"Il richiamo della foresta" - anteprima

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JACK LONDON • MAURIZIO A.C. QUARELLO

Uccidi o ti uccidono, mangia o ti mangiano, questa era la legge; e a questo mandato, uscito dalle profondità del Tempo, lui obbediva.”

IL RICHIAMO DELLA FORESTA

“La pietà non esisteva. Veniva scambiata per paura e un malinteso del genere significava morte.

Il richiamo della

FORESTA JACK LONDON MAURIZIO A.C. QUARELLO T R A D U Z I O N E D I D AV I D E S A P I E N Z A

¤ 19,50 9,50

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Nomade balzo di antiche brame consuma la catena dell’abitudine; risveglia la stirpe selvaggia dal sonno invernale.

da Atavism Poema di John Myers O’Hara


Il richiamo della

foresta Jack London Maurizio a.c. Quarello

T raduzione di Davide Sapienz a


CAPITOLO 1

Verso i primordi

B uck non leggeva i giornali. Se così fosse stato, avrebbe saputo dei guai che bollivano in pentola sulla bassa costa paludosa da Puget Sound a San Diego, e non solo per lui, ma per tutti i cani forti di muscoli e dal lungo pelo caldo. Gli esseri umani brancolavano nel buio artico là dove era stato scoperto un metallo giallo, facendo prosperare le compagnie di trasporto e quelle marittime perché erano in migliaia quelli che si erano lanciati verso le Terre del Nord. A quegli uomini occorrevano cani – cani possenti, cani forti di muscoli e capaci di affrontare la fatica, cani con la pelliccia folta in grado di proteggerli dal gelo. Buck viveva in una grande casa nella soleggiata Santa Clara Valley. Era conosciuta come la casa del giudice Miller. Era lontana dalla strada e quasi nascosta tra gli alberi, attraverso i quali si riuscivano a cogliere fugaci apparizioni dell’ampia e fresca veranda che la circondava sui quattro lati. Alla casa si accedeva seguendo i vialetti di ghiaia che si snodavano attraverso gli ampi prati e tra i rami degli alti pioppi che si intrecciavano tra loro. Sul retro tutto era addirittura più spazioso di ciò che stava sul fronte. C’erano le grandi stalle, accudite da una dozzina di stallieri e di garzoni, le file dei villini per la servitù ricoperti di rampicanti, l’infinita schiera ordinata di capanni, i lunghi alberi delle viti, i pascoli verdi, i frutteti e i piccoli giar6


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dini dei frutti di bosco. Poi c’era l’impianto per il pompaggio dal pozzo artesiano e la grande cisterna di cemento dove i figli del giudice Miller andavano a farsi un tuffo al mattino e a prendere il fresco nei pomeriggi caldi. E sull’intera grande proprietà regnava Buck. Qui era nato e qui aveva trascorso i quattro anni della sua vita. Vero, c’erano altri cani, in una proprietà tanto vasta non poteva essere altrimenti, ma loro non contavano. Andavano e venivano, vivevano negli affollati canili o anonimamente negli angoli più nascosti della casa come Toots, il carlino giapponese, o Ysabel, la messicana senza il pelo – strane creature che raramente mettevano il naso fuori dalla porta o le zampe sui terreni. D’altra parte c’era una ventina di fox-terrier a guaire minacciose promesse contro Toots e Ysabel che li osservavano dalla finestra protetti da una legione di domestiche armate di scope e di stracci per il pavimento. Ma Buck non era un cane casalingo e neppure da canile. Il regno era suo, tutto. Si tuffava a nuotare nella cisterna o andava a caccia con il figlio del giudice; scortava le figlie Mollie e Alice nelle loro escursioni al crepuscolo o al mattino presto; si stendeva davanti al fuoco ruggente della biblioteca ai piedi del giudice nelle sere d’inverno; portava sulla schiena i nipoti del giudice o li faceva rotolare nell’erba, li vigilava da vicino durante le avventure selvagge alla fontana nel cortile della stalla e anche oltre, sino ai recinti per i cavalli e ai frutti di bosco. Si muoveva solenne e autoritario fra i terrier ignorando completamente Toots e Ysabel, poiché lui era il re – il re di tutto ciò che nella casa del giudice Miller si muoveva furtivamente, strisciava o volava, inclusi gli esseri umani. Suo padre, Elmo, era un enorme sanbernardo già inseparabile compagno del giudice e Buck era sulla buona strada per seguirne le orme. Non era altrettanto grande – pesava solamente sessantatré chili – poiché la madre, Shep, era un pastore scozzese. Nonostante ciò i sessantatré chili, arricchiti dal rango procuratogli da una bella vita e dal rispetto universale, gli consentivano di avere un perfetto portamento regale. Nei quattro anni dopo essere stato un cucciolo aveva condotto una vita da aristocratico appagato; nutriva una certa considerazione di se stesso, era anche un filo egotista, il che talvolta si riscontra nei gentiluomini di campagna a causa di vedute piuttosto ristrette. Ma si era salvato e aveva evitato di diventare un banale e viziato cane da guardia. La caccia e altre gioie simili della vita all’aria aperta avevano tenuto a bada il grasso e rinvigorito i muscoli; e come per ogni razza ben protetta dal freddo, anche per lui l’amore per l’acqua era stato il viatico in grado di preservarne la salute. Era dunque questa la condizione del cane Buck nell’autunno del 1897, quando la scoperta dell’oro nel Klondike aveva attratto uomini da ogni parte del mondo nel gelido Nord. Ma Buck non leggeva i giornali e non sapeva che Manuel, un aiutante del giardiniere, era una conoscenza poco raccomandabile. Manuel aveva un vizio inveterato. Adorava la lotteria cinese. E quando giocava aveva una debolezza cronica – credeva nel sistema, il che

