Rudyard
illustrazioni di Fabian Negrin
Bee bee, Pecora Nera
Storie che saltano di testa in testa, lasciando il prurito contagioso della lettura. Piccoli capolavori ritrovati, grandi autori classici che ci consegnano schegge d’infanzie indimenticabili. Bambini che si misurano con un mondo severo, estraneo e, spesso, assurdo e incomprensibile: quello degli adulti. ro
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Bee bee, Pecora Nera
pulci nell’orecchio
Kipling
R. Kipling
Rudyard Kipling, Nobel per la letteratura nel 1907 e uno dei più grandi scrittori per l’infanzia di sempre, nasce a Bombay nel 1865 da genitori inglesi. Mandato in patria per studiare, ne resta traumatizzato: la lontananza dalla famiglia e dall’India genera in lui un senso di abbandono palpabile in “Bee bee, Pecora Nera”, in larga parte autobiografico. Nel 1882 Kipling torna in India e diventa giornalista, e da inviato gira il mondo. Durante quegli anni scrive i suoi capolavori, “Il libro della giungla” (1894) e “Il secondo libro della giungla” (1895). Muore nel 1936 in Inghilterra.
«Stavo leggendo» spiegò, «leggevo un libro. Voglio leggere.» «È solo per fare scena» disse Zia Rosa. «Ma staremo a vedere. Adesso giochi con Judy, e non apri un libro per una settimana intera.»
Nello straordinario racconto autobiografico, Punch (Kipling) e Judy, bambini britannici, vivono in India circondati dall’affetto dei genitori e dei domestici indigeni. Ma li aspetta la scuola in Inghilterra. Lontani da mamma e papà, sono ospiti di Zia Rosa. Per Punch l’esperienza è disastrosa: vessato e umiliato dalla donna, bigotta e rigida, che gli rifila il soprannome di “Pecora Nera”, quegli anni lo segneranno per sempre.
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Rudyard Kipling
Bee bee, Pecora Nera illustrazioni
Fabian Negrin
traduzione di maria baiocchi
pulci nell’orecchio Serie a cura di Fabian Negrin Titolo originale: Baa Baa, Black Sheep, 1888 Traduzione dall’inglese di Maria Baiocchi © 2019 orecchio acerbo s.r.l. viale Aurelio Saffi, 54 · 00152 Roma www.orecchioacerbo.com Stampa: Futura Grafica ‘70 · Roma Finito di stampare nel mese di marzo 2019 Grafica: orecchio acerbo Maria Baiocchi ringrazia per l’aiuto prezioso Ester Coen, Paola Splendore, Paoletta Tedeschini Lalli e il Comitato di traduzione pubblica di Castasegna
Peeecora Nera hai lana per me? Sacchi pieni ne ho ben tre! Uno al pastore, uno alla sua bella Nulla al piccino che piange nella culla. Filastrocca
IL PRIMO SACCO “Nella casa di mio padre me la passavo meglio.”
L’ayah, l’hamal e Meeta – il grande surti col turbante rosso e oro – mettevano a letto Punch. Judy, al sicuro dietro la zanzariera, era già mezzo addormentata. Punch aveva avuto il permesso di andare a letto dopo la cena dei grandi. Negli ultimi dieci giorni gli erano state fatte un sacco di concessioni e le persone che lo circondavano avevano accolto con grande indulgenza i suoi modi e le sue azioni, per lo più ribelli. Lui, seduto sul bor-
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do del letto, dondolava le gambe nude, provocatorio. «Punch-baba è pronto per la nanna?» disse l’ayah invitante. «No» rispose Punch. «Punch-baba vuole la storia della Ranee trasformata in tigre. Meeta la deve raccontare e l’hamal si deve nascondere dietro la porta e fare il verso della tigre al momento giusto.» «Ma Judy-baba si sveglierà» disse l’ayah. «Judy-baba è svegliata» cinguettò una vocina da dietro la zanzariera. «C’era una Ranee che viveva a Delhi. E... continua, Meeta!» e scivolò di nuovo nel sonno mentre Meeta cominciava a raccontare. A Punch non era mai successo di farsela raccontare con così poche resistenze. Ci pensò su per un bel po’. L’hamal aveva modulato i versi della tigre in venti tonalità. «Uffa!» disse Punch perentorio. «Perché non viene papà a dire che me le dà?»
