Il Midnight Club
Londra, Dunwick House nel presente
La cosa migliore che può succederti quando stai per compiere sedici anni è Londra. La città più straordinaria, più entusiasmante, più cool che ci sia. A Londra tutto è pazzesco, dalle passeggiate nella pittoresca Notting Hill ai viaggi in metro dentro vagoni strabordanti di gente, dove il banchiere e l’artista di strada stanno in piedi uno di fronte all’altro. A Londra anche la pioggia è più frizzantina, e il costante rumore di auto non è snervante, anzi sembra sussurrarti: «Sei in una metropoli, baby!»
Mi sono innamorata di Londra fin da quando ho cominciato il mio anno scolastico all’estero nel college di Dunwick House. Prima di tutto perché è una città sempre al passo coi tempi. E poi perché anche il passato qui è onnipresente, è come se bisognasse solo trovare la porta giusta per immergervisi. E non lo dico solo perché ho un debole per i romanzi storici in cui dame dalla pelle di porcellana vanno in giro con il parasole, ritengono che il ricamo sia un hobby divertente e frequentano balli pomposi. Quando indossavo le sneaker e mi facevo un giro tra le facciate bianche di Belgravia, mi sembrava di vederle passeggiare sui marciapiedi coi loro abiti impero, intente a conversare dell’ultimo romanzo
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Lady Whisper
scritto “by a lady”. Che poi tutti sapevano benissimo che questa “lady” altri non era che la scrittrice Jane Austen.
Ad ogni modo, avevo sempre sognato di studiare a Londra. E, se devo essere sincera, ne avevo parlato così tanto, sommergendo amici, parenti, e anche qualche vicino compassionevole, di dettagli su un certo college strafigo, che alla fine, per il mio quindicesimo compleanno, mi avevano regalato una visita a Dunwick House. Per frequentarlo avevo bisogno di una borsa di studio aggiuntiva, per cui mi era toccato rimboccarmi le maniche. Le scuole inglesi non sono certo a buon mercato.
Ma sapete una cosa? Ne è proprio valsa la pena!
Dunwick House, un edificio di circa trecento anni con la facciata in mattoni ricoperta di edera, sembrava una piccola Hogwarts. Gli interni però erano stati da poco rinnovati, e non c’era traccia di letti di metallo scricchiolanti, tubature gorgoglianti o angoli umidi e bui. Anzi, la stanza che dividevo con le altre ragazze sembrava uscita da un catalogo di arredi scandinavi. Fatta eccezione per i finestroni ad arco, che rivelavano come l’edificio avesse respirato la storia inglese. Solo la soffitta si trovava ancora più o meno nelle condizioni originali, e offriva una vista fantastica.
«È tutto così incredibilmente grandioso» mormorai affacciandomi alla finestra aperta della soffitta per osservare da lontano il London Eye e le luci tremolanti delle barche sul Tamigi.
Accanto a me risuonò uno scoppio fragoroso. «Che coscia è grandioso? Sci vede già la lugna piena?» Con ogni evidenza la bocca di Amai era completamente impiastricciata della gomma
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da masticare con cui fino a poco prima era intenta a fare palloncini… e la mia pausa dal trambusto serale era già finita.
Inspirai a fondo l’aria d’autunno per l’ultima volta prima di chiudere la finestra, e andai ad aiutarla a liberarsi il viso da quell’appiccicosa massa blu, prima che i suoi smokey eyes si trasformassero in due occhi da panda. Andò a finire che dopo un po’ fu lei a indicare i brandelli di gomma da masticare che erano rimasti attaccati a me. Sembravano aver preso di mira in particolare il mio top a rete. Mentre armeggiavo per tirarmi via quella roba di dosso, scoppiai a ridere. Conoscevo quella ragazza danese bionda e spettinata da pochissimo, ma era davvero un personaggio, e non potevi fare a meno di volerle bene. Quando finalmente riacquistammo entrambe un aspetto più o meno passabile, dietro di noi comparve come dal nulla Minako.
Quell’entrata in scena si intonava perfettamente al suo outfit: con la tuta nera e le stelline bianche sulle spalle sembrava una ninja. Per non parlare delle scarpe da ginnastica che si illuminavano a ogni passo, comprate per l’occasione nel reparto bambini di un qualche centro commerciale.