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rendeva certa la sua condanna. Per giocare con un sistema occorre denaro, ma il salario di un aiutante giardiniere non va oltre i bisogni di una moglie e di una prole numerosa. Nella memorabile serata del tradimento di Manuel, il giudice era a un incontro della Raisin Growers’ Association, l’associazione viticultori, e i ragazzi occupati dall’organizzazione di un circolo di atletica. Nessuno lo vide passare attraverso il frutteto con Buck, che pensava si trattasse di una semplice passeggiata. E tranne un unico uomo, nessuno li vide arrivare a College Park, la piccola stazione facoltativa. L’uomo parlò con Manuel e, tintinnando, il contante cambiò mano. “La merce potresti anche impacchettarla prima della consegna” disse aspramente lo sconosciuto a Manuel, che fece passare una seconda volta un pezzo di corda robusta sotto il collare e intorno al collo di Buck. “Avvolgila e vedrai come soffoca” disse Manuel allo sconosciuto, che subito grugnì il suo assenso. Buck aveva accettato la corda in silenzioso contegno. Era sicuramente un gesto insolito ma aveva imparato ad avere fiducia negli uomini che conosceva, dando loro il credito di un discernimento che andava oltre il proprio. Ma come la corda passò in mano allo sconosciuto, ringhiò minacciosamente. Aveva appena fatto intendere il suo disappunto, convinto nella sua superbia che dare a intendere equivaleva a dare un ordine. Ma quale sorpresa quando la corda si strinse intorno al collo bloccandogli il respiro. Rabbioso, prontamente balzò verso l’uomo che gli si fece incontro, lo afferrò vicino alla gola e lo stese sulla schiena con un’abile torsione. Poi la corda si strinse impietosa, mentre Buck, furioso, si dimenava con la lingua penzoloni e il grande torace che ansimava invano. In vita sua mai nessuno lo aveva trattato con tanta viltà e mai in vita sua era stato così arrabbiato. Ma la sua forza andò scemando, gli occhi rimasero fissi e quando il treno si fermò e i due uomini lo buttarono nel bagagliaio non capì niente. Ciò di cui si rese vagamente conto fu del dolore alla lingua e che stava sobbalzando su un mezzo di trasporto. A rivelargli dov’era fu il rauco suono acuto e stridente di una locomotiva che segnalava un attraversamento con il suo fischio. Aveva viaggiato troppe volte con il giudice per non riconoscere la sensazione che si prova in un bagagliaio. Come aprì gli occhi, in loro apparve la rabbia sfrenata di un re sequestrato. L’uomo gli saltò al collo ma Buck era troppo veloce per lui. Le mandibole serrarono la mano senza mollarla sino a quando perse i sensi per il soffocamento. “Già, ha degli attacchi” disse l’uomo nascondendo la mano straziata all’addetto bagagli che aveva sentito i rumori della lotta. “Sto portandolo a Frisco per il capo. C’è un formidabile dottore per cani che dice di poterlo curare.” A proposito del viaggio di quella notte, l’uomo si espresse molto chiaramente al porto di San Francisco in una baracca sul retro di un saloon. “Io prendo solo cinquanta per questo” brontolò; “ma non lo rifarei per mille subito e in contanti.” 9


