La piuma del ghetto

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Antonello Capurso

Leone Èfrati, dalla gloria al campo di sterminio romanzo

Restare negli Stati Uniti. Lontano da tutto, dalle leggi razziali, dal fascismo che diventava sempre più aggressivo, al sicuro da Hitler che chiedeva la fine del popolo ebraico in cambio della pace. Lontano. Ma Ester e Romoletto? Svanita la tensione dell’incontro con Rodak, una malinconia liquida e struggente aveva ripreso a scorrere nelle vene di Lelletto.

Quando il sole tramontava sui grandi laghi, dietro i grattacieli, la mente di Lelletto era prigioniera. Molto più in là dei mari e delle terre, dei continenti e degli oceani, pensava a Ester. Ester, che ancora rappresentava, per lui, la vita.

UAO

Universale d’Avventure e d’Osservazioni

Antonello Capurso

La piuma del ghetto

ISBN 978-88-3624-935-0

Prima edizione gennaio 2023 ristampa 8 7 6 5 4 3 2 1 0 anno 2027 2026 2025 2024 2023 © 2023 Carlo Gallucci editore srl – Roma

Opera pubblicata con il patrocinio della Fondazione Museo della Shoah Gallucci e il logo sono marchi registrati Se non riesci a procurarti un nostro titolo in libreria, ordinalo su: galluccieditore.com

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La piuma del ghetto

Leone Èfrati, dalla gloria al campo di sterminio

Antonello Capurso

I fatti che seguono sono realmente accaduti.

I

La valigia ritrovata

C’è memoria in ogni cosa. Gli oggetti non dimenticano, ma gli uomini? ***

La musicaritmata inondava la palestra di via Frangipane, a Roma, per accompagnare i ragazzi che si allenavano, eredi di una lunga tradizione di pugili e schermidori, lottatori e pesisti, calciatori e podisti. Due di loro si affrontavano sul ring girandosi intorno, senza mai affondare i colpi. Altri, più in là, sollevavano pesi con grida e sbuffi, altri ancora colpivano il sacco senza risparmiarsi. Su una parete campeggiava un grande dipinto che rievocava la nascita della società all’inizio del Novecento, con due boxeur d’altri tempi in guardia, al centro la scritta “A.S. Audace” e, sotto, la lupa capitolina e un grande scudetto a bande verticali bianche e rosse, stagliati sullo sfondo del Colosseo.

Quel giorno Emilio Lucioli, un ex pugile rimasto nell’ambiente, aveva finito di rimettere a posto attrezzi e guantoni abbandonati in giro, ed era stato incaricato di dare un ripulita al magazzi-

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no, la grande stanza in fondo al corridoio che collegava palestra, ring, uffici di presidenza e spogliatoi.

«Lucioli, te la senti? Se serve puoi chiamare i ragazzi in palestra per farti dare una mano» gli aveva detto il presidente dell’Audace, Cesare Venturini.

«Faccio io, presidente, lasci i ragazzi ad allenarsi. Devono lavorare sodo, se vogliono diventare qualcuno».

Il magazzino era pieno di scatoloni, sedie rotte, punching ball sfondati, vecchi arnesi sportivi finiti nell’oblio dopo un onorato servizio, dimenticati nel miraggio del riutilizzo e ormai definitivamente inutili. In quella bolgia male illuminata, mentre si affannava in un angolo più scuro, Lucioli aveva creduto di vedere qualcosa di familiare. Per guardare meglio, si era avvicinato e facendosi largo tra gli ingombri, poco a poco, impolverata, era venuta allo scoperto una valigetta di pelle.

«Presidente, venga a vedere!» aveva gridato.

“È lei, proprio lei, è un miracolo” pensava. E intanto sfiorava delicatamente la pelle brunita della valigia. Le chiusure di metallo cromato sembravano aver resistito agli anni. Una pressione e i ganci erano saltati in alto, liberando con uno sbuffo di polvere il coperchio. Il contenuto appariva intatto. Le dita del vecchio pugile viaggiavano lentamente da un oggetto all’altro, ottenendo da quel breve e carezzevole viaggio polvere e ricordi. Un casco da combattimento in cuoio, un paio di scarpini da pugile alti alla caviglia e a suola bassa, due guantoni marca Everlast con il dorso consumato dai molti colpi portati a segno.

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La valigia ritrovata

«Guardi cosa ho trovato! È lei!» aveva detto Lucioli richiudendo e sollevando la valigetta, all’arrivo di Venturini.

«Cos’è?» aveva domandato il presidente.

