Prologo Chiamatemi Ismaele
Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione. È il modo che ho io di cacciare la malinconia. Ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri, allora decido che è tempo di mettermi in mare.
Ismaele
Nome di origine biblica, come molti altri del romanzo; secondo il racconto della Genesi (il primo libro della Bibbia), Ismaele è figlio di Abramo e della schiava Agar, e viene ripudiato dal padre quando gli nasce il figlio legittimo Isacco.
Non c’è niente di strano, in questo. Non ci pensiamo, ma prima o poi, nella vita, capita a tutti di sentirsi attirati dal mare. L’acqua ha un fascino inspiegabile, ma universale.
Immaginate per esempio la folla di un sabato pomeriggio a Manhattan, la città dove abitavo. Dove va tutta quella gente? Dove portano tutte le strade della città, se le percorriamo fino in fondo? Alla riva del mare. Provate a fare
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Parole al microscoPio
una passeggiata in campagna, o in montagna, e abbandonatevi alle vostre fantasticherie, lasciando che vi portino le gambe. Novanta volte su cento vi troverete in riva a un fiume, a un torrente, a un lago. Prendete un artista, un pittore, che voglia dipingere un paesaggio sereno, tranquillo, incantevole come un paradiso. Che cosa metterà nel suo quadro? Alberi, senza dubbio, magari un prato con un gregge di pecore, una casetta col camino fumante. In lontananza, dei monti azzurrini. Ma senza un corso d’acqua, senza una riva, al suo paesaggio mancherà l’elemento essenziale.
Ora, quando dico che ho l’abitudine di mettermi in mare ogni volta che comincio a vedere tutto nero, non voglio dire che salgo a bordo di una nave come passeggero. Per acquistare un biglietto bisogna avere dei soldi, e io non ne avevo. E non mi imbarco nemmeno come cuoco o come ufficiale, anche se me la cavo piuttosto bene in cucina e non sono certo inesperto di navi. Ma il cuoco e gli ufficiali hanno grandi responsabilità, e io cerco tutto il contrario. No, quando prendo il mare, lo faccio da marinaio.
Non è come dirlo, sapete? Io faccio il maestro in una scuola fuori città, dove tutti pendono dalle mie labbra, e tutt’a un tratto vado a lavare il ponte e a fare la guardia di notte e a manovrare le vele sotto il sole e sotto la pioggia, e a farmi comandare come l’ultimo degli schiavi, rischiando la vita... Ma d’altro canto, ditemi un po’: che male c’è in questo? Non siamo tutti, in qualche modo, al servizio
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degli altri? Credete davvero che un direttore di banca o un ministro non ricevano ogni giorno degli ordini? Pensate che Dio mi ami di meno perché mi lascio comandare da un capitano o da un nostromo?
Così, una mattina di dicembre, decisi di imbarcarmi. Non su una nave qualsiasi, badate bene, ma su una baleniera. Perché? Potrei dire che era destino, ma la verità è che sognavo mari selvaggi e remoti, le meraviglie e i pericoli della caccia, mostri grandi come isole... Nel mio spirito fluttuavano infinite processioni di balene e, in mezzo a tutte, un grande fantasma incappucciato, simile a una collina di neve nell’aria.
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PROLOGO
locanda del baleniere peter
coffin
Non era proprio un messaggio invitante: coffin, in inglese, vuol dire “bara”. D’altro canto, è un cognome piuttosto comune, a Nantucket. E il cigolio dell’insegna e la porta tutta rovinata e la luce fioca comunicavano un senso di povertà, o addirittura di estrema miseria: esattamente quello di cui avevo bisogno. Questa è la locanda a buon prezzo che fa per te, mi dissi. Ed entrai.