Aveva la mano avvolta in un fazzoletto zuppo di sangue e la gamba destra dei pantaloni strappata dal ginocchio alla caviglia. “L’altro ceffo quanto ha preso?” gli domandò il gestore del saloon. “Un centone” fu la risposta. “Non un soldo di meno, per cui aiutami.” “Fanno centocinquanta” calcolò il gestore del saloon; “e li vale, quanto è vero che non sono una testa quadra.” Il sequestratore si levò la fasciatura sanguinante per controllare la mano lacerata. “Se non prendo la rabbia...” “Sarà perché sei un pendaglio da forca” rise il gestore del saloon. “Dai qui la mano prima di alzare i tacchi” aggiunse. Instupidito, con un insopportabile dolore dalla gola alla lingua e mezzo soffocato, Buck cercò di affrontare i suoi tormentatori. Ma questi lo gettarono a terra strozzandolo ripetutamente sino a quando riuscirono a sfilargli dal collo il pesante collare d’ottone. Poi gli tolsero la corda e lo chiusero in una cassa che aveva l’aspetto di una gabbia. Lì dentro trascorse il resto della pesante nottata a lenire la propria ira e l’orgoglio ferito. Non riusciva a capire il significato di tutto ciò. Cosa volevano da lui quegli uomini sconosciuti? Perché lo tenevano imprigionato in quella gabbia angusta? Non sapeva il perché, ma si sentiva oppresso da un vago senso di imminente sventura. Durante la notte saltò in piedi svariate volte, convinto di vedere il giudice, o almeno i ragazzi, come udiva aprirsi con fragore la porta della baracca. Ma ogni volta era la faccia rigonfia del gestore del saloon illuminata dalla luce fioca di una candela di sego a scrutarlo. E ogni volta il latrato gioioso che vibrava nella gola di Buck si contorceva e lasciava spazio a un ringhio furibondo. Ma il gestore del saloon lo lasciò in pace e al mattino arrivarono quattro uomini che sollevarono la gabbia. Buck stabilì che si trattava di altri tormentatori, visto l’aspetto malvagio da straccioni trasandati di quelle creature; gli si scagliò contro rabbiosamente attraverso le sbarre. Loro si limitarono a ridere e a stuzzicarlo usando dei bastoni che immediatamente aggredì con i denti sino a quando capì che proprio quello volevano. A quel punto si coricò incupito permettendogli di trasportare la gabbia su un carro. Lui e la gabbia in cui era rinchiuso passarono per tante mani. Di lui si occuparono gli impiegati dell’ufficio espressi; venne trasportato su un altro carro; poi un autocarro lo condusse su un traghetto a vapore assieme a un assortimento di scatole e di pacchi; una volta sceso dal traghetto, con l’autocarro giunse a un deposito ferroviario, e da lì infine fu messo su un vagone espresso. Per due giorni e due notti la vettura espresso in coda a varie locomotive urlanti fu trascinata lentamente; e per due giorni e due notti Buck non mangiò e non bevve. Da arrabbiato, aveva affrontato ringhiando i primi approcci dei corrieri espresso che si erano vendicati stuzzicandolo. Quando si lanciava fremente sbavando contro le sbarre, lo deridevano sfottendolo. 10


