Cinzia Ghigliano
MIKE DISFARMER
MIKE DISFARMERLui.
Cappello nero, cappotto nero, abito nero. Lo stesso in ogni stagione. Regale, elegante sul suo cavallo. Nero.
Vive, mangia, dorme, da solo. Nel suo grande studio fotografico.
Muri di calcestruzzo, pavimento di cemento. Una parete inclinata, tanti vetri allineati per far entrare la luce.
Tanta luce. Tutta quella necessaria per fotografare anche d’inverno, quando la luce nei pomeriggi è poca ad Heber Springs, Arkansas.
Un letto, un tavolo, una sedia. E basta.
Qui lui scatta i suoi speciali ritratti. Lo fa fino alla fine dei suoi giorni.
Racconta, a pochi in realtà, non parla volentieri, di essere arrivato sulla terra rotolando, espulso dal turbine di un tornado.
popolata da bambini.
Lui.
Non biondo come loro, magro, lungo, piccoli occhi penetranti, scuri, su quell’aia incontra i Meyer, “contadino” in tedesco, la loro lingua madre. È questo che i Meyer fanno nell’Indiana. Coltivano la terra.
Lui.
Diventa uno della famiglia, il suo nome da quel giorno è Mike Meyer.
Non è facile per Mike fare amicizia, non è facile abituarsi ai nuovi fratelli. Ama le cose una alla volta. Primo: il violino.
Poi arriva lei.Forse accade durante una festa di paese. La vede e se ne innamora.
Da quel momento, prepotentemente, la grande macchina fotografica prende il primo posto nel suo cuore.
E Mike comincia a coltivare quell’amore. È la sua piccola pianta. Deve trovare il modo di farla germogliare.
Lui.
Che guarda la natura con un po’ di diffidenza per via del tornado che l’ha portato lì, aiuta ogni giorno i fratelli nei lavori nei campi, ma vorrebbe raccontare com’è la vita, lì in quel posto, in quel momento. Non con le parole, quelle non sono il suo forte. Ha imparato a trovare le tracce del mondo nei volti. Occhi, bocche, rughe per lui sono sentieri per capirlo, il mondo.
Ma gli serve quella macchina.