pulci nell’orecchio
Fine del gioco
illustrazioni
traduzione di francesca lazzarato
Julio Cortázar Fabian Negrin
Stampa: Arti Grafiche La Moderna, Guidonia Finito di stampare nel mese di settembre 2022
Grafica: orecchio acerbo
pulci nell’orecchio Serie a cura di Fabian Negrin
Titolo originale: Final del juego, 1956 © Julio Cortázar, 1956 and Heirs of Julio Cortázar Traduzione dallo spagnolo di Francesca Lazzarato © 2022 orecchio acerbo s.r.l. viale Aurelio Saffi, 54 · 00152 Roma www.orecchioacerbo.com
7 Nelle giornate calde, con Leticia e Holanda andavamo a giocare vicino ai binari della ferrovia, aspettando che mamma e zia Ruth cominciassero a fare la siesta per squagliarcela dalla porta bianca. Dopo aver lavato i piatti, mamma e zia Ruth erano sempre stanche, soprattutto quando Holanda e io li asciugavamo, perché allora c’erano discussioni, cucchiaini per terra, frasi che solo noi capivamo, e in generale un ambiente dove l’odore del grasso, i miagolii di José e la penombra della cucina contribuivano al nascere di una violentissima litigata e al relativo scompiglio. Holanda si era specializzata nel pro-
vocare un caos del genere, per esempio lasciando cadere un bicchiere già lavato nella bacinella dell’acqua sporca, o ricordando come di sfuggita che in casa delle de Loza c’erano due domestiche per ogni servizio. Io usavo altri metodi: preferivo far presente a zia Ruth che le sue mani si sarebbero screpolate, se continuava a sfregare le pentole invece che occuparsi di piatti e bicchieri, cioè proprio quello che mamma preferiva lavare, e in questo modo le mettevo tacitamente l’una contro l’altra per accaparrarsi i compiti più facili. L’estremo rimedio, quando non ne potevamo più dei consigli e delle lunghe rievocazioni familiari, era quello di rovesciare acqua bollente sul dorso del gatto. Quella sul gatto scottato è una grande bugia, a meno di prendere alla lettera il riferimento all’acqua fredda; perché da quella calda José non si allontanava, sembrava quasi che si offrisse, povera bestia, per farsi rovesciare addosso mezza tazza d’acqua a cento gradi o poco meno, pro-
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babilmente meno perché il pelo non gli cadeva mai. Fatto sta che Troia bruciava, e nella confusione coronata dallo splendido si bemolle di zia Ruth e dalla corsa di mamma in cerca della bacchetta dei castighi, Holanda e io ce la squagliavamo nel portico, verso le stanze vuote che davano sul cortile posteriore, dove Leticia ci aspettava con il suo Ponson du Terrail, lettura inesplicabile.
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Di solito mamma ci inseguiva per un bel tratto, ma la voglia di romperci la testa le passava molto in fretta e alla fine (avevamo sbarrato la porta e le chiedevamo perdono con commoventi scene teatrali) si stancava e se ne andava, ripetendo sempre la stessa frase:
«Andranno a finire per strada, queste scia Andavamogurate». a finire, invece, ai binari della ferrovia, quando in casa regnava il silenzio e vedevamo il gatto distendersi
Il nostro regno era così: un’ampia curva dei binari andava a concludersi proprio davanti al cortile sul retro della nostra casa. C’erano soltanto la ghiaia, le tra versine e il doppio binario; erba rada e insignificante tra l’acciottolato dove la mica, il quarzo e il feldspato – che sono i componenti del granito – brillavano come autentici diamanti sotto il sole delle due del pomeriggio. Quando ci chinavamo a toccare le rotaie (senza indugiare perché sarebbe stato pericoloso
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sotto il limone, per fare anche lui la sua siesta profumata e ronzante di vespe. Aprivamo piano piano la porta bianca, e nel richiuderla era come se un ven to, un senso di libertà ci prendesse per mano, per tutto il corpo, e ci proiettasse in avanti. Allora prendevamo la rincorsa per inerpicarci di slancio sulla breve scarpata della ferrovia e, appollaiate in cima al mondo, contemplavamo silenziose il nostro regno.
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trattenersi lì per molto, non tanto per i treni, quanto per il rischio che quelli di casa ci vedessero) il calore ardente delle pietre ci saliva al viso, mentre quando ci fermavamo contro il vento del fiume, un caldo umido ci si appiccicava alle guan ce e alle orecchie. Ci piaceva flettere le gambe e abbassarci, alzarci, abbassarci di nuovo, entrando nell’una o nell’altra zona di calore, studiando le nostre facce per osservare il sudore, perciò ben presto eravamo bagnate zuppe. E sempre in silenzio, mentre guardavamo la fine dei binari o il fiume dall’altra parte, il pezzetto di fiume color caffellatte.