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Come cani odiosi ringhiavano, abbaiavano, miagolavano, cantavano e sbattevano le braccia. Tutto ciò era molto stupido, lui lo sapeva; ma proprio per questo l’oltraggio alla sua dignità era ancora più grande e la rabbia continuava a crescere. Non sentiva la fame ma soffriva tremendamente la sete e la sua collera veniva fomentata come una febbre. Anzi, essendo così teso ed estremamente sensibile, alimentato dall’infiammazione alla gola secca e alla lingua gonfia, il maltrattamento lo aveva gettato in uno stato febbrile. Era contento per una cosa: non aveva più la corda al collo. La corda aveva dato a loro un vantaggio sleale; ma adesso non c’era più, e gliel’avrebbe fatta vedere lui. Non la mettevano più un’altra corda intorno al suo collo. Questo era chiaro. Non mangiò e non bevve durante i due giorni e le due notti di tormento, ma accumulò una riserva di collera che faceva presagire brutte cose per il primo che si fosse comportato male nei suoi confronti. Si era trasformato in un demonio furioso con gli occhi iniettati di sangue. Era talmente cambiato che non lo avrebbe riconosciuto neanche il giudice in persona e a Seattle, quando lo mandarono via dal treno, i corrieri espresso tirarono un sospiro di sollievo. Quattro uomini con circospezione trasportarono la gabbia sino a un cortiletto con i muri alti. Un uomo robusto con un maglione rosso che gli pendeva generosamente sul collo venne a firmare il registro dell’autista. Ecco l’uomo, il prossimo tormentatore, intuì Buck, e si scagliò furibondo contro le sbarre. Con un sorriso torvo, l’uomo produsse un’ascia e un bastone. “Non lo tirerai fuori adesso eh?” domandò l’autista. “Certo” ribatté l’uomo, conficcando l’ascia per fare leva nella gabbia. Immediatamente i quattro uomini che l’avevano portata dentro si sparpagliarono preparandosi ad assistere allo spettacolo da un punto sicuro in cima al muro. Buck scattò contro il legno che andava in frantumi e durante la lotta ci affondò i denti. Ogni volta che dall’esterno l’ascia calava, lui ringhiava dall’interno e grugniva furioso per l’ansia di uscire, in contrasto con la calma dell’uomo con il maglione rosso, tranquillamente impegnato a tirarlo fuori. “Bene, demonio dagli occhi rossi” disse una volta praticata un’apertura sufficiente a far passare il corpo di Buck. Così dicendo, lasciò cadere l’ascia e spostò il bastone nella mano destra. E che demonio dagli occhi rossi era Buck, pronto a scattare come una molla con il pelo ispido, la bava alla bocca e una folle scintilla negli occhi iniettati di sangue. Scagliò i suoi sessantatré chili di furia sovraeccitata dalla rabbia repressa di due giorni e due notti dritti addosso all’uomo. E come le mandibole provarono a chiudersi a mezz’aria su di lui, il colpo che ricevette gli bloccò il corpo facendogli prendere una botta lancinante sui denti. Fece una piroetta all’indietro sbattendo per terra di schiena e poi sul fianco. Non era mai stato colpito da un bastone in vita sua, dunque non capiva. Si rialzò con un ringhio simile a qualcosa tra 12