«Allora, siete pronte?» chiese con impazienza. «Facciamo un ultimo sopralluogo prima di dare inizio al Midnight Club. Dev’essere tutto perfetto per i nostri ospiti».
Per Minako doveva essere sempre tutto perfetto. Se fosse stato per lei, avremmo fatto sparire ogni singola ragnatela dalla soffitta e lucidato le finestre impolverate fino a farle risplendere, nonostante, come diceva il suo stesso nome, il Midnight Club si riunisse solo fino a mezzanotte allo scopo di far festa.
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Per fortuna il comitato era composto da un paio di altre persone assolutamente unanimi nel ritenere che bastasse trovare una location particolarmente suggestiva. Quella era già di per sé una vera sfida, perché avevamo deciso di cercare un posto diverso per ogni serata. La volta precedente avevamo scelto il capanno nel giardino del college, e prima ancora il pontile. Quella sera era il turno della soffitta di Dunwick House, che ci avrebbe garantito anche un certo isolamento. Le stanze al piano di sotto, infatti, erano vuote per un problema chiamato “fungo delle case”: una schifezza simile alla pasta della pizza che schizzava fuori dai giunti delle travi. Non c’era dubbio che avrebbe tenuto alla larga gli intrusi.
«Da dove cominciamo?» domandai prendendo a braccetto Minako e Amai. «Dalla Tenda Stellata? La notte scorsa ho sognato che tutte le stelle che abbiamo attaccato al baldacchino si staccavano e finivano per terra. Delle vere e proprie stelle cadenti!»
«Tu e la tua fissa per le stelle» rise Amai. «Perché non scegliamo l’oroscopo come tema per il prossimo Midnight Club? Tu potresti metterti all’ingresso e indovinare il segno zodiacale di chi entra. E se qualcuno osa dire che ti sei sbagliata, lo cancelliamo seduta stante dalla lista degli invitati».
Mi fermai, e mi portai la mano sul petto con un gesto carico di pathos. «Allora dovremo trovare una location veramente enorme, perché indovinare il segno zodiacale delle persone è la mia specialità. Il club scoppierà di gente. Gradireste un saggio delle mie capacità? Minako, fammi pensare…» La fissai con attenzione. «Ami l’ordine e non hai paura di assumerti le tue re-
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sponsabilità… per cui sei sicuramente un Capricorno. Ci ho preso?»
Il volto di Minako rimase imperturbabile, come quando Mr Folder, il professore di biologia, le chiedeva se mi aveva di nuovo fatto copiare. Fece un passo verso di me e sussurrò: «Mia cara Zoe, devo confessarti che la pazienza non è tra le mie virtù».
Mi sfregai il mento con aria pensierosa. «Mmm, credo che questo sia un no, perché l’impazienza non si addice al Capricorno, che è un segno ostinato e perseverante, un vero scalatore di vette. Cosa mi dici dello Scorpione, impaziente e ambizioso?»
Il mento di Minako si protese in avanti minaccioso.
Amai mi prese per mano e mi spostò fuori dalla portata di Minako. «Credo che la nostra amica stesse cercando di farti capire che è ora di andare a controllare la Chill Lounge. Metti da parte gli astri per un momento, altrimenti Minako esploderà come una supernova».
Solo all’idea sentii caldo sotto i glitter. «Certo, partiamo con il giro d’ispezione. Non vedo l’ora di ripassare tutta la checklist».
Mentre percorrevamo su e giù la sala piena di vecchi arredi da giardino, Amai mi sussurrò all’orecchio che nell’oroscopo giapponese Minako era sicuramente un Drago. Ma a quel punto ero troppo occupata ad ammirare il firmamento sopra di noi. Per quel capolavoro avevamo fatto le cose sul serio, attaccando diciassette pacchetti di stelle fluorescenti su una tenda che puzzava di naftalina. Poi avevamo completato la magia appendendo alle travi fili di lucine colorate e lune piene, in accordo con il tema della serata.
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«Devo assolutamente fotografarlo» esclamai in preda all’entusiasmo.
«Non se ne parla, con te una foto diventano cento, poi inizi a scervellarti sugli hashtag giusti e senza rendercene conto sarà sorto il sole» mi rimproverò Minako. «Piuttosto andiamo a controllare se nella Foresta Incantata è tutto pronto per la Silent Disco»
«Ok» risposi. «Andate avanti, mi allaccio la scarpa e arrivo».