Dopo quella prima ispezione del regno, scendevamo la scarpata ed entravamo nella cupa ombra dei salici che crescevano vicinissimi al muretto di casa nostra, dove si apriva la porta bianca. Lì c’era la capitale del regno, la città silvestre e il cuore del nostro gioco. A cominciarlo era Leticia, la più felice delle tre e la più pri-
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vilegiata. Leticia non doveva asciugare i piatti né rifare i letti, poteva trascorrere la giornata leggendo o incollando figurine, se lo chiedeva le permettevano di restare alzata fino a tardi, la sera, e inoltre aveva diritto a una stanza tutta per sé, al brodo di ossa e a vantaggi di ogni genere. A poco a poco aveva cominciato ad approfittarsi dei suoi privilegi, e dall’estate precedente era lei a dirigere il gioco, credo che in realtà dirigesse il regno; per lo meno era la prima a dire le cose e Holanda e io lo accettavamo senza protestare, quasi contente. È probabile che le lunghe prediche di mamma su come dovevamo comportarci con Leticia avessero fatto il loro effetto, o semplicemente le volevamo bene e non ci dispiaceva che fosse il capo. Peccato che non avesse l’aspetto di un capo, era la più bassa di noi tre, e così magra. Holanda era magra e io non ho mai pesato più di cinquanta chili, ma fra noi Leticia era la più magra e, peggio ancora, la sua era una di quelle magrezze che si notano subito, nel
collo e nelle orecchie. Forse era la rigidità della schiena a farla sembrare più magra, e siccome non poteva quasi muovere la testa lateralmente dava l’impressione di un’asse da stiro chiusa, di quelle foderate di stoffa bianca come ce n’erano in casa delle de Loza. Un’asse da stiro con la parte più larga in alto, appoggiata alla parete. Ed era lei a dirigerci.
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La mia più grande soddisfazione era immaginare che un giorno mamma o zia Ruth venissero a sapere del gioco. Se mai lo avessero scoperto, sarebbe scoppiato un finimondo. Il si bemolle e gli svenimenti, le interminabili rimostranze per la devozione e il sacrificio così mal ripagati, l’accumularsi di invocazioni dei più celebri castighi, per finire con il pronostico dei nostri destini, ossia che tutte e tre saremmo finite per strada. Quest’ultima cosa ci aveva sempre lasciato perplesse, perché finire per strada ci sembrava abbastanza normale.
Per prima cosa Leticia tirava a sorte. Usavamo pietruzze nascoste nella mano, contavamo fino a ventuno, qualunque sistema. Se usavamo quello di contare fino a ventuno, immaginavamo due o tre ragazzine in più e le includevamo nel conto per evitare imbrogli. Se a una di loro toccava il ventuno, la toglievamo dal gruppo e tiravamo di nuo vo a sorte, finché toccava a una di noi. Allora Holanda e io alzavamo la pietra e aprivamo la scatola degli ornamenti. Supponendo che avesse vinto Holanda, a sceglierli eravamo Leticia e io. Il gioco si svolgeva in due modi: statue e pose. Le pose non richiedevano ornamenti ma molta espressività: per l’invidia mostrare i denti, contrarre le mani e fare in modo di assumere un’aria gialla. Per la carità, l’ideale era una faccia angelica con gli occhi rivolti al cielo, mentre le mani offrivano qualcosa – uno straccio, una palla, un ramo di salice – a un povero orfanello invisibile. La vergogna
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e la paura erano facili; il rancore e la gelosia esigevano una maggiore applicazione. Gli ornamenti erano destinati quasi tutti alle statue, che consentivano un’assoluta libertà. Per la buona riuscita di una statua, bisognava riflettere su ogni particolare dell’abbigliamento. Il gioco stabiliva che la sorteggiata non potesse partecipare alla scelta; le altre due discutevano il soggetto e poi sistemavano gli ornamenti. La sorteggiata doveva inventare la sua statua, servendosi di quello che le avevano messo, e in questo modo il gioco era molto più complicato ed eccitante perché a volte c’era un’alleanza a lei ostile, e la vittima si ritrovava abbigliata con ornamenti che non le andavano affatto; inventare una bella statua, allora, dipendeva dal suo acume. Quando si giocava alle pose, di solito la sorteggiata se la cavava bene, ma a volte succedeva che le statue fossero un completo fallimento.