Alta Definizione Gallucci
Giovanni Gastel
Spade
Giovanni Gastel Spade ISBN 978-88-6145-690-7 Prima edizione maggio 2014
ristampa 7 6 5 4 3 2 1 0
anno 2014 2015 2016 2017 2018
© 2014 Carlo Gallucci editore srl - Roma
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A mia madre, mio padre e Francesco; a zio Giovanni e Manuela. Alle mie adorate famiglie, ai miei angeli. Dedicato a coloro che lottano per non cadere, a quelli che cadono e hanno la forza di rialzarsi, sperando che chi non è mai caduto possa capire e guardare più in alto, verso le stelle di chi soffre e combatte. “I vivi gridano ai soccorsi, i morti non gridano più, e quando uno muore la lingua si secca” (Scritta sul muro di un bagno dell’ospedale psichiatrico di Montréal)
Avvertenza Questo romanzo, pur scaturendo dal vissuto dell’autore, è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e accadimenti sono frutto della sua immaginazione.
Prologo
Chiamatemi Johnny Boy. Da qui in avanti non mi considererò più un essere umano. Da questo momento mi considererò un agglomerato complesso di emozioni, deliri, abissi, orrori. Proverò a esplorare, da inesperto e da profanatore, i labirinti della mia psiche divorata da treni di droghe e dalle sostanze psicotrope assunte per far fronte alle astinenze. Questo è un viaggio senza bussola né rotta certa, con un capitano ignorante e curioso, deciso e incosciente, che naviga per il piacere di scostare onde nuove dal suo scafo, con la volontà di sondare profondità già esplorate da altri e farle proprie, toccandole con la chiglia impaziente della sua stessa nave. Le parti della narrazione che seguono, deliri di un paziente affetto da dipendenza cronica da eroina e cocaina e medicinali e ogni altra sostanza che possa produrre alterazioni dello stato di coscienza, corrispondono ai pensieri e alle parole provenienti direttamente dalla voce tormentata del mio cuore. Se io potessi anche solo con una pagina, una riga o una parola illuminare, ispirare o essere d’esempio, il mio compito sarà assolto. 7
Parte prima
1 Nella tela del ragno
Era il 2004. Pioveva sempre, sul Lago di Como e nel mio cervello. Vivevo con mio padre, medico pneumologo, nella casa di Cernobbio. Era stata una delle dimore degli Erba, ereditata da mia nonna e ora di proprietà della nostra famiglia. Lavorando a Como, mio padre aveva avuto il privilegio di poter abitare lì, tenendo aperta solo un’ala della grande casa. Via da Milano, supermercato di paradisi artificiali e malavita, un occhio su di me che non avevo nessuno che vigilasse su di me, all’infuori della mia famiglia. Mia madre rimaneva a Milano; separati ormai da molti anni, lei e mio padre conducevano vite parallele, ma continuavano a sentirsi per organizzare il meglio per me e per mio fratello, di due anni più piccolo. Con lei avevo contatti frequenti, io figlio degenere, lei madre spigolosa ma amorevole. Era bellissima, mia madre, e complicata. 11
Ancora oggi i rimorsi e la sensazione di non averla conosciuta abbastanza, o di non averla amata a sufficienza, mi tengono sveglio. Una sensazione come di avere mancato un’occasione, di avere sprecato una grande possibilità. Di lei rimangono i libri e gli articoli, le fototografie e una selva di oggetti semplici e raffinati. Il mio amore per lei diventa preghiera, mai canzone. Ho ereditato il mio permesso di soggiorno a Cernobbio conseguentemente al fatto che ero un tossicomane e che dovevo essere seguito da vicino. Nessun merito, solo il piccolo onere di non morire lì dentro. Erano di nuovo anni terribili, quelli arrivati appena dopo il 2002: anni di distruzione e di follia… di buio, dopo una resurrezione parziale intorno al 2000, nelle Americhe lontane. All’interno del parco, a sinistra, subito dopo la cancellata che si affacciava sulla strada, c’era una casa a due piani. Al piano terra aveva vissuto mio zio, il fotografo, quand’era giovane, ma ora era vuoto. Al piano superiore stava il giardiniere con la sua famiglia, una persona divisa a metà tra la furberia e la sottomissione. Ci aveva sullo stomaco, lo si poteva capire subito dagli sguardi, che io ricambiavo; gli sembravamo i soliti ricchi antipatici e non democratici. 12
Rubava e raccontava balle, così è stato messo alla porta. Iniziai a farmi lì dentro, nella “casetta”: protetto nella recinzione della villa, ma distante da mio padre, se non altro per evitargli brutte visioni. In quell’epoca mi sparavo coca in vena, solamente coca. La compravo a Milano, a Quarto Oggiaro, in via Pascarella. I pusher lavoravano metodicamente dalle 20:00 alle 2:00 di notte. Erano buste di carta colorate di giallo o di verde, a volte azzurre. Mezzo grammo pieno per ogni busta, qualità garantita. Ne compravo qualcuna, poi mi facevo l’autostrada a manetta sul maggiolone cabrio, con in mente il sibilo che la droga avrebbe creato nelle orecchie e il flash di quando saliva come antipasto. Tutte le sere facevo quel tragitto, ogni giorno, per mesi. Ricordo solo la strada, sempre quella, la stessa ogni notte, anche se allungavo di un pezzo rispetto al percorso più rapido: i tossici sono scaramantici. Quando rientravo a Cernobbio superavo il cancello e in genere parcheggiavo nel cortile quadrato, sotto i portici. Quella volta invece posteggiai appena fuori dalla “casetta”. Entrai e iniziai a preparare: versai la coca dalla busta al cucchiaio, poi aggiunsi acqua e riempii una 13
Ero spaventato, avevo paura. Il frastuono risvegliò il giardiniere. Io grondavo sangue come un maiale sgozzato. Alla fine riuscii ad aprire la porta, uscii finalmente nel mezzo della notte, coi lampioni della piazza su cui si affacciava il nostro cancello che spruzzavano luce gialla sulle imposte marroni della casetta, sulle foglie degli alberi e sul resto. Era tutto giallo, in quel momento. Invischiato nelle trame della dipendenza, preso in una rete stringente senza potermi muovere al suo interno, solo potevo calibrare la quasi immobilità dei miei arti in uno spazio sempre più buio e angusto. Raggiunsi l’auto parcheggiata appena lì fuori, tirai fuori di tasca le chiavi, e tremando come un ossesso aprii la portiera dal lato del guidatore. Intanto passava l’auto del metronotte, che ogni ora faceva un giro nel parco della casa. Fu peggio di qualunque brutta figura. Mi resi conto che avevo bisogno di aiuto, e che l’aiuto spesso non si chiede per favore, ma urlando. Aveva nevicato di recente e i pezzi di ghiaccio faticavano a sciogliersi. Ne presi un po’ per lavarmi via il sangue che sgorgava dalle ferite procurate dai vetri della porta, ma senza grandi risultati… Iniziai a suonare il clacson, per richiamare qualcuno in mio soccorso. 16