Mi trovai in un atrio abbastanza ampio, ma irregola-
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LA LOCANDA DEL BALENIERE
re, con le pareti rivestite di legno come quelle di una nave. Da un lato c’era un grande quadro a olio che rappresentava, o tentava di rappresentare, una tempesta di mare. Ma per capirlo impiegai parecchi minuti, talmente confuse apparivano le masse di colore e di ombre e di luci che l’artista aveva tracciato. Alla fine, però, riuscii a intravedere che quel vortice di acque era provocato dall’enorme balena che si trovava al centro del quadro, nell’atto di scagliarsi contro una nave. Sulla parete di fronte erano appesi ramponi, lance, mazze. Alcuni sembravano provenire da chissà quali mondi selvaggi. Altri erano accompagnati da spiegazioni che raccontavano la loro storia. Per esempio c’era una lancia lunghissima, ma tutta storta, con cui cinquant’anni prima un certo Nathan Swain aveva ucciso quindici balene in un giorno solo. C’era un rampone che aveva colpito una balena a Giava, ma la balena era riuscita a fuggire ed era stata catturata dieci anni dopo dall’altra parte del mondo, con quel rampone ancora piantato nella schiena.
Da quell’atrio, attraverso un arco, si entrava nella sala principale della locanda. Faceva un freddo islandese. Nessun fuoco da nessuna parte, solo due candele tristi. Fra i grandi tavoli si aggirava l’oste, riempiendo i bicchieri degli avventori, una decina di marinai giovani, con un suo veleno che chiamava gin.
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Quiqueg
Andai dal padrone e, avendogli detto che desideravo una camera, ricevetti in risposta che la casa era piena: non un letto libero.
“Ma no”, aggiunse toccandosi la fronte, “non avete nulla in contrario a condividere la coperta con un ramponiere, vero? M’immagino che salpiate a balene, e così fareste meglio ad abituarvi a queste cose”.
Io gli dissi che non mi era mai piaciuto dormire in due in un letto; che, se dovessi mai far questo, dipenderebbe da chi fosse il ramponiere; e che se lui (il padrone) non aveva davvero altro posto per me e il ramponiere non era del tutto repellente, be’, piuttosto che andare ancora in giro per una città sconosciuta in una notte simile, mi sarei accomodato a sopportare metà della coperta di una persona decente.
Parole al microscoPio ramponiere sulle navi baleniere, il marinaio addetto al lancio del rampone, una lunga lancia con la punta a uncino, che impedisce all’arma di staccarsi, una volta che abbia colpito il bersaglio. Il rampone è detto anche fiocina, da cui fiociniere (sinonimo di ramponiere).
“Sapevo bene. Allora sedetevi. Volete cenare? La cena è pronta subito”.
La portata fu delle più sostanziose: non soltanto carne con patate, ma gnocchi. Un giovanotto dal pastrano verde diede a questi gnocchi un assalto spaventoso.
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BALENIERE
“Padrone”, bisbigliai io, “quello non è mica il ramponiere?”
“Oh, no, il ramponiere è un tipo scuro di pelle. Non mangia mai gnocchi lui, non mangia altro che bistecche. Non starà molto a venire”.
Io cominciai a sentirmi sospettoso di questo ramponiere “scuro di pelle”. A nessun uomo piace dormire con un altro in un letto. Di fatto, voi preferireste non dormire nemmeno con vostro fratello. Non so come sia, ma la gente, quando dorme, ama la segretezza. E quando si tratti di dormire con uno sconosciuto, in una locanda sconosciuta, in una città sconosciuta, e questo sconosciuto sia un ramponiere, allora le obiezioni si moltiplicano all’infinito. È vero che, sulla nave, i marinai dormono tutti insieme in un locale, ma ognuno ha la sua branda. Più ci pensavo, a questo ramponiere, e più aborrivo dall’idea di dormirgli insieme.
“Padrone, ho cambiato idea. Proverò a dormire su questa panca”, dissi.
L’oste accettò di buon grado la mia decisione. Andò addirittura a prendere una pialla per eliminare qualche nodo del legno che poteva darmi fastidio. Intanto io prendevo le misure e scoprivo che alla panca mancavano giusto quei trenta centimetri di lunghezza e altrettanti di larghezza. Provai ad avvicinare una sedia, un’altra panca, ma erano di altezze diverse.
“Che il diavolo si porti quel maledetto ramponiere!” esclamai. Non potevo approfittare della sua assenza per
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chiuderlo fuori? L’avrei lasciato bussare anche tutta la notte, se fosse tornato... Però, però: e se la mattina dopo mi avesse aspettato col rampone in mano, pronto a vendicarsi? Pessima idea! Mi decisi ad aspettare.
