maggio 2016/06
Istituto di Gestalt Therapy Kairos
06 psicopatologia
ISSN 2039-5337
RIVISTA DI PSICOTERAPIA
Istituto Gestalt Therapy hcc Kairos Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt In un quarto di secolo di attività l’Istituto ha contribuito in modo significativo alla storia e allo sviluppo della Psicoterapia della Gestalt, formando un migliaio circa di psicoterapeuti e intrecciando, con numerosi Enti ed Organismi sia nazionali che internazionali, molteplici e proficui rapporti di collaborazione e affiliazione volti allo scambio scientifico e alla ricerca nell’ambito specifico della psicoterapia e delle relazioni di cura. Sin dalle origini, l’Istituto è stato in contatto con i fondatori della Psicoterapia della Gestalt allora viventi - Isadore From, Jim Simkin - e ha avuto cura di intraprendere scambi didattici e scientifici con gli esponenti più illustri della seconda generazione di terapeuti della Gestalt - E. Polster, M. Polster, S.M. Nevis, Ed Nevis, R. Kitzler e altri - impegnandosi in progetti di ricerca internazionali sulla teoria e la clinica della Psicoterapia della Gestalt. L'istituto ha intessuto scambi didattici e scientifici con i più prestigiosi Istituti di Terapia della Gestalt italiani ed esteri e con le più accreditate associazioni di Gestalt Therapy nel mondo, con cui mantiene rapporti di collaborazione. Nel 2001 l’Istituto ha avviato una collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore per l’istituzione di Master di secondo livello, ad oggi 16 edizioni.
L’ISTITUTO ORGANIZZA ■ Master Universitari di secondo livello in "Percorsi di prevenzione e di cura della sessualità. La Gestalt Therapy e le relazioni interpersonali" in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Medicina e Chirurgia di Roma. ■ Master Universitari di secondo livello in “Mediazione familiare” in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Psicologia di Milano ■ Corsi ECM Educazione Continua in Medicina AFFILIAZIONI EAGT (European Association for Gestalt Therapy), NYIGT (New York Institute for Gestalt Therapy), SIPG (Società Italiana di Psicoterapia della Gestalt), FISIG (Federazione Italiana Scuole e Istituti di Gestalt), CNSP (Coordinamento Nazionale Scuole Riconosciute), FIAP (Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia). WEB www.gestaltherapy.it BLOG www.gestaltgtk.blogspot.it FORUM www.abusosessuale.forumattivo.it www.gestaltherapykairos.forumfree.it
SEDI RICONOSCIUTE DAL MIUR Sicilia Ragusa / Lazio Roma / Veneto Venezia D.M. 9.5.94, D.M. 7.12.01 e D.M. 24.10.08 DIREZIONE DELLA SCUOLA E COMITATO SCIENTIFICO Giovanni Salonia Responsabile Scientifico Valeria Conte Responsabile Didattico Erminio Gius Membro del Comitato Scientifico
RIVISTA QUADRIMESTRALE ON LINE GESTALT THERAPY KAIROS Rivista di Psicoterapia Direttore Scientifico Giovanni Salonia Direttore Responsabile Orazio Mezzio Caporedattori Laura Leggio Rosaria Lisi Ufficio Legale Silvia Distefano Comitato scientifico Angela Ales Bello Vittoria Ardino Paola Argentino Eugenio Borgna Vincenzo Cappelletti Piero Cavaleri Valeria Conte Ken Evans Sean Gaffney Erminio Gius Bin Kimura Aluette Merenda Rosa Grazia Romano Antonio Sichera Christine Stevens Editing e correzione bozze Sergio Russo Progetto grafico Marco Lentini Impaginazione Paolo Pluchino Illustrazioni Angelo Ruta Stampato da Gruppo Parentesi S.r.l.
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I testi di GTK Rivista di Psicoterapia sono sottoposti ad un sistema di double blind peer-review. GESTALT THERAPY KAIROS Rivista di Psicoterapia Indirizzo per la corrispondenza 97100 Ragusa Sicilia Italia Via Virgilio, n°10 Richieste Editoriali +39 0932 682109 Abbonamenti +39 0932 682109 Per maggiori informazioni redazione.gtk@gestaltherapy.it www.gestaltherapy.it
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Ansia
INDICE
INDICE Editoriale................................................................................... pag. 7 In questo numero............................................................... pag. 11 Ricerca........................................................................................ pag. 17 Il frammentarsi delle traità nella Demenza di Alzheimer Ed io avrò cura di te: ricucire trame smarrite Grace Maiorana e Barbara Buoso Il cuore della cogenitorialità nella Gestalt Therapy Intervista a Valeria Conte e Giovanni Salonia a cura di Aluette Merenda Arte e psicoterapia........................................................... pag. 63 Ungaretti. Il dolore Antonio Sichera Nuove applicazioni cliniche........................................ pag. 73 Il crampo del violinista. La Gestalt Therapy nel trattamento della distonia focale alla mano del musicista Giovanni Turra e Elena Ponzio Società e psicoterapia..................................................... pag. 89 Dalle radici alle foglie. Vitalità ed accrescimento della Psicoterapia della Gestalt Serena Bimbati L’onestà come competenza terapeutica Giovanni Salonia GTK dissemination............................................................ pag.121 Report V Convegno FISIG Pratica e teoria della Terapia della Gestalt 16-19 Aprile 2015 Torino Laura Leggio Letture......................................................................................... pag.137 Andreana Amato, Paolo Ottavi, Zi Lin Luca You
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EDITORIALE
EDITORIALE Giunta al suo sesto numero, GTK tende a mostrare in maniera sempre più chiara la propria versatilità e a professare una visione multidimensionale della Gestalt Therapy. Si tratta di un processo di progressiva dilatazione del campo, che dopo la concentrazione dei primi numeri su alcune tematiche fondative, allarga ora lo sguardo su orizzonti diversi, su questioni variegate. Il filo rosso resta la convinzione che nella ricerca clinica come nell’arte, nella lettura della società e della storia come nella prassi terapeutica, il modello nato a New York negli anni Cinquanta del secolo scorso mostri ancora tutta la sua viva e sorgiva freschezza. È infatti questa flessibilità ermeneutica della Gestalt Therapy il vero nerbo del numero. Perché in un’ottica gestaltica si può leggere utilmente e intervenire fruttuosamente su una delle patologie più amare e diffuse del nostro tempo, quella Demenza di Alzheimer che Grace Maiorana e Barbara Buoso interpretano secondo le categorie della ‘traità’; ma gestalticamente si può discorrere con acutezza, adesione al quotidiano e umanità della grande sfida dell’essere genitori oggi, ovvero dell’essere insieme, da padri e da madri, in un tempo allergico ad ogni definizione rigida di ruoli e poteri: è il senso dell’intervista di Aluette Merenda a Giovanni Salonia e a Valeria Conte, che chiude la sezione ‘Ricerca’. La Gestalt Therapy d’altronde può funzionare da chiave ermeneutica innovativa della grande poesia (come accade nella rilettura del Dolore di Ungaretti che occupa la sezione ‘Arte e psicoterapia’) o da via di comprensione e risoluzione alternativa di disagi tipici della sensibilità estetica nel suo lato più fine, come può essere il cosiddetto «crampo del violinista» (così fa con grande intelligenza Giovanni Turra nelle ‘Nuove applicazioni cliniche’). E tutto questo, in fondo, per una spontanea adesione ai cambiamenti sociali che segna la nascita stessa del modello, frutto dell’incontro di intellettuali migranti, appartenenti a culture e sfondi sociali diversi (è l’esito della bella indagine di Serena Bimbati), e per una attenzione ai temi più delicati del presente, come quello dell’autoregolazione della relazione terapeutica in ordine al grande scoglio dell’onestà, affrontato con leggerezza e competenza da Giovanni Salonia
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nel saggio che chiude la sezione ‘Società e psicoterapia’. L’attento report di Laura Leggio sul Convegno FISIG e le consuete recensioni – dove spicca l’intervento di Paolo Ottavi su La luna è fatta di formaggio, a sancire un dialogo serrato tra l’istituto GTK e quello di Terapia Cognitivo-Comportamentale di Di Maggio e dello stesso Ottavi – chiudono questa sesta tappa del viaggio, punteggiata e illuminata dalle folgoranti illustrazioni di Angelo Ruta. Ragusa, 3 Maggio 2016
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L’EDITORIA RIVISTA DI PSICOTERAPIA GTK (ON-LINE E BILINGUE) COLLANA GTK, CON L’EDITORE IL POZZO DI GIACOBBE COLLANA DIÀPATHOS, CON L’EDITORE CITTADELLA
Psicopatologia e nuove prassi cliniche Teoria evolutiva e terapia familiare
titolo Devo sapere subito se sono vivo autori G. Salonia, V. Conte, P. Argentino pagine 296 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2013
titolo Danza delle sedie autore G. Salonia pagine 160 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2015
titolo La luna è fatta di formaggio a cura di G. Salonia pagine 176 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2014
titolo Come l’acqua… autori D. Iacono, G. Maltese pagine 96 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2012
titolo Incontri terapeutici a cura di A. Merenda pagine 152 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2014
titolo Edipo dopo Freud autori G. Salonia, A. Sichera pagine 96 GTK-books/01 anno di pubblicazione 2013
titolo Tra autore B. Kimura pagine 176 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2013
titolo For Oedipus a new Family Gestalt autori G. Salonia, A. Sichera, V. Conte pagine 135 GTK-books/02 anno di pubblicazione 2013
Antropologia titolo Sulla felicità autore G. Salonia pagine 184 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2011 titolo La grazia dell’audacia autore G. Salonia pagine 80 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2012 titolo Comunicazione Interpersonale autori H. Franta, G. Salonia pagine 170 editore LAS anno di pubblicazione 1979 titolo La casa vissuta autore G. Giordano pagine 224 editore Giuffrè anno di pubblicazione 1997 titolo Ogni giorno merita una gestalt a cura di S. Antoci e A. Rusca pagine 156 editore Cittadella editrice anno di pubblicazione 2014 Peter Pan ¨ XQR GHL WHVWL SL¹ LQFRPSUHVL H PLVWLôFDWL GHOOD OHWWHUDWXUD SHU O×LQIDQ]LD 3UHVHQWDWD FRPH OD VWRULD GL XQ EDPELQR FKH QRQ YXROH FUHVFHUH HVVD ULYHOD LQ UHDOW OD WHQGHQ]D GLIIXVD DG HWLFKHWWDUH LO FRPSRUWDPHQWR GHL EDPELQL H D FUHDUH WHRULH VDOYD DGXOWL LO FRPSOHVVR GL (GLSR GL 7HOHPDFR GL 3HWHU 3DQ 0D FKL ¨ 3HWHU" %DVWD DSULUH LO OLEUR SHU VFRSULUOR l6H YRL R LR R :HQG\ IRVVLPR VWDWL O DYUHPPR YLVWR FKH 3HWHU 3DQ DVVRPLJOLDYD SURSULR DO EDFLR GHOOD VLJQRUD 'DUOLQJ{ ,O YROWR GL 3HWHU ¨ TXHOOR GHO EDFLR FKH PDPPD 'DUOLQJ WUDWWLHQH DOO×DQJROR GHOOD VXD ERFFD LO EDFLR FKH QRQ UDJJLXQJH :HQG\ LO VXR GHVLGHULR LO VXR FRUSR ,O EDFLR FKH VRWWR OH VSHFLH GHO ERWWRQH GL 3HWHU GL O¬ D SRFR OH VDOYHU OD YLWD 7DOH ¨ OR VIRQGR HUPHQHXWLFR GD FXL HPHUJH LQ TXHVWR OLEUR LO SXQWR GL YLVWD JHVWDOWLFR VX 3HWHU &RQ UHJLVWUL GLYHUVL GDOOD WHRULD FOLQLFD DOOD SVLFRWHUDSLD LQIDQWLOH GDOOD FULWLFD VHPDQWLFD DO SHQVLHUR HGXFDWLYR GIOVANNI SALONIA SVLFRORJR H SVLFRWHUDSHXWD 2)0 &DS 'LUHWWRUH 6FLHQWLôFR GHOOD 6FXROD GL 6SHFLDOL]]D]LRQH LQ 3VLFRWHUDSLD GHOOD *HVWDOW Ô +&& .DLU²V 5DJXVD 5RPD 9HQH]LD H GHOOD ULYLVWD LQWHUQD]LRQDOH RQ OLQH GL SVLFRWHUDSLD l*7.{ 'RFHQWH GHOOD 3RQWLôFLD 8QLYHUVLW $QWRQLDQXP H GHOOD 6FXROD GL 6SHFLDOL]]D]LRQH LQ 3VLFKLDWULD SUHVVR O×8QLYHUVLW &DWWROLFD GHO 6DFUR &XRUH GL 5RPD
Nel libro testi di D. Iacono e G. Maltese, G. Salonia, A. Sichera.
ISBN/EAN
9 788830 815025 EURO
9,50
Rivista di Psicoterapia
ITA/ENG
titolo i come invidia a cura di G. Salonia pagine 112 editore Cittadella editrice anno di pubblicazione 2015 titolo La vera storia di Peter Pan a cura di G. Salonia pagine 84 editore Cittadella editrice anno di pubblicazione 2016
www.gestaltherapy.it
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IN QUESTO NUMERO
IN QUESTO NUMERO
Grace Maiorana pag. 17 Psicologa, psicoterapeuta, laureata presso l’Università di Urbino, formata in Psicoterapia della Gestalt presso l’Istituto di Gestalt H.C.C. Ha svolto il percorso di didatta in formazione e supervisore clinico presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos. Lavora come psicologa presso una comunità per adolescenti e coordina un centro di aggregazione giovanile. Ambiti di interesse professionale sono le problematiche adolescenziali con riferimento all’area del penale minorile, la neuropsicologia clinica e la riabilitazione metacognitiva (Applicatore Programma Arricchimento Strumentale 1°-2° livello – metodo Feuerstein). Docente in Master biennali di Counseling Psico-Pedagogico ad orientamento gestaltico, svolge attività clinica da libero professionista e attività di ricerca presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos, sede di Ragusa. Barbara Buoso pag. 17 Psicologa del lavoro presso l’Università di Padova e psicoterapeuta della Gestalt, ha maturato esperienze lavorative in ambito socio-sanitario, coniugando aspetti organizzativi e terapia in diversi ambiti quali tossicodipendenze, anziani, disabilità fisica e psichica. Vive vicino Venezia dove svolge la professione di psicoterapeuta e collabora con l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos. Valeria Conte pag. 39 Psicologa, Dirigente presso il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASP provinciale di Ragusa; psicoterapeuta e Didatta Supervisore Ordinario riconosciuto dalla FISIG (Federazione Italiana Scuole ed Istituti di Gestalt). Membro del comitato scientifico e responsabile didattico e clinico dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos. Formata con i maggiori esponenti nazionali ed internazionali della Psicoterapia della Gestalt, ha ampliato la sua specifica formazione con training di specializzazione in Terapia Familiare e in Terapia Corporea. Ha approfondito il modello epi-
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stemologico della Gestalt Therapy nel lavoro con i pazienti psichiatrici, le coppie e le famiglie, i cui risultati sono stati pubblicati su riviste nazionali ed estere. Aluette Merenda pag. 39 Psicologa, psicoterapeuta della Gestalt. Ricercatore universitario in Psicologia dinamica presso la Scuola delle Scienze umane e del patrimonio culturale dell’Università degli Studi di Palermo, è docente per supplenza di Psicodinamica dello sviluppo e delle relazioni familiari per i Corsi di Laurea in Scienze e Tecniche psicologiche, Educazione di comunità e Scienze del servizio sociale. Attualmente svolge attività clinica e, in qualità di didatta invitata, fa parte dello staff della Scuola di specializzazione in Psicoterapia della Gestalt presso le sedi di Palermo e Ragusa. I suoi principali ambiti di studio sono circoscritti al paradigma degli attaccamenti multipli, alle relazioni familiari multiproblematiche e agli Young Offenders. Più recentemente, le sue aree di ricerca si orientano allo studio delle nuove tipologie familiari e dei contesti di cura attraverso la prospettiva della Zooantropologia clinica. Antonio Sichera pag. 63 Antonio Sichera insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania ed è docente di Fenomenologia ed Ermeneutica nella Scuola di Specializzazione postuniversitaria dell’Istituto di Gestalt Therapy Kairos. Formatosi in Lessicografia e Semantica della lingua letteraria europea alla prestigiosa scuola catanese di Giuseppe Savoca, ha scritto saggi e monografie su Foscolo, Pasolini, Pavese, Pirandello, Montale, Quasimodo e su molti altri autori della contemporaneità letteraria, in un’ottica interdisciplinare ed ermeneutica. Si è occupato a più riprese di teoria della critica e dell’agire letterario, in rapporto con il sapere filosofico e teologico, fra Gadamer, Benjamin e Jossua. Sul versante clinico, è autore di diversi saggi sugli aspetti ermeneutici ed estetici della Gestalt Therapy. Ha tradotto dal greco (A Diogneto) e dal francese (diversi testi del Padre Jossua).
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Giovanni Turra pag. 73 Psicologo, psicoterapeuta, specializzato presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos di Venezia, il Centro Studi Terapia Gestalt di Milano e il Gestalt Centre di Londra. È inoltre diplomato in flauto al Conservatorio Musicale “A. Pedrollo” di Vicenza. Formatosi all’ISSTIP di Londra, si occupa di psicologia della performance con gli artisti performativi. Elena Ponzio pag. 73 Laureata in fisioterapia a Padova, è diplomata in viola da gamba al Conservatorio Musicale “A. Pedrollo” di Vicenza. Si occupa di riabilitazione ortopedica e neurologica. In particolare segue la rieducazione dei musicisti nei disturbi del movimento e in quelli muscolo-scheletrici (specialmente nella distonia focale). Serena Bimbati pag. 89 Psicologa clinica, psicoterapeuta formatasi presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos. Ha conseguito un Master Universitario in Mediazione Culturale e lavora da molti anni per il privato sociale in progetti rivolti alla popolazione migrante. Attualmente svolge attività clinica privata ed offre consulenza in un Centro di procreazione assistita a Verona. Per la Caritas Diocesana Vicentina coordina lo Sportello di Sostegno Psicologico ed è la responsabile della Commissione Sofferenza Psichica. Giovanni Salonia pag. 115 Psicologo, psicoterapeuta e teologo. Formato in Terapia Rogersiana (H. Franta), Terapia Familiare (M. Kirschenbaum - C. Gammer), Bodytherapy (G. Downing). Diplomato in Gestalt Therapy (E. e M. Polster, I. From, J. Zinker). Già docente di Psicologia Sociale presso l’Università LUMSA di Palermo e di Psicologia presso la Facoltà Teologica di Palermo. Docente incaricato presso l’Università Pontificia Antonianum (Roma). Insegna alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos (Venezia, Roma, Ragusa) e dei Master di II livello cogestiti con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Direttore del Consultorio Familiare “Oasi Cana” di Palermo. Di-
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datta conosciuto a livello internazionale e professore invitato presso numerose università italiane ed estere. È stato Presidente della FISIG (Federazione Italiana Scuole di Gestalt). Ha scritto, oltre a numerosi articoli pubblicati in riviste estere e nazionali, Comunicazione Interpersonale (con H. Franta), Kairòs, Odòs, Sulla felicità e dintorni, Danza delle sedie e danza dei pronomi e, come coautore, Devo sapere subito se sono vivo, La luna è fatta di formaggio, I come invidia e La vera storia di Peter Pan, che trattano sia tematiche antropologiche che cliniche. Ha fondato e diretto la rivista Quaderni di Gestalt (1985-2002). Ha fondato e dirige dal 2008 “GTK Rivista di Psicoterapia”. Dirige la collana “GTK” del Pozzo di Giacobbe e co-dirige la collana “Diàpathos” della Cittadella Editrice. Laura Leggio pag. 121 Psicologa, psicoterapeuta, formata in Psicoterapia della Gestalt presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos, sede di Ragusa. Ha seguito il percorso di didatta in formazione e supervisore clinico presso lo stesso Istituto, dove attualmente svolge attività clinica e di ricerca. Membro della redazione di “GTK Rivista di Psicoterapia”. Collabora in qualità di formatrice con associazioni ed enti pubblici e privati del territorio e dal 2013 con l’Azienda Sanitaria Provinciale di Ragusa, Ser.T. di Modica, nell’ambito del progetto ‘Campagne di comunicazione e interventi specifici di prevenzione incidenti stradali’. Andreana Amato pag. 137 Psicologa, psicoterapeuta della Gestalt, si è specializzata presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos di Roma. Dal 2004 lavora in un Istituto Psicopedagogico con utenti affetti da disabilità mentali e patologie psichiatriche. Svolge attività psicoterapeutica in modalità libero-professionale con singoli, coppie e famiglie. Si è diplomata in Musicoterapia presso la Scuola “Glass Harmonica” di Roma e opera nell’ambito di progetti riabilitativi per i disturbi in età evolutiva. Paolo Ottavi pag. 145 Psicologo, psicoterapeuta, istruttore mindfulness. Si occupa in particolare di psicoterapia e di riabilitazione psicosociale dei pazienti gravi. Ha ideato il Metacognition-Oriented Social
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Skills Training (MOSST; Ottavi et al., 2013) e il MetacognitiveInterpersonal Mindfulness Based Training (MIMBT; Ottavi et al., 2014). È didatta presso la scuola di formazione in psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Istituto A.T. Beck di Roma. È membro del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma. Zi Lin Luca You pag. 155 Psicoterapeuta, formatore e mediatore culturale. Ha lavorato nel campo delle dipendenze presso Ceis – Comunità Contatto e nel progetto sul gambling del SerD di Mestre “Il gioco è una cosa seria”. Si occupa di sviluppo di comunità per il Comune di Venezia – UOC Etam. Tiene seminari su adolescenze digitali e adolescenze migranti per l’Università Ca’ Foscari Challenge School, e i corsi “Genitori ai tempi di internet” in Veneto e in Friuli. Si occupa di peer education e progetti europei.
Angelo Ruta Nato a Ragusa nel 1967, si è formato a Milano, dove ha frequentato il corso di Scenografia all’Accademia di Brera, il Corso Superiore di Illustrazione e Fumetto e la Scuola di Tecnica Cinetelevisiva. Lavora prevalentemente come illustratore editoriale. Eccezionalmente si occupa di scrittura e regia per cinema e teatro. Ha lavorato con i maggiori editori italiani e inglesi. Ha realizzato spettacoli teatrali e film. Ha vinto alcuni premi. Collabora regolarmente con “La Lettura”, inserto domenicale del “Corriere della Sera”.
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Smemorata
RICERCA
IL FRAMMENTARSI DELLE TRAITÀ NELLA DEMENZA DI ALZHEIMER ED IO AVRÒ CURA DI TE: RICUCIRE TRAME SMARRITE Grace Maiorana e Barbara Buoso Giovanna è un’anziana signora con uno stadio di Alzheimer1 molto grave, non parla più, vede poco, non controlla più gli sfinteri; passa la maggior parte della sua giornata seduta su di una sedia nel soggiorno del reparto, ma sta sempre un po’ in ansia, guardandosi attorno, quasi avesse paura di qualcosa. Un giorno arriva nel mio studio suo figlio, disperato; è vero, la madre è peggiorata, ma quando lui viene a farle visita e le si avvicina, lei gli sputa addosso, alza le mani e inveisce contro di lui. Si agita talmente tanto che il personale deve intervenire e allontanarlo. Mi chiede: «Riuscirò ancora ad abbracciarla prima che mi lasci per sempre?». Quanta sofferenza all’idea di lasciare questa gestalt aperta! Decido di dedicare a lui vari colloqui nei quali cerchiamo di ricostruire la storia della madre e la loro storia familiare. Emerge che Giovanna, fino alla morte del marito alcolista, aveva subito delle violenze fisiche da parte sua. Gli chiedo di portarmi una foto di suo padre e la somiglianza con il figlio è disarmante! Forse per questo lo rifiuta, forse le sembra di rivedere suo marito e adesso, per qualche ragione a noi non chiara, può permettersi di sputargli addosso. Decidiamo di provare la strada del riconoscimento del figlio attraverso il mascheramento: dovrà indossare una parrucca di capelli simili a quelli che aveva in gioventù, capelli che aveva perso assomigliando al padre. Quante lacrime di commozione sono state versate in quel nuovo incontro… Giovanna riconosce il figlio e lo accoglie, e con
1 La Demenza di Alzheimer è la patologia neurodegenerativa più frequente: rappresenta il 65% delle sindromi demenziali. Il quadro neuropatologico è caratterizzato da una progressiva atrofia cerebrale con assottigliamento della sostanza grigia a causa di una diffusa e progressiva distruzione dei neuroni. Cfr. C. Colosimo (2013), Neuroradiologia, Edra, Milano.
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il tempo riesce ad andare addirittura a casa sua a pranzo una domenica, in presenza della nuora, ma non dei nipoti ormai trentenni di cui non può conoscere l’esistenza2. La storia tra Giovanna e suo figlio, nel descrivere l’evoluzione clinica3 dei sintomi patognomonici della Demenza di Alzheimer (DA), racconta le ferite di chi ne soffre, sempre più straniero a se stesso e agli altri, e dei familiari che assistono impotenti a questo progressivo smarrimento. La malattia erode i ricordi4 in senso retrogrado: nei primi anni vengono persi i ricordi più recenti e poi, gradualmente, i ricordi autobiografici. Questo fa sì che il paziente si trovi in un tempo mentale che non corrisponde al tempo cronologico5. A ciò si aggiunge la difficoltà a collocare i volti familiari nelle proprie conoscenze e a dare un nome e un ruolo aggiornato a quei volti. Il paziente vive una realtà percettiva non condivisa e di conseguenza non comprensibile, per cui le sue azioni risultano, spesso, prive di senso, a volte pericolose per sé o per gli altri. L’Organismo a causa delle affezioni cerebrali che intaccano trasversalmente le funzioni mnesiche, attentive, percettive,
2 Le storie riportate in corsivo sono episodi reali accaduti in una residenza per anziani non autosufficienti di Mestre (Venezia) e più precisamente all’interno del reparto “Alzheimer”. 3 I primi anni della malattia sono caratterizzati da una progressiva perdita della capacità di apprendere informazioni nuove e di rievocare quelle apprese in precedenza. Sono frequenti difficoltà di giudizio, di orientamento spazio-temporale e di linguaggio. Con il progredire della malattia viene erosa la memoria autobiografica e compromessa l’integrità della coscienza. Cfr. A. Damasio (2012), Il Sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, Adelphi, Milano. 4 La memoria nella DA è compromessa nella modalità esplicita (intenzionale, esprimibile verbalmente) anche se il ricordo esiste ancora ed è rievocabile in modo implicito (come memoria associativa o procedurale). Cfr. M. Boccardi (2002), La riabilitazione cognitiva e comportamentale nella demenza: un approccio pratico per le R.S.A, Fatebenefratelli, Brescia. 5 Il paziente perde la corretta sequenza temporale dei ricordi e attribuisce al presente informazioni e avvenimenti che risalgono al passato. Cfr. AA. VV. (2013), “Non so cosa avrei fatto oggi senza di te”. Manuale per i familiari delle persone con demenza, Servizio Sanitario Regionale Emilia-Romagna, Pazzini stampatore, Verrucchio (RN).
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La malattia erode i ricordi in senso retrogrado
Questo fa sì che il paziente si trovi in un tempo mentale che non corrisponde al tempo cronologico
Il senso di sé corporeo-identitariospazio-temporale necessario all’esperienza dell’esserci ‘tra’ nel paziente con DA è sempre più dis-integrato
Nel caso del paziente DA c’è un corpo che sente ma non sa cosa e chi è nel qui e ora: l’esperienza si frammenta e il Sé non è più elemento di integrazione
emotive, linguistiche ed esecutive, non riesce a essere presente ‘con lucidità’ all’esperienza, così da recuperare dalla memoria corporea le sensazioni che l’esperienza stessa ha attivato, identificarle, riconoscerle come proprie e operare scelte intenzionali e adattative. Il senso di sé corporeo-identitario-spazio-temporale necessario all’esperienza dell’esserci ‘tra’ nel paziente con DA è sempre più dis-integrato6. Sappiamo che l’epicentro della traità7 è il corpo poiché, nel percepire i cambiamenti al suo confine di contatto (organi sensoriali, pelle, parole), il cervello elabora le proprie rappresentazioni della realtà ambientale8. Nel caso del paziente DA c’è un corpo che sente ma non sa cosa e chi è nel qui e ora: l’esperienza si frammenta e il Sé9 non è più elemento di integrazione10. Si altera la continuità funzionale tra processi biologici e processi psicologici, tra cervello-corpo-mente e coscienza di sé.
6 Cfr. F.N. Gaspa, A. Nieddu (2010), Identità e Malattia di Alzheimer: una riflessione antropologica, in «Geriatria», XXII, 3, 75-78. 7 La traità buberiana, confine di contatto in Gestalt Therapy, è il luogo in cui avviene ogni esperienza esistenziale. Esistono tre tipi di traità o di confine di contatto: La traità primaria fa riferimento alla relazione asimmetrica di crescita o di cura. La traità intrapersonale può essere descritta come un dialogo interno che permette la consapevolezza dei propri vissuti. La traità interpersonale, luogo precipuo delle relazioni paritarie, si declina in due forme ed esprime sia l’esser-ci-tra (come sfondo) sia la processualità dell’andare-verso (proprio della figura). Cfr. G. Salonia (2013b), L’esserci-tra. Aida e confine di contatto in Bin Kimura e Gestalt Therapy, in B. Kimura, Tra. Per una fenomenologia dell’incontro, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 5-20. 8 Secondo la Gestalt Therapy, la mente è una realtà ‘incarnata’ che emerge dalla continua interazione tra l’Organismo e il suo Ambiente al confine di contatto. Cfr. P.A. Cavaleri (2003), La profondità della superficie. Percorsi introduttivi alla psicoterapia della Gestalt, Franco Angeli, Milano. 9 Il Sé, che in Gestalt Therapy è funzione dell’Organismo in contatto con l’Ambiente, è ‘l’elemento integratore’ dell’esperienza, che integra infatti in un’unica gestalt di significato i vari elementi (sensazioni, percezioni, emozioni, immagini mentali, azioni, ricordi, pensieri, etc.). Cfr. F.S. Perls, R.F. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma. 10 Cfr. A. Damasio (1995), L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano.
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La funzione-Es11 del Sé è presente come capacità di sentire sensazioni, emozioni, sentimenti che, tuttavia, non possono essere elaborati12. I pazienti DA compromessi sul versante della percezione, del ricordo e della rappresentazione, non riescono a decodificare le sensazioni corporee, non riconoscono gli oggetti (agnosia) e le persone del campo (prosopagnosia), hanno difficoltà ad usare simboli e concetti astratti, gradualmente perdono il contatto consapevole con il proprio ground di sicurezze di base e funzionali13. Il corpo/sfondo non riesce più ad accedere in modo consapevole agli apprendimenti assimilati e ciò non permette di recuperare le conoscenze pregresse né di acquisirne di nuove. Si interrompe così «la continuità dell’esperienza soggettiva affidata al corpo e giocata sul rapporto tra consapevole e inconsapevole»14. Si dimenticano le parole, il loro significato, le regole grammaticali e sintattiche, al punto che diventa difficoltoso persino costruire un periodo strutturato; luoghi da sempre frequentati, addirittura la propria casa, diventano sconosciuti; angosciante è l’esperienza di non riconoscere i propri familiari, di non ricordare nemmeno il proprio nome. Il paziente dimentica lo scopo delle azioni che sta compiendo, le sue idee svaniscono all’improvviso: tutto si oscura provocando incertezza e smarrimento. Non riesce a pianificare azioni e organizzarle in se-
11 La funzione-Es del Sé è l’esperienza corporea: cosa si sente nel corpo, sensazioni, emozioni, vissuti corporei. A tal riguardo cfr. G. Salonia (2012a), Teoria del Sé e società liquida. Riscrivere la funzione-Personalità del Sé in Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 3, 33-62. 12 Si riscontrano dei problemi nell’elaborazione secondaria della percezione, nella fase associativa che permette l’attribuzione diretta e automatica di un significato alla percezione. Cfr. M. Boccardi (2002), La riabilitazione cognitiva e comportamentale nella demenza: un approccio pratico per le R.S.A., cit. 13 Cfr. G. Salonia (2013), Disagio psichico e risorse relazionali, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino (eds.), Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani. 14 A. Sichera (2013), Dalla frattura freudiana alla continuità gestaltica: lo scarto epistemologico di Gestalt Therapy, in G. Salonia, A. Sichera (eds.), Edipo dopo Freud, GTK-books/1, 49-59, 47.