Minako stava per protestare, ma Amai se la portò via facendomi l’occhiolino e insieme andarono a discutere con DJane, che era entrata proprio in quel momento.
In un attimo presi il telefono, fotografai la location e caricai la foto su LaTuaAmicaZoe con l’hashtag #onenightinheaven.
Voilà! Non ci avevo mica messo un’ora! Eheh!
Nella gestione del mio profilo Instagram LaTuaAmicaZoe ormai ero una vera pro. All’inizio avevo semplicemente pensato di tenere una specie di diario per me e le mie amiche raccontando cose di tutti i giorni, poi però quello che era nato come un tentativo di trucco completamente fallimentare (è incredibile come la gente si diverta a guardarti mentre ti infilzi il kajal in un occhio trasformandoti in un coniglio albino) si era presto convertito in un “Tips & Tricks” per tutte le occasioni. E prima che me ne rendessi conto, LaTuaAmicaZoe era diventato una specie di rubrica fissa per chiunque avesse qualche segno compromettente da nascondere (meglio il correttore verde o – molto più chic – un foulard annodato di lato, sooo parisienne?), oppure la tendenza a iperventilare davanti a ragazzi più grandi che assomigliano a Ezra Miller (purtroppo non capita molto spesso, perché la maggior
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parte dei ragazzi sembra piuttosto Ed Sheeran appena sveglio. Quindi, nella fortunata ipotesi di incontrare un Ezra, è concesso iperventilare), o ancora si trovasse ad affrontare l’eterno dilemma: “Potrò mai essere felice con questi capelli” – e qui aggiungere a piacere – “che sembrano un cespuglio” / “dritti come spaghetti” / “troppo sottili” / “troppo grossi” ecc.?
Certo, a un primo impatto potrebbe sembrare tutto molto superficiale. Ma in realtà c’è in gioco molto di più, e ora lo so fin troppo bene. Non è un’età facile questa, è un infinito labirinto di cambiamenti dove un giorno pensi “L’altalena è il mio gioco preferito del parco” e quello dopo scopri che “Ops, a quanto pare l’altalena è una posizione del Kamasutra”. Ci vuole solidarietà e una buona dose di creatività.
Un atteggiamento che mi è tornato molto utile anche al mio arrivo a Dunwick House, perché i primi tempi non sono stati esattamente entusiasmanti. A quanto pareva, la comunità scolastica non era in trepidante attesa che Zoe Marlene Schüttler approdasse a Londra dalla piccola e graziosa Potsdam.
Più di ogni cosa incombeva su di me il destino di cui avevo letto in tutti i forum di exchange students che avevano frequentato i college inglesi, ovvero quello della studentessa “ospite”: ti mettono al tavolo con gli altri ospiti da tutto il mondo e te ne stai lì buona buona fino alla fine del tuo soggiorno, a debita distanza dagli studenti e dalle studentesse “regolari”. Dopotutto, nessuno dei “veri” Dunwickers aveva voglia di fare amicizia con qualcuno che sarebbe rimasto solo pochi mesi. E poi noi ospiti avevamo la fama dei rompiscatole che hanno nostalgia di casa, parlano male
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la lingua e scoppiano a piangere perché il fidanzato li ha lasciati quattro giorni dopo la partenza da casa.
Vista così, era del tutto comprensibile che i Dunwickers non facessero nemmeno lo sforzo di imparare i nostri nomi, eppure avrei spiegato volentieri a tutti loro che comportandosi in quel modo stavano perdendo un’occasione.
La vera sfida era dimostrare che noialtri non eravamo soltanto un confuso ammasso di gente variopinta, ma potevamo essere anche cool, brillanti, divertenti: in breve, una vera risorsa. Sfortunatamente, però, la prima sera mi ero ritrovata circondata da sguardi timidi, scontrosi, infastiditi, nervosi, nonché da occhi gonfi di lacrime nascosti dietro gli occhiali da sole. L’unica eccezione era Amai, che era diventata subito mia amica. Veniva dalla Danimarca, e non per niente i danesi sono considerati il popolo più felice della Terra. Per forza, hanno l’hygge, la Sirenetta e gli smørrebrød, di cosa possono lamentarsi?