un latrato e un urlo lanciandosi in volo. E di nuovo arrivò il colpo che lo schiacciò facendolo cadere per terra. Questa volta era consapevole del bastone ma la sua follia non conosceva prudenza. Caricò per una dozzina di volte e per altrettante volte la sua carica fu interrotta dal bastone che lo schiantò a terra. Dopo un colpo particolarmente feroce, e troppo stordito per attaccare, strisciò ai suoi piedi. Zoppicando, barcollò sul posto – perdeva sangue dal naso, dalla bocca e dalle orecchie con gli spruzzi e le macchie di bava sanguinolenta sulla splendida pelliccia. Poi l’uomo si fece avanti e gli sferrò un terrificante colpo premeditato sul naso. Tutto il dolore già sopportato era niente in confronto all’agonia intensa di quest’ultimo. Si scagliò nuovamente sull’uomo con un ruggito di ferocia quasi leonina. Ma l’uomo passò il bastone dalla mano destra alla sinistra e con freddezza gli afferrò la mascella inferiore torcendo verso il basso e all’indietro. Buck descrisse un cerchio completo e ancora una metà in aria, poi si schiantò di testa e sul petto al suolo. Attaccò l’ultima volta. L’uomo sferrò il colpo che aveva volutamente trattenuto a lungo e astutamente in serbo, Buck cedette e finì fuori combattimento collassando svenuto. “Mica un fannullone a domare i cani, ve lo dico io” urlò entusiasta uno degli uomini dal muro. “Preferirei domare cavalli ogni giorno, anche due volte la domenica” ribatté l’autista mentre rimontava sul carro e faceva partire i cavalli. Buck riprese i sensi ma non la forza. Rimase steso dov’era caduto e da lì osservò l’uomo con il maglione rosso. “Risponde al nome di Buck” disse tra sé l’uomo, citando la lettera del gestore del saloon che gli aveva annunciato la consegna della gabbia con il contenuto. “Bene Buck, ragazzo mio” continuò con voce affabile, “abbiamo avuto il nostro bel da ridire e la cosa migliore che possiamo fare adesso è di piantarla qui. Hai imparato a stare al tuo posto e io so qual è il mio. Fai il bravo cane e andrà tutto bene. Fai il cattivo e io ti cavo le budella. Capito?” Parlando e senza mostrare timore dava dei buffetti sulla testa che aveva impietosamente percosso e, anche se involontariamente gli si rizzò il pelo, Buck sopportò senza protestare. Quando l’uomo gli portò l’acqua bevve volentieri e più tardi fulminò una generosa razione di carne cruda dalla mano dell’uomo, pezzo per pezzo. Era stato sconfitto (lo sapeva); ma non era stato spezzato. Una volta per tutte aveva capito che davanti a un uomo con un bastone non aveva possibilità. Aveva imparato la lezione e non la dimenticò più per tutta la vita. Quel bastone fu una rivelazione. Lo aveva introdotto nel regno della vita primitiva, qui incontrata a metà strada. Ora le cose della vita assumevano un aspetto più spietato; e se affrontava senza timore questo aspetto, lo faceva anche con tutta l’astuzia della propria natura prima latente e ora risvegliata. I giorni passavano, altri cani furono chiusi in gabbia e legati a una corda, alcuni docili, altri rabbiosi e vivaci come lui; li vide 13


passare sotto il dominio dell’uomo con il maglione rosso. Ogni volta che osservava il brutale spettacolo, Buck aveva chiara la lezione: l’uomo che ha il bastone detta le leggi, è il padrone a cui obbedire, anche se non necessariamente diventando servili. Di quest’ultima cosa Buck non si macchiò mai, anche se vide eccome i cani bastonati leccare la mano scodinzolanti e fare le feste all’uomo. Vide anche come nella lotta per il predominio fu infine ucciso un cane che non voleva essere servile né obbedire. Ogni tanto arrivavano uomini sconosciuti ed eccitati che con le parole lusingavano in tutti i modi l’uomo con il maglione rosso. Succedeva quando i soldi passavano di mano e gli estranei portavano via i cani. Buck si chiedeva dove andavano, visto che non erano più tornati; ma così forte era la paura del futuro che ogni volta era contento di non essere stato scelto. Infine giunse anche il suo momento, e prese forma nella figura di un piccolo uomo rinsecchito che sputava un inglese stentato e tante esclamazioni strane e grossolane che Buck non riusciva a capire. “Sacredam!” urlò adocchiando Buck. “Quello è uno dannato cane teppista! Eh? Quanta?” “Trecento ed è regalato” ribatté subito l’uomo con il maglione rosso. “E visto che sono soldi del governo, a te che ti importa Perrault?” Perrault ghignò. Considerando che l’insolita domanda aveva spinto alle stelle il prezzo dei cani, la somma non era disonesta per un animale così bello. Il governo canadese non ci avrebbe perduto e i suoi dispacci non avrebbero rallentato il passo. Perrault conosceva i cani e quando vide Buck capì che era uno tra mille: “Uno ogni diecimila” commentò tra sé. Buck vide i soldi passare di mano e non si sorprese quando Curly, una terranova bonacciona, fu condotta via assieme a lui dal piccolo uomo rinsecchito. Quella fu l’ultima volta che incontrò l’uomo con il maglione rosso, e come lui e Curly videro Seattle allontanarsi per l’ultima volta dal ponte della Narwhal, per l’ultima volta videro anche le calde Terre del Sud. Perrault portò lui e Curly in coperta e li consegnò a un gigante con la faccia nera di nome François. Perrault era un franco-canadese di carnagione scura; ma François era un francocanadese mezzosangue dalla carnagione doppiamente scura. Per Buck era un nuovo genere di uomini (ed era destinato a vederne molti altri), e anche se non sviluppò alcun attaccamento per loro, nondimeno imparò a rispettarli sinceramente. Presto apprese quanto Perrault e François fossero uomini corretti, calmi e imparziali nell’amministrare la giustizia, poiché conoscevano i cani troppo bene per farsi ingannare. Nell’interponte della Narwhal, Buck e Curly si unirono ad altri due cani. Uno era grande, bianco come la neve, veniva da Spitzbergen ed era stato portato via da un capitano di baleniera per accompagnare in seguito una spedizione del Geological Survey nelle Barren Lands. Con quel suo fare perfido era amichevole, e mentre ti sorrideva davanti intanto meditava qualche subdolo sgarro, come, ad esempio, quando derubò Buck del suo primo pasto. 14