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«Punch-baba parte» disse l’ayah. «Tra una settimana non ci sarà più Punchbaba a tirarmi i capelli.» E sospirò, perché il bambino di casa era tanto caro al suo cuore. «Su fino ai Ghati con il treno?» disse Punch, mettendosi in piedi sul letto. «Su su, fino a Nassick dove abita Ranee la Tigre?» «No, non a Nassick quest’anno, piccolo Sahib» disse Meeta, issandosi il bambino sulla spalla. «Giù al mare dove piovono le noci di cocco, e dall’altra parte del mare in una grande nave. Porterai Meeta con te a Belait?» «Tutti! Dovete venire tutti!» disse Punch, dall’alto delle forti braccia di Meeta. «Meeta e l’ayah e l’hamal e Bhini il Giardiniere e Salaam Capitano Sahib, l’uomo dei serpenti.» Non c’era ironia nella voce di Meeta quando rispose «Grande è il favore del Sahib» e mise a letto il piccolo uomo, mentre l’ayah, seduta sulla soglia alla
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luce della luna, lo cullava con un’interminabile cantilena come quelle che intonano nella chiesa cattolica romana di Parel. Punch si rannicchiò a palla e dormì. La mattina dopo Judy gridò che nella camera c’era un topo, e così lui dimenticò di darle la bella notizia. Ma non era importante, perché Judy aveva solo tre anni e non avrebbe capito. Ma Punch di anni ne aveva cinque; e sapeva bene che andare in Inghilterra era molto più bello che fare una gita a Nassick. *** Papà e mamma vendettero la carrozza e il pianoforte, svuotarono la casa riducendo la dotazione di vasellame per i pasti e fecero lunghi conciliaboli su un mucchio di lettere provenienti da Rocklington. «La cosa peggiore è che non si può essere sicuri di niente» disse papà, lisciandosi i baffi. «Le lettere di per sé sono eccellenti e le condizioni abbastanza ragionevoli.» “La cosa peggiore è che i bambini cresce-
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ranno lontano da me” pensò la mamma, ma non lo disse ad alta voce. «Noi siamo solo un caso tra centinaia» disse papà amaramente. «Tra cinque anni tornerai in patria, cara.» «Punch allora avrà dieci anni – e Judy otto. Come sarà lunga, lunga, infinita l’attesa! E poi, doverli abbandonare tra estranei.» «Punch è un tipetto allegro. Farà amicizia dovunque vada.» «E come si fa a non innamorarsi della mia piccola Ju?» Erano lì, in piedi accanto ai lettini, la sera tardi, e mi sembra che mamma piangesse sommessamente. Papà se n’era appena andato quando lei si chinò sul lettino di Judy. L’ayah la vide e pregò che la Memsahib, la madre, non dovesse mai scoprire che l’amore dei suoi figli non era più per lei, ma per un’estranea. La preghiera della mamma era un po’ illogica. In sostanza diceva così: «Che
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gli estranei amino i miei figli come li amerei io e che siano buoni come lo sarei io con loro, ma che l’amore e la fiducia dei miei figli siano sempre solo per me. Amen». Punch si grattò nel sonno, e Judy piagnucolò un poco. Quella parve essere la sola risposta alla preghiera. Il giorno dopo andarono tutti al mare e ci fu una scena al molo Apollo quando Punch scoprì che Meeta non poteva seguirli, e a Judy dissero che l’ayah doveva restare lì. Ma Punch aveva trovato mille cose affascinanti tra cordami, paranchi e tubature della caldaia sul grande piroscafo della P. & O., molto prima che Meeta e l’ayah si fossero asciugati le lacrime. «Ritorna, Punch-baba» disse l’ayah. «Ritorna» disse Meeta «e diventa un Burra Sahib.» «Sì» rispose Punch, tra le braccia del padre che lo aveva tirato su per i saluti. «Sì! Tornerò e sarò un Burra Sahib Bahadur!»