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Il corpo/sfondo non riesce più ad accedere in modo consapevole agli apprendimenti assimilati e ciò non permette di recuperare le conoscenze pregresse né di acquisirne di nuove
L’esserci-tra se stesso e l’Ambiente diventa, così, sempre meno scontato per il paziente
quenze (aprassie ideomotorie e ideatorie)15. Tutto questo lo rende apatico e privo di ogni interesse. Gradualmente perde la ‘sintonia’ emotiva propria delle relazioni interpersonali. I sintomi all’inizio episodici, progressivamente si combinano tra di loro aumentando di frequenza16. L’esserci-tra se stesso e l’Ambiente diventa, così, sempre meno scontato per il paziente: perde il senso del familiare e l’esperienza della sicurezza nello stare al mondo17. Il ground, costituito dall’esserci corporeo, dal riconoscersi e dal riconoscere l’Ambiente in cui si è situati, viene gradualmente frammentato e il paziente perde il senso di radicamento e si muove senza un punto di riferimento18. Inoltre, la processualità che, a partire da uno sfondo di contatti stabili e sicuri, consente l’emergere di figure nuove, è compromessa dall’attenzione deficitaria19, dalla percezione secondaria alterata, dai deficit di working memory20, per cui non è chiaro il movimento verso l’Ambiente in quanto l’energia non è definita o perde la direzione per cui
15 Le aprassie ideatorie riguardano complesse sequenze di movimenti finalizzati mentre quelle ideomotorie semplici gesti. Le aprassie più evidenti nei pazienti riguardano l’incapacità di compiere sequenze complesse e fini. È compromessa la componente esecutiva di progettazione mentre compiti più semplici, come vestirsi, fare i mestieri, ecc., possono ancora essere eseguiti. Cfr. M. Boccardi (2002), La riabilitazione cognitiva e comportamentale nella demenza: un approccio pratico per le R.S.A., cit. 16 Cfr. V. Andreoli (2015), La demenza di Alzheimer, http://anchise.net/2015/04/14/la-demenza-di-alzheimer/. 17 Cfr. V. Conte (2013), La Gestalt Therapy e i pazienti gravi, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino (eds.), Devo sapere subito se sono vivo, cit. 18 Cfr. F.N. Gaspa, A. Nieddu (2010), Identità e Malattia di Alzheimer, cit. 19 Le prime funzioni attentive compromesse nel malato di DA sono l’attenzione divisa (prestare attenzione a più compiti contemporaneamente) e l’attenzione spaziale. Vengono compromesse anche l’attenzione selettiva e quella sostenuta. Cfr. M. Boccardi (2002), La riabilitazione cognitiva e comportamentale nella demenza: un approccio pratico per le R.S.A., cit. 20 La working memory o memoria di lavoro (funzione di memoria con rilevante componente frontale) permette di mantenere ‘attivi’ e disponibili gli elementi su cui le altre funzioni devono lavorare. Nel paziente AD tale funzione è compromessa, e con essa la capacità del paziente di elaborare gli stimoli ambientali, per comprenderli e organizzare il proprio comportamento. Cfr. Ivi.
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il paziente fallisce nell’intenzionalità di contatto. L’Organismo si smarrisce e non riesce ad arrivare intero, con tutto se stesso, al confine di contatto con l’altro, quindi, non può co-creare con l’Ambiente una nuova traità21. È compromesso il dinamismo della traità interpersonale sfondo-figura come principio di funzionamento dell’Organismo in contatto. Con il progredire della degenerazione neurale, il paziente DA perde la memoria autobiografica22 e con essa la componente verbale-narrativo-storica della propria identità23 costruita attraverso l’assimilazione delle esperienze relazionali vissute, necessaria per riconoscersi in una definizione di sé e sentire il senso della propria ‘continuità’ nel tempo24. Progressivamente perde la capacità di rappresentare se stesso e di essere in contatto con l’immagine di sé. Questa memoria, che in Gestalt Therapy è definita funzione-Personalità25, costituisce la ‘biografia vissuta’ in quanto memoria corporea delle esperienze di contatto26. Il paziente perde l’accesso dichiarativo, episodico e semantico a questa funzione e ciò non gli permette il dialogo intrapersonale cioè il parlare a se stesso di tutto ciò che gli accade, che è la consapevolezza di sé27. Il paziente si smarrisce al punto «da non riuscire a dare del Tu a se stesso»28.
21 Cfr. G. Salonia (2012b), Il paradigma triadico della traità. I contributi della Gestalt Therapy e di Bin Kimura, in A. Colonna Romano, Io-tu. In principio era la relazione, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani. 22 Cfr. A. Damasio (2012), Il Sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, cit. 23 Cfr. C. Angelini (2013), Alla ricerca dell’identità perduta. La Gestalt Therapy e la domanda-chiave della postmodernità: “Chi sono io?”, Tesi di Specializzazione della Scuola di Specializzazione in Gestalt Therapy, Istituto di Gestalt HCC Kairos, sede di Roma. 24 Cfr. G. Cipriani, G. Borin, N. Taglialegna, A. Bani (2010), Temporalità ed identità nella malattia di Alzheimer, in «Psicogeriatria», 2, 36-39. 25 La funzione-Personalità è la definizione di sé costruita nel corpo dalle esperienze assimilate. A tal riguardo cfr. G. Salonia (2012a), Teoria del Sé e società liquida, cit. 26 Cfr. Ivi. 27 Cfr. G. Salonia (2012b), Il paradigma triadico della traità, cit. 28 B. Kimura (2005) (ed. or. 1992), Scritti di psicopatologia fenomenologica, Giovanni Fiorini, Firenze, 5.
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L’Organismo si smarrisce e non riesce ad arrivare intero, con tutto se stesso, al confine di contatto con l’altro
Il paziente perde l’accesso dichiarativo, episodico e semantico a questa funzione e ciò non gli permette il dialogo intrapersonale
C’è uno scollamento tra sé (chi sono io) e l’esperienza corporea (cosa sento): ciò determina la perdita dell’identità relazionale che per la GT è nel corpo in relazione
Il paziente non ha una consapevolezza di sé aggiornata nel qui e ora dell’esperienza ma si colloca in una dimensione spaziotemporale che non è quella dell’Ambiente condiviso nel presente ma quella soggettiva del passato ancora accessibile e rimembrato.
Le sue parole sono sconnesse dall’esperienza29: egli perde le parole del mondo e del corpo, le parole per dire e per dirsi30. C’è uno scollamento tra sé (chi sono io) e l’esperienza corporea (cosa sento): ciò determina la perdita dell’identità relazionale che per la GT è nel corpo in relazione31. Ciò che possiamo osservare è che il paziente non ha una consapevolezza di sé aggiornata nel qui e ora dell’esperienza ma si assiste ad una ricollocazione esistenziale in cui il paziente si colloca in una dimensione spazio-temporale che non è quella dell’Ambiente condiviso nel presente ma quella soggettiva del passato ancora accessibile e rimembrato. Questo fenomeno, imputabile all’erosione della memoria autobiografica, sembra legato al fatto che i pensieri di identità (chi sono io) e di relazione (chi sei tu; cos’è ciò che mi circonda) siano ricostruiti dal paziente sulla base delle residue conoscenze autobiografiche e semantiche. «Una paziente era ricollocata ai suoi tredici anni; pensava perciò di vivere ancora con i genitori e la famiglia allargata e aveva le preoccupazioni tipiche di un adolescente, si manteneva nel contesto di appartenenza (deve accudire le galline altrimenti la mamma la sgrida) e in quello storico, geografico e sociale (si deve nascondere dai tedeschi, deve spegnere le luci se sente l’allarme di un auto che lei identifica come segnali di bombardamento)»32. La storia tra Giovanna e suo figlio mostra come spesso il paziente si collochi in momenti della propria vita che rimandano a situazioni irrisolte, spesso dolorose e traumatiche33. In modo non consapevole ma funzionale ricorda meglio le informazioni emotivamente rilevanti così, quando nell’Ambiente qualcosa
29 Cfr. G. Salonia (2012a), Teoria del Sé e società liquida, cit.. 30 Cfr. F.N. Gaspa, A. Nieddu (2010), Identità e Malattia di Alzheimer, cit. 31 Cfr. G. Salonia (2008), La psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero (ed.), Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano, 51-71. 32 L. Galantin (2004), La cura “dal guarire all’esserci”. Il modello della Psicoterapia della Gestalt nell’esperienza terapeutica con persone malate di Alzheimer, Tesi di Specializzazione della Scuola di Specializzazione in Gestalt Therapy, Istituto di Gestalt HCC Kairos, sede Venezia, 43-44. 33 Cfr. Ivi.
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rimanda ad una gestalt aperta34, il paziente sente l’emozione, il vissuto corporeo-relazionale corrispondente, ma non è in grado di contestualizzarla né rispetto al ‘qui e ora’ dell’esperienza né rispetto a specifici eventi del passato. Spesso agisce in modo coerente a ciò che sente ma non è consapevole delle motivazioni sottostanti e in linea con la situazione contingente. Il disturbo della funzione-Personalità risente quindi della difficoltà di aggiornare il Sé attraverso l’assimilazione delle nuove esperienze35.
Spesso il paziente si colloca in momenti della propria vita che rimandano a situazioni irrisolte, spesso dolorose e traumatiche
Franco, il dispettoso Franco è un anziano dall’aspetto gracile, occhi di un azzurro intenso, uomo con un passato da direttore di banca, di buona estrazione sociale e dai modi educati. La coordinatrice del reparto ci mette al corrente che da qualche tempo Franco fa i dispetti agli addetti perché quando va in bagno trovano le sue urine e le feci sparse ovunque. Franco è autosufficiente nel controllo degli sfinteri e non si vuole assolutamente intervenire turbando la sua privacy. Ci viene in aiuto la conoscenza della malattia: supponiamo che Franco non riesca più a distinguere il colore bianco, colore di tutti i sanitari dei bagni del reparto. Provammo a dipingere la tavoletta del water di blu, ma per Franco era come vedere una cosa sospesa nel vuoto e questo lo disorientava; allora dipingemmo tutto il water di blu e lui lo riconobbe e disse: “«Che strano sto water, io sarò vecchio, ma sti arredatori…». Fine dei ‘dispetti’. La storia di Franco mostra che spesso i deficit percettivi (agnosia, prosopagnosia, mancato riconoscimento di alcuni colori tra cui il bianco) impediscono una percezione corretta degli stimoli e di conseguenza le azioni compiute risultano inadeguate.
34 Cfr. G. Salonia (2013a), L’anxiety come interruzione nella Gestalt Therapy, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino (eds.), Devo sapere subito se sono vivo, cit. 35 Cfr. G. Salonia (2012a), Teoria del Sé e società liquida, cit.
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I deficit percettivi impediscono una percezione corretta degli stimoli e di conseguenza le azioni compiute risultano inadeguate
L’episodio di contatto si interrompe perché la persona con DA perde la capacità di simbolizzazione
Viene compromessa la funzione di orientamento
Nel momento in cui la sensazione emerge dallo sfondo corporeo, l’episodio di contatto36 si interrompe perché la persona con DA perde la capacità di simbolizzazione37: non è più in grado di attribuire un significato allo stimolo secondo un frame of reference socialmente condiviso e, inoltre, ha difficoltà nel porre le proprie sensazioni e propriocezioni in relazione all’Ambiente. Viene compromessa la funzione di orientamento38: il paziente non è più in grado di discriminare il proprio bisogno e quindi di muoversi verso l’Ambiente per soddisfarlo realizzando scelte funzionali. Questa processualità è confusa: «un dolore fisico può prendere una forma linguistica in cui la persona chiede ricorsivamente di andare a casa; la fame si manifesta come manipolazione di un oggetto; il pianto di un altro può stimolare il ricordo spaventoso delle urla di un campo di concentramento; una bambola può essere stretta e accudita come fosse uno dei propri figli; il letto è un luogo troppo grande per chi ha dormito una vita nella cuccetta di un camion»39; gli assistenti che compiono azioni di igiene possono essere aggrediti perché il paziente ha perso la capacità di giudizio e non sa che ci si lava, non riconosce la doccia e ha paura dell’acqua e di ciò che succede. Ciò che possiamo osservare, dunque, è che la funzionalità quotidiana psicosociale delle persone DA viene severamente compromessa poiché non percepiscono più l’Ambiente e il proprio mondo interiore in modo corretto e non possono più valersi delle competenze acquisite40. Senza questi sfondi non si realizza il processo di identificazione/alienazione che caratterizza la funzione-Io del Sé41. Il paziente AD non
36 Cfr. G. Salonia (2013a), L’anxiety come interruzione nella Gestalt Therapy, cit. 37 Cfr. L. Galantin (2004), La cura “dal guarire all’esserci”, cit. 38 Cfr. G. Salonia (2013c), L’angoscia dell’agire tra eccitazione e trasgressione. La Gestalt Therapy e gli stili relazionali fobico-ossessivo-compulsivi, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino (eds.), Devo sapere subito se sono vivo, cit., 193-225; L. Galantin (2004), La cura “dal guarire all’esserci”, cit. 39 L. Galantin (2004), La cura “dal guarire all’esserci”, cit., 62. 40 Cfr. Ivi, cit. 41 La funzione-Io del Sé può essere descritta come la capacità di scegliere ciò che si ritiene appropriato inventando una ‘terza soluzione’ che sia in armonia, al contempo, con i vissuti corporei del qui e ora (funzione-Es) e con gli apprendimenti assimilati nel tempo
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è in grado di identificare/alienare parti del campo per poter scegliere ciò che ritiene appropriato e organizzare i propri comportamenti in modo adattativo e creativo42. Gli stimoli incompresi, inoltre, determinano ansia e reazioni catastrofiche, che si trasformano in comportamenti di agitazione43.
Giovanni l’affamato Giovanni è un anziano di 77 anni, alto quasi due metri, dalla corporatura molto robusta; ha un passato di muratore fino a pochi anni prima, quando la malattia è insorta. Giovanni, uomo molto dolce e gentile nei modi, da qualche tempo, secondo quanto riferito dagli addetti all’assistenza del reparto, ha comportamenti molto aggressivi soprattutto dopo i pasti principali. «…urla, si alza da tavola, non finisce il cibo contenuto nel piatto, inveisce contro gli altri ospiti, dice che gli rubano il cibo, che lui ne ha sempre meno degli altri, ma il cibo è ancora nel suo piatto…non capiamo…e calmarlo non è semplice, alla fine sono intervenuti gli infermieri a sedarlo…». Dopo aver osservato Giovanni per alcuni giorni, ci accorgemmo che mangiava solo il cibo contenuto nella parte destra del piatto, si alzava furioso e ripeteva la scena descritta dagli addetti. Parte destra e non la sinistra…Perché? È noto che nella malattia di A. spesso vi sono problemi nella visione, tra i quali scotomi visivi che riguardano zone estese del campo visivo.
(funzione-Personalità) al fine di esercitare la facoltà di ‘adattarsi creativamente’ al campo. Cfr. G. Salonia (2012a), Teoria del Sé e società liquida, cit. 42 Il Sé del paziente non può scegliere, attraverso la funzione-Io, ciò che ritiene appropriato a causa del malfunzionamento della funzione-Es (deficit percettivi) e della funzione-Personalità (deficit mnesici). Cfr. G. Salonia, A. Sichera (2014), Tempi e modi della Funzione-Io, Meeting Annuale GTK, Ragusa 30-31 Maggio/1Giugno 2014; G. Salonia, A. Sichera (2015), Rilettura delle funzioni del sé: quali nuovi sviluppi teorici e clinici in Gestalt therapy, Meeting Annuale GTK, Venezia 3-4-5 luglio 2015. 43 Cfr. AA. VV. (2013), “Non so cosa avrei fatto oggi senza di te”. Manuale per i familiari delle persone con demenza, cit.
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Il paziente AD non è in grado di poter scegliere ciò che ritiene appropriato e organizzare i propri comportamenti in modo adattativo e creativo
Gli stimoli incompresi, inoltre, determinano ansia e reazioni catastrofiche, che si trasformano in comportamenti di agitazione
Giovanni, allora, avrebbe potuto non vedere il cibo contenuto nella parte sinistra del piatto? Provammo a vedere cosa succedeva se un addetto gli si sedeva vicino e nel momento in cui Giovanni avesse finito la parte del cibo che riusciva a vedere, l’addetto gli avrebbe girato il piatto in modo da ritrovare dell’altro cibo a lui disponibile senza avere la sensazione di essere trattato diversamente dagli altri ospiti. La soluzione pensata funzionò. La storia di Giovanni mostra che alcuni comportamenti disfunzionali messi in atto dai pazienti, definiti in letteratura «sintomi non cognitivi» o disturbi psichiatrici, potrebbero essere ricondotti ad una ricostruzione alterata della realtà dal momento che il paziente non ha sufficienti risorse cognitive per farne un accurato esame, per identificare le emozioni in modo adeguato e poter comprendere quale sia l’effettivo disagio e la fonte di esso44.
Guido il sensibile
I pazienti DA possono comunque accedere alla dimensione corporea della conoscenza. Facendo riferimento ai meccanismi di ‘rispecchiamento’ possiamo ipotizzare attraverso l’attivazione di una ‘consonanza intenzionale’, una comprensione implicita degli altri
Guido è un frate anziano con uno stato di Alzheimer moderato, trascorre le sue giornate in convento, coinvolto in alcune attività dai frati con cui vive e che si prendono cura di lui. Un giorno il superiore lo vede stare in disparte, un po’ incupito, con un’aria triste quasi fosse amareggiato. Già informato del fatto che ci fossero state delle incomprensioni tra Giudo e un altro confratello, gli si approssima, provando a interagire con lui per capire come stia e se abbia bisogno qualcosa. Di fronte alle domande del superiore che cerca di capire cosa fosse successo e cosa lo avesse ferito Guido risponde: «Non lo so cosa mi ha detto ma era arrabbiato!». La storia di Guido dimostra che i pazienti DA possono comunque accedere alla dimensione corporea della conoscenza45. Facendo riferimento ai meccanismi di ‘rispecchiamen-
44 Cfr. M. Boccardi (2002), La riabilitazione cognitiva e comportamentale nella demenza: un approccio pratico per le R.S.A., cit. 45 Cfr. V. Gallese (2013), Corpo non mente. Le neuroscienze cognitive e la genesi di soggettività e intersoggettività, in «Educazione Sentimentale», 8-24.
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to’46 possiamo ipotizzare che le stesse strutture nervose che permettono al paziente di esperire le proprie sensazioni ed emozioni gli consentano, attraverso l’attivazione di una ‘consonanza intenzionale’, una comprensione implicita degli altri. Infatti, questo meccanismo di risonanza, come legame intercorporeo, permette di «‘mappare’ il sentire e l’agire altrui in modo pre-linguistico, prerazionale, non introspettivo, diretto e automatico»47. Sappiamo che la realtà viene conosciuta attraverso differenti formati rappresentazionali corporei e proposizionali. Quello che possiamo osservare nel paziente DA è la progressiva inaccessibilità al formato proposizionale e la permanenza del formato corporeo. È come se in un processo di progressiva degenerazione venisse mantenuto il sistema rappresentazionale corporeo che, a livello filogenetico e ontogenetico precede quello proposizionale. In termini clinici ciò implica che le sensazioni e le emozioni rimangono nel paziente come aggancio48 alla realtà, sia in termini soggettivi che intercorporei, guidando il suo modo di stare nel mondo e nella relazione con gli altri. Alla luce delle diverse storie narrate possiamo dire che l’esperienza del paziente DA, e quindi il dispiegarsi del Sé al confine di contatto, si interrompe perché c’è un disturbo nel farsi dell’esperienza poiché lo sfondo, inizialmente confuso e poi sempre più frammentato, non permette l’emergere chiaro e definito della figura che guida l’Organismo verso un nuovo contatto con l’Ambiente49. Il paziente gradualmente perde la capacità di sentire di esserci e di essere presente50 al confine di contatto con pienezza e integrità51.
46 Cfr. Ivi. 47 V. Gallese (2010), Le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività, in «La società degli individui», 37/1, 48-53, 51. 48 Si deve al Prof. Giovanni Salonia questa puntualizzazione clinica. 49 Cfr. A. Sichera (2013), Dalla frattura freudiana alla continuità gestaltica: lo scarto epistemologico di Gestalt Therapy, cit. 50 Cfr. F.N. Gaspa, A. Nieddu (2010), Identità e Malattia di Alzheimer, cit. 51 Cfr. G. Salonia (2008), La Psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo, cit.
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Le sensazioni e le emozioni rimangono nel paziente come aggancio alla realtà, sia in termini soggettivi che intercorporei
Il paziente perde la propria competenza al contatto prima in termini di pienezza e poi di integrità; si assiste ad un progressivo deterioramento della forma della traità intrapersonale e dunque della soggettività
Tuttavia, anche se non ne è più consapevole, il corpo del paziente porta ancora dentro di sé la propria memoria corporea implicita e l’intenzionalità relazionale
La degenerazione neurologica del paziente DA determina una regressione che sembra percorrere all’inverso le fasi evolutive che hanno permesso l’emergere della competenza al contatto e della soggettività. Il paziente perde la propria competenza al contatto prima in termini di pienezza e poi di integrità; si assiste ad un progressivo deterioramento della forma della traità intrapersonale e dunque della soggettività52. L’Io smarrisce se stesso: il corpo del paziente smarrisce la propria anima poiché perde la possibilità di sentire la pienezza donata all’Organismo nel contatto pieno con l’Ambiente53. Tuttavia, anche se non ne è più consapevole, il corpo del paziente porta ancora dentro di sé la propria memoria corporea implicita54 e l’intenzionalità relazionale e ciò lo muove nel suo esser-ci nel mondo e tra gli altri.
Alcune coordinate nella prassi clinica La demenza di Alzheimer erode le trame che intessono il tessuto neurobiologico e relazionale frammentando lo spazio dell’incontro poiché salta l’immediata intellegibilità dello sfondo condiviso
La demenza di Alzheimer è una malattia erosiva: erode le trame che intessono il tessuto neurobiologico e relazionale annientandone le connessioni e frammentando lo spazio dell’incontro poiché salta l’immediata intellegibilità dello sfondo condiviso. Ed è proprio da questo spazio dell’incontro, da questa traità corporea che la cura deve iniziare andando verso il paziente con l’intenzionalità di co-costruire il confine di contatto, «accettando la sfida di incontrarlo lì dove lui si trova»55. Lucia sta intonando la sua solita canzone nel corridoio guardando il muro bianco di fronte a lei come se fosse una grande
52 Ciò è coerente con i dati neurobiologici: studi recenti, infatti, considerano l’Alzheimer una patologia sistemica, che ripercorre in senso inverso le tappe della mielogenesi cerebrale, interessando le regioni temporali nella fase iniziale e, progressivamente, l’intero cervello. Cfr. C. Colosimo (2013), Neuroradiologia, cit. 53 Cfr. G. Salonia (2012b), Il paradigma triadico della traità, cit. 54 La modalità implicita è preservata rispetto alla modalità esplicita, in tutte le funzioni di memoria. Cfr. M. Boccardi (2002), La riabilitazione cognitiva e comportamentale nella demenza: un approccio pratico per le R.S.A., cit. 55 L. Galantin (2004), La cura “dal guarire all’esserci”, cit., 20.
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platea; Gino urla: «È mio, è mio... ridatemelo!» e affannato cerca di inseguire un familiare che scappa; Wanda ti viene incontro, spaventata, tutta sudata, respirando a fatica, ti prende il braccio e dice «Signorina, signorina, mi sono persa…mi accompagna a casa?»; Giovanni ti guarda con fare minaccioso e tace, ma senti che potrebbe colpirti da un momento all’altro; Maria ti si avvicina e con un bel sorriso dice: «Sono ancora giovane e piacente, vogliosa… quasi quasi scrivo un annuncio sul giornale e mi trovo un marito…». Un’esperienza tipica dell’incontro al confine di contatto con le persone DA è il senso di indefinitezza, imprevedibilità e precarietà. «Della persona che si avvicina non si sa dove si trovi, cosa stia percependo, con quali eventi incompiuti si stia confrontando, quali siano i bisogni attuali, trovandosi nella tragica impossibilità di comunicarli, quando anche ne fosse consapevole»56. Ci si trova di fronte ad un corpo che si esprime al di là della consapevolezza, ad un’identità smarrita e all’inafferrabilità dell’esperienza soggettiva. Assumere la centralità del corpo come luogo dell’interazione Organismo/Ambiente, della memoria e dell’intenzionalità di contatto nell’attualità dell’incontro, secondo la Gestalt Therapy, guida i tentativi di entrare in relazione con il paziente DA e offre coordinate chiare alla prassi clinica. Prendersi cura di un paziente DA significa creare le condizioni per attivare una confluenza sana dove l’Ambiente deve diventare nutriente in quanto sostiene contatti validi e funzionali. Lo scopo diviene andare verso il paziente riuscendo a far esprimere il contatto pieno fornendo il sostegno adeguato. Infatti, il deteriorarsi delle funzioni di contatto fa sì che il paziente, gradualmente, non sia «più in condizione di adattarsi fluidamente al suo mondo»57 e quindi di realizzare contatti funzionali alla sua stessa sopravvivenza.
56 Ivi, cit., 39. 57 J.I. Kepner (1997), Body process. Il lavoro con il corpo in psicoterapia, Franco Angeli, Milano, 40.
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Un’esperienza tipica dell’incontro al confine di contatto con le persone DA è il senso di indefinitezza, imprevedibilità e precarietà
Assumere la centralità del corpo come luogo dell’interazione Organismo/ Ambiente, della memoria e dell’intenzionalità di contatto nell’attualità dell’incontro, guida i tentativi di entrare in relazione con il paziente DA e offre coordinate chiare alla prassi clinica
Il lavoro terapeutico mira, dunque, a creare un Ambiente protesico che sostenga il Sé del paziente nell’evoluzione di tale patologia
Chi si prende cura del malato deve, quindi, riuscire a ristabilire una funzione-Personalità ‘ausiliaria’ e osservare il comportamento problematico del paziente che emerge al confine di contatto qui e ora
Il lavoro terapeutico mira, dunque, a creare un Ambiente protesico58 che sostenga, nel modo minimo necessario59, il Sé del paziente nell’evoluzione di tale patologia60. Rileggere i comportamenti disfunzionali dei pazienti alla luce dei deficit funzionali specifici e della ricollocazione temporale può renderli comprensibili. Il curante così, attraverso la conoscenza della malattia e della storia personale e familiare del paziente61, può recuperare parte dello sfondo condiviso e quindi provare a dare senso ai suoi vissuti, a contestualizzare alcune sue azioni, a comprendere ciò di cui ha bisogno seguendo ed esplorando la sua intenzionalità di contatto62. Chi si prende cura del malato deve, quindi, riuscire a ristabilire una funzione-Personalità ‘ausiliaria’ e osservare il comportamento problematico del paziente che emerge al confine di contatto qui e ora per riconoscere e comprendere (qui la confluenza sana) i suoi bisogni del momento. Nella storia di Giovanna, ad esempio, rileggere gli sputi e l’aggressività verso il figlio alla luce del disturbo della funzione-Personalità è stato un passaggio efficace che ha permesso di dare significato alle azioni della paziente, ricucendo ancora una trama con la sua identità63, cosa che ha permesso il contatto oltre che la momentanea risoluzione del comportamento sintomatico. È importante evidenziare che la conoscenza della storia del paziente da parte dei curanti deve essere dettagliata perché i dettagli (capelli, odori, suoni, colori dei vestiti, contatto fisico,
58 La definizione di Ambiente ‘protesico’ indica che quando l’Organismo perde le proprie capacità di adattamento all’Ambiente, deve essere l’Ambiente ad adattarsi a lui con lo scopo di svolgere una funzione mancante o gravemente deficitaria, come fosse appunto una sua protesi. Cfr. M. Boccardi (2002), La riabilitazione cognitiva e comportamentale nella demenza: un approccio pratico per le R.S.A., cit. 59 Il comportamento del curante deve essere protesico solo nelle funzioni realmente non eseguibili dal paziente. Cfr. Ivi. 60 Cfr. L. Galantin (2004), La cura “dal guarire all’esserci”, cit. 61 Cfr. S. Brambilla (2014), Sguardo sull’Alzheimer, in «Dialoghi Adleriani», 1, 2, 108-117. 62 Cfr. L. Galantin (2004), La cura “dal guarire all’esserci”, cit. 63 Cfr. S. Garolfi, S. Lerda (2013), L’identità oltre i ricordi perduti: la demenza di Alzheimer, in «Rivista di Psicologia Individuale», 74, 69-95.
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etc.) risvegliano nel paziente i residui di memoria, favorendo la rievocazione dei ricordi in modo implicito come memoria associativa o procedurale. Come abbiamo visto nelle diverse storie narrate, è necessaria una osservazione accurata e contestualizzata dei comportamenti dei pazienti per comprenderne il senso e l’intenzionalità64 e per trovare delle soluzioni adattative. Ad esempio la strategia di semplificazione del campo percettivo, adottata nella storia di Franco «il dispettoso», ha permesso al paziente di riconnettere il suo bisogno alle disponibilità ambientali riuscendo quindi ad adottare un comportamento adeguato. È importante sottolineare che tra gli innumerevoli comportamenti frammentati che il paziente mette in atto, uno solo è espressione della sua intenzionalità, per cui il curante deve essere in grado di cogliere questo ‘goffo movimento verso’ e agganciarlo, aiutando il paziente a dargli senso e direzione. Luigi è un ex barista. Quando si avvicina l’ora di cena inizia ad agitarsi, muovendosi nell’ambiente in modo afinalistico, tocca diversi oggetti della stanza ricreativa del reparto, li annusa, li sposta, li posa, li riprende; si avvicina agli altri ospiti seduti, li guarda sospeso, li tocca, si allontana, si ferma, ritorna e inizia a spingerli e a farfugliare qualcosa di incomprensibile per poi interrompersi e dirigersi verso le sedie vuote iniziando a metterle sul tavolo. A quel punto l’operatore capisce e serenamente dice: «Hai ragione Luigi, iniziamo a sistemare per andare a cena». Per fare questo, chi si prende cura del paziente deve saper usare tutte le informazioni disponibili nel campo65. Così come è accaduto nella storia di Giovanni «l’affamato», attraverso ciò che si conosce del campo, si può riuscire a fare una buona sintesi di tutti gli elementi acquisiti e cercare la soluzione al contatto (finalmente!), che significa porre fine al comportamen-
64 Cfr. A. Filiberti, P. Zeppegno (2013), Identità, senso di sé e demenza, in A. Monteleone, A. Filiberti, P. Zeppegno (eds.), Le demenze: mente, persona, società, Maggioli, Santarcangelo di Romagna. 65 Cfr. L. Galantin (2004), La cura “dal guarire all’esserci”, cit.
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La conoscenza della storia del paziente da parte dei curanti deve essere dettagliata perché i dettagli (capelli, odori, suoni, colori dei vestiti, contatto fisico, etc.) risvegliano nel paziente i residui di memoria
Il curante deve essere in grado di cogliere questo ‘goffo movimento verso’ e agganciarlo, aiutando il paziente a dargli senso e direzione
L’intenzionalità terapeutica mira a sostenere le funzioni del Sé deficitarie, connettendo la figura al suo sfondo, ricucendo trame smarrite
to disfunzionale del paziente, placando le sue ansie che è ciò che egli non riesce a fare da solo. L’intenzionalità terapeutica mira a sostenere le funzioni del Sé deficitarie per permettere al paziente il contatto con l’Ambiente e quindi la soddisfazione dei suoi bisogni, connettendo la figura al suo sfondo, ricucendo trame smarrite. Nella relazione di cura con il paziente DA, dunque, è necessario che un Io capace di traità intrapersonale si prenda cura di un Tu nel quale tale traità sta perdendo forma66 per sostenere la relazione con se stesso sempre più frammentata. Con il procedere della malattia il paziente perde autonomia, per cui la cura deve orientarsi verso un maggiore sostegno ambientale attraverso specifiche strategie.