«Era lì, sotto un mucchio di roba in quell’angolo. È la sua valigia»

«Lucioli, sei sicuro? Vuoi dire che l’abbiamo ritrovata?»

Il presidente aveva capito, non ci volevano molte spiegazioni. Tutti gli audaciani sapevano di quella leggenda.

Venturini aveva preso la valigetta e sul fondo, quasi nascoste tra le cuciture gonfie di pulviscolo, aveva visto due lettere.

«Qui ci sono le iniziali: L.E.»

«Presidente, negli Anni Trenta io con lui ho fatto i guanti. Ero solo un ragazzino ma lui era già un campione»

«Pensavamo che fosse andata persa… e invece era nascosta qui, da sessant’anni»

«Vado ad avvertire la signora Ester, non abita lontano» disse ancora il vecchio pugile con la voce incrinata.

Aveva ritrovato la valigetta di Leone Èfrati. In quel tesoro era rinchiuso il mondo come era stato, la memoria con i suoi amori, gli abissi, i riscatti.

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Ottantacinque anni prima

«23 maggio 1915. Secondo le istruzioni ricevute da S.M. il re suo augusto sovrano, il sottoscritto ha l’onore di partecipare a S.E. il ministro degli Esteri d’Austria-Ungheria la seguente dichiarazione: Già il 4 del mese di maggio vennero comunicati al Governo Imperiale e Reale i motivi per i quali l’Italia, fiduciosa del suo buon diritto, ha considerato decaduto il trattato d’Alleanza con l’Austria-Ungheria, che fu violato dal Governo Imperiale e Reale, lo ha dichiarato per l’avvenire nullo e senza effetto ed ha ripreso la sua libertà d’azione. […] S.M. il re dichiara che l’Italia si considera in stato di guerra con l’Austria-Ungheria da domani».

Il duca d’Avarna, ambasciatore d’Italia a Vienna, al ministro degli Esteri austroungarico ***

Il 24 maggio 1915 a Roma faceva caldo, le rondini volavano, la primavera invadeva la città. Migliaia di cittadini si erano riversati in strada e sventolavano le bandiere tricolori. I molti che si erano radunati davanti al ministero della Marina cantavano l’inno di

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II

Ottantacinque anni prima

Mameli, sollevando in aria i cappelli. Altri si riunivano in piazza Colonna. Altri ancora in piazza del Gesù. Poi tutti avevano sfilato verso il Quirinale, per osannare il re, il governo e i generali che avevano spedito i fanti italiani a organizzare e difendere le posizioni di trincea. La folla, eccitata, voleva sapere di più sulle ostilità che si erano aperte contro l’Austria, che per risposta aveva lanciato bombe da due aerei in volo sopra Venezia, mentre le navi dell’imperatore Francesco Giuseppe colpivano Ancona dal mare. Troppo poco, si diceva, per intimidire l’Italia. L’entusiasmo era alle stelle. Finalmente si menavano le mani, finalmente era la guerra. Intanto in vicolo del Cedro, tra le straduzze contorte e sconnesse che dalla basilica di Santa Maria in Trastevere si aggrovigliano per risalire le pendici del Gianicolo, un’agitazione di ben altro tipo scuoteva la modesta casa di Aronne Èfrati e Allegra Di Segni. Allegra stava per dare la vita a Leone.

Il bambino nasceva tra le mura domestiche, come spesso si usava allora, con l’aiuto, i consigli e l’accudimento di donne esperte, tra pentole di acqua tiepida, panni e pezze di stoffa, proprio come era stato per tutti i suoi fratelli e sorelle: Settimio, Giuseppe, Umberto, Marco, Fortunata e Costanza.

Aronne attendeva fuori, seduto dritto dritto per la tensione su una vecchia sedia impagliata, e solo quando il pianto del bambino e un singhiozzo liberatorio della mamma ebbero finalmente accolto il nuovo arrivo, aveva ricevuto da tutte quelle levatrici e donne presenti a vario titolo, che gli parevano diven-

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tate comandanti in casa sua, il permesso di entrare nella camera di Allegra.

«Ma come è piccolino!» aveva detto timidamente, vedendo Leone disteso e urlante su un tavolaccio.

«È molto piccolo?» aveva chiesto Allegra con un filo di voce. «Sembra una pulce, una pulce che strilla».

In effetti il bambino, mingherlino, con un ciuffo di capelli ricci e corvini, la pelle più olivastra che rosa, gli occhi color carbone, aveva poco della belva feroce, e il nome Leone, deciso da tempo, non sembrava molto calzante. Così tutti cominciarono a chiamarlo “Lelletto”.