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Alla fine del primo giorno Punch chiese di sbarcare in Inghilterra, convinto che fosse dietro l’angolo. Il giorno dopo tirava un forte vento, e a Punch venne il mal di mare. «Quando torno a Bombay» disse appena si fu ripreso, «vengo via terra – col broom-gharry. Questa nave è molto cattiva.» Il nostromo svedese lo consolò e lui cambiò idea nel corso del viaggio. C’era così tanto da vedere, da fare e da chiedere che Punch quasi dimenticò l’ayah e Meeta e l’hamal, a malapena ricordava qualche parola di indostano che una volta era la sua seconda lingua. Ma per Judy andò ancora peggio. Il giorno prima che il piroscafo arrivasse a Southampton, la mamma le chiese se avrebbe voluto rivedere l’ayah. Gli occhi azzurri della bambina vagarono sulla distesa di mare che aveva ingoiato il suo minuscolo passato, e alla fine disse: «Ayah! Quale ayah?»
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La mamma pianse per lei e Punch non ci poteva credere. Fu allora che per la prima volta sentì l’appassionato appello di sua madre che gli chiedeva di non permettere mai che Judy la dimenticasse. Punch non capiva che cosa volesse dire, visto che sua sorella era piccola, ridicolmente piccola, e che da quattro settimane tutte le sere la mamma era entrata nella loro cabina a cantare la ninna nanna, una misteriosa nenia che diceva “Sonny, anima mia”. Ma si sforzò di fare il suo dovere. E, non appena lei uscì dalla cabina, disse a Judy: «Ju, ticoddi mamma?» «Certo che micoddo» disse Judy. «Allora ticoddatela sempre, sennò non ti do le paperelle di carta che Capitan Sahib, il rosso, ha ritagliato per me.» Così Judy promise di «sicoddassi sempre la mamma.» Quell’ordine venne intimato da mamma e perfino da papà a Punch talmente
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tante volte e con un’insistenza tale che finì per spaventarlo. «Devi imparare subito a scrivere, Punch» disse papà, «così ci potrai mandare lettere a Bombay.» «Vengo in camera vostra» disse Punch, e gli sembrò che papà tossisse perché non riusciva a respirare bene. Papà e mamma in quei giorni non facevano altro. Se Punch rimproverava Judy perché non sicoddava, loro tossivano in cerca del fiato. Se Punch si stendeva sul sofà nella pensione di Southampton e fantasticava del suo futuro in viola e oro, loro ansimavano in cerca del respiro; e così pure facevano se Judy sporgeva le labbra per un bacio. Per tanti giorni tutti e quattro vagabondarono sulla faccia della terra – Punch senza più nessuno cui dare ordini, Judy troppo piccola per qualsiasi cosa, e papà e mamma seri, distratti, e sempre lì a tossire.