66 Cfr. G. Salonia (2013b), L’esserci-tra. Aida e confine di contatto in Bin Kimura e Gestalt Therapy, cit.
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Abstract Nell’articolo si intende rileggere il deterioramento neuropsicologico e comportamentale proprio della Demenza di Alzheimer (DA) come graduale processo di frammentazione delle traità interpersonale ed intrapersonale, individuando una possibile prassi terapeutica. A partire da alcune storie cliniche si traccia una rilettura fenomenologica della DA attraverso l’applicazione ermeneutica e clinica della Teoria del Sé e della Teoria del Contatto. Si verifica, quindi, il modo in cui la degenerazione neurologica compromette il dinamismo della traità interpersonale sfondo-figura e come avviene la progressiva perdita della forma della traità intrapersonale. Si individua, infine, ciò che rimane come punto di forza nel paziente: la memoria corporea implicita e l’intenzionalità relazionale. Sulla base di queste acquisizioni si identifica l’essenza del lavoro terapeutico nella creazione di un Ambiente protesico che offra al paziente un sostegno minimo necessario nell’evoluzione di tale patologia e si propone una precisa prassi clinica, la cui efficacia è stata sperimentata in alcuni contesti di cura comunitari. La creazione di un contesto di cura in grado di sostenere nel paziente DA il contatto con l’Ambiente e quindi la soddisfazione dei suoi bisogni, sembra essere un percorso di intervento possibile ed etico nell’intenzionalità terapeutica di ricucire trame smarrite.
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Cielo e terra
RICERCA
IL CUORE DELLA COGENITORIALITÀ NELLA GESTALT THERAPY INTERVISTA A VALERIA CONTE E GIOVANNI SALONIA a cura di Aluette Merenda Aluette Inizierei col chiederVi di concettualizzare il coparenting (la cogenitorialità), secondo la Gestalt Therapy. Alcuni studiosi americani parlano del coparenting nei termini di una strada tortuosa e piena di buche, che implica una grande sfida nello svolgere il ruolo genitoriale in alleanza con l’altro partner genitoriale. A vostro parere, si tratta di una sfida evolutiva o della scoperta di un ‘dono’, ai bambini e alle loro famiglie? In GT potremmo parlare di cogenitorialità come funzione-Personalità-diessere-genitori
Oggi i genitori sono co-presenti sia in casa che nella polis e i compiti, dunque, si sovrappongono su un registro di collaborazione paritetica: è una cogenitorialità che potremmo chiamare ‘orizzontale’ e che, essendo inedita, va inventata e verificata di volta in volta
Giovanni Innanzitutto delle chiarificazioni. Cosa intendiamo per cogenitorialità? In GT potremmo parlare di cogenitorialità come funzione-Personalità-di-essere-genitori. È un dato di fatto. La domanda «Chi è mio padre?» fa parte della condizione umana. Prima della postmodernità, la cogenitorialità era vissuta in modo scontato: il papà nella polis e la mamma in casa. Questo status era l’unico possibile in quanto guerre e fame richiedevano la presenza del maschio lontano da casa e le condizioni di non autonomia economica e professionale costringevano la donna a presidiare il focolare domestico. Anche quando la donna lavorava fuori dalle mura domestiche prima della postmodernità, durante la rivoluzione industriale ad esempio, l’educazione dei figli rimaneva una sua esclusiva. L’uno si occupava della difesa e della sicurezza della famiglia, l’altra della crescita ed educazione della prole: compiti paralleli e funzionali. Oggi i genitori sono co-presenti sia in casa che nella polis e i compiti, dunque, si sovrappongono su un registro di collaborazione paritetica: è una cogenitorialità che potremmo chiamare ‘orizzontale’ e che, essendo inedita, va inventata e verificata di volta in volta. Non si è preparati a questa nuova relazione e non sempre si è consapevoli che la relazione che i genitori hanno tra di loro è determinante sui figli: in molte situazioni di separazione i figli finiscono col
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subire triangolazioni indebite, con genitori che si alleano con un figlio o coi figli contro l’altro genitore. Sfida in quanto nuova scoperta, ma dono certamente perché via che permette di sperimentare relazioni più appaganti e condizioni personali più luminose. Valeria Lo sappiamo, ma oggi più che mai dobbiamo riconoscere che il benessere dei figli viene sempre e comunque co-costruito dalla coppia genitoriale: non è possibile essere un buon padre o una buona madre senza l’altro genitore1. Se l’adulto guarda solo il bambino ha una visione parziale. È importante guardare al campo relazionale della triade padre/madre/bambino per comprendere gli aspetti educativi e il disagio, diversamente ogni risposta educativa risulta incompleta e spesso inefficace. Sentirsi parte del triangolo primario è una grande risorsa che la cogenitorialità ci regala2. Dagli studi di Elisabeth Fivaz-Depeursinge e del gruppo di Losanna3 con il LTP sappiamo, grazie all’osservazione dei comportamenti interattivi all’interno del triangolo primario, che in età precoce il bambino (B.) è capace di gioco triadico, di giocare cioè con ambedue i cogenitori. Questi aspetti sono stati approfonditi da Salonia nello sviluppo della sua teoria evolutiva in Gestalt Therapy4 e ci si è chiesti come per la Gestalt è possibile osservare il triangolo primario, fedeli alla matrice fenomenologica relazionale e all’attenzione al corpo e all’esperienza. La GT osserva i vissuti corporeo-relazionali che continuamente si tessono tra i componenti del triangolo primario.
1 Cfr. G. Salonia (2009), Letter to a young Gestalt therapist for a Gestalt therapy approach to family therapy, in «The British Gestalt Journal», 18, 2, 38-47. 2 Cfr. J.P. McHale (2010), La sfida della cogenitorialità, Raffaello Cortina, Milano. 3 Cfr. E. Fivaz-Depeursinge, A. Corboz-Warnery (2000), Il triangolo primario, Raffaello Cortina, Milano. 4 Cfr. G. Salonia (2013a), Edipo dopo Freud. Dalla legge del padre alla legge della relazione, in G. Salonia, A. Sichera, Edipo dopo Freud, GTK-books/1, Ragusa, 11-46; G. Salonia (2014), Psicoterapia della Gestalt e teorie evolutive, in G. Francesetti, M. Gecele, J. Roubal (eds.), La psicoterapia della Gestalt nella pratica clinica. Dalla psicopatologia all’estetica del contatto, Franco Angeli, Milano, 259-275.
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Il benessere dei figli viene sempre e comunque co-costruito dalla coppia genitoriale: non è possibile essere un buon padre o una buona madre senza l’altro genitore
Sentirsi parte del triangolo primario è una grande risorsa che la cogenitorialità ci regala
Coniugare l’affetto per i figli e la vicinanza emotiva con la responsabilità educativa è spesso fonte di disagio, insicurezza e senso di inadeguatezza: essere genitore non significa più avere solo un ruolo da ricoprire, ma un ruolo da potere vivere con pienezza e spontaneità
Trattare ed enucleare il tema del coparenting implica una svolta sia antropologica sia clinica ed in realtà anche epistemologica
Sono state avviate delle ricerche in tal senso, con la videoregistrazione del gioco triadico in fasce di età comprese tra i 18 e i 24 mesi con osservazione dell’esperienza e dei vissuti che avvengono al confine di contatto nell’interazione padre/madre/ bambino. Le interviste e il questionario che hanno affiancato la videoripresa hanno dato degli spunti interessanti di conferma su come i vissuti che intercorrono tra P. e M. influenzino ogni singola diade. Ricordo con sorpresa come una madre che vedeva giocare il padre con il figlio apparisse abbastanza contrariata e manifestasse intolleranza e fastidio verso il marito. Lei stessa aveva verbalizzato nell’intervista che il padre non giocava mai con il figlio e quindi lei era molto infastidita perché pensava che lo stesse facendo per apparire un buon padre. Il marito a sua volta aveva ribattuto: «Ogni volta che vorrei giocare con il B. tu ti intrometti per fargli fare qualcosa o per lavarlo o farlo mangiare…». È chiaro che non ci sorprende a questo punto vedere che il B. mentre gioca con il padre guarda continuamente la madre, come se aspettasse qualcosa. La cogenitorialità è sicuramente una sfida della genitorialità postmoderna. Anche se oggi sempre più spesso la genitorialità viene decisa ed è un’esperienza abbastanza consapevole e voluta, la scelta di diventare genitore porta in sé delle paure. Da una parte la paura di un legame ‘per sempre’, che è percepito come indissolubile, poiché ci si può separare dal proprio partner ma non dai propri figli, dall’altra la paura di non essere all’altezza perché si sente forte il peso della responsabilità educativa. Coniugare l’affetto per i figli e la vicinanza emotiva con la responsabilità educativa è spesso fonte di disagio, insicurezza e senso di inadeguatezza: essere genitore non significa più avere solo un ruolo da ricoprire, ma un ruolo da potere vivere con pienezza e spontaneità.
Aluette Trattare ed enucleare il tema del coparenting implica una svolta sia antropologica sia clinica ed in realtà anche epistemologica. Una svolta connessa alla comprensione dello sviluppo infantile, delle diverse modalità di stare insieme e, non in ultimo, dell’animo umano. Esiste a vostro parere una connessione anche con i mutamenti sociali della postmodernità?
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Valeria Se guardiamo al contesto postmoderno e occidentale senza spinte nostalgiche verso il passato, possiamo individuare numerose risorse e potenzialità. Di fatto c’è una riscoperta delle relazioni e per certi versi una fiducia inedita nella relazionalità, intesa come esperienza di contatto tra le persone. Una delle sfide che nell’ultimo ventennio le persone e i partner hanno sperimentato è stata proprio la possibilità di vivere i rapporti paritari, sul registro della vera parità5, sia nei contesti intimi – di coppia, familiari – che in quelli sociali, lavorativi, amicali. Oggi possiamo dire che il rapporto tra pari si arricchisce della possibilità, ancora non scontata ma a cui tendere, della piena libertà di espressione delle differenze. Proprio il primato della soggettività, dell’autoaffermazione e del valore dato all’esperienza, se da una parte ci ha permesso di fare un salto qualitativo nei rapporti interpersonali, dall’altra è diventato esso stesso l’espressione del disagio e del limite delle relazioni paritarie. La relazione di coppia è sicuramente uno dei luoghi in cui la diversità è non solo presente, ma direi necessaria. La diversità costringe alla relazione, al dialogo, ad una comunicazione aperta e interessata all’altro. Il confronto con l’altro, come altro da sé, diventa una grande risorsa che permetterà alle differenze di esprimersi riducendo le spinte individualistiche e di onnipotenza e ci riporta alla relazione, unico luogo dove la soggettività può raggiungere la pienezza. Giovanni Senza alcun dubbio. Sono una svolta antropologica dalle conseguenze ad onda lunga sia la presenza della donna nella polis che dell’uomo nella casa. L’uomo sperimenta sensibilità non vissute prima e la donna esprime potenzialità organizzative e saggezze della cui carenza sicuramente le civiltà precedenti hanno sofferto. La solitudine del mondo globale spalanca gli orizzonti e incanala verso una incessante ricerca dell’altro, che – si è ormai capito – non è ‘altro da me’ ma, per dirla con
5 Cfr. L. Irigaray (1994), La democrazia comincia a due, Bollati Boringhieri, Torino.
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Una delle sfide che nell’ultimo ventennio le persone e i partner hanno sperimentato è stata proprio la possibilità di vivere i rapporti paritari, sul registro della vera parità, sia nei contesti intimi – di coppia, familiari – che in quelli sociali, lavorativi, amicali
La relazione di coppia è sicuramente uno dei luoghi in cui la diversità è non solo presente, ma direi necessaria
Si può ipotizzare che una positiva cogenitorialità renderà più vivibili e positivi la convivenza tra umani e il rapporto con le diversità
Gadamer6, è ‘altro di me’ e anche ‘oltre-di-me’. L’esperienza si ripropone sempre diversa. L’attenzione all’altro, la consapevolezza dei propri vissuti, la creatività conducono la danza dell’incontro. Il bambino è appunto un ‘altro’ prima sconosciuto o comunque sottovalutato e ignorato: si pongono orizzonti nuovi, dunque – dici bene – anche a livello epistemologico. Soltanto lentamente vedremo gli indubbi vantaggi di questi percorsi. Adesso – essendo agli inizi – forse ne constatiamo maggiormente le fatiche. Si può ipotizzare che una positiva cogenitorialità renderà più vivibili e positivi la convivenza tra umani e il rapporto con le diversità.
Aluette Sulle orme di tale svolta, connessa alla comprensione dell’animo umano nell’era postmoderna e all’esperienza di attraversare consapevolmente la danza dell’incontro con le diversità, Vi chiedo, allora, come concepire la cogenitorialità nell’ambito degli attuali scenari del vivere insieme? Ad esempio, nelle omounioni, in cui il tema della omo(co)genitorialita apre il pensiero a nuovi modelli di cura, a riflessioni educative e inevitabilmente ad aspetti problematici.
Personalmente sono molto perplesso sull’adozione di omogenitori per bambini da zero a sette/nove anni, essendo questo il periodo in cui si forma e si stabilizza l’identità corporea
Giovanni Non è semplice esprimersi sulla omogenitorialità essendo una problematica relativamente recente e carica di molte valenze antropologiche. Anche le ricerche — come si sa — non risolvono questo problema perché le variabili sono tante e complesse e i dati ancora insufficienti per una valutazione obiettiva. Personalmente sono molto perplesso sull’adozione di omogenitori per bambini da zero a sette/nove anni, essendo questo il periodo in cui si forma e si stabilizza l’identità corporea. La mia lunga formazione in body therapy e in Gestalt Therapy, i miei quasi quarant’anni di esperienza clinica, gli studi sulle neuroscienze (si pensi al «sé autobiografico» di Damasio7, alla
6 Cfr. H.G. Gadamer (1983) (ed. or. 1960), Verità e metodo, Bompiani, Milano. 7 Cfr. A. Damasio (2012), Il Sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, Adelphi, Milano.
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Embodied Cognition), mi spingono a pensare che il bambino costruisca (potrei dire ‘co-costruisce’) una sana identità corporea nelle interazioni del proprio corpo con quello dei genitori (intercorporeità primaria): apprende che ha ed è ‘questo’ corpo solo dentro la relazione ‘estetica’ (nel senso greco del termine: con tutti i sensi) con i corpi dei genitori. Essere toccati e poter toccare (si pensi ai recenti studi sulla ‘percezione atipica’ nelle sue declinazioni, sensoria, motoria e cognitiva), essere visti e poter vedere i corpi, esplorare i corpi stessi, sono tutte esperienze fondamentali nella costruzione di una identità corporea ossia degli schemi corporei impliciti. La relazione genitoriale non è, quindi, solo affettiva ma è anche decisamente corporea. Per cui credo che crescere interagendo con due ‘figure genitoriali’ (termine più caldo del freddo inglesismo caregiver) dello stesso sesso penalizzi in modo pesante la formazione dell’identità corporea dei bambini. Ovviamente tale mia perplessità non riguarda assolutamente la competenza genitoriale del singolo genitore (per me, scontata). Trattandosi di un tema nuovo, resto aperto ad ulteriori approfondimenti.
Aluette Tenendo conto delle attuali forme familiari che caratterizzano la società postmoderna, come (e se) è possibile continuare a svolgere il proprio ruolo cogenitoriale quando non si è più una coppia coniugale? Valeria Sicuramente è una sfida della genitorialità postmoderna restare genitori anche quando un rapporto di coppia finisce. Le famiglie cambiano, si trasformano, i partner si aprono a nuove relazioni, nuove famiglie si costituiscono, ma è possibile e direi necessario mantenere una buona/sufficiente genitorialità. Si resta comunque genitori e rimane la responsabilità di non aggiungere danno alla fisiologica sofferenza che la fine della famiglia inevitabilmente comporta per i figli. Un giorno una coppia in via di separazione chiede un intervento psicoterapico: «Noi abbiamo deciso di comune accordo di separarci, ma non vogliamo che i nostri figli soffrano, pensiamo che per fare questo possono essere seguiti da personale
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Il bambino apprende che ha ed è ‘questo’ corpo solo dentro la relazione ‘estetica’ (nel senso greco del termine: con tutti i sensi) con i corpi dei genitori
Credo che crescere interagendo con due ‘figure genitoriali’ (termine più caldo del freddo inglesismo caregiver) dello stesso sesso penalizzi in modo pesante la formazione dell’identità corporea dei bambini
È una sfida della genitorialità postmoderna restare genitori anche quando un rapporto di coppia finisce
La separazione non è sofferenza insostenibile se i genitori concedono ai figli il tempo necessario per soffrire e adattarsi ai cambiamenti che, come sappiamo, riguardano anche scelte concrete, abitudini acquisite, stanze e case familiari e nuove
Per i figli non è importante che il padre o la madre siano perfetti, quanto piuttosto che siano capaci di proteggerli e di non richiedere alleanze esclusive contro l’altro genitore
specializzato, psicologi vero?». È chiaro che la domanda è posta male in quanto pretende di negare il dolore fisiologico dei figli nella separazione dei genitori. A volte cercare ricette e soluzioni esterne e competenti è un modo per non assumersi la responsabilità delle proprie scelte e non darsi il tempo del disappunto o della sofferenza che la fine della famiglia inevitabilmente comporta per i figli. La separazione non è sofferenza insostenibile se i genitori concedono ai figli il tempo necessario per soffrire e adattarsi ai cambiamenti che, come sappiamo, riguardano anche scelte concrete, abitudini acquisite, stanze e case familiari e nuove. Cosa ben diversa è quando abbiamo una coppia che si separa ma vive ancora la fine del rapporto, con alta conflittualità, in lotta l’uno contro l’altro. Per i figli non è importante che il padre o la madre siano perfetti, quanto piuttosto che siano capaci di proteggerli e di non richiedere alleanze esclusive contro l’altro genitore, anche se a volte per i genitori questo non è scontato e diventa un punto di arrivo più che di partenza. Il conflitto generato dalla lotta di potere – vincere sull’altro – o dalla ricerca della verità – chi ha ragione e chi ha torto – è insanabile e sterile, i figli non possono dividersi e la scissione non fa altro che alimentarne la sofferenza. I sentimenti di rabbia, rivalsa, vendetta, riguardano la coppia coniugale che deve trovare spazi individuali o, quando è possibile, di mediazione alla genitorialità, per potere separare i vissuti ancora sospesi della coppia dalla funzione genitoriale. Giovanni Precisiamo, innanzitutto che la relazione fra i coniugi è paritaria, con un patto, ed è orientata ad un benessere personale e reciproco. La relazione genitori/figli non è paritaria e non è stata scelta dai figli, è indispensabile ed è primariamente intenzionata ad un benessere unilaterale (i figli non hanno il compito di far felici i genitori o, tanto meno, di risolvere i loro problemi) anche se – di ritorno – anche i genitori crescono e sono arricchiti dalla relazione con i figli. Sono, dunque, due relazioni che seguono tracciati diversi. Per cui se la relazione coniugale può finire, quella genitoriale no. Dal confronto con Kimura, ho appreso a definire archi-traità la relazione genitori/figli perché fondante ogni altra relazione interpersonale
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e intrapersonale8. Della responsabilità genitoriale fa parte sicuramente sia l’assumersi il peso della inevitabile sofferenza dei figli in caso di separazione dei genitori, sia la saggezza del non coinvolgerli in beghe di coppia che non appartengono loro, sia la possibilità di continuare ad essere genitori affettuosi e premurosi anche se separati. In Gestalt Therapy la capacità di essere genitori positivi rientra nell’ambito della funzione-Personalità e i comportamenti (o, peggio, i vissuti) non orientati in tal senso sono da attribuire a disturbi di questa funzione del Sé9. Il problema non è la presenza di conflitti, ma la non sviluppata capacità di gestirli.
Aluette Nelle situazioni di separazione coniugale altamente conflittuale, proprio la difficoltà nella gestione del conflitto può rappresentare un elemento critico che perde la sua matrice evolutiva, bloccandosi sugli aspetti regressivi (distruttivi). Tenendo conto anche delle indicazioni legislative (Legge 54/2006) che privilegiano l’affidamento condiviso e la bi-genitorialità, ritenete che anche in tali contesti relazionali la condivisione della genitorialità con l’ex coniuge costituisca comunque la strategia più adeguata per la cura dei figli? Valeria La cogenitorialità è necessaria anche se a volte è veramente difficile, in particolare con due genitori separati e con livelli alti di conflittualità. Non è semplice far emergere la consapevolezza che si rimane sempre genitori-con anche quando gli ex-coniugi vivono sentimenti intensi di odio, vendetta, rappresaglia. A volte, nelle situazioni conflittuali, le posizioni scisse e inconciliabili dei genitori rischiano di alimentare nei figli comportamenti indotti e non spontanei. Vissuti di confusione e richieste di alle-
8 Cfr. G. Salonia (2013b), L’esser-ci-tra. Aida e confine di contatto in Bin Kimura e in Gestalt Therapy, in B. Kimura, Tra. Per una fenomenologia dell’incontro, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 5-20. 9 Cfr. G. Salonia (2012), Teoria del sé e società liquida. Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 3, 33-62.
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In Gestalt Therapy la capacità di essere genitori positivi rientra nell’ambito della funzionePersonalità e i comportamenti (o, peggio, i vissuti) non orientati in tal senso sono da attribuire a disturbi di questa funzione del Sé
Non è semplice far emergere la consapevolezza che si rimane sempre genitori-con anche quando gli ex-coniugi vivono sentimenti intensi di odio, vendetta, rappresaglia
In queste circostanze la strada migliore per rendere possibile la cogenitorialità si rivela – in modo paradossale – la rinuncia all’essere genitori-con
Il recupero della funzione genitoriale di madre e di padre in questi casi è possibile solo uscendo dalla logica di essere d’accordo, confinando la conflittualità dentro la coppia e lasciando fuori la maternità e la paternità
anze esclusive contro l’altro genitore sono comunque continue lacerazioni per i figli. In queste circostanze la strada migliore per rendere possibile la cogenitorialità si rivela – in modo paradossale – la rinuncia all’essere genitori-con. Lo esprimo con un esempio: in terapia, due genitori separati raccontano di vivere con pesantezza le incessanti telefonate che ognuno dei due fa all’ex coniuge che in quel periodo ha la custodia del figlio. Di fatto i due genitori erano delle persone molto rigide, apparentemente diverse ma simili nelle reciproche telefonate fatte per avere continui aggiornamenti sul figlio (Sta dormendo? Sta giocando? Sta bene? Ha mangiato?) o addirittura controllare ed eventualmente correggere la competenza educativa dell’altro ex coniuge. Evidente è la sensazione di ognuno dei due genitori di essere ‘il migliore’ e, di conseguenza, di non potersi fidarsi totalmente dell’altro. La relazione ‘genitoriale’ si è rasserenata quando i genitori hanno attuato la consegna di mettere tra di loro un confine: quando il bambino stava con un genitore, l’altro non doveva chiamare né il bambino né il genitore. In altre parole, essere padre e madre da soli. Il recupero della funzione genitoriale di madre e di padre in questi casi è possibile solo uscendo dalla logica di essere d’accordo, confinando la conflittualità dentro la coppia e lasciando fuori la maternità e la paternità. La madre con un sorriso spiegò l’efficacia della consegna: «In effetti è vero: non mi sento più capace di stare con mio figlio da sola, ho sempre la sensazione che da un momento all’altro suo padre mi possa chiamare ed io mi sento sbagliata e non naturale». In queste situazioni il rischio è di essere influenzati, in modo determinante ma improprio, in vissuti intimi e profondi, perdendo l’esperienza di essere, sempre e comunque, madre/ padre di un figlio.
Aluette Secondo la GT, in che modo il costrutto del coparenting è connesso alle funzioni del Sé, ed in particolare alla funzionePersonalità (del Sé familiare)? Valeria Secondo la visione della Gestalt Therapy (GT), vivere pienamente il proprio essere genitore significa coniugare e integrare
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quello che ‘io sento’ – affetto, vicinanza, insicurezza/sicurezza, inadeguatezza/adeguatezza (funzione-Es del Sé, che focalizza le sensazioni corporee che provengono dal ‘dentro la pelle’10) – con l’interrogativo «Chi sono io che sento questo?» – padre/madre, uomo/donna, marito/moglie (funzione-Personalità del Sé, ovvero l’assunzione di ciò che l’individuo è, la struttura responsabile del Sé11). È utile coniugare spontaneità e sapere, lasciarsi guidare dall’esperienza nella sua interezza, sentire e – nello stesso tempo – comprendere di essere padre o madre di questo/a figlio/a. Essere genitore, infatti, è qualcosa di unico che appartiene innanzitutto al proprio corpo e solo successivamente diventa pensiero (giusto), parola (azzeccata), comportamento (adeguato)12. La crescita ha bisogno di due prospettive e di uno stile educativo che non sia né scisso né inconciliabile. Se c’è rispetto e gratitudine per il pensiero dell’altro genitore, qualunque soluzione risulterà altamente educativa13. Perché ciò sia possibile si deve poter avere fiducia nella funzione genitoriale propria ed altrui e pensare che, ascoltando i figli e vedendo i loro bisogni, è possibile comunque garantire loro una crescita adeguata e funzionale. Giovanni Il rapporto cogenitoriale ‘appartiene’ al bambino, che avverte nel suo essere accudito da due genitori il loro tipo di relazio-
10 Cfr. G. Salonia, V. Conte, P. Argentino (2013), Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani; G. Salonia (2012), Teoria del sé e società liquida. Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy, cit. 11 Cfr. F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, Astrolabio, Roma; A. Sichera (2012), La funzione-Personalità nel testo Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 3, 19-29. 12 Cfr. G. Salonia (2008), La psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano, 51-71; G. Salonia (2012), Teoria del sé e società liquida. Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy, cit. 13 Cfr. G. Salonia (2009), Letter to a young gestalt therapist for a gestalt therapy approach to family therapy, cit.
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Secondo la visione della Gestalt Therapy (GT), vivere pienamente il proprio essere genitore significa coniugare e integrare quello che ‘io sento’ – affetto, vicinanza, insicurezza/sicurezza, inadeguatezza/ adeguatezza – con l’interrogativo «Chi sono io che sento questo?» – padre/ madre, uomo/donna, marito/moglie
La crescita ha bisogno di due prospettive e di uno stile educativo che non sia né scisso né inconciliabile. Se c’è rispetto e gratitudine per il pensiero dell’altro genitore, qualunque soluzione risulterà altamente educativa
Il figlio sente se il genitore si percepisce come genitoredi o come genitorecon e, se non gli arriva la certezza che i genitori sanno di essere genitoricon, assorbe in qualche modo le conseguenze di questa loro scissione
È la relazione madre-padre che regola l’ordo amoris del triangolo primario: non ci sono situazioni di troppo amore ma situazioni di amore non ordinato, dove c’è confusione fra ruoli
La genitorialità è influenzata dall’esperienza che si vive con il proprio partner
ne. Il figlio sente se il genitore si percepisce come genitore-di o come genitore-con e, se non gli arriva la certezza che i genitori sanno di essere genitori-con, assorbe in qualche modo le conseguenze di questa loro scissione14. Sottolineo che questa scissione, questa disfunzione, è sempre dei genitori, non dei figli. Le teorie di Freud o quelle di Lacan sono state ampiamente riviste: il Sé familiare è costituito non solo dal modo in cui i genitori percepiscono la propria relazione col figlio, ma soprattutto da come vivono la relazione dell’altro genitore con quel figlio. Si parla infatti di triangolo primario. Non è una questione cognitiva, ma un sentire dentro il proprio corpo, a livello di vissuti corporei (il «sé autobiografico» di Damasio a cui abbiamo già accennato), il proprio essere genitori e parti di un triangolo funzionante (la funzione-Personalità è sempre corporea). È la relazione madre-padre (una volta si pensava che tutto dipendesse dal padre, oggi per fortuna siamo andati oltre) che regola l’ordo amoris del triangolo primario: non ci sono situazioni di troppo amore ma situazioni di amore non ordinato, dove c’è confusione fra ruoli. E la situazione di ordine o di dis-ordine è data dalla relazione dei cogenitori: ordo carnis innanzitutto, da cui deriva l’ordo amoris.
Aluette Sembrerebbe che nell’essere genitori sia impossibile non rimanere influenzati dall’esperienza che si vive con il proprio partner. Come, secondo voi, partendo dal paradigma della cogenitorialità, le relazioni della coppia primariamente e dei genitori successivamente possono essere o diventare più funzionali per la crescita dei figli? Valeria Certamente la genitorialità è influenzata dall’esperienza che si vive con il proprio partner. La consapevolezza dell’innegabile influenza che il rapporto con il partner ha sulla cogenitorialità è già un passo importante per aprirsi a delle domande e non avere risposte veloci,
14 Cfr. Ivi.
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recuperare l’umiltà di apprendere modi nuovi e più funzionali al rapporto di coppia e di conseguenza alla funzione genitoriale, che dalla coniugalità viene di fatto influenzata. Spesso le coppie chiedono aiuto perché, pur essendo unite da un forte sentimento, la loro quotidianità diventa insopportabile15. I partner, infatti, non riescono a comunicare e il pensiero dell’altro sembra incomprensibile. La sensazione che si abbiano due logiche così diverse e inconciliabili è molto frequente. Chiaramente tutto questo si amplifica nelle comunicazioni riguardanti gli aspetti educativi legati alla crescita dei figli: prendere decisioni insieme, condividere scelte, regole, comportamenti e nello stesso tempo convivere con vissuti di squalifica, accusa e svalutazione reciproca. In questi casi, in genere, i figli esprimono il proprio malessere con sintomatologie varie, disagi o a volte patologie che ‘costringono’ i genitori a chiedere aiuto. Sembra che oggi le relazioni in genere, e in particolare quelle affettive, necessitino di nuovi modi di comunicare dove esprimere i propri vissuti e bisogni non annulli l’altro, di un dialogo che sia interessato all’altro e alla qualità delle relazioni. Spesso anche se si sperimenta vicinanza e affetto non si riesce ad ascoltare fino in fondo l’altro. La capacità di rimanere aperti e interessati ad un’altra prospettiva, che include il pensiero dell’altro diverso dal proprio, non è facile, spesso si ha la sensazione che si parli per dimostrare la verità senza nessuna sensazione che la propria verità possa essere vera senza essere necessariamente giusta o sbagliata, migliore o peggiore dell’altra. La qualità delle relazioni non implica l’assenza di conflitti o la soluzione precoce degli stessi, ma modi nuovi e strumenti per attraversare la conflittualità, come ad esempio continuare a comunicare senza necessariamente condividere nell’immediatezza. Dialogare e capirsi nel rispetto delle differenze è ancora un compito aperto che comporta il lasciare spazio alla soggettività in maniera inedita, dove l’autoaffermazione di sé raggiunge la sua pienezza dentro la relazione con l’altro diverso da sé.
15 Cfr. V. Conte (2008), Essere coppia nella post-modernità, in A. Ferrara, M. Spagnuolo Lobb (eds.), Le voci della Gestalt. Sviluppi e innovazioni di una psicoterapia, Franco Angeli, Milano, 168-173.