“Ma si può sapere dov’è andato?” chiesi al padrone quando era ormai quasi mezzanotte.
“A vendere teste”, rispose lui con un sogghigno.
“Teste? Che teste?”
“Vedete, questo ramponiere è appena arrivato dalla Nuova Zelanda e ha portato con sé una ricca collezione di teste imbalsamate. Teste umane, capite? Sembra che siano molto apprezzate: ogni giorno ne vende tre o quattro. Ma oggi è uscito con le ultime, forse per questo tarda più del solito...”
Rimasi senza parole. Dovevo dormire con un venditore di teste umane? Non sarebbe stato un tipo pericoloso?
“Per me è a posto”, disse l’oste: “paga regolarmente!”
Che Dio mi salvi, pensai. E mi feci accompagnare nella stanza. Sperando che il mio ramponiere ormai non tornasse più, mi spogliai e mi infilai nel letto, dove rimasi un bel pezzo a rigirarmi.
Ero appena scivolato nel dormiveglia quando sentii un passo pesante che si avvicinava alla porta. Rimasi del tutto immobile mentre la porta si apriva e lo sconosciuto, altissimo e massiccio, entrava. Alla luce della sua candela, riuscii a scorgergli la faccia. E che faccia! Era di colore rossiccio e giallastro, con grandi macchie nere sulle guance, sulla fronte, sul mento. Benissimo! pensai. Questo gigante spaven-
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toso ha preso parte a una rissa, è rimasto ferito ed è pieno di punti e di cerotti. Ma subito dopo capii che quelle macchie scure non erano affatto lividi o bende, erano tatuaggi. Man mano che si spogliava (non si era ancora accorto della mia presenza), vidi che non solo la faccia, ma tutto il corpo era pieno di quei disegni scuri. Insomma, era un selvaggio, forse addirittura un cannibale, e forse le teste che vendeva le aveva tagliate lui, forse avrebbe tagliato anche la mia alla prima occasione... Se fossi stato più vicino alla porta, sarei fuggito di corsa. Ma non ebbi il tempo di farlo, perché il gigante prese da una tasca del suo cappotto una specie di pupazzo di legno, lo posò in mezzo agli alari del caminetto spento e gli si inginocchiò davanti, mettendosi a pregare.
Mi sentivo molto in imbarazzo e stavo per rivelare la mia presenza con un movimento o con un suono, quando il selvaggio concluse la sua cerimonia: afferrò senza tanti complimenti la sua statuetta e la rimise nella tasca del cappotto, poi spense la luce e si infilò sotto la coperta. Lanciai un urlo, a cui rispose il suo grido di stupore. La candela venne subito riaccesa e ci trovammo tutti e due in piedi, ai lati opposti del letto.
“Chi sei?” gridò il cannibale. “Se non parli ti uccido, hai capito?”
“Aiuto! Padrone!” gridai io.
“Dimmi chi sei o ti uccido!” ripeté il selvaggio.
Grazie a Dio in quel momento arrivò il padrone col lume in mano.
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“Niente paura”, mi disse ridendo. “Quiqueg non farebbe male a una mosca”. Poi si rivolse a lui: “Quest’uomo dorme con te. Va bene?”
Quiqueg mi studiò per qualche secondo, poi annuì, mi fece cenno di tornare a letto e aspettò che mi fossi disteso prima di entrare a sua volta. Mi sistemai vicino all’orlo del letto mentre Quiqueg faceva lo stesso dalla parte opposta. Il padrone uscì sogghignando e io riflettei che quel Quiqueg, in fondo, era un cannibale assai cortese, mentre io mi ero comportato da incivile. Perché tanto baccano? mi dissi. Questo è un uomo come me. Perché non dovrebbe essere una brava persona? Se lui si fida di me, fino a prova contraria anch’io mi fiderò di lui.
Chiusi gli occhi e dormii tranquillamente fino al giorno dopo.