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«Dove» chiedeva Punch, stanco di quell’odiosa trappola su quattro ruote con sopra una montagna di bagagli. «Dov’è la nostra broom-gharri? Questa cosa schiamazza tanto che io non riesco a parlare. Dov’è la nostra broom-gharri? Su viale Bandstand, prima che abbiamo andato via, ho chiesto a Inverarity Sahib perché stava seduto lì dentro e lui mi ha detto che era sua. E io gli ho detto “La darò a te”– l’Inverarity Sahib mi piace – e gli ho chiesto “Sai infilare le gambe in quei lacci vicino ai finestrini?” E il Sahib mi ha detto “No”, ed è scoppiato a ridere. Io sì, io so infilare le gambe nei lacci. So infilare le gambe in questi lacci. Guarda! Oh, mamma piange di nuovo! Non sapevo che non devo farlo.» Punch tirò fuori le gambe dai lacci della carrozza: la portiera si aprì e lui scivolò a terra in una cascata di pacchetti davanti alla porta di un’austera villetta sul cui cancello c’era la scritta: “Downe Lodge”. Punch si ricompose e fissò la casa con antipatia. Sorgeva su una stra-
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da sabbiosa e un vento freddo gli faceva il solletico sulle gambe scoperte con i calzoni corti. «Andiamo via» disse Punch. «Questo non è un bel posto.» Ma mamma, papà e Judy erano scesi dalla carrozza e stavano portando già tutti i bagagli nella casa. Sulla soglia c’era una signora vestita di nero, dalle labbra screpolate, aperte in un largo sorriso. Dietro di lei un uomo grigio, alto, ossuto e con una gamba zoppa e dietro di lui un ragazzino di dodici anni con i capelli neri e l’aria untuosa. Punch considerò quel trio, e procedette spavaldo come era abituato a fare a Bombay quando arrivavano visite mentre lui giocava in veranda. «Come va?» chiese. «Sono Punch.» Ma tutti guardavano i bagagli... tutti tranne l’uomo grigio che gli strinse la mano e gli disse che era “un tipetto in gamba”. Seguì molto trambusto e sbattere di casse e Punch si rannicchiò sul sofà
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della sala da pranzo a riflettere sulla situazione. «Questa gente non mi piace» disse. «Ma non fa niente. Andremo via presto, abbiamo sempre andato via presto da tutti i posti. Vorrei essere tornati a Bombay presto.» Ma quel desiderio non produsse frutti. Per sei giorni la mamma ogni tanto piangeva e mostrava alla signora vestita di nero tutti gli abiti di Punch, iniziativa che a lui non era piaciuta per niente. “Ma forse è una nuova ayah bianca” pensò. «Io la devo chiamare “l’aziarosa”, però lei non chiama me Sahib. Lei dice solo Punch» confidò a Judy. «Che cosa è l’aziarosa?» Judy non lo sapeva. Né lei né Punch avevano mai sentito parlare di un fiore chiamato zia. Il loro mondo era stato solo papà e mamma, che sapevano tutto e permettevano tutto e amavano tutti... Anche Punch quando andava in giardino a Bombay, dopo il taglio settimana-
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le delle unghie e se le riempiva di terra perché, come spiegava dopo aver pestato forte i piedi due volte davanti al padre sfinito, la punta “era troppo nuova”. Punch aveva la vaga sensazione che fosse bene mettere tutti e due i genitori tra sé e la signora in nero e il ragazzino dai capelli neri. Loro non gli piacevano. Gli piaceva l’uomo grigio che aveva detto di voler essere chiamato “Zioharry”. Quando si incrociavano si salutavano con un cenno della testa e l’uomo gli aveva mostrato un piccolo brigantino con le sartie che salivano e scendevano. «È il modellino del Brisk – il piccolo Brisk che ha corso un gran pericolo quel giorno a Navarino.» L’uomo grigio canticchiò le ultime parole e si lasciò andare alle fantasticherie. «Ti racconterò di Navarino, Punch, quando faremo una passeggiata; ma non lo devi toccare, perché è il Brisk.» Molto prima di fare quella passeggiata, la prima di tante, Punch e Judy furono
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svegliati, in una fredda alba di febbraio per dire addio – tra tutta la gente di questa grande terra – proprio a papà e mamma, questa volta tutti e due in lacrime. Punch moriva di sonno e Judy era arrabbiata. «Non ci dimenticate» implorò mamma. «Oh, piccolo mio, non ci dimenticare e fa’ che anche Judy ci ricordi.» «Ho detto a Judy di sicoddare» disse Punch, contorcendosi, perché la barba del padre gli faceva il solletico sul collo. «L’ho detto a Judy dieci-quarantamillemila volte. Ma Ju è piccola – una pupattola – non è vero?» «Sì» disse papà, «una pupattola e tu devi essere buono con lei e imparare subito a scrivere e… e… e…» Punch era di nuovo nel suo letto e Judy dormiva profondamente, dalla strada sotto giungeva il tintinnio di una carrozza. Papà e mamma se n’erano andati. Non a Nassick, che era dall’altra parte del mare. In un posto molto più vicino,