Dopo la cena degli orrori, ero rimasta a lungo sveglia a letto, finché all’improvviso non mi era balenata un’idea. Una buona idea! Per l’entusiasmo ero corsa a svegliare Amai, con cui condividevo la stanza insieme a Minako. Le era servito un po’ di tempo per reagire, ma poi si era subito esaltata all’idea del Midnight Club: un party che si sarebbe tenuto una volta alla settimana in un posto speciale. All’apparenza era semplicemente un’ottima soluzione per divertirsi la sera senza dover lasciare il college, ma in realtà era l’occasione per noi outsider di diventare insider.
L’idea del club ci aveva messo così di buonumore che addirittura Minako, la nostra giapponese solitamente piuttosto riserva-
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ta, si era alzata e unita alla squadra di sua spontanea volontà. Anzi, era stata proprio lei a uscirsene con la geniale idea della Silent Disco, dove chi voleva ballare avrebbe indossato le cuffie, per evitare che l’amministrazione scolastica ci scoprisse all’istante a causa della musica alta. Nei giorni seguenti, poi, gli altri studenti del nostro tavolo avevano proposto una serie di trovate fantastiche, e non c’era voluto molto perché l’atmosfera tra noi nuovi arrivati migliorasse. La situazione era decollata sul serio con il primo Midnight Club. Va detto che all’inizio il club era una cerchia di persone molto ristretta, di cui facevamo parte solo noi. Ma già alla terza serata un paio di Dunwickers ci avevano chiesto di poter partecipare, e in men che non si dica tutto aveva cominciato ad andare a gonfie vele, e non avevamo nemmeno dovuto lanciare un’offensiva pubblicitaria a colpi di volantini per attirare gente ai nostri incontri di mezzanotte.
Da outsider eravamo diventati improvvisamente cool. Anzi, meglio ancora: eravamo noi outsider a stabilire cosa fosse cool. E, ovviamente, il nostro club lo era.
Quella notte, prima che il Midnight Club aprisse le porte, volevamo dunque ricontrollare tutto per l’ultima volta, incluso il bar, dove ognuno portava qualcosa.
Lì ritrovai Amai e Minako, che mi allungarono un foglio di sticker. La valutazione delle bevande era compito mio. Ogni drink veniva contrassegnato con un adesivo che indicava se potevi buttarlo giù senza pensarci o se dovevi aspettarti un’esplosione di gusti. Il primo che adocchiai era un punch dal colore sospetto, una roba che ti saresti aspettato di vedere a una festa di comple-
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anno per bambini, e che sembrava urlare: «Fidati di me, sono una bibita innocente! Ma, ehi, al secondo bicchiere non te ne importerà più nulla perché avrai così tanto zucchero nel sangue che continuerai a ballare anche quando la festa sarà finita da un pezzo»
«Il punch l’ho preparato io, è la versione di famiglia di una vecchia ricetta danese, imparata direttamente da mio fratello maggiore» disse Amai.
Le rivolsi uno sguardo scettico. «Il fratello maggiore dalle mille storie di feste folli che finiscono sempre con una truppa di irriducibili che si tuffano nudi all’alba nel mare del Nord?»
Amai sorrise e alzò il pollice. Non sono certo una guastafeste, ma quell’intruglio era un chiaro caso di sticker con teschio e ossa incrociate: da bere a proprio rischio e pericolo.
«Grazie per il complimento, mio fratello sarebbe orgoglioso di me» disse Amai, sorridendo ancora di più.
Indicai un vassoio con dei bicchierini pieni di un liquido rosa. «E quelli?»
«Gli shottini sono il contributo della sottoscritta al nostro evento» spiegò Minako accennando un inchino. «Li ho chiamati “Pink Zoe”, perché sono a base di fragola, e so che le fragole ti piacciono tantissimo».
Ero commossa, e appiccicai al vassoio l’adesivo di una margheritina, che significava “innocuo”. Poi mi guardai intorno ancora una volta e dovetti ammettere che non c’era più nulla che ostacolasse l’apertura del Midnight Club. La “Notte al chiaro di luna” – era quello il titolo della serata, perfettamente in tema con
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i raggi di luna piena che entravano dall’abbaino inondando d’argento la soffitta – poteva avere inizio.