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Come Buck cercò di assalirlo e punirlo, risuonò nell’aria la sferzata della frusta di François che raggiunse per primo il colpevole; così a Buck non restò che recuperare l’osso. Decise che François era stato onesto, e la stima di Buck per il mezzosangue iniziò a crescere. L’altro cane non fece né ricevette alcun approccio; non cercò neppure di rubare dai nuovi arrivati. Era un soggetto cupo e imbronciato, e fece chiaramente capire a Curly che desiderava solo essere lasciato in pace e che se non fosse stato così sarebbero stati guai. Lo chiamavano Dave, mangiava, dormiva o sbadigliava negli intervalli dimostrando di non avere interessi neanche quando la Narwhal attraversò rollando Queen Charlotte Sound impennandosi e cadendo di punta come posseduta. Quando Buck e Curly si agitarono mezzi pazzi di paura, lui alzò la testa quasi annoiato, concesse loro un’occhiata senza interesse, sbadigliò e tornò a dormire. Giorno e notte la nave vibrava all’instancabile ritmo del propulsore e anche se tra una giornata e l’altra non c’era gran differenza, a Buck era chiaro che il clima stava facendosi sempre più freddo. Infine una mattina il propulsore tacque e la Narwhal fu pervasa da un’atmosfera di agitazione. Come gli altri cani, Buck se ne accorse e capì che qualcosa stava per cambiare. François li sferzò facendoli salire sul ponte. Al primo passo sulla fredda superficie la zampa di Buck affondò in qualcosa di bianco e di molliccio molto simile al fango. Sbuffò e fece un balzo indietro. C’era ancora la roba bianca e cadeva dal cielo. Si scosse, ma gliene cadde altra addosso. La annusò incuriosito, poi ne prese un po’ sulla lingua. Sferzava come il fuoco ma un attimo dopo scompariva. La cosa lo disorientò. Ci riprovò ma ottenne lo stesso risultato. Gli astanti scoppiarono in una fragorosa risata, e si vergognò, non sapendo il perché, visto che quella era la sua prima neve.

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CAPITOLO 2

La legge della zanna e del bastone

P er Buck il primo giorno sulla spiaggia di Dyea fu un incubo. Ogni momento era fonte di turbamento e di sorprese. Era stato strappato all’improvviso dal cuore della civiltà per essere scaraventato nel cuore di tutto ciò che era primordiale. Questa non era la vita oziosa baciata dal sole dove oltre a poltrire e ad annoiarsi non c’era altro da fare. Qui non c’erano pace né riposo, e neanche un attimo di sicurezza. Ogni cosa era azione e confusione, con la vita costantemente in pericolo. L’imperativo era quello di restare sempre all’erta poiché quei cani e quegli uomini non erano cani e uomini di città. Erano tanti selvaggi che conoscevano solo la legge della zanna e del bastone. Non aveva mai visto combattimenti tra cani come quelli che scoppiavano tra queste feroci creature, e fu la sua prima esperienza a insegnargli una lezione indimenticabile. È vero, si trattò di un’esperienza indiretta, altrimenti non sarebbe sopravvissuto per trarne vantaggio. La vittima fu Curly. Erano accampati nei pressi del negozio di tronchi dove lei, così amichevole nei modi, aveva cercato l’approccio con un husky grande come un lupo adulto ma che non era neanche la metà di lei. Senza preavviso, come in un lampo ci fu il balzo, lo scatto metallico dei denti, l’altrettanto rapido balzo all’indietro, e il muso di Curly venne lacerato dall’occhio alla mandibola. Il lupo combatteva così, colpiva e si allontanava di scatto; ma ci fu anche altro. Sul posto accorsero trenta o quaranta husky che circondarono i combattenti formando un cerchio statico e silenzioso. Buck non capiva la staticità silenziosa e la bramosia di come si leccavano i baffi. Curly attaccò l’avversario, che la colpì nuovamente per poi scartare di fianco. L’attacco seguente lo affrontò di petto in maniera insolita e così ruzzolò zampe all’aria. Non riuscì più a rialzarsi, poiché questo era ciò che aspettavano gli husky. Si strinsero su di lei, ringhiavano e guaivano, e la seppellirono ancora urlante in agonia sotto la massa ispida dei loro corpi. 17