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di certo, e di certo sarebbero tornati. Tornavano sempre dopo le cene e papà era tornato dopo essere stato in un posto che si chiamava “The Snows”, e la mamma era tornata con lui, erano tornati da Punch e Judy nella casa della signora Inverarity a Marine Lines. Certamente sarebbero di nuovo tornati. Così Punch dormì fino a mattino inoltrato, quando il ragazzino dai capelli neri gli andò incontro con la notizia che papà e mamma erano andati a Bombay, e che lui e Judy dovevano stare a Downe Lodge “per sempre”. Ziarosa, alla quale si erano rivolti in lacrime perché negasse quella notizia, disse che Harry aveva detto la verità e che toccava a Punch piegare bene i suoi vestiti prima di andare a letto. Punch se ne andò a piangere amaramente con Judy, nella cui bionda testina aveva infilato qualche idea del significato di una separazione. Quando un uomo maturo scopre di essere stato abbandonato dalla Provvidenza e dal suo Dio e abbandonato senza aiuto, conforto, né simpatia in un mondo
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nuovo e sconosciuto, la sua disperazione che si può esprimere in una vita malvagia, nella scrittura delle sue esperienze o nella più soddisfacente occupazione del suicidio, in genere è ritenuta spettacolare. Mentre un bambino in identiche circostanze, nella sua ignoranza del mondo, non può maledire Dio e morire. Così urla fino ad avere il naso rosso, gli occhi in fiamme e il mal di testa. Punch e Judy avevano perso il mondo che conoscevano e non per colpa loro. Piantati nell’atrio, piansero mentre il ragazzino dai capelli neri li guardava da lontano. Nemmeno il modellino della nave servì a niente, anche se l’uomo grigio assicurò a Punch che poteva maneggiare le corde quanto voleva; e a Judy fu permesso di entrare in cucina. Loro volevano papà e mamma, che erano andati a Bombay, di là dal mare, e il loro lutto, finché durò, fu senza rimedio. Quando finirono le lacrime, nella casa piombò il silenzio. Ziarosa aveva deciso
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che era meglio lasciare che i bambini “piangessero tutte le loro lacrime”, e il ragazzino era andato a scuola. Punch sollevò la testa da terra singhiozzando triste. Judy si era quasi addormentata. Tre brevi anni non le avevano ancora insegnato a sopportare consapevolmente il dolore. Nell’aria si sentiva un rimbombo – come un pesante colpo sordo ripetuto. Punch conosceva quel rumore, durante il monsone, a Bombay. Era il mare – il mare che bisognava attraversare per arrivare a Bombay. «Svelta, Ju!» gridò. «Siamo vicini al mare. Lo sento! Senti! È lì che sono andati. Se vadiamo svelti forse li raggiungiamo. Loro non ci volevano lasciare. Si sono solo dimenticati.» «Sììì» disse Judy. «Loro non si sono sicoddati. Vadiamo al mare.» La porta di casa era aperta ed era aperto anche il cancello del giardino. «È grande, grande grande, qui» disse lui una volta sulla strada guardandosi cau-
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tamente intorno, «e ci perderemo. Ma io troverò un uomo e gli chiederò di riportarmi a casa mia – come facevo a Bombay.» Prese Judy per mano, e insieme corsero a capo scoperto verso il mare. Downe Lodge era quasi l’ultima di una serie di case di recente costruzione che, dopo un disordinato cumulo di mattoni, finiva in una landa dove ogni tanto si accampavano gli zingari e dove si esercitava l’artiglieria della guarnigione di stanza a Rocklington. C’era poca gente in giro e loro da lontano potevano essere scambiati con i figli dei soldati stanziati lontano. Per mezz’ora le gambette dei piccoli si affaticarono per la landa, oltre un campo di patate e una duna di sabbia. «Io tanto ttanca» disse Judy; «e mamma si arrabbia.» «Mamma non si arrabbia mai. Adesso starà aspettando vicino al mare mentre papà compra i biglietti. Ora li troviamo e andiamo via con loro. Ju, non ti devi
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sedere. Ancora un poco e arriviamo al mare. Ju, se ti siedi ti do uno chiaffo!» disse Punch. Superarono un’altra duna, e arrivarono al grande mare grigio durante la bassa marea. Sulla spiaggia correvano centinaia di granchietti, ma non c’era traccia di papà e mamma, nemmeno di una nave in mare – solo sabbia e fango per miglia e miglia. E Zioharry li trovò per caso, tutti sporchi di fango e disperati. Punch in lacrime che però cercava di distrarre Judy con i chietti, e Judy che ululava allo spietato orizzonte chiamando «mamma, mamma!» e ancora «mamma!» ***
IL SECONDO SACCO Ah, ecco il giorno, per noi anime dolenti! Di tutte le creature sotto l’ampia volta celeste Siamo le più disperate, ed eravamo le più fidenti, Le più miscredenti, ed eravamo le più devote.