Il sermone su Giona
Quando mi risvegliai, sentii una strana oppressione al petto: la coperta, diventata pesantissima, mi impediva di respirare. Mi scrollai, ma inutilmente. Tentai di mettermi seduto, ma quel peso mi tratteneva. Abbassai lo sguardo e vidi un braccio enorme che mi imprigionava. Stavo per gridare di nuovo, ma mi ricordai degli avvenimenti della sera prima e capii.
“Quiqueg!” sussurrai.
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Mi rispose un grugnito. “Quiqueg!”
Finalmente riuscii a svegliarlo e a riacquistare la mia libertà. Era davvero un selvaggio per bene. Si scusò, mi disse di alzarmi per primo, che lui non avrebbe guardato mentre mi vestivo, e poi si vestì a sua volta. Io non fui altrettanto cortese e rimasi a fissarlo. Ero affascinato dai suoi tatuaggi, dai suoi muscoli giganteschi, dal lungo ciuffo di capelli che gli spuntava in mezzo alla testa rasata e anche dal fatto che si infilò gli stivali prima dei pantaloni di tela e che si lavò accuratamente il torace, ma non la faccia.
Scendemmo insieme per fare colazione. Quiqueg portò con sé il rampone, che usò per infilzare le bistecche al sangue messe dall’oste al centro del tavolo e per tagliarle in grossi pezzi e portarsele alla bocca. Gli altri clienti ci guardavano con un misto di curiosità e di disgusto. Nessuno ci rivolse la parola.
Decisi che avrei fatto due passi. Era domenica, New Bedford si presentava come una città tranquilla, di particolare bruttezza. C’era poca gente in giro e per la maggior parte si trattava di tipi bizzarri, che arrivavano dai quattro angoli del globo: alcuni sembravano marinai in attesa di imbarcarsi, altri erano chiaramente dei ramponieri come il mio amico Quiqueg, altri mi sembravano dei semplici tangheri senza una professione ben definita. Le pochissime donne sembravano tutte dirette alla chiesa più vicina e
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BALENIERE
io decisi di seguirle. All’ingresso c’erano delle targhe nere, con incise delle scritte:
Alla memoria del defunto
CAPITANO EZEKIEL HARDY
ucciso da un capodoglio sulla costa del Giappone
il 3 agosto 1833
Alla memoria di JOHN TALBOT caduto in mare al largo della Patagonia
all’età di diciotto anni
il 1° novembre 1836
Alla memoria di ROBERT LONG - WILLIS ELLERY
NATHAN COLEMAN - WALTER CANNY
SETH MACY - SAMUEL GLEIG
marinai della nave “Elisa”
trascinati al largo da una balena nella zona di caccia del Pacifico
il 31 dicembre 1839
Pensai con pena a coloro che avevano messo quelle lapidi. Voi che avete i morti sepolti nella terra e che potete dire qui giace la persona a cui volevo bene non sapete che
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vuoto amaro vi sia in quelle lastre nere che ricoprono il nulla. Naturalmente, siccome stavo per imbarcarmi su una baleniera, mi rendevo conto che quel destino poteva essere il mio. Ma questo non mi rattristava più di tanto... Io non avevo nessuno che mi aspettava: che il mare o una balena si prendessero pure il mio corpo, che è la parte meno nobile di me. Se era scritto che dovessi perderlo in mare, l’avrei ceduto senza troppi rimpianti.
Ero immerso in queste meditazioni quando arrivò il predicatore, padre Mapple, e cominciò a parlare. L’argomento della sua predica era la storia di Giona, di cui già sapevo qualcosa. Sapevo che durante un viaggio per mare era stato inghiottito da una balena e risputato dopo tre giorni, e sapevo che questa disavventura aveva un significato, ma non avrei saputo dire esattamente quale.