Il club fece ancora una volta onore al suo nome, e all’avvicinarsi della mezzanotte l’atmosfera era elettrica. Chi, come me, aveva voglia di ballare, si scatenava con le cuffie alle orecchie nella Silent Disco, che era un vero spettacolo per gli occhi, perché tutti gli invitati erano vestiti di bianco o di nero e molti si erano messi delle stelline tra i capelli. Dovevamo essere finite sotto l’ala di una fatina buona, perché fino a quel momento ogni serata del club era stata speciale.
Dopo aver ballato a sufficienza decisi di far visita al buffet, che era già stato raso al suolo, e constatai che persino il punch colorato era finito, nonostante lo sticker col teschio. Ma finché nessuno era così ubriaco di zuccheri da mettersi a strappare le stelle luminose in preda a un attacco di ridarella per appiccicarsele in fronte, andava tutto bene. Fu solo alla vista del contenitore vuoto che mi accorsi della sete che avevo. Per l’eccitazione mi ero nutrita pescando da ciotole di orsetti di gomma, biscotti al cioccolato e dolcetti di ogni tipo, e dovevo assolutamente bere qualcosa. Con mia grande gioia, c’erano ancora shottini di “Pink Zoe” in quantità.
In un sorso buttai giù il primo bicchierino.
Poi un altro.
Quei pink drinks erano squisiti, anche il terzo aveva un sapore delizioso.
E anche il quarto…
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E insomma, nonostante fossero così dolci da cariare i denti, mi feci prendere la mano. Con le fragole vado fuori di testa. Riuscii a fermarmi solo quando sul vassoio non rimasero che bicchierini vuoti. In un momento di calma era il caso di occuparmi della mia “dipendenza dalle fragole”, a maggior ragione perché la mia pancia stava reagendo agli shottini con un bleargh! difficile da ignorare.
Mentre mi chiedevo se avesse senso mangiare un po’ di verdura cruda, che fa sempre bene, vidi avvicinarsi Minako con uno sguardo ammiccante.
«Ho scoperto una cosa veramente affascinante» mi sussurrò emozionata. «È perfetta per un Midnight Club in grande stile dal tema fiabesco “Chi è la più bella del reame”? Non indovinerai mai di cosa si tratta».
Per un attimo fui distratta da un orrendo gorgoglio proveniente dal mio stomaco, e senza pensarci risposi: «Tra i tanti mobili della soffitta hai trovato un vecchio specchio che sembra uscito da una delle fiabe dei fratelli Grimm di cui ci ha parlato l’altro giorno Mrs Burton durante la lezione di letteratura. Biancaneve, ma soprattutto la matrigna cattiva col suo specchio magico, ti hanno così impressionata che adesso mi farai venire l’ulcera a furia di fiabe».
Minako ammutolì. «Come fai a saperlo?»
Cavoli, mi ero distratta un attimo e avevo rovinato tutto. «Ho tirato a indovinare. Ci ho preso?»
«Sì, ci hai preso» rispose Minako. «E io che credevo di aver avuto un’idea speciale».
Prima che potessi rimediare al danno, Amai le mise un braccio intorno alle spalle. «Non prendertela. Non è colpa tua, è che
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la nostra Zoe ha una specie di terzo occhio magico e le basta uno sguardo per vederti fino in fondo all’anima».
«Proprio così». Con gli occhi ridotti a due fessure osservai Amai: aveva ballato ininterrottamente fino a un attimo prima e, con le cuffie che le pendevano ancora intorno al collo e la maglietta fradicia di sudore, sembrava sotto l’effetto dell’ormone della felicità. «Nel tuo caso il terzo occhio mi dice che hai ballato un bel lento con Joe. Hai ancora il suo profumo addosso. C’è forse qualcosa che bolle in pentola su cui io, in veste di tua BFF, dovrei essere prontamente informata?»
Amai sbatté le ciglia con aria disarmante. «Dimmelo tu, o saggia della lontana terra di Potsdam».
Minako alzò gli occhi al cielo. «Potete smetterla con il teatro. Siete riuscite a distrarmi dai miei complessi d’inferiorità. Che ne dite, andiamo a dare un’occhiata allo specchio magico?»