Finora niente su Pecora Nera. Lui viene dopo e Harry, il ragazzino con i capelli neri, è il massimo responsabile della sua venuta. Judy – come non amare la piccola Judy? – era entrata, grazie a un permesso speciale, nella cucina e da lì direttamente nel cuore di Zia Rosa. Harry era l’unico figlio di Zia Rosa e Punch era il bambino in più in quella casa. Non c’era un posto per lui e le sue piccole attività e gli era proibito stendersi sui divani e spiegare le sue idee su com’era fatto il mondo e le sue speranze per il futuro. Stendersi sul divano era da pigroni e rovinava la stoffa, e i bambini non erano fatti per
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parlare, ma per ascoltare e i discorsi che dovevano ascoltare erano a beneficio della loro morale. In quanto despota indiscusso della casa di Bombay, Punch non riusciva a capire com’era possibile che, in questa sua nuova vita, fosse passato a non contare niente. Harry poteva allungare una mano sul tavolo e prendere quello che voleva; Judy poteva indicare quello che voleva e ottenerlo. A Punch non era permessa né una cosa né l’altra. La sua grande speranza e il suo unico sostegno per tanti mesi dopo che mamma e papà se n’erano andati era stato l’uomo grigio e lui aveva dimenticato di dire a Judy di sicoddassi mamma. Un’amnesia perdonabile, perché nel frattempo era stato introdotto da Zia Rosa a due cose notevoli – un’astrazione di nome Dio, amico intimo e alleato di Zia Rosa, che probabilmente viveva dietro la cucina economica perché lì faceva caldo – e un libro marrone e sporco pieno di segni e di punti incomprensi-
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bili. Punch, sempre pronto a compiacere tutti, saldò la storia della Creazione con quello che riusciva a ricordare delle sue favole indiane, e scandalizzò Zia Rosa raccontando il risultato a Judy. Era un peccato, un peccato grave, e Punch dovette ascoltare un discorsetto di un quarto d’ora. Non capiva qual era il grave delitto, ma fece attenzione a non ripeterlo perché Zia Rosa gli aveva detto che Dio aveva sentito ogni parola che lui aveva detto ed era molto arrabbiato. Ma se era vero, come mai Dio non era venuto a dirglielo di persona, aveva pensato Punch, e poi aveva smesso di pensarci. Dopo avrebbe imparato che il Signore era la sola cosa al mondo più orribile di Zia Rosa: un Essere che rimaneva nell’ombra e contava i colpi di frusta. Ma la lettura era, in quel momento, un affare ben più serio di ogni credo. Zia Rosa lo mise seduto al tavolino e gli disse che A B significava ab. «Perché?» chiese Punch. «A è a e B è bi. Perché A B fa ab?»