Crescendo, però, Lelletto diventava sempre meno striminzito. Si inquartava, si irrobustiva, e aveva anche il suo caratterino. Il fratello Marco, di due anni maggiore, aveva iniziato a portarselo dietro, in mezzo alle bande dei pischelli che, ogni giorno dopo il lavoro, si ritrovavano per divertirsi e fare cagnara. Le strade del ghetto, in ogni angolo cariche di storia e di fame, Lelletto le aveva elette a propria scuola di vita, visto che di scuola vera, quella con i maestri, gli alunni e le lavagne, neanche a parlarne.

In sinagoga l’avevano detto ad Aronne e Allegra, che i loro figli dovevano farli studiare.

Certo, i libri erano sacri, ma poi bisognava campare. La scuola era un lusso che non tutti potevano permettersi. Gessetti, matite, pennini e quaderni appartenevano al superfluo del progettare, mentre la realtà quotidiana andava in direzione opposta, verso l’immediata sopravvivenza.

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Ottantacinque anni prima

Queste cose Lelletto non le capiva, ma sapeva che recarsi ogni mattina a imparare geografia o contabilità o lettura espressiva era una costrizione insopportabile. Scrivere era una lotta selvaggia con l’inchiostro, una macchia sulla parola duce era sempre in agguato. Allora guardava il quaderno, impugnava la matita con una mano e, con l’altra affondata tra i capelli, puntellando il gomito sul banco si reggeva la testa. Tra lo scoramento e la noia, i fogli da riempire restavano bianchi e la concentrazione se ne andava a spasso.

“Che ci faccio io” pensava “con i complementi oggetto, con le divisioni, con i punti e virgola? Tutta ’sta roba a che mi serve?”

Era vero. Che beneficio gli portava la maestra?

«Bambini, facciamo il dettato. Scrivete tutti: Il duce è molto operoso. Bambini, ricopiate quattro volte in bella calligrafia: Il regime fascista è un regime di giustizia, e come premia coloro che lavorano, disprezza i parassiti e castiga i malvagi. Poi ricopiate otto volte: Evviva Mussolini, punto esclamativo».

Molto meglio, riteneva Lelletto, andarsene a gironzolare con Marco. Le giornate allora si movimentavano e tra le bande di pischelli nascevano giochi e zuffe, perché quei ragazzini di strada e senza modi prendevano fuoco facilmente, bastava un tiro di lippa contestato perché scoppiasse un parapiglia.

Fu in quelle occasioni però che Lelletto si procurò il rispetto di tutti, perché se qualcuno lo prendeva di petto lui non aveva paura e reagiva. Anche i più grandicelli avevano imparato a loro spese che quel bambinetto aveva un buon piccolo pugno che era meglio non provocare.

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«Hai visto il piccoletto come mena…» dicevano i pischelli di Piazza, e giravano alla larga.

«Gli piaceva raccontare spesso di quelle baruffe tra ragazzini, e poi ci ridevamo insieme. Al Portico d’Ottavia ci siamo cresciuti, è come una corda che ci lega il cuore. Poi però sono arrivati quelli» dirà molti anni dopo Ester, al processo.

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Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Rotolito spa (Pioltello, MI) nel mese di dicembre 2022

Antonello Capurso (Roma, 1955) è giornalista, scrittore e autore teatrale. Alla vicenda di Leone Èfrati, ricostruita in anni di ricerche documentarie e interviste, ha dedicato come autore e regista anche uno spettacolo teatrale, prodotto dalla Fondazione Museo della Shoah.

Progetto gra co: Cristina Giubaldo / studio pym Le fotogra e di Leone Èfrati sono gentilmente concesse dalla famiglia Èfrati. Per l’immagine di Auschwitz/Birkenau: © Cory Reeves / Shutterstock.com

Leone Èfrati è stato un campione del pugilato italiano. Un peso piuma di grande cuore e temperamento. Nel 1938 sfiora il titolo mondiale negli Stati Uniti, mentre in patria viene cancellato dagli annuari sportivi fascisti e dai giornali. Rimosso perché ebreo. Restare in America sarebbe la scelta più sicura, ma dopo la promulgazione delle leggi razziali decide di tornare a Roma per essere vicino alla moglie Ester e alla famiglia. Ed è in Italia che viene tradito e consegnato ai nazisti. Lo deportano ad Auschwitz e poi a Ebensee/Mauthausen, dove una squadra di kapò e di SS lo massacra di botte per aver difeso il fratello. Nel 1947 sarà un bambino a rendergli per primo giustizia. Romoletto, dieci anni, il figlio di Leone. romanzo

Opera pubblicata con il patrocinio della Fondazione Museo della Shoah.

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