Presi al volo una bottiglietta di soda e la vuotai in un sorso. Mi sentivo stranamente appiccicosa. «Andiamo!» dissi, trattenendo un rigurgito. «Ma sbrighiamoci, il tempo stringe e a mezzanotte in punto il club chiude».
Minako ci condusse nella zona non illuminata della soffitta, piena di oggetti coperti da lenzuola. Si fermò davanti a un mobile imponente e ci fissò come una sfinge che ha improvvisamente preso vita.
La tensione cresceva.
Accanto a me Amai stava per scoppiare dall’eccitazione e strappar via il lenzuolo, ma la fermai prendendola stretta a braccetto. Quello era lo show di Minako.
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La giapponese accennò un inchino, poi afferrò il lenzuolo e disse solennemente: «Guardate e strabiliate!»
Da sotto il lenzuolo comparve uno specchio da terra alto quanto una persona e circondato da una cornice riccamente lavorata e decorata di simboli, che sembrava d’argento. A un primo sguardo riconobbi il simbolo di Horus, un occhio stilizzato, e la luna nelle sue diverse fasi, tutto finemente cesellato e scurito dal tempo. Solo la superficie dello specchio era perfetta, come se fosse appena stata lucidata.
Che meraviglia!
«È perfetto!» dissi a Minako. «Questo specchio sembra fatto apposta per il Midnight Club, potrebbe diventare addirittura il nostro simbolo. Hai avuto un’idea fantastica, e adesso ne è venuta una anche a me: per la prossima serata potremmo cercare, facendo molta attenzione, di sfilare lo specchio dalla cornice e usare quella come porta d’ingresso. Avvisando che, oltrepassando lo specchio, i nostri ospiti entreranno in un mondo dove nulla è come appare. Tema: “Alice nel Paese delle meraviglie”».
Mentre Minako annuiva entusiasta, Amai, già un passo avanti, si era infilata dietro allo specchio e ne stava ispezionando il retro. «È una lavorazione di altissimo livello. Ma non sono sicura di riuscire a sollevarlo da sola. Uff, no, la cornice è troppo massiccia, potrei aver bisogno di aiuto» concluse.
In quel momento la mia pancia emise un disgustoso brontolio e provai un senso di nausea.
Minako mi guardò con aria interrogativa. «Tutto ok? Sei un po’ pallida».
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Non stentavo a crederlo. «In questo momento nel mio stomaco l’acqua frizzante ha incontrato una poltiglia di fragole e orsetti gommosi. Puoi cortesemente assicurarti che Amai non mandi in frantumi lo specchio mentre combatto contro la schiuma rosa che sta cercando di uscirmi dalle narici?»
Minako fece una smorfia di disgusto. «È uno spettacolo di cui faremmo volentieri a meno. Forse è meglio se ti siedi là su quelle vecchie scatole di cartone e fai qualche respiro profondo. Amai posso domarla da sola».
Avrei voluto rispondere «Grande!», ma correvo seriamente il rischio che mi uscisse dalla bocca una bolla rosa, per cui rimasi lì ferma a guardare Minako, che sparì a sua volta dietro lo specchio.
Con un gemito, piegai la testa all’indietro.
Dall’abbaino entrava la luce argentea della luna piena.
«Che sogno» mormorai, leggermente stordita.
In quello stato di intorpidimento non mi stupii di vedere i raggi di luna diventare sempre più intensi fino a colpire lo specchio come un lampo d’argento, inondandolo di luce. Fu una frazione di secondo, poi la luce si rifletté sulla superficie dello specchio… e direttamente su di me.
“È uno specchio magico” pensai.
Da un momento all’altro, il mondo divenne pura e abbagliante luce lunare.
O almeno così pensai all’inizio, prima di rendermi conto che era una sciocchezza. Ma poco importava, perché un attimo dopo persi i sensi.
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1. Il Midnight Club
#sborniadifragole
#piombatadalfuturo
#moonlightcrash
Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Rotolito spa (Pioltello, MI) nel mese di febbraio 2023
Aniela Ley è lo pseudonimo di un’affermata scrittrice tedesca, autrice di numerosi romanzi per adulti e giovani lettori. Con la trilogia di Lady Whisper ha unito la sua passione per l’Inghilterra dell’epoca regency a quella per la narrativa fantastica.