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«Perché te lo dico io» disse Zia Rosa, «e tu devi ripeterlo.» Punch ubbidì e per un mese, pur odiandolo con tutto se stesso, incespicò sulle pagine del libro marrone, senza avere la minima idea di che cosa significassero. Ma Zio Harry, che camminava molto e per lo più da solo, aveva preso l’abitudine di andare in camera dei bambini e suggerire a Zia Rosa che Punch avrebbe dovuto accompagnarlo. Parlava poco ma mostrò a Punch tutta Rocklington, dai banchi di fango e sabbia in fondo alla baia fino al grande porto con le navi all’ancora e i cantieri dove i martelli non tacevano mai, ai magazzini della Marina e ai banconi di lucido ottone degli uffici dove Zio Harry andava una volta ogni tre mesi con un foglietto di carta blu e riceveva in cambio delle sovrane; perché aveva una pensione di invalidità. Punch aveva sentito dalle sue labbra la storia della battaglia di Navarino, quando i marinai della Flotta, per i tre giorni successivi erano stati sordi come campane, e
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per comunicare tra di loro potevano solo farlo a gesti. «Era per via del frastuono dei cannoni» aveva detto Zio Harry «e io adesso mi ritrovo dentro, da qualche parte, lo stoppaccio di una pallottola.» Punch lo guardava con curiosità. Non aveva la minima idea di cosa fosse uno stoppaccio e la sua idea di una pallottola era quella di una palla di cannone più grossa della sua testa. Com’era possibile che lo Zio Harry avesse dentro una palla di cannone? Si vergognava di chiedere per paura di far arrabbiare lo Zio Harry. Punch non aveva capito cosa fosse la rabbia – quella vera – fino al giorno terribile in cui Harry aveva preso la sua scatola dei colori per dipingere una barca, e Punch aveva protestato. Allora Zio Harry era comparso sulla scena e bofonchiando qualcosa sui figli degli “stranieri”, con una frusta aveva colpito violentemente il ragazzino con i capelli neri sulla schiena fino a farlo piangere e strillare. Allora era accorsa Zia Rosa
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e aveva inveito contro Zio Harry per la sua crudeltà nei confronti del suo stesso sangue, e Punch era rabbrividito fino alla punta delle scarpe. «Non è stata colpa mia» aveva spiegato al bambino ma tutti e due, Harry e Zia Rosa, dissero che non era vero e che Punch aveva inventato tutto, e per una settimana niente più passeggiate con Zio Harry. Ma quella settimana portò una grande gioia a Punch. Aveva ripetuto all’infinito la frase “Il Gatto ha visto entrare un Ratto nel Salotto”. «Adesso so leggere davvero» disse Punch. «E non leggerò più niente, lo giuro!» E mise via il librone marrone nell’armadio dove stavano i libri di scuola e per caso cadde giù un antico volume, senza copertina, con la scritta Sharpe’s Magazine. Sulla prima pagina c’era una formidabile illustrazione di un Grifone e sotto dei versi. Il Grifone portava via una pecora al giorno da un villaggio tedesco fino a che non arrivò un uomo
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con un “falcione” e tagliò in due il Grifone. Dio solo sa cosa fosse questo falcione, ma almeno c’era il Grifone e la sua storia era già un bel passo avanti rispetto a quella dell’eterno Gatto. «Questo» disse Punch, «ha un senso e adesso scoprirò tutto di tutte le cose dell’universo.» Lesse fino al tramonto, senza capire niente di quello che leggeva, ma stuzzicato dai barlumi dei nuovi mondi da scoprire. «Cos’è un “falcione”? Cos’è un “becco”? Che cosa un “vile usurpatore”? Che cosa una “verdeggiante zolla”?» domandò, con le guance in fiamme, all’ora di andare a letto, alla sbalordita Zia Rosa. «Di’ le tue preghiere e va’ a dormire» gli rispose e fu quello tutto l’aiuto che a Punch venne da lei da quel momento in poi nel nuovo e delizioso esercizio della lettura. “Zia Rosa sa solo cose di Dio e roba simile”, dedusse Punch. “Me lo dirà Zio Harry.”
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