“Amici miei”, esordì padre Mapple, “il libro di Giona è uno dei più brevi della Bibbia, ma dei più profondi. La storia di questo profeta – perché Giona è un profeta, anche se spesso ce ne dimentichiamo – ci dà un insegnamento prezioso. Perché infatti Giona si era messo in mare? Non perché fosse un mercante, non perché cercasse l’avventura, ma perché era un uomo debole e stava fuggendo. E da cosa fuggiva, povero disgraziato? Da Dio, fuggiva: all’inizio del suo racconto lo spiega chiaramente – era arrabbiato con Dio, lo accusava di aver abbandonato gli esseri umani, di essere un padre ingiusto e crudele. Perché tante volte si vedono i malvagi trionfare? Perché tante bra-
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ve persone soffrono senza colpa? Perché Dio non interviene a ristabilire la giustizia?”
Padre Mapple fece una pausa. Sulla mia destra, con la coda dell’occhio, vidi una testa calva con un gran ciuffo di capelli al centro. Quiqueg mi aveva seguito, era entrato nella chiesa e adesso stava ascoltando la predica.
“Così Giona salì a bordo di una nave per raggiungere un paese lontano dove nessuno avesse mai sentito parlare di Dio. Ed ecco che nel bel mezzo del viaggio si scatenò una tempesta e i marinai si accorsero che la nave era inseguita da un’enorme balena. Giona capì che quella tempesta e quella balena mostruosa erano mandate da Dio, erano la sua punizione, e ordinò ai marinai di salvarsi buttandolo in mare. E così finì nella bocca della balena, che chiuse le fauci su di lui e lo imprigionò nella sua pancia immensa”.
Padre Mapple parlava nel silenzio più assoluto. Ad ascoltarlo c’erano decine di persone, e non si sentiva volare una mosca.
“Nel ventre della balena – fate bene attenzione, perché questa è la parte più importante del suo racconto –nel ventre della balena Giona si pente. Si rivolge a Dio e ammette di avere sbagliato. Non protesta, perché sa che la sua punizione è meritata. Non invoca il perdono, non chiede di essere liberato, perché sa di essere colpevole; e proprio per questo Dio lo perdona e dopo tre giorni lo libera e lo fa risputare dalla balena su una spiaggia – la stes-
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sa spiaggia da cui era partito! E cosa può fare Giona, a questo punto, se non mettersi a raccontare la sua storia e diventare profeta, predicando la verità? Così, nel mio piccolo”, concluse padre Mapple, “tento di fare anch’io, e vi invito a riflettere su questa vicenda, e vi do la mia benedizione, a voi e ai vostri cari”.
La storia di Quiqueg
Quiqueg ed io tornammo alla locanda e restammo insieme tutto il giorno. Alla sera, prima di andare a letto, Quiqueg tirò fuori il suo idolo, lo mise fra gli alari del caminetto e mi invitò a pregare insieme a lui. Come, pensai subito, io, un cristiano, adorare un pezzo di legno? Ma poi mi dissi, in fondo perché no? Che male c’era? Credi davvero, Ismaele, che Dio possa essere geloso di un pezzo di legno? Questo certo non è possibile! E qual è l’insegnamento più prezioso che Dio ci ha dato? Fare al mio prossimo quello che vorrei fosse fatto a me. Quiqueg era il mio prossimo e aveva ascoltato la predica del sacerdote cristiano. Adesso era mio dovere ricambiare, accettare la sua offerta e pregare davanti a quel pupazzo.
Al termine della strana cerimonia andammo a letto e restammo a parlare per buona parte della notte, raccontandoci la nostra vita. Venni così a sapere che Quiqueg era figlio di un grande capo, il re dell’isola di Rokovoko.
23 1. LA LOCANDA DEL BALENIERE
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Ancora ragazzo aveva lasciato la sua gente perché voleva conoscere il mondo dei bianchi, imparare il loro modo di vita e insegnarlo ai suoi compagni per migliorare la loro esistenza. Era quindi riuscito a salire a bordo di una nave di passaggio ed era diventato ramponiere, ma aveva scoperto molto presto che i bianchi potevano essere più selvaggi dei suoi poveri isolani. Un giorno o l’altro, mi disse, sarebbe tornato a regnare sul suo popolo, ma prima doveva sentirsene degno: troppe cose brutte aveva visto nel nostro mondo, e doveva liberarsene per poter prendere il posto dei suoi antenati – ripulirsi, in qualche modo. Il suo progetto immediato era di imbarcarsi su una baleniera, a Nantucket.
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