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Spesso le coppie chiedono aiuto perché, pur essendo unite da un forte sentimento, la loro quotidianità diventa insopportabile
Sembra che oggi le relazioni in genere, e in particolare quelle affettive, necessitino di nuovi modi di comunicare dove esprimere i propri vissuti e bisogni non annulli l’altro, di un dialogo che sia interessato all’altro e alla qualità delle relazioni
Riconoscere che il pensiero dell’altro, seppur diverso dal nostro, ci parla anche di noi, delle nostre paure e difficoltà, è importante per non rimanere cristallizzati in modalità iniziali di vivere il rapporto
Sentire che non si può da soli educare un figlio è il punto di partenza della cogenitorialità
Il femminile e il maschile, nelle visioni educative, incarnano le due prospettive centrali dell’educazione: l’esserci e il divenire. Si tratta di due spinte educative che comunque devono essere co-presenti nella educazione del figlio
A volte tutto questo determina smarrimento e delusione nei confronti dell’altro, sofferenze e incomprensioni. Riconoscere che il pensiero dell’altro, seppur diverso dal nostro, ci parla anche di noi, delle nostre paure e difficoltà, è importante per non rimanere cristallizzati in modalità iniziali di vivere il rapporto, per aprirsi a nuove risorse ed energie creative, per crescere nella relazione con l’altro, facendo in modo che ciò possa diventare pienezza per entrambi nella coppia. Una coppia nel tempo della sua esistenza non può non attraversare delusioni e insoddisfazioni e se i partner non trovano gli strumenti per superare la fisiologica crisi, che permette alla coppia di evolvere dall’iniziale modo di stare insieme ad un legame più profondo, la coppia stessa finisce. Il confine labile e incerto tra la possibilità di pienezza o di fallimento della coniugalità e della genitorialità è una grande sfida che ci apre a inedite risorse della postmodernità. Giovanni Anche se l’altro genitore, per svariate ragioni, non è fisicamente presente, il genitore che si trova da solo deve chiedersi: «Cosa direbbe, cosa farebbe lui/lei?». Solo in un’ottica di confronto, di revisione delle certezze, si diventa genitore-con. Sentire che non si può da soli educare un figlio è il punto di partenza della cogenitorialità. Un collocarsi al di là di ogni pensiero unico e univoco. Il confronto, si sa, è crescita: non solo per il figlio che viene co-educato, ma per ogni genitore. Sì, genitori che entrano in logiche relazionali veramente e profondamente dialogiche, l’incontro nella ‘terra di tutti e di nessuno’, trasmettono modalità funzionali alla crescita e sviluppano a loro volta sempre più la propria competenza relazionale proprio perché genitori (possiamo parlare di ‘fasi evolutive dei corpi bambino-genitori’). Il femminile e il maschile, nelle visioni educative, incarnano le due prospettive centrali dell’educazione: l’esserci e il divenire. Si tratta di due spinte educative che comunque devono essere co-presenti nella educazione del figlio. Ogni genitore assume una di queste prospettive ma si apre all’altra nella consapevolezza che la prospettiva dell’altro cogenitore è indispensabile. È un modelling per i figli questo (al di là del loro facile schierarsi con il genitore più propenso al divenire che al custodire) e una ricchezza per la società, che ha bisogno di logiche relazionali.
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Aluette In riferimento alla coppia, Valeria, fai riferimento alla traità primaria e ci fai intravedere le sfide o i diversi percorsi verso cui una coppia (coniugale e cogenitoriale) può andare, scorgendo una sorta di ‘bivio’ tra vissuti di pienezza e fallimenti. Da un punto di vista clinico, nella tua esperienza con le coppie è possibile superare il senso di vuoto o di fallimento per sentire (e sentirsi) nella pienezza con l’altro partendo proprio dalla coordinazione triadica? Valeria Vuoto e fallimento dopo una separazione si esasperano se accuse e sbagli vengono solo proiettati sull’altro, una sorta di dipendenza e controdipendenza difficile da sanare perché resta fuori da se stessi; occorre lavorare verso un tornare a se stessi (traità intrapersonale) attraverso la relazione terapeutica che permette di ripercorrere i percorsi interrotti con le traità primarie nella costituzione della traità intrapersonale.
Aluette Secondo la visione della GT, è possibile vivere pienamente il proprio essere genitore partendo innanzitutto dal proprio corpo. In che modo la dimensione corporea (e l’intercorporeità) può orientare una coppia genitoriale nello svolgimento delle funzioni di cura? Giovanni Come dicevo, la funzione-Personalità è corporea. I pensieri di identità e quelli relazionali nascono dal corpo, si evolvono nel corpo e si esprimono col corpo. Un corpo che desidera da un genitore un gesto senza che questo arrivi (il ‘gesto mancato’) resta proteso in attesa, assume posture antalgiche che fungono sul momento da protezione, ma quell’adattamento creativo a lungo andare produce sofferenza, diventa interruzione di contatto. Aver goduto, viceversa, di una traità intercorporea libera e sana, in cui il genitore non teme di avvicinarsi al figlio e di lasciare che questi si avvicini a lui, in cui il genitore permette la spontanea espressione di sentimenti, emozioni, desideri, nella fiducia che tutto ciò che è ben contestualizzato può solo gio-
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Secondo la visione della GT, è possibile vivere pienamente il proprio essere genitore partendo innanzitutto dal proprio corpo
I pensieri di identità e quelli relazionali nascono dal corpo, si evolvono nel corpo e si esprimono col corpo
Sentirsi uomini e donne nella pienezza della propria identità di genere, capaci di ‘pensarsi’ col cogenitore accanto, vivere in una dimensione ‘familiare’, lascia fluire con armonia e calore ogni contatto
vare alla persona e alla relazione, fa crescere come persone autentiche, capaci di vivere in pienezza i propri percorsi relazionali. Nello sfondo di una relazione fra genitore e figlio/a sano/a e libero/a c’è ovviamente una relazione fra i genitori altrettanto serena o almeno – come dicevamo – gestita con serenità. Sentirsi uomini e donne nella pienezza della propria identità di genere, capaci di ‘pensarsi’ col cogenitore accanto, vivere in una dimensione ‘familiare’, lascia fluire con armonia e calore ogni contatto. Lo vediamo anche nei nostri incontri di terapia familiare, quando il sedersi accanto ad un genitore o all’altro produce una danza interiore e corporea che riesce davvero a commuovere. Sembra assurdo, ma molte volte tanti grovigli si snodano solo perché finalmente ci si può avvicinare al genitore, ci si può guardare negli occhi, si può sentire il corpo proprio di fronte a quello del genitore16.
Aluette «Il legame di ogni genitore con il figlio è intrecciato e condizionato all’interno di un’articolazione triadica. Il disagio del bambino è figura che emerge dal disagio dei genitori»17. Le tue parole, Giovanni, mettono in luce l’importanza della coordinazione triadica. Allo stesso modo James McHale18 sostiene proprio come sia importante guardare al campo relazionale della triade padre/madre/bambino. Puoi descrivere con più esattezza in che modo la GT guarda al bambino in senso relazionale, piuttosto che intrapsichico, e diversamente dagli altri approcci teorici o clinici? Giovanni Certo! Facciamo però un passo indietro, altrimenti non si percepisce la portata innovativa della GT. La storia familiare triangolare per eccellenza era stata da sempre, nella tradizione occi-
16 Cfr. G. Salonia, Danza delle sedie e danza dei pronomi. La Gestalt Therapy con la famiglia, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, prossima pubblicazione. 17 G. Salonia (2013a), Edipo dopo Freud. Dalla legge del padre alla legge della relazione, cit., 36. 18 Cfr. J.P. McHale (2010), La sfida della cogenitorialità, cit.
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dentale, quella di Edipo e delle vicissitudini che gli hanno ruotato attorno. Per Sofocle i drammi di questa triade erano causati dal desiderio di potere di Edipo nei confronti del padre, cui gli dei avevano posto un freno intervenendo con la loro vendetta. Per Freud il vero motivo del contrasto familiare era una sorta di lotta di potere ma non per il trono: per il letto. Come se Edipo provasse a contendere al padre il privilegio di un amore prioritario con la donna. Era già un passo avanti, perché almeno ci si accorgeva dell’esistenza della donna, come elemento presente fra i due, ma l’ottica era pur sempre quella che una Vienna asburgica, austera e maschilista, poteva produrre. Con l’avvento della società postmoderna (e oggi orizzontale), è stato focalizzato meglio il rapporto fra i genitori e ci si è resi conto che la querelle non è fra padre e figlio ma fra padre e madre. Non è, cioè, Edipo che desidera in modo incestuoso la madre contro il padre, ma è il conflitto tra madre e padre che trova nel figlio il capro espiatorio. Edipo (il figlio) è stato finalmente liberato da attribuzioni che servivano, a mio parere, solo a giustificare le storture o inadempienze dei genitori e la questione è stata riportata nel vero alveo in cui accade. La GT fa piazza pulita delle teorie salva-genitori! Inverte il paradigma di lettura delle relazioni familiari. Guarda al triangolo primario ma lo fa in modo nuovo. Se in Freud ‘il terzo’ c’era ma restava nello sfondo, come bottino da contendersi, in altre scuole di pensiero l’elemento ‘terzo’ ha avuto maggiore attenzione, ma non si tratta solo di lasciare l’ottica diadica per assumere uno sguardo triadico. McHale e i suoi collaboratori si sono concentrati sui comportamenti reciproci, descrivendo la cogenitorialità come una sorta di coordinazione tra gli adulti; il gruppo di Losanna ha osservato le interazioni isolando momenti diversi ma restando sempre con un focus privilegiato su ciò che avviene a livello di diadi (è solo in un quarto momento finale che si osserva come il bambino gioca con ambedue i genitori); Stern addirittura cita come elemento del triangolo la nonna… La GT assume invece un’ermeneutica diversa e specifica: guarda ai vissuti e alla qualità del contatto dei cogenitori innanzitutto e, di rimando, a quello dei genitori col figlio/a. Il terapeuta della Gestalt in nessun istante perde di vista che ciò che avviene fra due è figura di ciò che avviene fra tre e non si limita ad osservare i comportamenti, ma lavora sui vissuti corporeo-relazionali: emozioni, tensioni corporee, respiro bloccato, attese, paure, resistenze e quant’altro.
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Non è, cioè, Edipo che desidera in modo incestuoso la madre contro il padre, ma è il conflitto tra madre e padre che trova nel figlio il capro espiatorio
La GT fa piazza pulita delle teorie salva-genitori!
Il terapeuta della Gestalt in nessun istante perde di vista che ciò che avviene fra due è figura di ciò che avviene fra tre e non si limita ad osservare i comportamenti, ma lavora sui vissuti corporeo-relazionali: emozioni, tensioni corporee, respiro bloccato, attese, paure, resistenze e quant’altro
Aluette Nella prospettiva fenomenologica della GT, il clinico si orienta con i vissuti sperimentati al confine di contatto, luogo in cui avviene ogni esperienza esistenziale, e non attraverso la pura osservazione dei comportamenti. In sintonia con l’approccio gestaltico, quali variabili non meramente descrittive possono invece orientare il ricercatore durante l’osservazione della triade nel campo triadico (come ad esempio per l’ LTPc19)?
Fra i vissuti che una sana relazione cogenitoriale dovrebbe generare c’è innanzitutto il rispetto o, più precisamente, il riconoscimento che l’altro genitore è interessato e intenzionato – anche se in modalità diverse – alla crescita e al benessere dei figli L’interesse per una differente prospettiva educativa – dopo il primo momento di shock – apre orizzonti impensati o sottovalutati
Giovanni A livello descrittivo guardiamo soprattutto al corpo e a tutti i messaggi che esso esprime. Dalla postura, a ogni contrazione muscolare, a uno sguardo più o meno vigile, al corrugarsi della fronte, all’espressione sempre illuminante degli occhi. Uno sguardo specifico la GT rivolge al respiro, che è il confine di contatto per eccellenza fra il dentro e il fuori. Istintivamente noi umani tratteniamo il respiro se avvertiamo tensione e lo rilasciamo se ci sentiamo distesi. Potremmo dire che la modulazione del respiro indica esattamente come sta procedendo l’esperienza del contatto. Se il respiro fosse un cursore, potrebbe tracciare – come in un sismografo – minuziosamente tutta la traiettoria percorsa durante l’incontro. Importantissima anche la prossemica: quella che – dicevamo – definiamo ‘la danza’. Non essendo descrittiva ma fenomenologica, la GT guarda però anche a ciò che è solo indirettamente osservabile: i vissuti. Fra i vissuti che una sana relazione cogenitoriale dovrebbe generare c’è innanzitutto il rispetto o, più precisamente, il riconoscimento che l’altro genitore è interessato e intenzionato – anche se in modalità diverse – alla crescita e al benessere dei figli. A questo punto sorge l’interesse per comprendere fino in fondo senza precoci interruzioni o valutazioni il pensiero educativo e l’esperienza dell’altro cogenitore. L’interesse per una differente prospettiva educativa – dopo il primo momento di shock – apre orizzonti impensati o sottovalutati. Se questi processi di riconoscimento e di interesse accadono sgor-
19 Cfr. E. Fivaz-Depeursinge, A. Corboz-Warnery (2000), Il triangolo primario, cit.
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ga spontanea una sorta di gratitudine per aver ricevuto una prospettiva che allarga l’orizzonte anche se può creare perplessità. Quando la coppia cogenitoriale, dentro e attraverso le diversità di prospettiva educativa, riesce a far emergere la gratitudine reciproca, nel triangolo familiare circolano apertura, energia, danza relazionale.
Aluette Citando il tuo pensiero, Giovanni: «la traità primaria è di fatto la prima forma di traità inter-personale tra il bambino e le figure per lui significative attraverso la quale è possibile l’accesso alla traità intra-personale. Questo è il compito primo di ogni crescita. Perché ciò avvenga è necessaria la presenza di un adulto che si prende cura e aiuta il bambino ad arrivare a se stesso. L’Io arriva a se stesso solo se un Tu lo aiuta a fare questo»20. Potresti portarci un esempio clinico? Giovanni La traità primaria – che ho elaborato in dialogo con Kimura – accade ogni volta che qualcuno si prende cura e aiuta il bambino (l’altro) ad arrivare a se stesso. È una tappa evolutiva fisiologica o un percorso di guarigione che sana le sofferenze di chi – per dirla con Kierkegaard – non è più in grado ‘di dare del tu a se stesso’21. Ricordo con sempre viva commozione una situazione in cui vennero da noi due genitori che avevano adottato una bambina che aveva all’epoca pochi anni ed era molto attiva: non stava ferma un attimo, saliva e scendeva dalla sedia, provavano a trattenerla o a prenderla in braccio ma lei si svincolava velocissima. La madre era un donnone, un po’ statica nei movimenti, rigida. Le proposi di prendere in braccio la bambina e di raccontarle qualcosa e al marito chiesi di mettersi dietro a lei mentre faceva questo. La bambina si lasciò trattenere sulle ginocchia della madre e
20 G. Salonia (2013b), L’esser-ci-tra. Aida e confine di contatto in Bin Kimura e in Gestalt Therapy, cit., 14. 21 Cfr. S. Kierkegaard (1980), Diario, Morcelliana, Brescia.
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La traità primaria – che ho elaborato in dialogo con Kimura – accade ogni volta che qualcuno si prende cura e aiuta il bambino (l’altro) ad arrivare a se stesso
Sentii nel mio corpo la tenerezza di una battuta che metteva insieme gratitudine, calore e imbarazzo
questa cominciò a raccontarle di quando l’avevano adottata: «Siamo venuti in istituto, ti abbiamo vista… avevi i capelli… ti ho presa in braccio…». Più lei raccontava più il suo corpo si rilassava, mentre la bambina ascoltava e anche il suo corpo si rilassava. Il padre era un po’ curvo su di loro, a raccogliere quasi i loro corpi in un unico abbraccio. Anche i nostri corpi erano in ascolto. Silenzio… Valeria, che all’epoca era incinta, era particolarmente commossa… Ricordi? È stato toccante. Alla fine, mentre ci salutavamo, la bambina – simpaticissima! – si è rivolta tutta corrucciata verso di me e mi ha rimproverato: «Monello!». Sentii nel mio corpo la tenerezza di una battuta che metteva insieme gratitudine, calore e imbarazzo.
Aluette La tua esperienza, Valeria, ti permette di sostenere che nei pazienti con grave disagio emotivo è venuto a mancare lo sfondo delle relazioni primarie stabili, ovvero il ground delle sicurezze di base, per cui non è stato possibile per loro sperimentare e assimilare le diverse esperienze. Quando questo accade, condividi un percorso terapeutico che ha come sfondo il recupero di un nuovo apprendere degli schemi ‘dell’esser-ci-tra’ della triade primaria (‘la casa relazionale che il paziente ha abitato’)? Valeria Certamente il lavoro con i pazienti gravi riguarda la costruzione del luogo e delle relazioni curanti. Lo sfondo scontato, ground delle sicurezze di base, si costruisce dentro relazioni primarie stabili, dove poter sperimentare e assimilare le diverse esperienze. Se ciò viene a mancare e le traità primarie, in diversi modi, non trasmettono questa sicurezza, l’esperienza necessita di essere continuamente aggiornata/verificata, come se non fosse scontato avere il terreno sotto i piedi22. Come ci ricorda Giovanna Giordano, «chi manca
22 Cfr. V. Conte (2011), La Gestalt Therapy e i pazienti gravi, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 2, 17-46.
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dell’esperienza di calore e intimità vissute primariamente nella casa, subisce una grave negazione della possibilità e del senso del suo essere nel mondo, che sarà vissuto in maniera alienata e alienante»23.
Aluette In cosa consiste il ‘cuore della cogenitorialità’? Ovvero, per essere cogenitori bisogna necessariamente condividere un pensiero unico che riduca le differenze dei partner genitoriali (di pensiero, di stile educativo, etc.)? Giovanni Le riflessioni sulla cogenitorialità spesso richiamano il famoso episodio del bambino conteso da due madri. La soluzione di Salomone di tagliare il bambino in due fece scattare nella carne della vera madre l’urlo, la vibrazione materna: «No, dallo a lei, ma non lo uccidere». L’aiuto alla cogenitorialità – specialmente nelle situazioni più drammatiche come le separazioni non consensuali – ha lo scopo di lasciare emergere nel corpo dei genitori quella potente vibrazione di genitorialità che produce la disponibilità a fare un passo indietro per un incontro cogenitoriale che ripari al dolore del figlio. Forse, allora, il cuore della cogenitorialità sta proprio nel donare agli umani una nuova consapevolezza: non sono solo i genitori ad educare i figli ma anche i figli provocano e richiedono la crescita dei genitori. Sono i figli che evitano ai genitori in conflitto di distruggersi reciprocamente conducendoli con la loro manina, i loro sorrisi, la loro tenerezza e la loro fragilità in quel locus amoenus dove ognuno impara la compassione per il proprio e l’altrui dolore, per la propria e l’altrui fragilità.
23 G. Giordano (2001), La casa, l’ambiente non umano e i pazienti gravi. Un contributo teorico-clinico nell’ottica della psicoterapia della Gestalt, in «Quaderni di Gestalt», XVII, 32/33, 70-79, 71.
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Forse, il cuore della cogenitorialità sta proprio nel donare agli umani una nuova consapevolezza: non sono solo i genitori ad educare i figli ma anche i figli provocano e richiedono la crescita dei genitori
Abstract L’intervista si apre presentando la co-genitorialità come una sfida evolutiva, una possibilità di crescita che i figli offrono ai co-genitori. Il tema del coparenting, come svolta antropologica, clinica ed epistemologica è messo in relazione con i cambiamenti sociali della postmodernità e in particolare vengono argomentati i temi cruciali che toccano la famiglia e la co-genitorialità nell’attuale contesto sociale. In particolare l’intervista affronta il tema della omo(co)genitorialità, della possibilità di essere genitori anche quando non si è più coppia coniugale o il rapporto di coppia è altamente conflittuale. Infine la curatrice si aggancia al lavoro di ricerca e clinico di Giovanni Salonia e Valeria Conte per dare una cornice teorica al costrutto del coparenting collegandolo con la teoria del Sé familiare, la teoria evolutiva, il lavoro sul corpo e la teoria del pensiero duale.
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Il suono del pensiero
Il dolore
ARTE E PSICOTERAPIA
UNGARETTI. IL DOLORE Antonio Sichera Premessa Nell’ermeneutica gestaltica il rapporto tra terapia e poesia è di tipo strutturale. Quel che avviene nel setting ha infatti – secondo i fondatori – i caratteri propri di un evento poetico, ovvero della ri-creazione di un mondo, di un contesto, di una relazione, a partire da un’esperienza piena e nutriente di contatto, che è come dire – in Gestalt Therapy – di rinvenimento della parola-corpo. Perché i terapeuti – sembra dire in controluce Goodman – possono imparare molto dai poeti. Il tentativo che facciamo oggi, incoraggiati dalla ‘bibbia’, è quello di spingerci più in là in questo sorta di sequela a cui è chiamata la prassi terapeutica, provando a porre direttamente alla poesia la domanda radicale sul dolore. Si tratta ovviamente di un esercizio di confine e non di un atto di pura sottomissione. Affinché la poesia ci risponda, in termini comprensibili e congruenti per chi ogni giorno si trova a lavorare sul disagio, essa deve essere letta e interrogata dal lato giusto, dalla prospettiva giusta. I grandi libri sono infatti, nel profondo, delle risposte a domande sempre nuove, che di generazione in generazione trovano autentica corrispondenza solo se formulate bene, se concepite come vie di accesso alle questioni, tali da orientare lo sguardo e la ricerca. Al centro del nostro ‘saggio’ di oggi c’è il libro di poesia del Novecento che forse ha affrontato nella maniera più forte e intensa possibile il tema dell’afflizione estrema, della sofferenza legata alla morte e alla mancanza: Il dolore di Giuseppe Ungaretti. In questa piccola raccolta del 1947, infatti, Ungaretti raccoglie i testi poetici scritti tra il 1937 e il 1946, anni per lui di un potente sconvolgimento della vita. Nel 1936, infatti, il poeta viene invitato dall’Università di San Paolo del Brasile a tenere la cattedra di Lingua e letteratura italiana. Ungaretti accetta e decide perciò di trasferirsi con la famiglia in Sud America. È un momento di grande successo, di pieno riconoscimento della grandezza della sua opera. Ma un destino avverso lo attende. Appena un anno dopo la partenza, nel 1937, gli muore l’amato fratello Co-
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stantino, e nel 1939, in Brasile, per una appendicite mal curata, il poeta perde il figlio Antonietto, di appena nove anni. Sempre nel 1939 scoppia com’è noto il secondo conflitto mondiale e rientrando in patria, nel 1942, Ungaretti fa in tempo a sperimentare l’orrore della guerra e soprattutto a vivere l’esperienza agghiacciante di Roma occupata dai nazifascisti. Si manifesta così, nell’esistenza ungarettiana, in maniera improvvisa e rovinosa, tutta la crudele geometria del dolore nelle sue diverse eppur terribili sfumature: la ferita suprema e immedicabile della morte del figlio, la mancanza della compagnia e della condivisione fraterne, la catastrofe della guerra insensata e impietosa. Ungaretti ne viene colpito e quasi atterrato. Scrive poche poesie, che non vorrà mai commentare o discutere, ritenendole da sempre come qualcosa di totalmente diverso dall’opera poetica consueta, il frutto di un confronto personale, lacerante e non mediato con i lutti più tremendi della sua vita. Non artificio allora, non frutto di strategia linguistica, ma bensì modo umano, il suo, di confrontarsi con quel che di più triste e inaccettabile possa accadere agli uomini. Rispetto dunque ad ogni altra rilettura poetica del dolore radicale, quella di Ungaretti assume il rilievo di una ‘testimonianza’ in poesia: il tentativo di dire, senza schermi, quel che tutti possono sentire e soffrire quando la vita è toccata da qualcosa di più forte di ogni immaginazione e di ogni sventura ‘teoricamente’ ammissibile. Mi si è fatto osservare che in modo all’estremo brutale, perdendo un bimbo che aveva nove anni, devo sapere che la morte è la morte. Fu la cosa più tremenda della mia vita. So che cosa significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è stata strappata la parte migliore di me, la esperimento in me, da quel momento, la morte. Il dolore è il libro che di più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d’essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi1.
1 G. Ungaretti (1970), Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 543. I componimenti citati sono tratti tutti da questa edizione delle poesie ungarettiane.
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È così che dobbiamo accostarci al dolore, per trarne una fenomenologia lucida e acuta del dolore portato agli estremi, ma forse pure per intravedere dentro i testi una serie di suggerimenti intimamente gestaltici riguardo alle mosse e agli spazi della terapia. Ma cominciamo dal principio.
Per una fenomenologia ungarettiana del dolore Tutto ho perduto dell’infanzia E non potrò mai più Smemorarmi in un grido. L’infanzia ho sotterrato Nel fondo delle notti E ora, spada invisibile, Mi separa da tutto. Di me rammento che esultavo amandoti, Ed eccomi perduto In infinito delle notti. Disperazione che incessante aumenta La vita non mi è più, Arrestata in fondo alla gola, Che una roccia di gridi. Il dolore comincia da questa poesia semplice e intensa, come una confessione che nasconde nel suo seno una sottile analitica dell’esserci nel suo patire sulla soglia ultima, mortale. Il dolore nella forma estrema appare in Tutto ho perduto come una separazione da un tempo mitico e felice, il tempo dell’infanzia, la cui immagine potente è quello «smemorarmi in un grido» che dice la condizione vocale del corpo prima della parola. Il grido precede l’articolazione linguistica ed è la modalità originaria del suono emesso senza soluzione di continuità da un corpo ancora non parlante, privo di memoria, puramente abbandonato alla vita in un eterno presente senza storia. È da questa letterale in-fanzia che è stato allontanato il poeta, costretto
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seppellire l’eden «nel fondo delle notti» e quindi a rimanere «separato da tutto», perché quando si è staccati dalla sorgente della vita non si può incontrare il mondo. (In questo senso, sia detto per inciso, ogni disagio psichico grave potrebbe essere letto poeticamente come una cronica, disastrosa perdita dell’infanzia). Colei o colui per cui si esultava (è questa l’unica realtà che torna alla mente del poeta) non è più e il sofferente si sente perduto «in infinito delle notti», che è un infinito dalla forma notturna e seriale, quasi per suggerire che nel dolore lancinante del distacco dall’amato l’infinito ‘è’ le notti, ovvero non ‘una’ notte di prova, ma un perpetuo spazio notturno in cui ci si perde senza speranza del giorno, senza la sensazione di un’alba possibile. La vita ora è disperazione, che aumenta «incessante». Perché non si tratta qui di una disperazione filosofica, contornata dal pensiero, ma si discorre della disperazione ‘sentita’, che come in un tremendo climax cresce oltre ogni limite, alla stregua di un tachimetro impazzito. Quando si soffre così, la disperazione non ha una soglia, non ha un punto estremo, ma si avvita su se stessa e si autoalimenta. E in perfetto sincronismo la vita si arresta. Ed è un blocco collocato nel corpo, nella gola. I «gridi» non sono qui il segno vivente di una mancanza infantile e beata della parola, ma la fine disperante, l’impossibilità radicale di quella parola che potrebbe narrare e dare senso, di quella «pietà» che in Mio fiume anche tu «in grido si contrae di pietra». «Duri come la roccia» questi gridi che fanno muro nella gola, che non liberano ma ottundono, impediscono, pietrificano la vita e interrompono il respiro. Perché il grido del dolore ultimo è muto, non è scenografico, e dunque non apre all’aria, ma la blocca. Che cosa resta allora? Solo il desiderio urgente, spasmodico, lancinante del corpo dell’altro: «Se tu mi rivenissi incontro vivo, / Con la mano tesa, / Ancora potrei, / Di nuovo in uno slancio d’oblio, stringere, / Fratello, una mano» (Se tu mio fratello). È un’immagine efficacissima e potente. Si è lì, caduti dall’infanzia, separati dalle fonti, immersi in una notte infinita, soggetti ad una disperazione senza limiti, con un solo desiderio nel cuore: poter toccare ancora quel corpo, poterlo riavere, stringergli la mano, come si fa in un patto, in un’alleanza che si vorrebbe eterna. Perché non c’è nulla da fare: quello che ci manca di lui, o di lei, è il corpo. È lo stigma stesso
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dell’umano, la condizione elementare e mai sfuggibile. Da lì si comincia, perché si nasce da un corpo, dopo aver abitato un corpo, ed essendo stati posti, una volta apparsi alla luce, sul ventre di un corpo-dimora. Ma il desiderio è tanto potente quanto «spoglio» (Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto); è come un albero deciduo d’inverno, poiché il dolente nella forma estrema sente l’albero della vita, l’albero della sua vita (di cui il desiderio è la linfa vitale) esaurito e spoglio, senza verde, senza gioia, battuto da un perenne inverno: «Per uno spoglio desiderio, inverno, / Distende la stagione più clemente» (eco voluta dell’«April is the cruellest month» di Eliot). È in questi momenti supremi e insostenibili che la memoria mostra il proprio limite all’homo patiens: «Ma di te, di te più non mi circondano / Che sogni, barlumi, / I fuochi senza fuoco del passato. / La memoria non svolge che le immagini / E a me stesso io stesso / Non sono già più / Che l’annientante nulla del pensiero». Colui o colei che manca torna nei sogni, si lascia intravedere nel flusso quotidiano delle cose, come un barlume improvviso si riaccende nei fuochi della memoria, che senza il corpo appare però al dolente come il lampeggiare di una serie di fuochi senza fuoco. Perché il fuoco, che può accendere davvero gli altri fuochi, è solo il corpo dell’altro. Alla memoria appartengono semplicemente le immagini, che si svolgono nella mente come in un nastro. E per questo – sembra dire il testo con una sentenza affilata – per il sé, per nucleo più denso e vitale di chi soffre, l’io si identifica con l’«annientante nulla del pensiero», se nulla è il pensiero a paragone del corpo, e se, come in un movimento di controcreazione, la prigionia dell’io nel pensiero distrugge e annienta la realtà perduta e carnale, contro ogni esaltazione moderna del Cogito e dell’Ich denke. Eppure la vita è lì, inevitabile, e bisogna affrontare il flusso dei giorni: «E discorro, lavoro, / Sono appena mutato, temo, fumo…» (Nessuno, mamma,). Mentre la spada attraversa il cuore, l’uomo sofferente, immerso nel dolore, ‘deve’ lavorare, e mentre percepisce quasi immutato il proprio aspetto, sa che nulla è ormai come prima: ad assediarlo è il timore che dopo il colpo subito la vita resti in agguato per colpirlo ancora, e si attacca al fumo, ad ogni tipo di dipendenza che lo plachi. In realtà, per il dolente estremo, il tempo è muto, lo spazio è fissità: «Il tempo è muto fra canneti immoti». Non c’è movimento
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per lui, non si dà scorrere di kronos. Il suo spazio è privo di anima e di vita, perché il tempo-spazio del dolore è una scena senza scene, un quadro orribilmente fisso, se nella mancanza dell’altro si è piantati e nulla più davvero non accade, come in un perenne inverno («Non più furori arreca a me l’estate, / né primavera i suoi presentimenti; / Puoi declinare, autunno, / Con le tue stolte glorie», Nessuno, mamma). Il silenzio avvolge tutto: «nel mistero delle proprie onde / Ogni terrena voce fa naufragio”. La casa che prima era riparo ora è un affollarsi di oggetti senza scopo, come una tana che all’animale ferito si offre, ma senza senso umano («E quando squillano al tramonto i vetri, / Ma le case più non ne hanno allegria […] Non uno dei presenti sparsi oggetti, / Invecchiato con me, / O a residui d’immagini legato / Di una qualche vicenda che mi occorse, / Può inatteso tornare a circondarmi / Sciogliendomi dal cuore le parole», Folli i miei passi). Per le strade, l’atterrato dal destino vaga come un automa, e le «grazie / Piene di tempo» in cui esse si svolgevano amiche, misurando con i loro segni l’esistenza, ora non sono più. È come se tutto fosse avvolto da una nebbia, come se «mondo e mente», io e realtà, dentro e fuori fossero «la stessa illusione», lo stesso nulla (Il tempo è muto). E se qualcosa pare accadere, se il ritmo della vita per un attimo ritorna, subito si è afflitti dal non poterlo più sentire accanto all’amato («Sono tornato ai colli, ai pini amati / E del ritmo dell’aria il patrio accento / Che non riudrò con te, / Mi spezza ad ogni soffio», Nessuno, mamma), mentre sale ad intervalli in cuore il rimorso sordo di una mancata, inefficace difesa della vita dell’altro («Quella voce d’anima / Che non seppi difendere quaggiù», Nessuno, mamma). Non restano allora che due strade. Il sapere la propria morte ineluttabile («Passa la rondine e con essa estate, / E anch’io, mi dico, passerò»), quale unico triste ristoro del poeta davanti alla perdita cocente di colui che lo avrebbe consolato in vita («Mi porteranno gli anni / Chissà quali altri orrori, / Ma ti sentivo accanto, / M’avresti consolato»). Ovvero la ribellione, contro la morte «incolore e senza sensi», che può azzannare anche un bambino coi suoi «denti impudichi» – perché la morte è il contrario della bellezza colorata della vita, è l’opposto di quel godimento che i sensi aperti di ogni uomo sperimentano come un dono spontaneo nel centro del giardino –, e lo
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strazio: «Come si può ch’io regga a tanta notte?»; «E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto». Nessuno può chiedere ad un uomo di reggere ad un dolore più forte di lui, ma nessuno può impedirgli di amare nell’assenza e nella morte, e di sentirsi spiantato, sradicato dalla vita così come spiantato è stato Antonietto, come spiantato è ogni amato sottratto all’abbraccio dell’amante. È l’amore forte come la morte, che non può finire, che attraversa ogni momento. Nello schianto – che rimanda allo «schiantare» dantesco, e cioè al «Perché mi spiante?» gridato da Pier delle Vigne il cui corpo tramutato in pianta sanguina nel XIII dell’Inferno – c’è dunque il senso della lacerazione del corpo, dell’essere divelti, del dolore fortissimo e improvviso che schianta, che fa scoppiare il cuore. Così accade nell’esperienza estrema dell’algos, nella fenomenologia corporea ed esistenziale del soffrire ultimo che la poesia ci restituisce con una precisione chirurgica, con un calore bianco, con un battito infallibile. La finezza di questa analisi dell’anima è intimamente gestaltica. Quel che Il dolore ci ha detto, infatti, fra le tante cose che avrebbe potuto dirci, nasce nel fondo implicito dell’inchiesta, dalle domande proprie di una sensibilità continua al soffrire dell’altro, da uno sguardo attento alla superficie e all’ovvietà, da uno scandaglio rispettoso ma non ipocrita o mistificante di quanto ci accompagna e ci attraversa nei momenti più duri e dolorosi, così come nei disagi costanti della vita. Eppure la nostra quête non può finire qui. In ascolto del Dolore, ci è dato di scoprire infatti come il poeta che dice il proprio soffrire, che mette parole al soffrire di tutti, può farsi terapeuta di questo abbattimento mortale, indicandoci qualche via di guarigione e di speranza.
