione Mico a dire che qui niente cambia. D’altronde quella frase l’avevo sentita migliaia di volte sin da quando ero bambino. Tutto era rimasto identico a come lo avevo lasciato. Stessi negozi, stessi colori, stesso silenzio. A un tratto quel silenzio tombale fu rotto dal rumore di una saracinesca che si alzava. Era quella del Bar Moka. Man mano che mi avvicinavo l’odore di cornetto appena sfornato si faceva più forte e una voce femminile, possente e sguaiata – inconfondibile – ruppe col suo bercio il religioso silenzio che regnava nella piazza. «Ana» bisbigliai tra me e me, e un sorriso mi si aprì da un orecchio all’altro. La voce era la sua, l’avrei riconosciuta anche a distanza non di anni, ma di secoli. Posai il borsone a terra e finii la sigaretta che mi ero appena acceso. Quattro anni sono tanti, pensai. Mi avrebbe riconosciuto? Avrebbe fatto finta di nulla, abbracciandomi, oppure mi avrebbe rimproverato per quella lunga, seppur giustificata, assenza? Caspita, continuai a pensare, una lettera avrei potuto pur scriverla, in quattro anni. Cominciai ad essere nervoso, molto, e le gambe mi presero a tremare. Feci un ultimo tiro e buttai la sigaretta a terra. Il cuore mi batteva così forte da rimbombare in tutto il corpo e quando varcai la soglia del Moka e vidi Ana, che in quel momento era in pie14




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