"L'isola di Kalief" - anteprima

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Davide Orecchio · Mara Cerri

L’isola di Kalief



Davide Orecchio · Mara Cerri

L’isola di Kalief


Vivo in una città felice e sono una bambina felice. Vivo nell’isola di Kalief. Non vorrei vivere in nessun altro posto al mondo. Mi piace dormire e sognare, ma svegliarmi mi piace di più. Apro gli occhi sul cielo e sui rami dell’ederapesco. Non c’è un minuto da perdere. Devo lavarmi e vestirmi. Devo montare sulla mia tabula e correre a scuola. Devo volare.

Sopra l’isola.

Sopra la città.



Un tempo l’isola era diversa.

Non aveva il bosco dei cipressananassi. E non aveva il quartiere delle cuspidi azzurre.


In quella casa accanto al lecciobambù abita la mia amica migliore. Ma oggi non la aspetterò. Mi sa che sta ancora dormendo. Preferisco non fermare il mio volo. Voglio correre ancora un poco quassù nell’aria.


Un tempo la città non era felice. Un giorno mia madre mi ha portata alla spiaggia delle tartarughe e mi ha raccontato la storia. Nell’isola non c’erano alberi, e non c’erano case belle come la mia. L’isola era una grande prigione piena di ragazzi, piena di figli. Il fiume era sporco e privo di vita. Poi arrivò un ragazzo e tutto cambiò. A volte per cambiare le cose basta un ragazzo. Ma deve avere coraggio.


Una notte quel ragazzo camminava in una strada piena di fornai e pasticcerie. Ma non c’era odore di pane. I negozi erano chiusi e c’era odore di gas. Io non lo conosco. È la puzza che emettevano le automobili in quel tempo lontano. Neanche mia madre lo conosce. Ne abbiamo letto sui libri. Riesco a immaginare l’odore del gas solo se penso a un colore. Come una nuvola di siero.

Un biancore che ti fa girare la testa.


Invece, quando penso a quel ragazzo, penso al verde brillante delle foglie appena nate dell’edera. Il ragazzo camminava nel siero e perdeva il suo colore vivace. All’improvviso una pattuglia di poliziotti lo prese in arresto. Lo accusarono di avere rubato un piccolo zaino. Ma lui non era un ladro! Lui era innocente e lo disse. E chiese: «Me ne posso andare? A casa c’è mia madre che aspetta». Ai poliziotti però non importava. Lo portarono nella prigione dell’isola.

In quel tempo lontano l’isola si chiamava Rikers. In quel tempo lontano la legge funzionava così: quando ti arrestavano dovevi aspettare che un giudice decidesse se eri innocente o colpevole. Anche se avevi sedici anni, come quel ragazzo, dovevi aspettare. Giorni, settimane, mesi, anni. All’epoca i ricchi pagavano e uscivano dalle prigioni, e aspettavano a casa il processo. I poveri invece restavano dentro, ed è quello che successe al ragazzo.



Come faceva il ragazzo a dormire nella prigione? Senza la madre e senza i fratelli? Non piangeva dai suoi grandi occhi? Tutte le case dell’isola erano prigioni. Tutte le strade dell’isola portavano a una prigione. Le case non avevano pareti di vetro ma di cemento. Non si vedeva dentro e non si vedeva fuori. Non potevi vedere le lacrime del ragazzo. E il ragazzo non vedeva il cielo. E non c’era un solo albero. E non c’erano le tartarughe. Nell’isola di Rikers non c’era niente di bello.


Misero quel ragazzo in un dormitorio. Con lui vivevano altri cinquanta ragazzi. Avevano il nostro colore. In quella prigione rinchiudevano il nostro popolo e basta. Indossavano canottiere bianche. Si agitavano nel dormitorio, nella mensa, nei bagni. Erano arrabbiati. Litigavano e c’era violenza. Il ragazzo non riusciva a dormire.

Il ragazzo aveva paura.


Vennero alla sua branda e gli saltarono addosso. Lui era basso e leggero ma si difese. Si fece coraggio e colpì. Ma gli altri colpirono il doppio. Le guardie non li fermarono. Se non combattevi avevi torto. Se non saltavi sugli altri ragazzi avevi torto. Il verde del ragazzo si macchiò di rosso.

Quel giorno il ragazzo pensò: “È questa la giustizia? La legge funziona così? Qua dentro quello che è sbagliato non è sbagliato, e quello che è giusto non è giusto. Allora devo cambiare le cose”.

Quel giorno nacque un eroe. Il suo nome è Kalief.



Le guardie lo ammanettarono, lo misero su un autobus, lo picchiarono un po’ e lo portarono davanti al giudice, che gli chiese: «Sei accusato di furto e rapina, come ti dichiari?» Kalief si alzò e rispose che era innocente. Lo riportarono a Rikers e passarono i giorni, passarono i mesi. Kalief restò solo. Nella violenza. Nella paura. Poi lo portarono ancora dal giudice.


«Facciamo un patto. Tu ti dichiari colpevole e io ti mando a casa senza processo. Confessi di avere rubato lo zaino?» gli disse il giudice. Ma Kalief fece di no con la testa: «Perché devo confessare qualcosa che non ho fatto? Se dovrò restare qui per dimostrare che sono innocente, così sarà».

E così fu. E lo riportarono a Rikers.


Passarono i giorni e le settimane. Passarono i mesi. A nessuno importava se Kalief era innocente o colpevole. Sua madre veniva a trovarlo e piangeva. Sua madre vedeva ferite e lividi. Nella prigione tutti saltavano sopra Kalief. Saltavano gli altri ragazzi e saltavano anche le guardie. Tutti sopra Kalief. Il suo colore verde stingeva ogni giorno di più. Ma Kalief si ribellò. Gridò che non era giusto. Fu allora che le guardie lo chiusero dentro la scatola. Una gabbia di ferro incrostato, con un materasso, un lavandino e un gabinetto. Ogni tanto passava un topo. Kalief non poteva vedere nessuno. Vedeva soltanto il topo. Tre volte al giorno gli portavano un vassoio di cibo, ma era poco e Kalief dimagriva. Kalief implorava: «Datemi un pezzo di pane». Ma le guardie non lo ascoltavano.

E passavano i giorni, passavano i mesi, passavano gli anni.



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