La poesia come terapia Ripartiamo da una domanda inevitabile. Che cosa è chiamato a fare il terapeuta, o almeno il terapeuta della Gestalt, di fronte a quanti si trovano nella distretta più grande, sull’orlo della disperazione e della morte, di fronte ai sofferenti di ogni tipo e di ogni dove, che mostrano nel sintomo la ferita, la lacerazione, lo schianto esibito del loro corpo, strappato
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dalla terra e dal nutrimento della vita? Il libro di Ungaretti può essere ascoltato anche in questa direzione, perché la poesia, in quanto forma della vita, ci restituisce per intuizioni quel che un’autentica teoria dell’esperienza di contatto cerca di pensare senza irrigidire. Quindi: che fare? Ungaretti pare dirci, anzitutto: ascoltare, ascoltare il silenzio, non averne paura: «Non gridate più, non gridate / Se li volete ancora udire, / Se sperate di non perire». Qui il grido è il rumore dei viventi, che coprono con lo stridio delle voci il silenzio dei morti. Fare silenzio, abbassare il volume, lasciare che i morti parlino, ovvero che il corpo morto dell’altro, ma anche le parti morte del sé abbiano diritto di parola nel setting, possano esprimersi con libertà, coltivate delicatamente dal terapeuta-poeta così come si coltiva, senza far nulla ma in religiosa attesa, l’erba che cresce nel campo: «Hanno l’impercettibile sussurro, / Non fanno più rumore / Del crescere dell’erba» (Non gridate più). Solo creando, consentendo l’ascolto e l’espressione della morte, che abita nel corpo del dolente («Nelle vene già quasi vuote tombe / L’ancora galoppante brama», Nelle vene) può ricominciare a farsi spazio la parola, che sarà forse in principio lamento, ma che poi guadagnerà il ritmo del corpo, aprendolo di nuovo al linguaggio come via privilegiata per ritrovarsi nel mondo, di fronte all’altro: «Fa, nel librato paesaggio, ch’io possa / risillabare le parole ingenue». Il corpo che si dice riprende le mosse dalle parole nativa, le poche parole vere che si possono cavare dal dolore estremo risillabate, riconsegnate alla voce infantile, che a parlare impara sillabando e storpiando, ma che ogni volta, imparando a dirsi, fa come Adamo riapparire e benedire il creato. Perché ritornare alle origini della parola, ricominciare a dirla, innocente, priva di ogni orpello, pura, è il frutto più intimo e struggente del dolore attraversato in terapia, dove necessariamente non possono trovare posto i rumori mondani. Il dolore è fonte, nel setting gestaltico, di una rigenerazione del linguaggio, mossa da un desiderio inestirpabile, che il dolente si porta dentro, di purezza, di autenticità, di verità delle parole. Poche, contate, misurate: ‘le’ parole, dice Ungaretti. Esse soccorrono chi soffre fino allo spasimo, e il desiderio del paziente, sostenuto dall’ascolto del silenzio, dal confronto con la morte, dal lavoro sul corpo spento insieme al terapeuta, punta alle stesse, poche parole vere a cui punta la
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grande poesia. Solo queste parole possono aprire il corpo, riscattare dal rimorso, scoperchiare le tombe e farsi annunzio sommesso della vita: «Dal rimorso, latrato sterminato, / Nel buio inenarrabile / Terribile clausura, / Riscattami, e le tue ciglia pietose / Dal lungo tuo sonno sommuovi […] Insperata risùscitati, / Misura incredibile, pace;» (Nelle vene). E solo grazie a questo lavoro, nel Dolore ungarettiano così come nella vita di chi è stato accompagnato verso la parola che libera e che riscatta, si riscoprono lentamente e con grande stupore i segni della vita, le epifanie della bellezza, le sorprese e gli avventi di quanto sembrava ormai muto e impossibile. Senza idilli e senza accelerazioni inutili, ma con la consapevolezza che il velo rimasto nel corpo dopo il soffrire, dopo il morire, non è il vessillo del lutto ma il residuo dell’amore (per l’altro, per l’altra, per la vita) che straziandoci ci ha fatto crescere e diventare più uomini: «Ma resti dell’amore che mi strazia, / Non solo segno un breve appannamento / Se dall’inferno arrivo a qualche quiete» (Nessuno, mamma). Per altro verso, il bimbo musico, sorgente per il poeta di una speranza rinnovata, è forse l’incarnazione ultima del terapeuta e del suo lavoro, e su di lui chiudiamo: «Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso / Lo slancio muto della tua speranza. / Sono per te l’aurora e intatto giorno» (Nessuno, mamma).
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Ambizione
NUOVE APPLICAZIONI CLINICHE
IL CRAMPO DEL VIOLINISTA LA GESTALT THERAPY NEL TRATTAMENTO DELLA DISTONIA FOCALE ALLA MANO DEL MUSICISTA Giovanni Turra e Elena Ponzio
La distonia può essere causata da molti fattori, e certamente alcuni fattori predisponenti possono essere anche lo stress psicologico, psicosociale e fisiologico
La distonia focale alla mano, o Focal Hand Dystonia (FHD), è definita come un disordine del movimento, caratterizzato da contrazioni involontarie e improvvise dei muscoli della mano. Spesso si incontra in soggetti quali i musicisti e in questi casi assume il nome comune di ‘crampo del musicista’. Dagli studi e dai risultati delle elettromiografie è stato dimostrato che in questa disfunzione avvengono delle co-contrazioni dei gruppi muscolari agonisti e antagonisti e un’iper-attivazione di muscoli non appropriati1. Circa l’1% dei musicisti professionisti è affetto da distonia focale alla mano e, nella maggior parte dei casi, i disordini di movimento che ne conseguono portano alla fine della loro carriera. L’eziologia di questa malattia è ancora sconosciuta e imprecisa. La distonia può essere causata da molti fattori, e certamente alcuni fattori predisponenti possono essere anche lo stress psicologico, psicosociale e fisiologico. Non vi è ancora sicurezza sull’efficacia delle terapie e soprattutto non vi è una concordanza tra le cure e le terapie riabilitative messe in atto per questi pazienti. Vi è inoltre da considerare l’aspetto del disagio psicologico e sociale dei musicisti colpiti da tale disfunzione, la quale ne limita il senso di pienezza espressiva e professionale. Ai necessari esami e interventi neurologici, ortopedici e fisioterapici si è dunque pensato di affiancare il sostegno psicoterapeutico secondo il modello teorico-clinico della Gestalt Therapy (GT). La GT, con il suo approccio fenomenologico, la teoria del ciclo di contatto e dell’integrazione delle funzioni del Sé, l’intercorporeità, la ricerca sul gesto mancato e atteso, la postura antalgica e il corpo complementare (nonché la clinica sull’anxiety), è ritenuta un modello adeguato al sostegno psicoterapeutico per il musicista in riabilitazione affetto da FHD. Ciò è possibile se 1 Cfr. L.G. Cohen, M. Hallett (1988), Hand cramps: clinical features and electromyographic patterns in a focal dystonia, in «Neurology», 38, 1005-1012.
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il paziente viene considerato nella globalità dei suoi bisogni, a partire dalla prima necessità di vivere sensibilmente la propria condizione, di esplorare i suoi vissuti prima e dopo l’insorgere del disturbo, superando la dicotomia mente-corpo, guidandolo nei suoi tentativi di modificare la propria condizione, cioè il recupero del ‘gesto musicale’ colpito dalla FHD.
La libertà del gesto musicale come tema psico-fisico ed esistenziale. Della libertà del gesto musicale si considerino alcuni aspetti: la corrispondenza del gesto con la sensibilità personale (formatasi nelle relazioni precoci), con la postura (anch’essa ‘storia’ di relazioni) e con l’ambiente. La sua genesi è quindi nel ‘contatto’ tra Organismo (da qui in poi solo O.) e Ambiente (solo A.). Nella sua spontaneità, il gesto rappresenta dunque il Sé in contatto del musicista e, in secondo luogo, l’assenza di sforzo (fluidità) e di tensioni che impediscono lo scorrere normale del movimento. Due sono i problemi in cui il musicista può incappare: da un lato il tecnicismo, in cui si tende a staccare l’esecuzione strumentale da un sentire propriamente corporeo; dall’altro invece l’eccessivo coinvolgimento, dove il sentire si tramuta in una tensione a livelli sovrabbondanti e che, allo stesso tempo, rischia di impedire il fluire della musica. Anche l’eccessiva tendenza al controllo altro non è che tensione che interferisce e impedisce la libertà e la spontaneità del gesto. Spesso il musicista è ossessionato dal cercare di controllare quei processi corporei che invece, se lasciati alla loro naturalezza, ‘suonerebbero bene’ da soli. In questo si può situare l’importanza del gesto: la fiducia nella spontaneità del gesto musicale e nei processi che il proprio corpo esegue. Ecco perché i pazienti hanno bisogno di un lavoro di tipo percettivo e affettivo-relazionale riguardante la stabilità e la flessibilità corporea, il Modello Relazionale di Base e la loro storia relazionale, anche in relazione all’attività musicale2. Maggiore
2 Cfr. G. Salonia, V. Conte, P. Argentino (2013), Devo sapere subito se sono vivo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani.
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Nella sua spontaneità, il gesto rappresenta dunque il Sé in contatto del musicista e, in secondo luogo, l’assenza di sforzo (fluidità) e di tensioni che impediscono lo scorrere normale del movimento
In questo si può situare l’importanza del gesto: la fiducia nella spontaneità del gesto musicale e nei processi che il proprio corpo esegue
Maggiore è la capacità del soggetto di fidarsi di sé, di auto-sostenersi e affidarsi all’A. e allo strumento musicale, migliore sarà la capacità di creare gesti musicali spontanei e fluidi. La musica così diventa gesto e il suono torna a essere corpo, ‘circuito’ che crea la possibilità di espressione artistica
è la capacità del soggetto di fidarsi di sé, di auto-sostenersi e affidarsi all’A. e allo strumento musicale, migliore sarà la capacità di creare gesti musicali spontanei e fluidi. La musica così diventa gesto e il suono torna a essere corpo, ‘circuito’ che crea la possibilità di espressione artistica. L’arte viene in questo senso intesa sia come stabilità e flessibilità di un ‘gesto in relazione’ che traduce in suono il pensiero musicale codificato nello spartito, sia, all’inverso, come traduzione del suono in ‘relazione corporea in divenire’. Il musicista dunque utilizza lo strumento musicale come ‘strumento’ di traduzione della propria corporeità in spazio sonoro.
La Music Performance Anxiety (MPA) in relazione all’Anxiety in GT. Sebbene la FHD sia un disturbo neurologico del movimento in assenza di dolore, è stata comunque dimostrata da Marsden e Sheehy3 la possibile componente psicologica come uno dei fattori scatenanti. Successive ricerche suggeriscono che i musicisti con FHD dimostrano di avere un eccessivo investimento nella valutazione conscia degli errori, che potrebbe essere correlata a una eccessiva e costante auto-valutazione degli adeguamenti comportamentali e del movimento durante l’esecuzione musicale4. Ciò ci conduce dunque a tenere in considerazione l’ipotesi del trattamento psicoterapeutico come coadiuvante nel trattamento della FHD. La particolare forma di Anxiety che si incontra più spesso nei musicisti è quella che da diversi autori è definita come Music Performance Anxiety (MPA). Kenny ha recentemente proposto una definizione di MPA che è allineata con la ricerca sui disturbi d’ansia e la fobia sociale: «La MPA è l’esperienza della marcata e persistente apprensione ansiosa correlata alla performance musicale
3 Cfr. C.D. Marsden, M.P. Sheehy (1982), Writers’ cramp-a focal dystonia, in «Brain», 105, 461-480. 4 Cfr. E. Altenmüller, H.C. Jabusch (2010), Focal dystonia in musicians: phenomenology, pathophysiology and triggering factors and treatment, in «Medical Problems of Performing Artists», 25, 1, 3-9.
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che si è creata attraverso specifiche esperienze di condizionamento ansiogeno. Esso si manifesta attraverso combinazioni di sintomi affettivi, cognitivi, somatici e comportamentali e può verificarsi in una serie di setting performativi, ma è di solito più grave in contesti che coinvolgono alti investimenti dell’ego e la minaccia della valutazione. Può verificarsi in comorbidità con altri disturbi d’ansia, in particolare la fobia sociale.» (T.d.A.)5. Molti musicisti soffrono di MPA. Ciò detto, avvalersi della teoria e della prassi della GT nel trattamento della FHD e della MPA, spesso tra loro associate nel musicista, ci sembra essere una scelta epistemologicamente valida. In GT l’ansia si manifesta nel corpo in quanto interruzione dei vissuti corporeo-relazionali di un episodio di contatto, segnalando l’interruzione della sequenza dello stesso e l’arrestarsi della crescita dell’O. L’interruzione di un percorso già intrapreso e della relativa eccitazione diviene fonte di ansia e non permette all’O. di portare a termine la propria intenzionalità e di crescere. I vissuti in GT hanno tre caratteristiche: sono corporei (segnati e visibili nel corpo), relazionali (direzionati verso l’altro) e temporali (presenti in un qui-e-ora evolutivo perché inscritto in un prima o in un dopo che segna l’episodio di contatto). L’O. che inizia ad identificare il bisogno avverte un crescendo dell’eccitazione e dell’energia necessarie per mettersi in movimento verso l’A. L’ampiezza del respiro si allarga, cresce l’energia e si percepisce il corpo come maggiormente attivato. Ma avere a disposizione tanta energia intensifica di contro la paura di non sapere quale sarà il risultato. Iniziano così dei movimenti direzionati verso il confine di contatto. Se l’O. è sostenuto, si affida alla propria energia e prosegue, altrimenti, senza il sostegno specifico di questa fase, l’O. sente il proprio schema corporeo come ristretto e i propri confini più prossimi e non in espansione verso l’A. A questo punto l’eccitazione viene sentita come insostenibile e l’O. non la riconosce più come propria, ma la attribuisce all’A. Le sue azioni conseguenti risultano non ben direzionate al contatto,
5 D.T. Kenny (2009), Negative emotions in music making: performance anxiety, in P. Juslin, J. Sloboda (eds.), Handbook of music and emotions: theory, research, application, Oxford University Press, Oxford, 433.
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Avvalersi della teoria e della prassi della GT nel trattamento della FHD e della MPA, spesso tra loro associate nel musicista, ci sembra essere una scelta epistemologicamente valida
L’ampiezza del respiro si allarga, cresce l’energia e si percepisce il corpo come maggiormente attivato. Ma avere a disposizione tanta energia intensifica di contro la paura di non sapere quale sarà il risultato
Leggiamo dunque il gesto distonico come ‘postura antalgica’ successiva all’assenza di sostegno di fronte all’eccitazione e lo stato ansioso del musicista distonico come un’interruzione del contatto
La consapevolezza del proprio corpo, delle sensazioni, delle emozioni, delle variazioni di tono, è un’attività verso cui il paziente viene necessariamente guidato per diventare consapevole delle regioni corporee non ‘sentite’ e apprendere a percepire le manifestazioni della FHD
perché finalizzate a scaricare la tensione e non a raggiungere un obiettivo6. Leggiamo dunque il gesto distonico come ‘postura antalgica’ successiva all’assenza di sostegno di fronte all’eccitazione e lo stato ansioso del musicista distonico come un’interruzione del contatto. Altro elemento fondamentale nel trattamento dell’Anxiety in GT è la dimensione triadica della relazione fondativa e della psicoterapia7, in cui si considera come terapeutica non la ‘coppia’ terapeuta-paziente ma, come nella relazione genitore-figlio in cui in realtà si deve tenere presente il triangolo padre-madre-figlio, la triade terapeutaco-terapeuta-paziente. Tale co-terapeuta può essere interno, ma nel trattamento di musicisti affetti da FHD e che presentano anche MPA, la ‘coppia terapeutica’ è formata da professionisti con specificità diverse: psicoterapeuta, ortopedico, neurologo, fisioterapista, ecc. Il sostegno offerto dunque deve essere multiprofessionale, integrando l’intervento sulle disfunzioni motorie con i vissuti emotivi e corporeo-gestuali. Il fisioterapista, per esempio, non si preoccuperà solo degli aspetti fisici e cognitivi, ma considererà anche gli aspetti emotivi e relazionali. E così lo psicoterapeuta della Gestalt non si fermerà ai toni emotivo-relazionali, ma lavorerà in forma integrata con il fisioterapista, considerando le tensioni, il respiro, le contrazioni corporee e il loro ritmo, la gestualità.
Analisi fenomenologica: la FHD come postura antalgica e gesto mancato/atteso La consapevolezza del proprio corpo, delle sensazioni, delle emozioni, delle variazioni di tono, è un’attività verso cui il paziente viene necessariamente guidato per diventare consapevole delle regioni corporee non ‘sentite’ e apprendere a percepire le manifestazioni della FHD, che, abbiamo detto, non comporta dolore fisico. Il corpo del musicista subisce molte pressioni durante il lungo percorso formativo, affinché
6 Cfr. G. Salonia (2013), L’anxiety come interruzione nella Gestalt Therapy, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 33-53. 7 Cfr. Ivi, 50.
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la sua postura con lo strumento sia quella che l’insegnante ritiene più idonea all’esecuzione musicale. Durante il lungo training, molte attenzioni e annotazioni da parte dei docenti sono direttamente rivolte al corpo dell’allievo. Ciò, assieme alla qualità della relazione insegnante-allievo, gioca un ruolo non secondario nell’insorgere della FHD. Per questo diviene fondamentale nella riabilitazione la relazione che si crea tra paziente e terapeuti, nel senso che se questa sarà caratterizzata dagli stessi elementi della relazione in cui la FHD è sorta, il recupero funzionale diverrà problematico. Considerando la FHD come una postura antalgica, consideriamo il blocco muscolare-emozionale come ‘gesto mancato’. In esso vediamo il non compimento di un gesto preciso in una relazione precisa. Esso è dunque l’interruzione di una relazione con qualcuno e il luogo stesso del disagio psichico. Nell’intervento, lo psicoterapeuta e il paziente cooperano per rintracciare il ‘gesto corporeo-relazionale’ mancato8. Ecco dunque che prendere l’oggetto-violino è un gesto identitario che dà accesso a un’esperienza espressiva del Sé in contatto con l’A. La FHD, in quanto postura antalgica e blocco muscolare-emozionale, ci dice dell’interruzione di un gesto preciso in una relazione precisa. Coerentemente con questo, abbiamo dato attenzione al blocco corporeo-relazionale nel qui-e-ora con il terapeuta, attraverso cui rintracciare i gesti corporeo-relazionali mancati e/o attesi. La sperimentazione, la percezione del proprio corpo, delle proprie esperienze, ha una funzione di rivelazione. La fiducia nel sentire corporeo, secondo la prospettiva fenomenologica, per cui il corpo è l’oggetto immediato della coscienza e diventa l’intermediario tra sé e il mondo, è una delle condizioni preliminari da favorire e da ripristinare in tutto il corso dell’esperienza terapeutica con il musicista affetto da FHD9. Il contesto in cui il corpo maggiormente si viene a identificare come figura principale della scena è il vissuto di
8 Cfr. G. Salonia (2008), La Gestalt Therapy e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano, 62-63. 9 Cfr. M. Merleau-Ponty (1965), Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano, 457.
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Considerando la FHD come una postura antalgica, consideriamo il blocco muscolareemozionale come ‘gesto mancato’
La FHD, in quanto postura antalgica e blocco muscolareemozionale, ci dice dell’interruzione di un gesto preciso in una relazione precisa
Un musicista ci dice: «Sono terrorizzato dal fatto che se davvero lascio andare la mia voce, cos’altro potrà uscire con lei?»
Quando il paziente ritrova il proprio gesto mancato all’interno della relazione con il terapeuta, vive l’integrità del proprio corpo e la pienezza di sentirlo in tutte le sue parti
dolore/disagio, che tendenzialmente richiama con insistenza l’attenzione su di sé, relegando le cose del mondo in uno sfondo indistinto. È importante quindi considerare l’indagine del corpo sensibile del musicista come la via privilegiata per la comprensione dei sintomi e della sofferenza in generale e per impostare un percorso terapeutico adeguato al paziente. L’approccio relazionale e dialogico fornisce un ground di sostegno nel quale il performer viene incoraggiato a esplorare e a valutare la propria esperienza soggettiva. Una delle ragioni per cui i musicisti possono beneficiare dall’approccio della GT è che, nel suonare uno strumento musicale, sono coinvolti il corpo e il respiro (diaframma). Il diaframma, la gola, le spalle, le braccia, sono parti del corpo dove spesso si stampano emozioni ed esperienze retroflesse. Un musicista ci dice: «Sono terrorizzato dal fatto che se davvero lascio andare la mia voce, cos’altro potrà uscire con lei?». Il ciclo di contatto della GT è particolarmente efficace nel lavoro con i performer, in quanto le sue fasi di sensazione, consapevolezza, direzionalità, eccitazione e azione si rivelano nel contatto con la pratica strumentale. Nel modo in cui si apprende a suonare è già spesso evidente il ground su cui si possono creare problemi di MPA, difficoltà vocali e/o articolari, ecc. Una delle più comuni interruzioni del ciclo di contatto è ciò che i performers fanno con le sensazioni e la consapevolezza corporea: a volte essi sono disconnessi dai propri corpi e mentre suonano sono desensibilizzati. In GT la centralità del corpo e dell’azione, come esperienza autonoma che verifica e modifica i pensieri che la precedono, generandone di nuovi, è luogo in cui si sperimentano e si apprendono elementi decisivi della propria identità. Questo è molto pertinente all’esperienza del musicista distonico. La tecnica, cara alla GT, di chiedere di ripetere e amplificare un gesto per far diventare consapevoli del vissuto che quel gesto esprime (il ‘gesto mancato’), dà modo al terapeuta di offrire il sostegno specifico, in modo che il paziente possa attraversare l’angoscia correlata e portare a compimento ‘quel’ gesto che definisce in modo nuovo la relazione con il terapeuta. Il ‘gesto mancato’ è dunque un gesto preciso, unico e non sostituibile. Quando il paziente ritrova il proprio gesto mancato all’interno della relazione con il terapeuta, vive l’integrità del proprio corpo e la pienezza di
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sentirlo in tutte le sue parti. Nei ‘gesti mancati’ si racchiude la storia relazionale di una persona e ogni corpo evidenzia i segni dei gesti non compiuti e dunque di interruzioni traumatiche che non consentono l’assimilazione dell’esperienza. Il ‘gesto mancato’, la cui genesi è in una relazione passata, preme per essere compiuto ed emerge nel qui-e-ora della relazione terapeutica, presentandosi in modo originale e creativo nella situazione attuale10. Il gesto mancato resta dunque nella memoria corporea del paziente e si carica dell’eccitazione che ha bloccato il suo percorso verso il contatto pieno, trasformandosi in anxiety ogniqualvolta il desiderio riemerge. I gesti agiti nell’anxiety sono informati dal disagio perché sono gesti che stanno ‘al posto di’ altri gesti. Il sintomo distonico è dunque anche un appello alla conclusione di un episodio di contatto, quel ‘gesto mancato e/o atteso’ (e mai ricevuto) che esprime dei vissuti corporeo-relazionali11. Abbiamo quindi esplorato con i pazienti la loro storia relazionale (non solo con la famiglia, ma anche con la musica e lo strumento, gli insegnanti, i compagni/colleghi, le istituzioni), quali siano stati i loro gesti mancati/attesi, e lo abbiamo fatto con la presenza del loro strumento. Importante si è rivelato il vissuto del ‘gesto atteso’. In tali pazienti abbiamo trovato corpi che si aspettavano un gesto che, non ricevuto, ha fatto sì che il loro respiro fosse trattenuto, si concentrasse e diventasse allertato in attesa di quel gesto, in quella relazione. Tale esperienza, ripetutasi, ha fatto sì che, ogni qual volta il paziente si avvicinava a situazioni simili, sentisse il corpo contrarsi, il respiro bloccarsi, ma non ricordasse gli episodi originari. Ciò non permette di vivere con pienezza i nuovi episodi di contatto offerti dalle nuove relazioni12 e dalle nuove esperienze musicali. Così come in GT non si considera il blocco del respiro nell’ansia come un semplice blocco del respiro, ma un ‘blocco del respiro che si sta allargando’, allo stesso modo è per qualunque altro movimento e gesto, anche quello musicale. La postura distonica (che è di
10 Cfr. G. Salonia (2008), La Gestalt Therapy e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, cit. 11 Cfr. G. Salonia (2013), L’anxiety come interruzione nella Gestalt Therapy, cit. 12 Cfr. Ivi.
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Il gesto mancato resta dunque nella memoria corporea del paziente e si carica dell’eccitazione che ha bloccato il suo percorso verso il contatto pieno, trasformandosi in anxiety ogniqualvolta il desiderio riemerge
Il gesto distonico è dunque un gesto al quale il corpo ‘altro’ non ha permesso di esprimersi pienamente o che non ha ricevuto il sostegno di cui aveva bisogno
tutto il corpo del musicista con FHD) è una postura assunta per non sentire dolore. Tale postura è quella di un corpo che si blocca e non respira, di un corpo che viene portato nel mondo in quanto ‘corpo complementare’ di un altro corpo che ha provocato tale postura e che continua a influenzarla nel presente, sebbene non sia più utile. Il gesto distonico è dunque un gesto al quale il corpo ‘altro’ non ha permesso di esprimersi pienamente o che non ha ricevuto il sostegno di cui aveva bisogno. Il lavoro terapeutico ha inteso liberare i pazienti con FHD dai corpi che portavano ancora con sé e che ne impedivano la pienezza del gesto musicale. Nel gesto mancato, divenuto postura antalgica, vi è infatti racchiusa la stessa intenzionalità di contatto e di relazione del paziente e dunque la sua direzionalità e il suo next esistenziale musicale.
Il metodo co-terapeutico
Consideriamo il gesto distonico una postura antalgica, un contatto che si interrompe improvvisamente e traumaticamente; un ‘gesto interrotto’ che chiede di rivelare il ‘gesto mancato e/o atteso’ per proseguire nella crescita.
Nel lavoro con musicisti affetti da FHD, sono stati posti inoltre i seguenti parametri su cui si è basato l’intervento: Globalità: va presa in carico la globalità della persona-musicista con distonia focale e non solo la parte locale in quanto disfunzione motoria. Condizione situata: occorre aprirsi a osservare, indagare ed esser-ci con la persona e il suo problema nella sua situazione manifesta. La scena reale va colta e sperimentata nell’esperienza terapeutica. Nelle sedute psicoterapeutiche è stato importante situare il contatto, dunque le sedute psicoterapeutiche e fisioterapiche sono state condotte con il paziente e il suo strumento, considerando la scena in cui si manifesta il problema. L’esperienza in prima persona: viene presa in considerazione l’esperienza somestesica vissuta in prima persona e i relativi vissuti emotivi e relazionali. Il contatto e la sua interruzione: come già evidenziato, consideriamo il gesto distonico una postura antalgica, un contatto che si interrompe improvvisamente e traumaticamente; un ‘gesto interrotto’ che chiede di rivelare il ‘gesto mancato e/o atteso’ per proseguire nella crescita. L’intervento psicoterapeutico con i pazienti è stato contemporaneo (a volte congiuntamente, a volte separatamente, a seconda
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delle necessità) a quello fisioterapico di tipo fenomenologico e cognitivo13, per il quale il processo di recupero è un processo di apprendimento, dato che gli stessi processi (neuropsicologici e neurobiologici) che stanno alla base dell’apprendimento sono anche alla base del recupero14. La rieducazione motoria ha avuto come scopo il recupero dei correlati motori specifici di ciascuna delle funzioni alterate (nei musicisti con FHD, il corpo libero dall’eccesso di tensioni permette alla mano di essere un organo ricettivo, capace di adattarsi globalmente al contatto con lo strumento musicale). Possiamo dunque concludere che la GT ha positivamente integrato e sostenuto gli interventi fisioterapici. Un paziente, al termine della terapia, ci disse: «Il primo oggetto verso cui in un tempo primordiale si rivolgeva la mia furia di superare il limite ero io stesso. E il bambolotto si è rotto, come ben sapete. Ma non l’ho buttato via. Anzi, l’accudisco senza posa, con tenerezza e apprensione, costantemente in bilico fra il sogno di vederlo guarito e il più concreto compromesso di riuscire ad aggiustarlo».
13 Cfr. N. Migliorino (2010), Il gesto terapeutico. Forma e contatto, Franco Angeli, Milano. 14 Cfr. C. Perfetti (1997), La riabilitazione motoria dell’emiplegico, Ghedini, Milano.
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«Il primo oggetto verso cui in un tempo primordiale si rivolgeva la mia furia di superare il limite ero io stesso. E il bambolotto si è rotto, come ben sapete. Ma non l’ho buttato via. Anzi, l’accudisco senza posa, con tenerezza e apprensione, costantemente in bilico fra il sogno di vederlo guarito e il più concreto compromesso di riuscire ad aggiustarlo»
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Abstract L’articolo si propone di presentare in sintesi i presupposti teorici e clinici del lavoro terapeutico svolto con musicisti colpiti da Focal Hand Dystonia. Vista la conoscenza ancora così incerta delle cause della disfunzione e la quasi totale natura neurologica delle terapie attualmente proposte, nessuna delle quali risolutiva di per sé, ci si è proposti di intervenire in modo olistico e multidisciplinare nel trattamento, tenendo anche conto dei vissuti di colpa e di ‘incapacità’ alla guarigione dei musicisti con FHD presi in carico. Abbiamo integrato alle normali cure mediche e fisioterapiche, la Gestalt Therapy, provando a considerare la FHD, in termini relazionali, come un’interruzione di contatto, un ‘gesto musicale interrotto’ in una particolare relazione.
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PUBBLICAZIONI PSICOPATOLOGIA E NUOVE PRASSI CLINICHE
Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di Psicopatologia Gestaltica Autori: Giovanni Salonia, Valeria Conte, Paola Argentino Come comprendere la follia propria ed altrui? Dove cercare il motivo originario dell’umano smarrirsi? La Gestalt Therapy propone quale cifra ermeneutica di ogni esistere, nella pienezza e nello smarrimento, l’intenzionalità di contatto, ovvero l’insopprimibile bisogno di raggiungere e di sentirsi raggiunti dall’altro. I fallimenti di questa intenzionalità – inscritta e vibrante nei vissuti corporei relazionali – generano il disagio psichico nelle sue varie forme. Su questo Grundkonzept si costruisce e articola la Psicopatologia della Gestalt Therapy nei suoi vari capitoli: eziologia, diagnosi, terapia. Grazie ad una lunga esperienza di clinica, di formazione e di ricerca, gli Autori di Devo sapere subito se sono vivo presentano alcune forme di disagio psichico, coniugando, in un genere letterario immediato e toccante, la lettura del disturbo e l’intervento relazionale. Ne viene fuori un nuovo modo di guardare alla sofferenza psichica e di curarla, ma anche una diversa epistemologia della scienza e dell’esperienza terapeutica. ISBN: 978-88-6124-432-0 Pagine: 292
La Luna è fatta di Formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio borderline G. Salonia (ed.) Se un paziente dice al terapeuta: «la luna è fatta di formaggio», e il terapeuta risponde: «la luna e il formaggio sono gialli entrambi», stiamo ascoltando le parole di una rivoluzione ermeneutica e clinica. A darle inizio è stato, molti anni fa, uno dei più acuti terapeuti della Gestalt, Isadore From, quando intuì come i pazienti che usano un linguaggio borderline – perché il linguaggio è la dimora del contatto – non attendano dal terapeuta una definizione, un’interpretazione o, peggio ancora, una correzione della loro esperienza, bensì solo una rispettosa, illuminante ‘traduzione’. Tradurre vuol dire riconoscere e accogliere la diversità e la dignità dell’altro. L’intuizione di allora, approfondita a livello teorico e sperimentata in lunghi anni di pratica, è diventata un preciso, innovativo modello di cura – la traduzione gestaltica del linguaggio borderline – che viene presentato a livello di paradigmi e di verbatim. Nel serrato, concreto e critico dialogo con gli altri approcci (da Gabbard a Kernberg, dall’empatia alla mentalizzazione), emerge la novitas del modello elaborato dall’Istituto di Gestalt Therapy GTK. Il ‘giallo’ di From che connette luna e formaggio connette anche terapeuta e paziente nella loro umile e ostinata ricerca di verità nel e del contatto.