Tutto ciò accadde così all’improvviso e in modo così inatteso che Buck fu colto di sorpresa. Vide Spitz tirare fuori la lingua scarlatta in quel modo che aveva anche quando rideva; e vide François saltare nella baraonda di cani facendo vorticare un’ascia. Per disperderli con lui c’erano tre uomini armati di bastoni. Non ci volle molto. Due minuti dopo la caduta di Curly, l’ultimo assalitore era stato allontanato a bastonate. Lei però era lì distesa e accasciata senza vita sulla neve insanguinata e calpestata, fatta letteralmente a pezzi, mentre il mezzosangue rinsecchito la sovrastava bestemmiando orribilmente. Questa scena tornò spesso a tormentare Buck durante il sonno. Dunque il sistema era questo. Nessuna regola. Una volta abbattuto, eri finito. Bene, avrebbe badato a non farsi mai buttare giù. Spitz tirò fuori la lingua e se la rise un’altra volta, e da quel momento Buck lo odiò con infinita e risentita avversione. Prima di riprendersi dal colpo provocato dalla tragica scomparsa di Curly, ne ricevette un altro. François gli sistemò addosso una serie di cinghie e di fibbie. Erano finimenti simili a quelli che a casa aveva visto mettere dagli stallieri ai cavalli. Anche lui, come i cavalli che aveva visto, venne messo al lavoro a trainare François su una slitta verso la foresta al limitare della valle, da dove tornarono con un carico di legna per il fuoco. Sebbene la sua dignità fosse dolorosamente ferita da qualcosa che lo aveva trasformato in un animale da traino, si guardò bene dal ribellarsi. Con puntiglio, si mise d’impegno e fece del proprio meglio, anche se tutto gli era così estraneo e nuovo. François era intransigente, pretendeva immediata obbedienza, e in virtù della frusta l’obbedienza era immediata; Dave intanto, che era esperto nel condurre, mordicchiava Buck da dietro ogni volta che sbagliava. Spitz era il leader, aveva altrettanta esperienza e anche se non sempre riusciva a colpire Buck, di tanto in tanto grugniva i suoi duri rimproveri oppure si buttava astutamente di peso tra le tirelle per far saltare Buck dentro la traccia da seguire. Buck imparava con facilità e sotto la guida combinata dei due compagni e di François fece notevoli progressi. Prima di tornare al campo sapeva già abbastanza da fermarsi con un Ho!, andare avanti con un Mush!, prendere le curve larghe e stare lontano dal cane che conduceva quando in discesa si ritrovava con la slitta carica lanciata a tutta velocità. “Tre cani molto buoni” disse François a Perrault. “Quel Buck, lui tira come un demonio. Mi sembra proprio velocissimo.” Prima del pomeriggio Perrault tornò con altri due cani: aveva fretta di mettersi sulla pista con la corrispondenza. Li aveva chiamati Billee e Joe ed erano due husky puri e fratelli. Sebbene fossero figli della stessa madre, erano come il giorno e la notte. L’unico difetto di Billee era la sua eccessiva cordialità, mentre Joe era esattamente l’opposto, scontroso, introspettivo, con il ringhio perpetuo e l’occhio perfido. Buck li accolse in maniera amichevole, Dave li ignorò, mentre Spitz procedette a picchiare prima l’uno e poi l’altro. Billee scodinzolò pacificamente ma quando capì che la cosa non dava frutti, come i denti aguzzi di Spitz gli solcarono il fianco si girò e fuggì urlando (sempre pacificamente). Ma per quanto Spitz si muovesse in cerchio, Joe per affrontarlo ruotava sui calcagni con la criniera ispida, le orecchie basse, le labbra frementi e ringhiose, le mascelle scattanti e veloci già pronte a colpire, e gli occhi che brillavano diabolicamente – l’incarnazione della paura aggressiva. Il suo aspetto era talmente terrificante 18


che Spitz fu costretto a rimandare il castigo; ma per dissimulare il suo sconcerto si buttò sull’inoffensivo Billee che guaiva e lo spinse sino ai limiti del campo. Entro sera Perrault si era assicurato un altro cane, un vecchio husky lungo, snello e smunto, con il muso segnato dalle cicatrici di tante battaglie e un occhio solo che emetteva il segnale di quell’abilità che sa incutere rispetto. Lo chiamavano Sol-leks, che significa Quello Arrabbiato. Come Dave, non chiedeva niente, non dava niente e non si aspettava niente; e quando si metteva deliberatamente a marciare lentamente in mezzo a loro, persino Spitz lo lasciava in pace. Aveva una caratteristica che Buck fu abbastanza sfortunato da scoprire. Non gli piaceva essere avvicinato sul lato cieco. Buck si rese involontario colpevole di questo sgarro e la prima avvisaglia in risposta alla sua imprudenza si ebbe quando Sol-leks gli volò addosso squarciandogli la spalla sino all’osso, otto centimetri sopra e otto sotto. In seguito Buck evitò sempre il suo lato cieco e sino alla fine della loro amicizia non ci furono più problemi. Come Dave, aveva in apparenza una sola ambizione – essere lasciato in pace; ma in seguito Buck apprese che erano entrambi in possesso di ben più vitali ambizioni. Quella sera Buck affrontò il grande problema del dormire. La tenda era illuminata da una candela e risplendeva vivace nel cuore della pianura imbiancata; quando con naturalezza vi fece il suo ingresso, Perrault e François lo bombardarono di imprecazioni e utensili da cucina; una volta ripresosi dallo scoramento, ignominiosamente scappò fuori al freddo. Tirava un vento gelido e tagliente che lo azzannò alla spalla ferita con un morso particolarmente velenoso. Si sdraiò sulla neve cercando di dormire ma in breve il gelo gli fece tremare le zampe. Abbattuto e avvilito prese a vagare tra gli attendamenti dove scoprì che il freddo era ovunque lo stesso. Di quando in quando trovava dei cani feroci che lo attaccavano, al che lui, rizzando il pelo del collo (stava imparando velocemente), ringhiava e loro lo lasciavano andare per la sua strada senza molestarlo. Infine gli venne un’idea. Sarebbe tornato a vedere come se la cavavano i compagni di muta. Quale stupore quando scoprì che erano scomparsi! Riprese a vagare e a cercarli nel grande accampamento, poi fece ritorno. Che fossero in tenda? No, non poteva essere, altrimenti non l’avrebbero cacciato. Ma allora dove potevano essere? Compì un inutile giro intorno alla tenda con la coda penzoloni e il corpo tremante, profondamente infelice. Poi all’improvviso sotto le zampe anteriori la neve cedette e affondò. Qualcosa si stava dimenando sotto le sue zampe. Ringhiando, con il pelo ritto, fece un balzo all’indietro, intimorito da ciò che non vedeva e che non conosceva. Quando un piccolo guaito amichevole lo rassicurò, riprese a investigare. Nel punto da dove era salito uno sbuffo di aria tiepida sino alle sue narici Billee era avvoltolato sotto la neve come una comoda palla. Emise un lamento tranquillizzante, si agitò e si dimenò per dimostrare le sue buone intenzioni, avventurandosi addirittura sino a leccare la faccia di Buck con la lingua calda e bagnata per corromperlo. Un’altra lezione. Ah, era questo che si faceva? Fiducioso, Buck si scelse un posto e procedette a scavare una buca con molto trambusto, il che gli fece sprecare tanta energia. In un 19


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