Incontri terapeutici a quattro zampe. Gestalt Therapy e prospettiva di zooantropologia clinica Aluette Merenda (ed.) Il volume si propone di delineare il valore terapeutico degli animali d’affezione nei diversi contesti di cura, tracciandone risvolti psicoeducativi e finalità terapeutiche. Il focus si orienta verso ambiti di studio e questioni metodologiche che abbracciano l’approccio zooantropologico e la medicina veterinaria, la zooantropologia clinica e la psichiatria, l’educazione cinofila nelle famiglie attuali – con particolare riferimento ai principi della psicologia canina e alla Gestalt Animal Assisted Psycho-therapy (GAAP) –, coinvolgendo il cane, l’asino ed il cavallo come figure mediatrici della competenza emotiva dell’adulto e del bambino. La zooantropologia clinica viene pertanto a delinearsi quale sfondo di riferimento per ogni percorso teorico e clinico mirato a dare centralità all’incontro con l’altro nella sua radice che è l’intercorporeità, il sentire animale. Il volume è rivolto agli operatori dei vari ambiti disciplinari, agli studenti delle lauree triennali e specialistiche delle Scuole delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale, di Medicina veterinaria e Medicina e Chirurgia, nonché ad ogni terapeuta e ad ogni persona capace di comprendere la condizione umana. ISBN: 978-88-6124-545-7 Pagine: 152
ISBN: 978-88-6124-495-5 Pagine: 176
www.gestaltherapy.it
Tra. Per una fenomenologia dell’incontro Autore: Bin Kimura Viviamo ogni giorno trasportati dall’onda inarrestabile del quotidiano. Eppure il nostro organismo è costantemente in contatto con un fondamento della vita che ci supera e ci sostiene, mentre appare al contempo strutturalmente aperto al mondo in cui accade per noi e per tutti il gioco dell’esistenza. In Gestalt Therapy il principio vitale che regge e armonizza le dinamiche dell’esserci si chiama Sé, l’istanza che esprime il nostro essere collocati al confine dell’esperienza, lì dove siamo protesi verso l’altro e incontriamo l’ambiente che ci sollecita e ci nutre. Da questo punto di vista, Tra di Bin Kimura, uno dei più noti e influenti psichiatri giapponesi, può a buon diritto essere considerato come un vero e proprio trattato di fenomenologia gestaltica, dove, con un linguaggio rigoroso e concettualmente controllato, si racconta la manifestazione del Sé nella concretezza del contatto intersoggettivo e intrapersonale. ISBN: 978-88-6124-300-2 Pagine: 160
L’impostore
SOCIETÀ E PSICOTERAPIA
DALLE RADICI ALLE FOGLIE VITALITÀ ED ACCRESCIMENTO DELLA PSICOTERAPIA DELLA GESTALT Serena Bimbati “Per quanto un albero possa diventare alto, le sue foglie, cadendo, ritorneranno sempre alle radici” Proverbio cinese
Introduzione
Re-intrecciare i fili di una trama esistenziale affascinante e talvolta misteriosa, che portò un gruppo di sette persone a rivoluzionare il modo di entrare in contatto e vivere le relazioni
Il testo Gestalt Therapy: Excitement and Growth in the Human Personality apparve nel 1951 e presentò al mondo una nuova prospettiva di psicoterapia, che, pur prendendo le distanze dalla psicoanalisi ne abbracciava, allo stesso tempo, i limiti, trasformandoli però in occasioni di crescita terapeutica e sviluppo sociale. Dalle riflessioni dei coniugi Perls in merito all’introiezione, alla rimozione dell’aggressività dentale, all’esaltazione dell’esperienza che «si verifica ai confini tra l’organismo ed il suo ambiente»1 di Goodman, fino a giungere alla trasposizione pratica grazie ad Hefferline, la Terapia della Gestalt offriva all’essere umano un nuovo modo per vivere bene, crescere e morire. Ed è di vita che si parla nel testo, a partire proprio dalla vita di chi la teorizzò. Vi è una sorta di gioco di specchi che colpisce quindi il lettore o chi, come la scrivente, si accinge a re-intrecciare i fili di una trama esistenziale affascinante e talvolta misteriosa, che portò un gruppo di sette persone a rivoluzionare il modo di entrare in contatto e vivere le relazioni. Questo cosiddetto ‘gruppo dei sette’ era composto dai coniugi Perls, Paul Goodman, Elliott Shapiro, Isadore From, Paul Weisz e Sylvester ‘Buck’ Eastman, che insieme idearono, tra la fine degli anni ’40 e gli inizi dei ’50, la Terapia della Gestalt; nel-
1 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma, 37.
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la stesura del testo si aggiunse a Friedrich Perls e Goodman, in un secondo tempo, Ralph Hefferline con il contributo degli esercizi pratici. Il gruppo dei sette costruì il proprio ground a New York presso l’appartamento dei Perls, al 315 del Central Park West nel West Side di Manhattan, dove ogni mercoledì, per due anni, si discusse, anche animosamente, di psicoterapia e processi di crescita dell’uomo. Gli anni successivi furono caratterizzati da un’escalation di iniziative e contatti con il mondo esterno, da gittate di vitalità nell’America del secondo dopoguerra, impegnata in una ri-crescita sociale in nome della modernità ed efficienza; nel 1951 venne pubblicato il già citato Gestalt Therapy: Excitement and Growth in the Human Personality; nel 1952 fu fondato il Gestalt Institute of New York, gestito da Laura Perls; nel 1954 venne inaugurato l’Istituto di Cleveland, gestito da Paul Goodman e Paul Weisz. L’introduzione del testo di Perls, Hefferline e Goodman, che leggiamo nella traduzione italiana come Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, inizia proprio dichiarando il modo in cui lo stesso è stato costruito, in una sorta di danza di comuni intenti e diversità: Abbiamo avuto in comune uno scopo: sviluppare una teoria ed un metodo che estendessero i limiti e le possibilità di applicazione della psicoterapia. Le nostre divergenze erano molteplici, ma portandole alla luce invece di nasconderle educatamente, il più delle volte sfociavano in una soluzione che nessuno di noi si sarebbe aspettato2. Il fatto che sette persone di differenti età, esperienze personali e professionali, storie migratorie ed identità, siano riuscite a co-creare una teoria così armonica, rimane uno stimolante esempio di come l’aggressività sia «sopravvivenza e crescita fisica ed esistenziale di un organismo: il naturale attualizzarsi della spinta all’autorealizzazione»3.
2 Ivi, 27. 3 M. Spagnuolo-Lobb, G. Salonia (1995), Introduzione all’edizione
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Il fatto che sette persone di differenti età, esperienze personali e professionali, storie migratorie ed identità, siano riuscite a cocreare una teoria così armonica, rimane uno stimolante esempio di come l’aggressività sia «sopravvivenza e crescita fisica ed esistenziale di un organismo: il naturale attualizzarsi della spinta all’autorealizzazione»
Ognuno di loro, inoltre, aveva avuto l’esperienza, diretta o indiretta, di una migrazione, cioè di una «posizione tra», che, se vissuta con consapevolezza, può diventare, come lo è stata per loro, una risorsa in più in quanto comporta la mobilità tra le alternative, una sorta di oscillazione continua tra le appartenenze.
Ognuno di loro, inoltre, aveva avuto l’esperienza, diretta o indiretta, di una migrazione, cioè di una «posizione tra»4, che, se vissuta con consapevolezza, può diventare, come lo è stata per loro, una risorsa in più in quanto comporta la mobilità tra le alternative, una sorta di oscillazione continua tra le appartenenze. Forse fu proprio la continua mediazione tra l’estraneo ed il familiare a permettere un tale incontro delle diversità. Come dichiarò Naranjo5 nel 1991, la Psicoterapia della Gestalt non fu, dunque, fondata da un unico teorico ma da un gruppo di pensatori di diversa provenienza culturale che diede vita ad un ‘tutto’ diverso dalla somma delle singole parti. Entriamo, dunque, nelle biografie di queste sette parti ed osserviamo come ognuna di esse abbia contribuito alla costruzione del tutto.
Le sette radici Friedrich Salomon Perls Nasce a Berlino nel 1893 e muore a Chicago nel 1970: una vita dall’Europa agli Stati Uniti, fino alla punta dell’Africa e toccando l’estremo Oriente; da est ad ovest, da nord a sud inseguendo i punti cardinali in una girandola di esperienze, relazioni e contatti. Friedrich Perls è di origini ebraiche. La madre, un’ebrea praticante, morì assieme ad altri parenti in un campo di concentramento nazista; il padre era un negoziante di vino violento
italiana, in F. Perls (ed.), L’Io, la fame, l’aggressività, Franco Angeli, Milano, 7-10, 9. 4 M. Andolfi (ed.) (2003), La mediazione culturale. Tra l’estraneo ed il familiare, Franco Angeli, Milano, 10. 5 Claudio Naranjo fu un allievo di Fritz Perls e fece parte della prima comunità di Esalen. Quando rientrò in Cile, nel 1967, portò avanti un programma di sviluppo personale chiamato allora “Programma Esalen-in-Cile”, attraverso cui concepì e portò avanti un modello di Gestalt che comprendeva esercizi psicologici, scherma, movimento spontaneo ed espressione corporale. Informazioni tratte dal sito www.claudionaranjo.net.
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ed infedele che disprezzava il figlio e lo trattava come «un mucchio di merda»6. Entrambi però «erano molto cordiali in pubblico. Confusivi» (T.d.A.)7. Nel 1916, durante la prima guerra mondiale, Friedrich serve l’esercito tedesco al fronte, nei servizi ausiliari della Croce Rossa, «desensibilizzandosi», come lui stesso dichiara nella propria autobiografia, per tutti gli eventi traumatici di cui è spettatore e spesso vittima. Rimane ferito alla fronte e perciò viene rimpatriato, manifestando poi sintomi di depersonalizzazione. Inizia allora a studiare psichiatria e ad interessarsi ai lavori di Reich e Freud. Nel 1921 si laurea in Medicina a Berlino. Nel 1923 va a New York nella speranza di ottenere l’equipollente americana della sua laurea tedesca, ma si scontra con le difficoltà linguistiche e del resto mal sopporta l’atmosfera intensamente competitiva della metropoli statunitense. Rientrato in Germania, inizia nel 1926 una terapia personale con Karen Horney, in cui affronta le perversioni sessuali che in quel periodo metteva in atto, forse per energizzare la depressione che lo aveva colpito dal suo rientro dalla guerra. Nel 1927 si laurea in Neuropsichiatria come assistente di Kurt Goldstein e decide di trasferirsi a Francoforte, in quel periodo centro del fermento intellettuale europeo. Qui incontra anche la futura moglie Laura, che sposerà nel 1930. Nello stesso anno inizia la sua quarta analisi didattica con Reich. Per sfuggire alle persecuzioni, Friedrich e Laura Perls decidono di lasciare definitivamente l’Europa raggiungendo il Sudafrica nel 1934, su suggerimento di Ernest Jones, amico e biografo di Freud. In Sudafrica Friedrich Perls entra in contatto con J.C. Smuts (Primo Ministro del Sudafrica dal 1920 al 1924), il cui testo Holism and Evolution (pubblicato in Sudafrica nel 1926) verrà evocato frequentemente in tutta l’opera di Perls. Nel
6 S. Ginger (2005), Iniziazione alla Gestalt. L’arte del con-tatto, Mediterranee, Roma, 42. 7 Tratto da http://www.gestalttheory.com/fritzperls/autobiography/: «my mother was loving and ambitious. My father loved the arts, but hated most other things. He hated my mother – though he loved other women…both of them were very friendly in public. Confusing».
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Gli anni ’60 rappresentano, infatti, per Friedrich Perls, nel pieno dell’atmosfera hippie dell’epoca, un caleidoscopio di esperienze
1935 Friedrich Perls fonda l’Istituto Sudafricano di Psicoanalisi e nel 1942 pubblica la prima edizione del libro L’Io, la fame e l’aggressività, dedicato alla moglie Laura per il contributo dei due capitoli. Dal 1942 al 1946 Friedrich lavora nell’esercito sudafricano come psichiatra, ricevendo il grado di capitano. Nel 1947 si trasferisce, con successo, a New York, con la moglie Laura ed i figli Stephen e Renate, portandosi dietro un bagaglio di educazione europea borghese, una formazione classica in psicoanalisi ed un’esperienza migratoria. Nel 1951, grazie al contributo di Hefferline e Goodman, Friedrich Perls scrive il testo Gestalt Therapy: Excitement and Growth in the Human Personality, fondamentale per la Terapia della Gestalt che infatti verrà fondata ufficialmente nel 19528 insieme al primo Istituto di Gestalt, a New York. Dal 1952 al 1964 Friedrich Perls decide di diffondere le teorie e le tecniche della Gestalt, viaggiando moltissimo ed attraversando più volte gli Stati Uniti, ritornando in Europa e spostandosi ad Oriente in Giappone per approfondire l’interesse per la meditazione zen. Nel 1957 iniziano anche i suoi viaggi ‘psichedelici’ alla ricerca di esperienze nuove. Gli anni ’60 rappresentano, infatti, per Friedrich Perls, nel pieno dell’atmosfera hippie dell’epoca, un caleidoscopio di esperienze: si reca in Israele dove rimane qualche mese in un villaggio di giovani artisti e beatniks; poi vive per dieci mesi in un monastero zen «così, tanto per dare un’occhiata»9; si tuffa nell’esperienza californiana di Esalen (dal 1964 al 1969) dove sviluppa tecniche terapeutiche sempre più spettacolari e d’effetto, come la hot seat (la cosiddetta ‘sedia calda’ o ‘vuota’), dando vita a ciò che lui stesso chiama il suo «circo»10; nel 1969 si sposta in Canada, nell’isola di Vancouver presso il lago Cowichan, dove fonda una comunità sul modello del kibbutz israeliano, il Gestalt kibbutz, in
8 «La decade, dal 1942 al 1952, rappresenta la “preistoria della Psicoterapia della Gestalt” perché si consolidò il passaggio dalla psicoanalisi alla terapia della concentrazione» in G. Salonia (1991), Quali origini per il futuro della psicoterapia della Gestalt?, in «Quaderni di Gestalt», VII, 12, 7-19, 7. 9 S. Ginger (2004), La Gestalt. Terapia del “con-tatto” emotivo, Mediterranee, Roma, 65. 10 Ivi, 67.
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cui era possibile vivere la Gestalt nella quotidianità e nella convivenza. Muore nel 1970 all’ospedale di Chicago per un’insufficienza cardiaca.
Laura Polsner Perls (Lore Polsner) Nasce a Baden, in Germania, nel 1905 e muore, per complicazioni alla tiroide, nel 1990 a Pforzheim, in Germania: una storia di migrazione che si apre e si chiude nel proprio paese di origine, attraversando i continenti e gli oceani. Laura è figlia di ebrei; riceve una formazione umanistica e già a sedici anni si interessa di psicologia leggendo L’interpretazione dei sogni di Freud. Si laurea a Berlino e per alcuni anni è l’assistente di Kurt Goldstein all’Istituto per Veterani Cerebrolesi, dove inizia a fare le prime analisi sull’assimilare ed il mangiare, in particolar modo sull’inghiottire senza alcun processo intermedio di consapevolezza. Nel 1930 sposa Friedrich Perls; nel 1931 nasce la figlia Renate e da quel momento sarà sempre e solo compito di Laura occuparsi dei figli11. Nel 1933 Laura è costretta ad abbandonare Berlino, per fuggire dalle persecuzioni naziste; arriva in Sudafrica col marito ed i figli e vi rimangono una decina di anni, diventando rapidamente ricchi e famosi. È qui che Laura inizia a non usare il divano e a porre la propria attenzione all’interpretazione, alla respirazione ed al corpo dei pazienti: «è proprio così che cominciò la Gestalt, originariamente in Sudafrica», dichiarerà in un’intervista12. Nel 1947 i coniugi Perls abbandonano il Sudafrica perché temono la probabile ascesa al potere dei nazionalisti e si trasferiscono a New York. Qui Laura conduce, a fine anni ’40, il primo gruppo di terapia composto da Paul Weisz, Paul Goodman, Elliott Shapiro e due artisti.
11 «Fritz resterà vicino alla piccola per i primi quattro anni, fino alla nascita di Stephan dopo di che li trascurerà totalmente entrambi fino alla sua morte» dichiara Laura in un’intervista citata in Ivi, 58. 12 E. Rosenfeld (1986), Storia della PdG – prima parte: conversazione con Laura Perls, in «Quaderni di Gestalt», II, 3, 36-59, 38.
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È qui che Laura inizia a non usare il divano e a porre la propria attenzione all’interpretazione, alla respirazione ed al corpo dei pazienti: «è proprio così che cominciò la Gestalt, originariamente in Sudafrica»
«La Psicoterapia della Gestalt fu concepita come un approccio globale, organismico» e la vita di Laura mostra la sua capacità nel mantenere sempre un atteggiamento aperto alla diversità, come un organismo in continua interazione con l’ambiente interno ed esterno, con il passato ed il presente, ma sempre proteso al next
Nel 1952 viene fondato l’Istituto di Gestalt di New York, che Laura coordinerà malgrado la separazione dal marito. «La Psicoterapia della Gestalt fu concepita come un approccio globale, organismico»13 e la vita di Laura mostra la sua capacità nel mantenere sempre un atteggiamento aperto alla diversità, come un organismo in continua interazione con l’ambiente interno ed esterno, con il passato ed il presente, ma sempre proteso al next14.
Paul Goodman Nasce nel 1911 a New York, nel cuore del Greenwich Village, allora un rifugio di artisti e capitale bohémienne nonché luogo di nascita del movimento beat sulla costa est; muore, per un attacco di cuore, nel 1972 a North Stratford, nel New Hampshire, il cui motto di Stato è live free or die. Entrambi i genitori sono ebrei americani, le cui famiglie hanno origini tedesche. Il padre abbandona presto la famiglia e Paul viene allevato dalla madre, che deve provvedere da sola al mantenimento dei due figli (la figlia è maggiore di Paul di dieci anni). Paul si forma in una scuola ebraica dimostrando da subito uno spirito libero ed una natura da intellettuale. Va in psicoterapia con Lowen, con cui rimane per due anni; si laurea nel 1931; nel 1932 inizia la sua carriera di scrittore e docente all’Università di Chicago, da cui verrà licenziato nel 1941 per essersi innamorato di un giovane studente e per aver difeso quel suo sentimento; nel 1942 viene pubblicato il suo primo romanzo. Già dal 1934 si interessa alla Psicologia della Gestalt, analizzando i testi tedeschi, e dagli anni ’40 si avvicina ai coniugi Perls, prima come paziente di Laura e poi come pensatore nel gruppo dei sette. Scrive con Perls ed Hefferline il testo Gestalt Therapy, pubblicato nel 1951. Dal 1953 al 1958 Paul si
13 Ivi, 50. 14 «ogni sostegno specifico è in funzione del ‘next’, ripristinando l’intenzionalità verso cui tende l’organismo», tratto da E. Conte (2005), Glossario, in G. Francesetti (ed.), Attacchi di panico e postmodernità, Franco Angeli, Milano, 177-183, 182.
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guadagna da vivere come «psicoterapeuta indipendente»15. La terapia è per lui Qualcosa di profondamente istruttivo, nell’accezione filosofica o religiosa di questa parola, non nell’accezione scolastica (…) in questa prospettiva la trasformazione del mondo e la trasformazione del sé vanno evidentemente di pari passo, poiché non c’è differenza reale fra l’organismo e ciò che lo circonda. Diventare sé e cambiare la vita fanno parte di un unico e stesso tentativo, essendo la psicologia uno strumento di trasformazione politica e la politica uno strumento di trasformazione delle mentalità16. Paul Goodman fu un uomo, dunque, in grado di mediare ed integrare la vecchia e pesante cultura europea con quella giovane e libera americana, di traghettare la profondità storica del Vecchio Continente nell’immediatezza statunitense, di sconvolgere le rigide regole borghesi con analisi acute e pungenti delle trasformazioni sociali.
Elliott Seymour Shapiro Nasce a Manhattan nel 1911 e muore nel 2003 sempre a Manhattan: una vita nella Grande Mela, promotore dall’interno di grandi trasformazioni newyorkesi. È proprio la sua città ad omaggiarlo, alla sua morte, con le seguenti definizioni, apparse sul necrologio pubblicato sul New York Times17: «un educatore ed uno psicologo, la cui lotta contro il degrado nella scuola pubblica e la letargia burocratica richiamò un’ampia attenzione negli anni ’60», «un veterano dei tumulti» (T.d.A.) che riuscì a convincere il sindaco di New York a costruire una nuova scuola pubblica ad Harlem. Elliott Shapiro è figlio di ebrei e, per tale motivo, è spesso oggetto di feroci attacchi antisemiti e perciò viene allenato fin da giovane dal padre alla boxe.
15 B. Vincent (1993), Paul Goodman e la rivoluzione culturale della Gestalt Terapia, in «Quaderni di Gestalt», IX, 16/17, 7-23, 14. 16 Ivi, 18. 17 Dal sito www.nytimes.com, necrologio del 23 febbraio 2003.
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Paul Goodman fu un uomo, dunque, in grado di mediare ed integrare la vecchia e pesante cultura europea con quella giovane e libera americana
Il suo contributo alla Psicoterapia della Gestalt fu fondamentale: il rifiuto dell’autoritarismo, il diritto all’uguaglianza, l’esaltazione della fratellanza e dell’opportunità per ogni essere umano di sviluppare il proprio potere ed il proprio talento furono valori che Elliott introdusse nel gruppo dei sette, con l’obiettivo di rendere le occasioni di crescita dell’individuo preziose opportunità per lo sviluppo della civiltà.
Nel 1927 muore il padre e, per mantenersi gli studi e aiutare la famiglia, svolge diversi lavori, anche di notte. Nel 1935 inizia la sua carriera come insegnante di lettura a Brooklyn in una scuola pubblica; insegna poi nel reparto di neuropsichiatria infantile all’ospedale Bellevue e nel 1937 si trasferisce alla sezione adolescenti dove rimane per undici anni; nel 1948 diventa preside della scuola istituita per bambini in difficoltà presso l’ospedale, offrendo quindi adeguata istruzione ai piccoli pazienti. Nel 1950 decide di unirsi a quello che diventerà il gruppo dei sette: già da due anni Elliott usava, infatti, il testo Ego, Hunger and Aggression nelle sue lezioni di psicopatologia al Brooklyn College dove i suoi studenti elaboravano gli esercizi, «riferendo esperienze come l’ascolto interno»18; nel 1951 inizia la sua pratica privata part-time di psicoterapeuta e dal 1952 al 1955, ed ancora nel 1959, insegna all’Istituto di New York di Gestalt Therapy. Nel 1954 diventa direttore della Scuola Elementare 119 di Harlem a New York City, dove avrà modo di vivere i rapporti di potere e le discriminazioni razziali. È membro del Partito Socialista ed è particolarmente attivo nelle marce di Washington degli anni ’60 a sostegno dei diritti civili ed economici per le minoranze. Il suo contributo alla Psicoterapia della Gestalt fu fondamentale: il rifiuto dell’autoritarismo, il diritto all’uguaglianza, l’esaltazione della fratellanza e dell’opportunità per ogni essere umano di sviluppare il proprio potere ed il proprio talento furono valori che Elliott introdusse nel gruppo dei sette, con l’obiettivo di rendere le occasioni di crescita dell’individuo preziose opportunità per lo sviluppo della civiltà. Nel gruppo dei sette, descritto dallo stesso Elliott come «vigoroso», ciò avveniva anche attraverso una «lotta tanto aggressiva e profonda» dove «nessuno poteva sentirsi al sicuro in quei momenti»19. Nell’intervista del 17 giugno 1985 sottolinea il potere aggregante della lotta condivisa alla burocrazia:
18 J. Wysong (1991), Una storia orale della Gestalt Terapia – conversazione con Elliott Shapiro, in «Quaderni di Gestalt», VII, 12, 29-39, 35. 19 Ivi, 33.
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[L’Istituto]…è semplicemente ‘cresciuto’. Ognuno di noi lì era fortemente reattivo alla burocrazia. Era interessante, le persone che erano lì, che provenivano da posti e da occupazioni e lavori diversi e che avevano tutti i tipi di esperienze, sentivano tutti fortemente, senza eccezione, che la burocrazia era un male. Un male cronico di qualche tipo. Ed era chiaro per noi che se si fosse sviluppato qualcosa nell’Istituto non sarebbe stata un’istituzione burocratica20. Elliott Shapiro riesce ad introdurre il valore fondamentale dell’esperienza e l’importanza del learning by doing, favorendo così l’inserimento degli esercizi nel testo, nonché a mantenere sempre alta l’attenzione a ciò che rimane sullo sfondo, alle lotte delle minoranze ed ai vissuti di chi vi appartiene. Prosegue: C’era sempre un pensiero che veniva ribadito: sì, dovremmo evolvere tutto questo in un istituto ma dobbiamo stare attenti che nessuno prenda il comando, che nessuno sia autoritario, che siamo tutti uguali, in un modo o nell’altro, che siamo tutti uguali (...) L’istituto non è stato formato, semplicemente è cresciuto e Laura Perls non lo ha mai condotto con autorità21.
Isadore From Nasce, insieme al gemello Sam, il 20 ottobre 1918 in una cittadina del Nord Indiana, e lo stesso giorno muore un fratello a casa per influenza. Il 27 giugno 1994 Isadore muore, a 75 anni, «in seguito alle complicazioni insorte durante una cura per il cancro a cui si stava sottoponendo (…) Aveva visto la sua malattia aggravarsi sempre di più, e l’aveva sopportata con coraggio, con ironica riservatezza e decisamente senza nessuna autocommiserazione»22. Dunque, una vita che inizia
20 Ivi, 31. 21 Ivi, 33. 22 M.V. Miller (1997), Introduzione alla nuova edizione (1995) di Gestalt Therapy, in F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed.
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Elliott Shapiro riesce ad introdurre il valore fondamentale dell’esperienza e l’importanza del learning by doing
Una vita che inizia con un pre-contatto di morte ed una morte che viene vissuta con un energico post-contatto
con un pre-contatto di morte ed una morte che viene vissuta con un energico post-contatto23. Isadore è figlio di madre viennese e di padre ebreo e verrebbe oggi definito una ‘seconda generazione’. Il padre proviene dalla Galizia ed arriva negli Stati Uniti nel 1903; riesce a fare affari, caricando i rottami di ferro e carta; si arricchisce e, a partire dagli anni ’20, incomincia a comprare immobili. Sarà poi Sam a seguire le orme del padre e a darsi agli affari, mentre Isadore diverrà psicoterapeuta quasi per caso. Negli anni della Grande Depressione il padre perde però quasi tutte le sue proprietà e cade così in una crisi depressiva. La sua partecipazione al gruppo dei sette avviene attraverso l’incontro con Fritz Perls, di cui diviene paziente nel 1946 in cambio di qualche lezione di filosofia. In seguito Fritz lo invia alla moglie per iniziare una seconda analisi, al termine della quale, nel 1949, Isadore parte per Parigi e l’Europa, dove rimane un anno e mezzo. Per tutta la vita Isadore viaggerà, in un continuo pendolo tra gli Stati Uniti ed il Vecchio Continente, alternando momenti di ricchezza ed inventiva ai sostegni economici del gemello e ai furti nei supermercati. Al suo ritorno dal Vecchio Continente, nel 1950, riceve l’invito di Perls a diventare psicoterapeuta e a seguirlo in California dove lo stesso Perls aveva iniziato, durante la sua assenza, una terapia con il gemello di Isadore. Nel gruppo di formazione di signore della alta classe californiana, il ruolo di Isadore era di «jolly, nel senso che quando veniva chiesto a qualcuno che cosa sperimentasse, se Perls lo avesse chiesto a me, io avrei risposto sempre nei termini di ‘qui ed ora’»24.
or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 7. 23 «Il ciclo di contatto, ovvero l’esperienza di contatto-ritiro dal contatto, è un processo unitario costituito dall’evolversi di quattro fasi: il pre-contatto (il prima, tempo in cui si attua la parte preliminare del contatto), il contatto (il durante, tempo in cui ci si attiva e si svolge la concreta realizzazione del contatto), il contatto finale (la fine, tempo in cui il contatto giunge a compimento in modo pieno e spontaneo), il post-contatto (il dopo, tempo del ritiro dal contatto e dell’assimilazione dell’esperienza)», tratto da E. Conte (2005), Glossario, in G. Francesetti (ed.), Attacchi di panico e postmodernità, cit., 178. 24 E. Rosenfeld (1987), Storia orale della PdG – parte II: conversazione con Isadore From, in «Quaderni di Gestalt», III, 5, 11-36, 18.
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Il suo contributo filosofico fu di fondamentale importanza nella stesura degli assunti teorici del libro e, grazie alla sua sensibile ed attiva partecipazione al gruppo dei sette, favorì la declinazione della Terapia della Gestalt nella pratica clinica. Purtroppo non pubblicò mai nulla per «la paura di far stampare qualcosa che potrebbe essere sbagliato»25.
Non pubblicò mai nulla per «la paura di far stampare qualcosa che potrebbe essere sbagliato»
Paul Weisz Dei sette, la vita di Paul è la più misteriosa, in quanto avvolta da un velo di oblio. Nasce presumibilmente tra il 1915 ed il 1925 da una famiglia di origini tedesco-ungheresi, probabilmente di religione ebraica; muore nel 1965 per un attacco di cuore, a casa di Paul Goodman. Paul è un ricercatore di fisica con un dottorato in medicina. È attratto dalle filosofie orientali e questa sua passione per il buddismo zen contagerà in particolar modo Fritz Perls. La fidanzata di Paul, Lottie, è una psichiatra al Bellevue Hospital e lavora con Fritz: forse, proprio grazie a questa collaborazione, Paul diventa un suo paziente. Successivamente Fritz lo invia alla moglie Laura per una seconda terapia. Già a partire dagli anni ’50 Paul fa parte del gruppo dei sette e diviene uno dei primi insegnanti dell’Istituto. Viene descritto da Isadore From come un «uomo di impeccabile integrità e forse il miglior terapeuta di tutti noi» (T.d.A.)26. Elliott Shapiro aggiunge: «Paul Weisz era molto, molto intelligente e colto. A mio parere, il contributo che diede al gruppo fu tra i migliori (…) C’era verso di lui il rispetto che si ha quando si ascolta un vero intellettuale. E credo che fosse un ottimo terapeuta. Paul Weisz era il migliore»27. Fritz Perls lo descrive come «solido e reale, saggio e crudele…che domandava
25 B. Müller (1992), Il contributo di Isadore From alla teoria e alla pratica della Gestalt terapia, in «Quaderni di Gestalt», VIII, 15, 7-23, 8. 26 «He was a man of impeccable integrity and probably the best therapist of us all» tratto da I. From, nella prefazione all’articolo di P. Weiszn (1990), The contribution of Georg Wilhelm Groddeck, in «The Gestalt Journal», XIII, 2, 85-98, 86. 27 J. Wysong (1991), Una storia orale della Gestalt Terapia, cit., 35.
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Viene descritto da Isadore From come un «uomo di impeccabile integrità e forse il miglior terapeuta di tutti noi»
Il merito, dunque, di Paul Weisz ed il suo apporto alla Psicoterapia della Gestalt sono di aver focalizzato l’attenzione del gruppo dei sette sul qui-ed-ora
chiarezza ed onestà di pensiero. Senza mai compromettere l’essenziale» (T.d.A.)28. Laura Perls lo ricorda in questo modo: «Paul Weisz aveva una intelligenza brillante, era molto colto e possedeva uno spirito critico. A Fritz piaceva parlare con lui di tanto in tanto»29. Il merito, dunque, di Paul Weisz ed il suo apporto alla Psicoterapia della Gestalt sono di aver focalizzato l’attenzione del gruppo dei sette sul qui-ed-ora (concetto mutuato dallo zen e dalle filosofie orientali) ed aver enfatizzato l’importanza di non dividere la testa dal corpo nel lavoro terapeutico. Insomma, un uomo di sintesi tra l’Oriente e l’Occidente.
Sylvester ‘Buck’ Eastman
È un nativo americano della tribù dei Dakota. Per i Dakota un ‘uomo della medicina’ è un guaritore che usa piante sacre di cui impara la preparazione e l’uso in una visione.
Anche la biografia ed il contributo di Sylvester Buck Eastman si perdono nella storia della Psicoterapia della Gestalt perché oscurati dalla fama degli altri teorici. Gli elementi biografici che sono riuscita a catturare su di lui sono davvero polimorfi. È un nativo americano della tribù dei Dakota. Per i Dakota un ‘uomo della medicina’ è un guaritore che usa piante sacre di cui impara la preparazione e l’uso in una visione30. Chissà quante cose hanno ‘visto’ gli occhi e l’anima di Buck! Nel 1939 entra in Aeronautica col grado di capitano e partecipa ad alcune azioni militari in qualità di chirurgo di volo. Viene abbattuto per ben due volte: vive, quindi, sulla propria pelle l’esperienza del disturbo post-traumatico da stress e, al suo ritorno in patria, si iscrive all’Università per conseguire un dottorato in psichiatria. Durante la guerra incontra una giovane attrice inglese, che diventa presto sua moglie; vivono a New York con i due figli maschi ma purtroppo lei muore a soli 44 anni.
28 «solid and real, wise and cruel…demanding clearest and honest thinking. Never compromising in essentials» tratto da I. From, nella prefazione all’articolo di P. Weiszn (1990), The contribution of Georg Wilhelm Groddeck, cit., 86. 29 E. Rosenfeld (1986), Storia della PdG – prima parte: conversazione con Laura Perls, cit., 52. 30 C.F. Feest (2000), La cultura degli indiani del Nord America, Könemann, Köln, 216.
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Riceve negli anni successivi per i suoi meriti in guerra due medaglie all’onore ma a tal proposito rimane sempre reticente né se ne vanta con alcuno. Non usa mai il suo nome di battesimo, preferendo presentarsi come Buck. Partecipa, fin dagli esordi, agli appuntamenti settimanali a casa dei coniugi Perls, forse in quanto psichiatra o collaboratore al Bellevue Hospital31: tutti lo citano nelle loro memorie ma in nessuna intervista o pubblicazione ho trovato aneddoti che lo riguardassero, come se la sua presenza appartenesse allo sfondo dentro cui gli altri potevano liberamente diventare figura. Un uomo, dunque, che visse molte vite e differenti identità, di cui perfino il figlio è tuttora all’oscuro32, come se, di quest’uomo, fosse rimasto solo il profilo, mentre sono difficili da scorgere i dettagli della figura.
Ralph Hefferline: un gestaltista per caso Nasce nell’Indiana nel 1910 e lì muore nel 1974. Si sposta a New York nel 1929 e si iscrive a psicologia nel 1930 ma deve interrompere gli studi universitari per riuscire a mantenersi. Lo fa in diversi modi: dalla scrittura di storie gialle per i tabloid americani alle pubblicità. Riesce a laurearsi più tardi e nel 1943 diventa Professore di psicologia alla Columbia University. Nel 1946 entra in terapia con Fritz Perls e si avvicina, nel 1948, al gruppo dei sette, senza mai diventare effettivamente membro dell’Istituto.
31 Alcuni dei partecipanti agli incontri dai Perls erano psichiatri del Bellevue Hospital e di questi Shapiro ricorda che: «ero convinto che nessun altro di noi fosse considerato con molto rispetto in ambito professionale. A prescindere dal posto che occupavamo, eravamo visti con tutta probabilità come cani sciolti», in J. Wysong (1991), Una storia orale della Gestalt Terapia, cit., 33. 32 Nel corso della mia ricerca bibliografica mi sono imbattuta infatti in una richiesta di informazioni del figlio, nel web, a compagni di guerra del padre. Riporto un suo aneddoto sul padre, che mostra, a mio avviso, un iniziale interesse di Buck Eastman per la psicologia della Gestalt, frutto della sua esperienza di guerra: «For example he mentioned the optical illusion that flack always looked like it would hit you as it came up, only to disperse around you as it got closer».
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Un uomo, dunque, che visse molte vite e differenti identità
Alla Columbia University usa i suoi studenti per studiare l’apprendimento umano senza consapevolezza. Per tale motivo diventa co-autore del testo Gestalt Therapy, occupandosi della parte pratica; gli stessi esercizi contenuti nel libro divennero poi i test dei suoi ulteriori approfondimenti. Shapiro lo descrive «come un tipo strano, che iniziò a partecipare al gruppo verso la fine (...) Non diede mai il suo contributo. Stava in silenzio e nessuno lo criticava gran che neanche per questo. Sembrava quasi che facesse parte del mobilio. E poi gradualmente si allontanò dalla Terapia della Gestalt.»33. Come ricorda la moglie di Hefferline, dopo la partenza di Perls da New York, Ralph dirada via via i contatti. La sua natura sperimentale lo porta, infatti, ad approdare al comportamentismo, di cui diviene un audace sostenitore negli anni successivi. È affascinante rintracciare in questo uomo la coesistenza di due filoni della psicoterapia così diversi, sempre in movimento verso i confini della psiche umana.
Dalle storie di vita all’ermeneutica34 Le storie di vita di questo gruppo sono tutte caratterizzate dall’essere avvenute in un luogo che non è quello di origine; dall’aver arricchito le proprie appartenenze culturali con nuovi elementi dello sfondo
Sono proprio la fascinazione per il contesto, le reti di relazioni ed il pre-contatto del gruppo dei sette ad avermi spinto alla stesura di questo articolo, cercando di rintracciare significative corrispondenze tra i loro percorsi migratori e lo sviluppo della Psicoterapia della Gestalt, facendo intravedere così gli anelli di crescita, dalle radici alle foglie, di una terapia rigogliosa e vitale così prossima all’essere umano. Le storie di vita di questo gruppo sono tutte caratterizzate dall’essere avvenute in un luogo che non è quello di origine; dall’aver arricchito le proprie appartenenze culturali con nuovi elementi dello sfondo; da un’estrema capacità di adat-
33 J. Wysong (1991), Una storia orale della Gestalt Terapia, cit., 35. 34 L’ermeneutica è un ramo della filosofia che mira ad una comprensione del mondo. Hans Georg Gadamer, il fondatore della moderna ermeneutica, afferma che è possibile conoscere un testo (così come una persona, e quindi anche il paziente, cioè l’altro da sé) soltanto all’interno della nostra relazione con esso (o lei/ lui), non escludendo la storia della relazione, né il contesto in cui è nata né la nostra percezione di esso (lui/lei).
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tamento che ha agito sull’abilità di assimilazione; dalla creatività con cui, ciascuno dei sette, all’interno di una minoranza etnica, religiosa o di orientamento sessuale, si è fatto propulsore di un cambiamento nella società e nell’evoluzione del ben-essere comunitario. Tutto ciò è reso possibile dalla principale caratteristica dell’uomo: essere «un organismo di grande potenza ed efficacia»35, profondamente malleabile ed in grado di sopportare qualsiasi trattamento ambientale e situazione difficile. «La natura umana è una potenzialità»36 ed è stato proprio lo sviluppo di ogni singola potenzialità ad aver permesso la co-costruzione di un’alternativa ancora più ampia, dal significato sociale e tesa al benessere dello sfondo: la nascita della Psicoterapia della Gestalt.
Plusvalenze di migrazione nel gruppo dei sette Le storie migratorie dei suoi fondatori rappresentano, a mio avviso, lo specchio di questo movimento Sé-Altro37. Friedrich Perls, ad esempio, è colui che ha saputo, all’interno del proprio percorso migratorio38, raccogliere e collezionare con curiosità eventi, contatti, relazioni ed esperienze per miscelarli in una vitale ed instancabile ruota propulsiva di trasformazione continua del gruppo dei sette, vivendo un personale processo di mutamento camaleontico nelle acquisizioni e nelle perdite di pezzi identitari, alla ricerca della vera Gestalt: apolide in terre sconosciute.
35 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 119. 36 Ivi, 128. 37 Jacques Berque, in Mémoires des deux rives, a proposito di immigrazione, preferisce parlare «di in-migrazione: viaggio in se stessi attraverso l’altro ed attraverso l’altro in sé». 38 «È importante tener presente che quando ci si trasferisce in una terra straniera, si diventa automaticamente il primo della discendenza, una sorta di fondatore» in H. Salmi (2011), Etnopsichiatrie: l’alterità culturale nelle pratiche cliniche – dispositivi di cura e di mediazione per migranti, L’Harmattan Italia, Torino, 13.
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La principale caratteristica dell’uomo: essere «un organismo di grande potenza ed efficacia», «La natura umana è una potenzialità»
È stata l’anello di giunzione tra un prima ed un dopo, memento del presente e sostegno per il next
Isadore From incarna l’ingegno e la furbizia della seconda generazione
Laura Perls, al contrario, è stata il legame con l’Heimat39, dentro al costante richiamo delle proprie appartenenze europee, umanistiche, familiari e gestaltiche. È colei che ha sempre permesso al gruppo dei sette di tornare all’origine, di rientrare in porto dopo le traversate oceaniche e di potersi così inscrivere nella temporalità di una discendenza. È stata l’anello di giunzione tra un prima ed un dopo, memento del presente e sostegno per il next. Paul Goodman è, invece, una terza o quarta generazione40, cioè la trasformazione pura delle molteplici identità culturali: un gioco veloce e creativo di distruzione e sintesi di differenti e talvolta inconciliabili appartenenze, con il rischio di vivere in una sospesa ma assoluta libertà del proprio Sé. È proprio attraverso Paul Goodman che la Psicoterapia della Gestalt sarà in grado di riconoscere la propria originalità ed essere riconosciuta dal mondo. Elliott Shapiro rappresenta il prodotto positivo del riscatto, attraverso la discendenza, del migrante: la lotta e la costanza per affermarsi, la chiarezza dei propri bisogni ed il forte sostegno dei propri ideali, la direzione verso cui puntare nella vita e nella psicoterapia della Gestalt, l’opposizione alla discriminazione intesa come deliberata negazione di opportunità ambientali. Grazie a lui l’esperienza ed il learning by doing diventano capisaldi della Gestalt, nella cura parallela di uno sfondo sempre più nutriente. Isadore From incarna l’ingegno e la furbizia della seconda generazione: è il destino di chi alterna la fortuna alla perdita, il guadagno alla sventura, in una oscillazione continua tra il qui e l’altrove. È l’interrogarsi sulle proprie radici, in un viaggio 39 “Heimat” è un vocabolo tedesco che non ha un corrispettivo nella lingua italiana. Viene spesso tradotto con “patria” o “città natale” ed indica il luogo in cui ci si sente a casa propria, dove l’identità della persona o di un popolo ha messo radici e dove si parla la lingua degli affetti. Cfr. AA.VV. (1991), Das Pons Wörterbuch, Zanichelli/Klett, Bologna. 40 «Appartiene alla seconda e alla terza generazione facilitare la ricerca dello sfondo, il ritorno del negato o rimosso, per inserirlo in nuove prospettive e nuovi modelli integrati» in G. Salonia (1990), Karen Horney e Frederick Perls: dalla psicoanalisi interpersonale alla terapia del contatto – la prospettiva di un terapeuta della Gestalt, in «Quaderni di Gestalt», VI, 10/11, 35-41, 41.
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al centro della terra per scoprirle e riemergere possedendole. Isadore ha ricordato al gruppo dei sette il valore della parola, l’importanza della clinica. Paul Weisz è l’originaria matrice; la calma orientale di chi ha a lungo viaggiato ed infine è arrivato, trovando un nuovo luogo in cui lasciarsi cullare. È la forza degli antenati, che protegge la discendenza e soffia sull’anima di chi è pronto a riceverla. Paul ha portato nella Psicoterapia della Gestalt ordine ed equilibrio tra il mondo di sopra e quello di sotto, tra il pensiero e l’emozione, tra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro in una sferica sintesi di relazione tra l’uomo e l’universo. Infine Sylvester ‘Buck’, il mistero del passato e l’incognita del futuro, metafora di come un’impronta della propria origine, accrescendosi nella consapevolezza, possa mutare la forma ma mantenere l’essenza. È il legame con il mondo invisibile41, che tutto avvolge silenziosamente ed inconsapevolmente. È il punto di arrivo di ciò che diventerà la Psicoterapia della Gestalt ed il punto di partenza di nuove spinte teoretiche.
Le foglie e le gemme Se «raccontare le proprie origini è un modo di raccontare se stessi»42, allora l’analisi di ciò che erano e di ciò che sono diventate le sette radici corrisponde agli anelli di crescita della Psicoterapia della Gestalt. È un albero che vive tutt’oggi in pulsante accrescimento: diversi rami si sono sviluppati dal tronco ed hanno già fogliato; alcuni innesti sono avvenuti spontaneamente, altri più forzatamente
41 Nei dispositivi etnoterapeutici si agisce «con la persona sulla persona», considerando insieme la sua sofferenza individuale, i suoi culti, i suoi antenati, le sue divinità, i suoi demoni, il suo mondo visibile ed invisibile, ecc. Il mondo invisibile è quello, dunque, popolato dagli spiriti, che «possiedono qualità irriducibili: possono essere evocati solo in un mondo ad universi multipli, poiché evocarli costituisce di per sé il decreto di esistenza dell’universo secondo» in T. Nathan, I. Stengers (1996), Medici e stregoni, Bollati Boringhieri, Torino, 28. 42 G. Salonia (1991), Quali origini per il futuro della psicoterapia della Gestalt?, cit., 7.
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È la forza degli antenati, che protegge la discendenza e soffia sull’anima di chi è pronto a riceverla
Se «raccontare le proprie origini è un modo di raccontare se stessi», allora l’analisi di ciò che erano e di ciò che sono diventate le sette radici corrisponde agli anelli di crescita della Psicoterapia della Gestalt.
con l’intento di propagare vecchie varietà in via di estinzione; secondarie ramificazioni permettono ora alle nuove gemme di abbracciare differenti prospettive cliniche e terapeutiche. D’altronde è intrinseca alla natura della Psicoterapia della Gestalt tale vitalità: proprio questo spirito libero, questa accettazione di tutto ciò che accade, lo sviluppo delle potenzialità inespresse e la messa al bando di tutte quelle schematizzazioni chiuse che in effetti pre-definiscono la realtà43. E fu ciò che la rese così innovativa. Come afferma Giovanni Salonia, è l’unico modello di psicoterapia nato da un gruppo e non da un singolo, creato in una prospettiva multidisciplinare e l’unico in grado di sopportare conflittualità altissime senza arrivare a separazioni definitive:
Nelle vicende dei fondatori della Psicoterapia della Gestalt rimane però in qualche modo aperto il ciclo di contatto
Nato nella e dalla ribellione, ha riscoperto la validità dell’autoaffermarsi della creatività implicite in ogni ribellione e ha inaugurato con la ribellione un rapporto diverso da quello tipico del proprio tempo, nel quale era facile venire scomunicati o dichiarati eretici44. Nelle vicende dei fondatori della Psicoterapia della Gestalt rimane però in qualche modo aperto il ciclo di contatto: fu un gruppo che mostrò come era possibile differenziarsi in maniera estrema ma non come ricongiungersi. La loro difficoltà nel superare l’egotismo45 impedì, infatti, di raggiungere quella
43 M. Spagnuolo-Lobb (1998/1999), Opening Lecture, in «Quaderni di Gestalt», XIV-XV, 26/29, 12-18, 13. 44 G. Salonia (1991), Quali origini per il futuro della psicoterapia della Gestalt?, cit., 15. 45 «Infine, quando tutte le condizioni per il contatto finale sono adeguatamente predisposte si verifica l’interruzione del rilassamento del controllo o della sorveglianza, del cedimento al comportamento che condurrebbe alla crescita, per esempio, l’esecuzione dell’azione che l’individuo è in grado di fare e che la situazione richiede, o il completare quel che sta facendo e lasciarlo definitivamente. Questo costituisce un rallentamento della spontaneità a causa di un’introspezione e di una cautela deliberata, ulteriori, in modo di assicurarsi che le possibilità dello sfondo sono realmente
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soluzione creativa tra la spinta ad affermarsi e quella a consegnarsi46. Ciò che mancò fu, dunque, superare con fiducia la sfida di una scelta diversa e creativa, di cui solo Laura Perls intuì la via: Il consegnarsi volontario richiede sacrifici, rinunciare a interessi e coinvolgimenti di valore per dedicarsi ad un valore più grande. Questo è l’aspetto più difficile del consegnarsi…che si devono fare delle scelte47. Quale scelta, anzi, quale sfida spetta allora alla Psicoterapia della Gestalt di oggi? E quali le conseguenze, o meglio, le risposte48? Partire e (ri)tornare alle origini della Psicoterapia della Gestalt vuol dire allora vedere la crescita dalle radici alle foglie, perché, come scrisse Nelson Mandela: «Niente come tornare in un luogo rimasto immutato ci fa scoprire quanto siamo cambiati»49.
esaurite – che non c’è nessuna minaccia di pericolo o sorpresa – prima che si impegni. Per mancanza di un termine migliore, chiamiamo questo atteggiamento ‘egotismo’, giacché esso comporta un interesse finale per i propri limiti e la propria identità piuttosto che per ciò con cui ci si è posti in contatto.» in F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 22. 46 G. Salonia (1991), Quali origini per il futuro della psicoterapia della Gestalt?, cit., 7. 47 Ivi, 17. 48 «Si può cogliere la fragranza particolare della Psicoterapia della Gestalt prendendo a prestito un concetto di Arnold Toynbee, il quale sostiene che la storia non può basarsi sul modello delle scienze naturali, perché le azioni umane non sono una causa ma una sfida, e le loro conseguenze non rappresentano un effetto ma una risposta.» in I. From, M.V. Miller (1997), Introduzione alla nuova edizione (1995) di Gestalt Therapy, cit., 22. 49 N. Mandela (1995), Lungo cammino verso la libertà, Feltrinelli.
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Partire e (ri)tornare alle origini della Psicoterapia della Gestalt vuol dire allora vedere la crescita dalle radici alle foglie
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Abstract L’articolo nasce da una curiosa scoperta, frutto di un antropologico confronto tra i princìpi della Psicoterapia della Gestalt e quelli dell’etnopsichiatria, volto a sondare i punti di contatto e di separazione tra le due pratiche di cura. Investigando le biografie del gruppo dei sette emerge come la Psicoterapia della Gestalt venne co-costruita dai fondatori, le cui storie di vita affondavano le proprie radici in percorsi migratori differenti, vissuti attivamente come scelte deliberate o subìte come seconde generazioni. Campeggia così la forza delle loro diversità, il potere delle loro affiliazioni ed appartenenze e come lo scontro, anche aggressivo, abbia generato la Psicoterapia della Gestalt. Si verificò tra loro uno scambio vitale tra il dentro ed il fuori, tra l’Io ed il Tu, nel mezzo del ‘tra’, portando così ad un rovesciamento delle soggettività, che ora diventavano sfondo, ora figura di una diversità. Dalle radici alle foglie della Psicoterapia della Gestalt per sostenere nella crescita il gestaltista di oggi e per ricordargli, nella sfida della postmodernità, che l’identità, per esistere, deve nutrirsi di alterità.
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PUBBLICAZIONI TEORIA EVOLUTIVA E TERAPIA FAMILIARE
Danza delle sedie e danza dei pronomi. La Gestalt Therapy con le coppie e le famiglie Autore: Giovanni Salonia
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Editoriale
Editorial
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Si esce dalla lettura di Come l’acqua... con delle sensazioni forti, come quando si viene fuori da uno di quei fiumi rigeneratori presenti in ogni cammino di iniziazione. Il corpo che vibra e le gocce che giocano sulla pelle narrano dell’acqua che scorre, della dolcezza del fluire ritrovato, della forza che proviene dagli argini, dell’impeto come energia che attraversa gli ostacoli. Leggendo si impara tanto su come, nella teoria e nella prassi della Gestalt Therapy, si lavora (o meglio: si entra in contatto) con i bambini. E non solo con loro. E non solo nel setting terapeutico o educativo. Perché i bambini ci aiutano a crescere. E forse, per far crescere la «nostra statura prossima» (quella di cui parla mirabilmente Mario Luzi), abbiamo bisogno di raggiungere ogni bambino ferito nel suo dolore, nella sua disperazione, e di coinvolgerlo (e coinvolgerci) nella danza relazionale che dentro il suo corpo vibra e preme per fluire. Come l’acqua...
La famiglia postmoderna porta avanti un progetto inedito e ambizioso: essere il luogo della piena realizzazione di ognuno e di tutti. Dentro tale intenzionalità accadono difficoltà e conflitti che spesso sembrano contraddire questo progetto. Coniugare, infatti, maternità e paternità, maschile e femminile, sessualità e vita quotidiana, sogni e tradimenti, piccoli e grandi, centralità e periferia, primogeniti e secondogeniti è fatica spesso impossibile. La Gestalt Therapy, assumendo come principi ispiratori e clinici la centralità del soggetto in relazione, il corpo vissuto, il qui-e-adesso del contatto, offre chiavi di lettura e di intervento che facilitano nella famiglia la ripresa della danza relazionale, dove diventa musica il ritmo di ogni membro della famiglia. Categorie come intercorporeità, funzione-Personalità, grammatica della relazione, diventano nella presentazione dell’autore strumenti terapeutici preziosi per ridare alla famiglia il sogno di una pienezza del singolo e di tutti.
Edipo dopo Freud. Dalla legge del padre alla legge della relazione Giovanni Salonia
Oedipus after Freud. From the law of the father to the law of relationship Giovanni Salonia
Il trivio della condizione umana: tra verità e relazione, tra diade e triade E se invece gli dei non esistessero? Il triangolo primario: nell’Atene di Sofocle, nella Vienna di Freud, nella postmodernità Dal disagio del figlio al disagio del triangolo primario Dal trivio una nuova ermeneutica per la co-genitorialià Bibliografia
From Freudian fracture to Gestaltic continuity: the epistemological gap of Gestalt Therapy Antonio Sichera
ISBN: 978-88-6124-384-2 Pagine: 96
ISBN 978-88-6124-388-0 Pagine: 160
Come l’acqua. Per un’esperienza gestaltica con i bambini tra rabbia e paura Autori: Dada Iacono, Ghery Maltese
Dalla frattura freudiana alla continuità gestaltica: lo scarto epistemologico di Gestalt Therapy Antonio Sichera L’inconscio e il suo oltrepassamento in una prospettiva storico-culturale La prima mossa: l’ermeneutica relazionale dell’inconscio La seconda mossa: lo scioglimento estetico Conclusioni rapide Edipo Re Sofocle traduzione di Guido Paduano
www.gestaltherapy.it
Letter to a young Gestalt therapist. Gestalt therapy approach to family therapy Giovanni Salonia The refund grandson Co-therapy carried out by V. Conte and G. Salonia Giusy’s failed degree Therapy conducted by G. Salonia
Ipocondria
SOCIETÀ E PSICOTERAPIA
L’ONESTÀ COME COMPETENZA TERAPEUTICA Giovanni Salonia
In quanto rapporto fondato sulla fiducia (affidare il proprio malessere dell’anima ad un altro), l’onestà è una componente fondamentale della professionalità e, quindi, determina l’efficacia della cura
Essere onesto per uno psicoterapeuta non è solo un’istanza etica ma, per molti aspetti, un requisito professionale. Prendersi cura delle persone richiede, proprio nella sua stessa definizione, integrità e onestà. In quanto rapporto fondato sulla fiducia (affidare il proprio malessere dell’anima ad un altro), l’onestà è una componente fondamentale della professionalità e, quindi, determina l’efficacia della cura. Ricordo le fatiche di un mio allievo che si preparava a diventare psicoterapeuta, il quale, provenendo da un ambiente di commercianti, non riusciva a far propria la mentalità del terapeuta (due visioni del mondo e del lavoro che percepiva inconciliabili). È chiaro che parlare dell’onestà dello psicoterapeuta non può ridursi all’osservanza dei quarantadue articoli del Codice Deontologico (una condizione questa necessaria ma non certo sufficiente). Il Codice Deontologico non può essere percepito come un Super-Io che pone dei limiti o delle regole. A volte, in modo provocatorio, chiedo ai futuri psicoterapeuti: perché è proibito avere rapporti sessuali con i pazienti? Insoddisfacenti – e addirittura preoccupanti – le risposte nelle quali il divieto viene motivato con il Codice Deontologico. Comportarsi con onestà solo per rispettare delle regole percepite come esterne (ego-distoniche) manifesta una immaturità morale e relazionale. E poi, si sa che le regole che non si sentono proprie nell’intimo sono le prime a essere trasgredite e, anche quando vengono osservate, producono repressione e risentimento. Ritorna l’antica saggezza medievale: bonum quia bonum aut bonum quia iussum? Il bene è bene in sé (e quindi non deriva dalle regole ma è intimamente connesso ai nostri più profondi desideri) o è qualcosa che rimane esterno a noi e dall’esterno deve bloccare i nostri istinti? È necessario un percorso di ascolto e contatto genuino con sé stessi per ritrovare dentro di sé quell’anelito al bene che anche le regole esterne richiedono. Per un terapeuta questo significa avere scoperto/acquisito che la vera istanza regolativa non proviene da un Super-Io, da freni inibitori o da codici, ma dall’essere dentro una relazione
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e dal viverne con pienezza le regole che la definiscono. Anche chi impara una lingua sa che grammatica e sintassi non sono istanze imposte dall’esterno ma regole interne al desiderio di comunicare con altri mondi linguistici. Il poeta non è prigioniero delle regole semantiche e grammaticali, ma se vuole comunicare non può abolire la grammatica: deve re-inventarla e ridisegnarla. Si tratta di creare un ‘adattamento creativo’ che è al di là della creatività autoreferenziale (che nega l’altro) e dell’adattamento passivo (che zittisce la propria soggettività). Accenniamo adesso a qualche contenuto proprio dell’onestà dello psicoterapeuta. 1. Si è onesti come psicoterapeuti se si accetta che la relazione terapeutica è una relazione triadica e non diadica. Il Codice Deontologico ha, infatti, come primo significato quello di ricordare al terapeuta che si sta prendendo cura del paziente in nome della comunità. La presenza simbolica ma determinante del ‘terzo’ nel setting terapeutico è garanzia di efficacia e di validità. Il ‘terzo’ in terapia si declina in molte forme: la comunità civile, il modello terapeutico e la scuola di appartenenza, la supervisione, il coterapeuta. D’altronde anche nella crescita ogni diade genitore-figlio trova la sua validità ed efficacia nel triangolo cogenitoriale: lo sappiamo, si è ‘genitore-di-un-figlio’ se si è ‘genitore-con-il-cogenitore’. Pensarsi l’unico salvatore o l’unico terapeuta per un paziente non è onesto e non aiuta il percorso di guarigione o di maturazione del paziente. 2. Accettare che il paziente resti unicamente paziente e non si instaurino con lui altri tipi di rapporti durante la terapia. Dico scherzosamente ai miei allievi-terapeuti: se il miglior medico della tua città viene in terapia da te (o manda la figlia)... avete perso la possibilità di farvi curare da lui! Si è terapeuti per prendersi cura del paziente e non per servirsi del paziente. Onestà significa, quindi, ad esempio, non cercare dal paziente informazioni che ci potrebbero tornare utili a livello personale e non in quanto suoi terapeuti. In altre parole, non ‘usare’ per sé la relazione (terapeutica!) che si è creata. Ricordo un’allieva in formazione presso la nostra scuola di specializzazione, già terapeuta ma di altro approccio, abbastanza conosciuta nella sua città, che mi chiese una supervisione per sapere se
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Si è onesti come psicoterapeuti se si accetta che la relazione terapeutica è una relazione triadica e non diadica
Accettare che il paziente resti unicamente paziente e non si instaurino con lui altri tipi di rapporti durante la terapia
L’onestà con il paziente richiede al terapeuta una continua pratica di onestà con se stesso
Forse il luogo in cui si annida il maggior rischio di mancare di onestà per noi terapeuti è proprio il potere che esercitiamo sulla definizione della realtà
poteva partecipare alle performances che un suo paziente, famoso attore, di tanto in tanto offriva nella propria villa ad una élite sociale. Fu chiaro a entrambi che partecipare sarebbe stato negativo per il paziente che avrebbe confuso l’essere ammirato con l’essere-preso in cura. Onestà significò per l’allieva rispondere alla domanda: perché voglio partecipare? È a volte difficile rendersi conto, benché terapeuti esperti, di quanto sia forte il rischio di esercitare un potere anche ideologico sul paziente (che diventa... persona da convincere). Un paziente dice al proprio psicoanalista: «Guardi che io l’ho capito che lei è repubblicano» (siamo negli Stati Uniti d’America). Il terapeuta, sorpreso e quasi indispettito, replica: «Ma io sono stato corretto. Non ne ho mai parlato». Puntuale la risposta del paziente: «Ogni volta che io parlavo male di un deputato repubblicano, lei mi chiedeva se per caso mi ricordasse una figura della mia storia. Quando parlavo male di un democratico, lei si limitava ad annuire!». L’onestà con il paziente richiede al terapeuta una continua pratica di onestà con se stesso. 3. Il paziente ha sempre ragione (al limite, la sua!). Gianni si siede e inizia la seduta dicendomi: «Ho l’impressione che tu sia arrabbiato con me». Sinceramente sorpreso, gli rispondo: «Non mi pare, ma voglio ascoltarmi». E dopo qualche attimo: «Non trovo in me sentimenti negativi nei tuoi confronti, ma se lo dici avrai le tue ragioni. Prova a individuare quando e come hai pensato questo». E lui: «Quando mi hai aperto la porta ho visto nel tuo sguardo rabbia nei miei confronti». «Dammi un attimo – replico – per ascoltarmi». Al che mi resi conto di cosa stava accadendo: a modo suo aveva ragione, perché quando avevo sentito il campanello squillare ero intento a leggere la lettera di un collega con il quale avevo in atto un contenzioso molto sgradevole ed ero abbastanza irritato. Andando velocemente ad aprire, negli occhi doveva essermi rimasta l’espressione di rabbia. Condivisi questo a Gianni, che esclamò con un bel sospiro: «Meno male! Non sono matto». Quante volte nella sua vita le sue percezioni erano state squalificate o snobbate! Forse il luogo in cui si annida il maggior rischio di mancare di onestà per noi terapeuti è proprio il potere che esercitiamo sulla definizione della realtà. Il motivo per cui si richiede ad un tera-
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peuta di sperimentarsi come paziente nell’analisi didattica è, in ultima analisi, quello di... apprendere l’umiltà. È proprio l’umiltà che garantisce l’onestà del terapeuta e la cura del paziente. Quando un mio paziente andò su tutte le furie perché avevo dimenticato di spegnere il cellulare, la voglia di chiedergli chi gli ricordavo fu rimessa, per fortuna, nello sfondo e gli dissi: «Scusami, ho sbagliato. Hai ragione a irritarti: avrei dovuto spegnere il cellulare». Solo dopo parlammo di una sua reazione eccessiva perché nella sua esperienza non gli era stato facilmente riconosciuto il potere di rivendicare i propri diritti. Il rischio dell’orgoglio e la necessità dell’onestà rendono la terapia personale del terapeuta ‘interminabile’. È emblematico in tal senso l’esempio citato da Gabbard1: una paziente di 28 anni, a circa cinque minuti dalla fine, sta raccontando come durante una festa in casa si era sentita poco valorizzata dal padre, che aveva prestato più attenzione al fratello. Il terapeuta, volendo dare alla paziente un commento su questo, guarda l’orologio per vedere se ne ha il tempo. La paziente, accortasene, va su tutte le furie e comincia ad accusare il terapeuta di disinteresse, di ascoltarla solo per motivi venali, di essere poco interessato a lei. Il terapeuta, da parte sua, sostiene di aver guardato l’orologio solo per accertarsi che il tempo rimasto fosse sufficiente a offrirle un commento terapeutico. Il conflitto è aspro. La paziente insiste sul fatto, il terapeuta vuole ‘coprire il sole con la rete’ rifiutando le sue accuse. Lo stesso terapeuta ebbe poi modo di raccontare pubblicamente questo frammento di terapia presentandolo (purtroppo!) come modello di intervento nei confronti di una paziente ‘simil-delirante’...2 Come sarebbe stato diverso se avesse onestamente detto alla paziente: «Mi sa che lei ha ragione: mi stava raccontando di una sua sofferenza e io mi sono concentrato invece su me e
1 Cfr. G.O. Gabbard (2006), Mente, cervello e disturbi di personalità, in «Psicoterapie e Scienze Umane», XL, 1, 9-24. 2 Cfr. al riguardo G. Salonia (2014), La luna è fatta di formaggio. Traduzione gestaltica del linguaggio borderline (GTBL), in G. Salonia (ed.), La luna è fatta di formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio borderline, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 11-55.
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Il motivo per cui si richiede ad un terapeuta di sperimentarsi come paziente nell’analisi didattica è, in ultima analisi, quello di... apprendere l’umiltà. È proprio l’umiltà che garantisce l’onestà del terapeuta e la cura del paziente
Il rischio dell’orgoglio e la necessità dell’onestà rendono la terapia personale del terapeuta ‘interminabile’
sulla risposta che avrei potuto darle… ho agito come faceva suo padre»! Quanto sarebbe stato utile e corretto un semplice riconoscimento di un proprio errore! Mi ritornano spesso in mente le parole di Isadore From3, che usava sempre ripeterci: «State attenti a non confondere e a non creare confusione nei pazienti». Allora mi sembrava la raccomandazione ‘devota’ di un anziano, oggi so che è la saggezza dell’onestà. E non è certo valida solo per la terapia!
3 Isadore From (1918-1994) fu uno fra i più stimati didatti e terapeuti del gruppo dei sette fondatori (insieme a Fritz Perls, Laura Polsner, Paul Goodman ed altri) della Gestalt Therapy. Dal 1981 fino a qualche anno prima della sua morte ha insegnato presso le varie sedi (Siracusa, Venezia, Roma) dell’Istituto di Gestalt HCC.
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GTK DISSEMINATION
REPORT V CONVEGNO FISIG PRATICA E TEORIA DELLA TERAPIA DELLA GESTALT 16-19 APRILE 2015 – TORINO Laura Leggio Nel suo percorso di ricerca, studio e promozione del proprio modello ermeneutico e della propria prassi clinica, l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos (GTK) ha partecipato al V Convegno della FISIG (Federazione Italiana Scuole e Istituti di Gestalt), che si è tenuto a Torino dal 16 al 19 Aprile 2015. È stato un evento importante che ha dato la possibilità a tutte le Scuole e agli Istituti di Gestalt italiani di incontrarsi e confrontarsi, al fine di promuovere un ricco e sfaccettato dialogo, nel rispetto dei differenti punti di vista, sia nella pratica che nella teoria della psicoterapia della Gestalt. Obiettivo principale del Convegno è stato quello di ‘sviluppare le differenze, mantenendo i collegamenti e il dialogo’ in analogia con il concetto di biodiversità diffuso nelle scienze naturali. Come la diversità delle specie e il loro essere strettamente interdipendenti sono garanzia di vita e salute dell’intero ecosistema, allo stesso modo la valorizzazione delle differenze nell’ampio campo della psicoterapia della Gestalt vuole essere motore di crescita, arricchimento e benessere per tutti gli Istituti e le Scuole che in questo ambito si riconoscono. Come evidenziato nel titolo dato al Convegno, quest’anno l’attenzione è stata rivolta in modo particolare all’esperienza e alla pratica clinica di ciascuna delle tredici scuole afferenti alla FISIG: per la prima volta, infatti, i rispettivi direttori si sono messi in gioco, conducendo delle simulate di psicoterapia in semiplenaria. A ciascuna seduta è seguita la discussione e la condivisione in piccolo gruppo dell’esperienza osservata (focus group), quindi la supervisione e la riflessione da parte di altri direttori, che hanno coordinato il confronto pubblico con l’intera semiplenaria. Questa formula organizzativa ha permesso ai partecipanti (circa 800) di osservare, riflettere e discutere, in piccolo gruppo prima e nel grande gruppo poi, i passaggi più salienti di ciascuna terapia e di poter rivolgere precise domande ai terapeuti sul loro specifico agire terapeutico (teoria della tecni-
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ca). La metodologia utilizzata ha consentito, inoltre, a ciascun partecipante di ascoltare e ‘tradurre’ i particolari linguaggi adottati da ciascuna Scuola, favorendo un’interessante rilettura e analisi delle peculiari prassi cliniche osservate. Ciò ha costituito un elemento di conoscenza e di confronto reciproco molto arricchente per tutti. Non sono mancati, inoltre, i workshops e le minilectures che hanno offerto ai partecipanti la possibilità di conoscere e approfondire gli sviluppi teorici più innovativi di ciascun Istituto. L’Istituto GTK è stato degnamente rappresentato, oltre che dal suo direttore prof. Giovanni Salonia, anche da un nutrito gruppo di didatti, didatti in formazione e allievi delle tre sedi (Ragusa, Roma e Venezia). Il Convegno ha preso avvio il 16 Aprile, dopo i saluti e la relazione di apertura del presidente FISIG prof. Mariano Pizzimenti, con una tavola rotonda tra i didatti, che hanno presentato, in modi più o meno originali, le rispettive Scuole di appartenenza; per l’Istituto GTK è stato il dott. Gaspare Orlando a illustrare la storia, il modello psicoterapeutico e i suoi più recenti sviluppi teorici e clinici. Nelle giornate successive l’Istituto GTK è stato presente con importanti contributi esposti dai suoi docenti all’interno di workshops e minilectures, che hanno ottenuto una notevole partecipazione di pubblico e riscosso un buon successo. Vediamoli brevemente.
WORKSHOPS: La FHD nel musicista: postura antalgica e gesto mancato? Gestalt Therapy e riabilitazione a cura di Giovanni Turra Questo originale contributo è il frutto di un’interessante ricerca condotta dall’autore sulle applicazioni della Gestalt Therapy nell’intervento riabilitativo. Premessa fondamentale è stata il poter considerare le disfunzioni corporee – come la distonia focale del musicista (FHD) – in termini relazionali, come interruzione di contatto e appello alla relazione (e come postura antalgica seguita all’assenza di un gesto agito o ricevuto).
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Poiché tali disfunzioni si manifestano all’interno di una complessa vicenda relazionale Organismo-Ambiente, costituita da diversi elementi, tra cui il corpo-musicista, il suo strumento, l’insegnante, l’ambiente musicale, il pubblico e la storia relazionale complessiva della persona-musicista, l’autore ha aiutato i partecipanti a sperimentare come l’intervento psicoterapeutico gestaltico possa essere impiegato efficacemente a sostegno di un programma riabilitativo complessivo. Ciò facendo, ha esplorato una metodologia e una prassi clinica informate dalla relazionalità piuttosto che dalla concezione del ‘danno’ neurologico, tutto interno al paziente, così tristemente diffusa nel settore riabilitativo.
Il tocco corporeo come tocco relazionale: dal corpo che vedo ai corpi che siamo a cura di Marta Pustetto e Anna Difeo Questo workshop ha proposto un modello di training formativo per operatori dell’area socio-sanitaria secondo l’ermeneutica relazionale della Gestalt Therapy. Lo scopo del lavoro è stato quello di dimostrare come il paradigma clinico dell’intercorporeità1 e la lettura dei vissuti secondo un’ottica corporeo-relazionale2 siano la chiave di accesso per riportare dallo sfondo alla figura la relazione con il paziente nei setting di cura non prettamente clinici. A partire dalla propria esperienza lavorativa le autrici hanno proposto uno spazio formativo-esperienziale in cui i partecipanti al workshop hanno potuto interrogarsi e sperimentare su di sé il senso e l’importanza del tocco corporeo all’interno della relazione, partendo dalla consapevolezza di sé stessi e del proprio corpo. Il filo di Arianna del percorso è stata la lettura corporeo-relazionale dei vissuti del pudore,
1 Cfr. G. Salonia (2008), La psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero (ed.), Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano, 51-71. 2 Cfr. G. Salonia (2013), Edipo dopo Freud. Dalla legge del padre alla legge della relazione, in G. Salonia, A. Sichera, Edipo dopo Freud, GTK-books/1, Ragusa, 11-46.
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della vergogna e dell’aggressività nelle relazioni di cura. Si è partiti concentrandosi sul lavoro corporeo individuale, grounding e respirazione, iniziando cioè a ‘sentire il proprio corpo’. Si è poi esplorato il delicato mondo dei vissuti corporeo-relazionali nella cura dei pazienti con demenza di Alzheimer e dei pazienti gravi, aiutando i presenti a lavorare sul ‘come se fossi nel loro corpo’ attraverso esercitazioni pratiche. Infine si è giunti al tocco corporeo inteso come tocco relazionale, cioè ‘sentire/pensare se stessi e il proprio corpo in relazione ad un altro corpo’. Si è quindi evidenziato e discusso in gruppo, come, a fronte di un contesto lavorativo che obbliga spesso a ridurre i tempi di relazione e contatto con i pazienti, un tocco consapevole, pensato e intenzionale, volto ad incontrare l’Altro, possa trasformare il tempo da cronologico a tempo dell’incontro, da Kronos a Kairòs, dando spazio al confronto su tale tema.
Quando tutto è pertinente. Gestalt Therapy e Isteria a cura di Rosaria Lisi In questo workshop l’autrice, partendo dalla novità della teoria di Freud sull’isteria, ha ripercorso le interessanti riletture da parte delle teorie femministe e dei pochi contributi gestaltici sul tema, soffermandosi sulla descrizione articolata del modello teorico-clinico dell’Istituto GTK che vede l’isteria come l’insieme di vissuti corporeo-relazionali che connotano una specifica interruzione del ciclo di contatto e precise disfunzioni delle funzioni del Sé. Si evidenzia come tale rilettura offra l’ermeneutica relazionale ai sintomi del disturbo istrionico di personalità descritti nel DSM-5 e si integri (arricchendoli delle declinazioni cliniche) con le nuove prospettive di J. Mitchell e gli intriganti risultati della ricerca di L. Irigaray sul linguaggio dell’isterica. L’obiettivo dell’intervento è stato, quindi, quello di offrire ai partecipanti chiavi di letture efficaci per riconoscere l’isteria anche quando si nasconde, ‘simulando’ altre patologie (magari ‘più viste’ dagli psicopatologi contemporanei) e di presentare lo specifico della teoria e della clinica gestaltica (portata avanti dall’Istituto) con la modalità relazionale isterica.
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L’attitudine ad osservare: l’uso del video nello studio del terapeuta della Gestalt a cura di Terry Falcone e Adelaide Gargiuto Questo workshop, condotto da una didatta dell’Istituto GTK e da una dell’AIGA, ha puntato l’attenzione sull’uso del video, sempre più frequente nella pratica clinica. Si sono voluti evidenziare i vantaggi di tale utilizzo anche da parte di un terapeuta della Gestalt per alcuni specifici motivi: in primo luogo questi è notoriamente atto all’osservazione e non all’interpretazione, è, inoltre, interessato all’esperienza e all’intenzionalità di contatto sottesa e, infine, dà fondamentale significato al corpo e all’intercorporeità. Il workshop ha voluto, altresì, evidenziare quanto l’uso del video nella pratica clinica possa essere efficace strumento che accelera i tempi della psicoterapia, specialmente quando nell’età evolutiva il bambino o l’adolescente hanno bisogno di risposte rapide per il cambiamento. La lettura del video, infatti, fornisce al genitore la chiave percettiva per l’insight al cambiamento stesso.
MINILECTURES: Il lavoro di gruppo con uomini maltrattanti e abusanti a cura di Calogero Anzallo L’autore ha illustrato ai partecipanti la sua esperienza e il suo modello di lavoro con i gruppi psico-educativi per uomini abusanti e maltrattanti, contro la violenza di genere. Si è posto l’accento sull’importanza della formazione specifica dei conduttori di tali gruppi e sulla necessità di favorire al loro interno un percorso di de-costruzione dell’agito e della cultura violenta, come base per la risoluzione dei conflitti relazionali. Seguendo l’approccio gestaltico, in questi gruppi si intende aiutare gli uomini in trattamento ad affrontare le proprie disfunzionalità di contatto e ad agire sulla loro funzione-Es, Io e Personalità con la finalità di ristabilire un ciclo di contatto sano. Si è sottolineato come il cambiamento sia possibile soltanto se l’esperienza relazionale all’interno del gruppo costruisce gli assi portanti per una serena individuazione
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di ogni soggetto, nell’ottica di un approccio all’altro empatico e rispettoso. Da questo intervento e dalla discussione che ne è seguita è emerso che il percorso riesce a produrre un cambiamento soltanto se i soggetti partecipanti realizzano, non soltanto dal punto di vista cognitivo, una diversa percezione dell’agito violento, ma soprattutto se ciascun soggetto riesce a sperimentare una relazione emotivamente nutriente durante il percorso del trattamento (qui e ora) che lo veicola verso il cambiamento stesso.
Gestaltica-mente. Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze a cura di Grace Maiorana Con tale contributo l’autrice ha inteso evidenziare i punti di continuità tra i principi teorico-clinici della Gestalt Therapy e la Teoria della Selezione dei Gruppi Neurali (TSGN) di G. Edelman3, neurobiologo che, nell’ambito delle Neuroscienze, ha elaborato un modello di funzionamento cerebrale/mentale basato su un’epistemologia biologica. A partire dall’attuale dibattito sull’origine della mente (da dove e come essa nasca, da dove e come abbiano origine le sue disfunzioni4) l’autrice ha proposto un’interessante lettura: la centralità della relazione come punto cardine della Psicoterapia della Gestalt, ma anche punto di contatto con le Neuroscienze. Attraverso un’accurata quanto approfondita analisi della teoria di Edelman è stato possibile recuperare concettualmente lo sfondo corporeo-relazionale a partire dal quale meglio comprendere i principi gestaltici dell’autoregolazione organismica e relazionale, dell’adattamento creativo e della processualità del Sé e delle sue funzioni.
3 Cfr. G. M. Edelman (1995) (ed. or. 1987), Darwinismo neurale. La teoria della selezione dei gruppi neuronali, Einaudi, Torino. 4 Cfr. A. R. Damasio (2012), Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, Adelphi, Milano.
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Attacchi di panico, modello relazionale di base (MRB), ciclo vitale e clinica in GTK a cura di Gaspare Orlando Questo intervento ha affrontato lo studio e la clinica degli attacchi di panico con una lettura della sintomatologia sia da un punto di vista sincronico che diacronico alla luce degli approfondimenti teorici e clinici portati avanti dall’Istituto GTK5. Sono stati approfonditi i temi riguardanti la fenomenologia dell’attacco di panico nella società postmoderna, il significato del sintomo rispetto a un particolare momento del ciclo vitale del paziente e il confronto tra modalità relazionale prevalente e modello relazionale di base (MRB). Si è approfondito sia l’aspetto diagnostico degli attacchi di panico (interruzione dell’esperienza corporeo-relazionale nella modalità relazionale retroflessiva), sia lo specifico intervento psicoterapeutico. È stato, infine, trattato l’aspetto della diagnosi differenziale tra gli attacchi di panico e altri disturbi dello stesso spettro.
Disturbo da gioco d’azzardo. Un’esperienza clinica nella prospettiva teorica della Gestalt Therapy a cura di Giovanna Silvestri Con tale contributo l’autrice si è focalizzata sull’ampio e sfaccettato fenomeno del Disturbo da Gioco d’Azzardo, come definito nel DSM-5. A partire dall’analisi e discussione di un caso clinico è stato possibile soffermarsi sui fattori che costituiscono principalmente la matrice causale del DGA, interrogandosi sulle evidenze cliniche secondo l’approccio della Gestalt Therapy. Qual è nella prospettiva evolutiva il ‘momento critico’ (in cui è mancato quel corpo complementare evolutivo) e quale
5 Cfr. G. Salonia (2013), Cambiamenti sociali e disagi psichici. Gli attacchi di panico nella postmodernità, in G. Francesetti (ed.), Attacchi di panico e postmodernità. La psicoterapia della Gestalt fra clinica e società, Franco Angeli, Milano 2005, 36-50; Id. (2013), Psicopatologia e contesti culturali, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 17-32.
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sostegno specifico deve essere offerto a chi soffre di tale disturbo? Queste le domande che hanno guidato l’intervento, arricchito dal confronto con i partecipanti.
RIPRENDERE A DANZARE CON LA PANCIA... Evento cruciale del Convegno e motivo di grande orgoglio per noi rappresentanti dell’Istituto GTK è stata senza dubbio la simulata di terapia familiare condotta in semiplenaria dal nostro direttore prof. Giovanni Salonia, in un’aula gremita di persone attente, interessate e coinvolte. È stato un momento magico: i riflettori si sono accesi sul modello di Gestalt Therapy con la famiglia Danza delle sedie e danza dei pronomi6, elaborato dopo anni di terapia, ricerca e insegnamento. Tale modello, integrando le precedenti prospettive di lavoro con la famiglia7, ha applicato in modo originale e innovativo la teoria del Sé alla terapia familiare. Per iniziare il prof. Salonia ha domandato all’affollata platea dei presenti se qualcuno volesse portare il ‘caso’ di una famiglia che chiedeva aiuto; alcuni volontari si sono fatti avanti e così la simulata ha avuto inizio. Si è trattato di una prima seduta: la famiglia era composta da padre, madre (al sesto mese di gravidanza) e due figlie, di 16 e 12 anni. Ha preso avvio così la danza del processo terapeutico che in breve tempo ha affascinato tutti gli astanti. Il terapeuta dando la parola a ciascuno dei componenti ha fatto emergere gradualmente lo sfondo relazionale di questa famiglia…«Sono i cambiamenti che accadono nei corpi ad attivare vissuti nuovi ed esperienze inedite, determinando i passaggi delle fasi del ciclo vitale»8. Del resto sappiamo che
6 Cfr. G. Salonia, Danza delle sedie e danza dei pronomi. La Gestalt Therapy con la famiglia, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, prossima pubblicazione. 7 Cfr. V. Satir (1973), Psicodinamica e psicoterapia del nucleo familiare, Armando, Roma; C. Whitaker (1990), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma; J. Zinker, S. Nevis (1987), Teoria della Gestalt sulle interazioni di coppia e familiari, in «Quaderni di Gestalt», 4, 17-32. 8 G. Salonia (2010), Lettera ad un giovane psicoterapeuta della Ge-
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la richiesta di terapia avviene quando la famiglia ha difficoltà ad attraversare una fase del proprio ciclo vitale. Si è fatto così via via più chiaro che in questa famiglia (intesa come una gestalt, un organismo in azione) c’era un corpo che stava cambiando, c’era una pancia che stava crescendo, una gravidanza che andava avanti, proponendo un nuovo compito evolutivo a tutti i suoi membri. «Quando il sé-famiglia non riesce a comprendere il disagio che vivono i corpi della famiglia esplode il sintomo, spesso in un solo membro della famiglia»9. È la figlia minore a farsi portavoce del disagio familiare, con una regressione nei comportamenti che la porta a voler stare sempre a casa con la madre, rifiutandosi di frequentare la scuola, allontanandosi dai coetanei e anche dalla sorella maggiore, che, di contro, si mostra molto indipendente e autonoma. Il padre, invece, appare piuttosto periferico, assente, solo in parte preoccupato dagli atteggiamenti della figlia minore e dalla distanza fisica ed emotiva sempre crescente con la moglie. «Compito del terapeuta è quello di favorire tra i membri della famiglia la chiusura delle gestalten aperte, nella consapevolezza che il non-dettoche-necessita-di-essere-detto interrompe la pienezza di una relazione, provocando disagi e sintomi»10. Focalizzando i vissuti corporeo-relazionali di tutti i membri della famiglia il terapeuta ha progressivamente evidenziato quale corpo in questa famiglia stava male e in che modo stavano male gli altri corpi. Gradualmente, attraverso il lavoro sulle tre funzioni del Sé-famiglia (Es, Io e Personalità) è stato bello vedere come si sia dato voce ai bisogni e ai desideri di ciascun componente della famiglia e permesso una ri-definizione dei confini dell’identità e delle modalità relazionali familiari. Attraverso l’illuminante gioco della ‘danza delle sedie’ (ossia cambiare sedia per favorire nuove prossemiche funzionali dei corpi) è stato possibile riattivare le funzioni del Sé, arrivando a separare il sottosistema filiale da quello genitoriale.
stalt. Per un modello di Gestalt Therapy con la famiglia, in M. Menditto (ed.), Psicoterapia della Gestalt contemporanea. Esperienze e strumenti a confronto, Franco Angeli, Milano, 185-202, 188. 9 Ib. 10 Ivi, 193.
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Ed è stato bello anche l’entusiasmo con cui la platea ha accolto la proposta rivolta dal terapeuta alle due figlie di allontanarsi dal setting per stare un po’ insieme, a sperimentare la complicità tra sorelle, chiacchierando del più e del meno e dei propri interessi. La terapia è così continuata con la coppia genitoriale. Posti l’uno di fronte all’altra, marito e moglie hanno avuto finalmente la possibilità di fermarsi e guardarsi, sintonizzandosi sul sentire proprio e dell’altro. Attraverso il confronto su temi emozionali come autonomia-calore, darericevere sostegno, intimità e responsabilità, il terapeuta ha aiutato i partner a ritrovarsi, a dare parole alle loro paure e desideri, non detti fino a quel momento, ma vissuti nel corpo. È stato sempre più chiaro che la funzionalità di una famiglia ha come sfondo e matrice la qualità del contatto tra la coppia genitoriale. Si è iniziato a lavorare sulla loro funzionePersonalità, nel duplice registro dell’‘essere-genitori-di’ e dell’‘essere-genitori-con’11, anche alla luce della futura nascita del terzogenito. Dal sintomo del singolo membro è stato così possibile fare emergere le trame relazionali e l’intenzionalità di contatto dell’intera famiglia. Al rientro nel setting terapeutico delle due figlie il clima emotivo e la prossemica dei corpi erano decisamente diversi: ognuno occupava un posto ‘nuovo’, in cui aveva ‘scoperto’ di voler stare; anche ‘la pancia’ non era più motivo di paura, preoccupazione, ansia: la famiglia adesso poteva riprendere la propria intenzionalità relazionale, il proprio cammino di crescita precedentemente interrotto, ritrovando l’energia e la direzione necessarie per muoversi verso il next, verso i nuovi compiti evolutivi del proprio ciclo vitale. Poteva cioè ‘riprendere a danzare con la pancia’, per usare le parole con cui all’unanimità si è deciso di intitolare la seduta. Inutile sottolineare gli scroscianti applausi seguiti alla simulata, così come alla supervisione e alla discussione finale.
11 Cfr. G. Salonia (2013), Edipo dopo Freud. Dalla legge del padre alla legge della relazione, cit.
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POSTER E PRESENTAZIONE LIBRI Come di consueto, anche in questo Convegno è stato data a tutte le Scuole e agli Istituti di Gestalt presenti la possibilità di presentare su poster i propri contributi di ricerca e di illustrare le pubblicazioni editoriali più recenti e significative, alla luce del tema portante dell’evento formativo. L’Istituto GTK è stato fiero di esporre, per tutta la durata del Convegno, il poster del progetto di ricerca Medico di base e Psicologo Insieme. Un’esperienza di lavoro congiunto nella provincia di Ragusa, realizzato e coordinato dalla psicoterapeuta e didatta dott. ssa Elisa Amenta dal 2011 ad oggi, con la collaborazione del gruppo di ricerca dell’Istituto GTK, i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta del territorio provinciale. Tale iniziativa, in linea con analoghe esperienze di alcune regioni italiane che hanno rafforzato un’importante sinergia tra medico e psicologo per l’accoglienza e la presa in carico globale del paziente e del suo contesto di appartenenza, ha riscosso un considerevole interesse tra i partecipanti, dando luogo a dei momenti di discussione e confronto sui contenuti e sulle metodologie presentate. Altro momento importante per noi rappresentanti dell’Istituto GTK al Convegno FISIG è stata la presentazione degli ultimi due volumi della collana GTK, dedicati alla psicopatologia, come teoria e come prassi: Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica di G. Salonia, V. Conte e P. Argentino e La luna è fatta di formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio borderline a cura di G. Salonia. È stato per me emozionante introdurre, attraverso un rapido excursus dei suoi capitoli, lo sfondo ermeneutico e clinico alla base del testo Devo sapere subito se sono vivo, primo trattato di psicopatologia gestaltica, frutto della lunga esperienza di clinica, formazione e ricerca portata avanti negli anni dai suoi autori. Inevitabile il ringraziamento al prof. Eugenio Borgna per la sua magistrale presentazione, al prof. Antonio Sichera per il suo illuminante contributo sui fondamenti ermeneutici della Gestalt Therapy e quello, vibrante e commosso, alla memoria della dott.ssa Giovanna Giordano, a cui il libro è dedicato. Grazie alla collaborazione delle dott.sse Rosaria Lisi e Giovanna Silvestri è stato possibile leggere e ‘mettere in
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scena’ alcuni dei passaggi più significativi di stralci di verbatim riportati nel testo, che hanno permesso ai partecipanti di cogliere e gustare il clima di ascolto e rispetto, di accoglienza e serietà, di pathos e leggerezza con cui la Gestalt Therapy si accosta alla persona che vive un disagio grave. Quindi è seguito il momento del dott. Gaspare Orlando che ha preso per mano e accompagnato la platea dei partecipanti dentro il delicato e difficile universo del vissuto borderline, presentando il libro La luna è fatta di formaggio. La trama relazionale borderline ha preso forma e consistenza attraverso il suo soffermarsi sui diversi contributi del testo: da quello del prof. Salonia sulla traduzione gestaltica del linguaggio borderline, al capitolo della dott.ssa Gabriella Gionfriddo sulla lettura gestaltica dei criteri diagnostici del Disturbo Borderline di Personalità evidenziati nel DSM-5, per giungere alle attestazioni cliniche presentate dalla dott.ssa Andreana Amato e quindi alla lettura, grazie alle dott.sse Rosaria Lisi e Giovanna Silvestri, di stralci di verbatim e resoconti della terapia condotta dalla dott.ssa Valeria Conte con una paziente con linguaggio borderline. È seguito un interessante dibattito con i partecipanti, coordinato dal nostro direttore prof. Giovanni Salonia, che ha tracciato con la sua consueta chiarezza il fil rouge che lega i due testi all’interno dell’attuale contesto sociale postmoderno e dei suoi disagi, evidenziando tutta l’originalità, la bellezza e la pregnanza della rivoluzione ermeneutica e clinica portata avanti dall’Istituto GTK. Fiore all’occhiello per tutti noi rappresentanti dell’Istituto è stata, inoltre, la possibilità data ai partecipanti di poter visionare, oltre ai testi presentati, anche tutti gli altri volumi dell’editoria GTK, presenti nella bella postazione allestita dall’Editore Il Pozzo di Giacobbe per tutta la durata del Convegno.
RIFLESSIONI CONCLUSIVE In queste pagine ho voluto offrire ai lettori una breve descrizione della partecipazione dell’Istituto GTK al Convegno FISIG 2015, alla luce dei momenti più importanti che, a mio parere, l’hanno visto protagonista. Ritengo che partecipare ad esperienze come convegni e seminari nazionali ed internaziona-
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li costituisca sempre un’occasione preziosa di formazione e aggiornamento, indispensabili alla professione di chi, come psicoterapeuta, è chiamato a confrontarsi costantemente con le sfide e le contraddizioni della postmodernità e con le sue sofferenze. Per me sono stati senza dubbio dei giorni intensi, ricchi di incontri e confronti nutrienti, di stimoli e spunti su cui riflettere, ma anche di entusiasmo, convivialità e calore, vissuti nei momenti formativi, così come in quelli ricreativi (culminati, in particolare, con la cena sociale e con i balli più o meno scatenati che l’hanno animata). Non mi è stato possibile partecipare a tutte le esperienze di psicoterapia programmate in semiplenaria, ma da quelle seguite ho tratto tutta la bellezza e la fatica della nostra professione: credere nel cambiamento possibile di chi ci chiede aiuto. Nella quattro giorni torinese la Gestalt Therapy è stata lo sfondo sicuro, da cui, di volta in volta, sono emerse differenti figure: dalle intuizioni geniali di Fritz Perls e del gruppo dei fondatori, passando attraverso le successive generazioni di terapeuti, che a loro volta hanno dato luogo a nuovi sviluppi della teoria e della prassi clinica gestaltica. In questa multiforme varietà di stili e modelli, conosciuti e sperimentati attraverso la partecipazione ai workshops, ai focus group, alle supervisioni e discussioni di gruppo, non posso non sottolineare con forza la fierezza con cui ho vissuto il mio appartenere all’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos. Comprendere di essere terapeuti gestaltisti di ‘seconda generazione’ è stato per me e per tutti noi rappresentanti dell’Istituto GTK una grande emozione: essere allievi di Salonia, formato direttamente da Isadore From, uno dei sette fondatori. Il senso di appartenenza a questo approccio, come ci è stato trasmesso dai nostri direttori (Giovanni Salonia e Valeria Conte), è cresciuto e si è consolidato soprattutto nel cogliere la grandezza rivoluzionaria e profondamente attuale della Gestalt Therapy. Sin dai suoi inizi essa ha dato valore primario alla relazione e il modello GTK ne ha, negli anni, sottolineato e approfondito alcune caratteristiche fondamentali, a livello teorico e clinico. Concetti come ‘tempo e relazione’, ‘contesti sociali e modelli relazionali’, ‘intercorporeità’, ‘traità’, ‘teoria del sé’, ‘teoria evolutiva’, ‘terapia familiare’, ‘psicopatologia gestaltica’, per
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citarne alcuni, sono stati portati al Convegno attraverso il linguaggio, le chiavi di lettura, i vissuti corporeo-relazionali del nostro esser-ci tra noi e con gli altri, vivendo i diversi momenti, formativi e non, con integrità e pienezza, serietà e passione, impegno e leggerezza, al confine di contatto con un ambiente (umano e non) bello, ricco e stimolante. Il riconoscimento delle somiglianze e delle differenze tra le diverse Scuole e Istituti di Gestalt presenti ha costituito, pertanto, per me e penso per tutti gli altri partecipanti, un interessante momento di verifica e riflessione sullo sviluppo della psicoterapia della Gestalt in Italia, sulla sua storia, sui traguardi raggiunti e i limiti evidenziati, sui compiti e sulle sfide antropologiche, educative e cliniche ancora aperte… Dal momento che, come scrive Salonia, «la mancata connessione tra la psicoterapia e il contesto sociale rende debole un approccio psicoterapeutico»12 e alla luce delle significative esperienze vissute in questo Convegno, mi piace concludere questo contributo con l’augurio a tutti noi psicoterapeuti di non sentirci mai ‘arrivati’, ma di essere sempre aperti al nuovo che emerge dalla relazione con i nostri pazienti, pronti ad accogliere le loro domande di senso e a modulare su di esse i nostri modelli terapeutici, pur nel rispetto delle differenti impostazioni teoriche e cliniche. Solo in tal modo la psicoterapia può riaprire i sentieri interrotti della crescita e tornare a fare rifiorire la vita.
12 G. Salonia (2013), Psicopatologia e contesti culturali, cit., 26.
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PUBBLICAZIONI ANTROPOLOGIA
Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo Autore: Giovanni Salonia La felicità passa, ma a volte ritorna. È questo il messaggio in codice che viene dalla lettura di questo libro. Come a dire che non dobbiamo deflettere, che non è mail il caso di deporre la speranza. Anche nella condizione più difficile si può farle spazio, affinché la tanto attesa ritorni. ISBN: 978-88-6124-182-4 Pagine: 184
La Grazia dell’audacia. Per una lettura gestaltica dell’Antigone Autore: Giovanni Salonia Il volume è ispirato da un personaggio che è icona della forza gestaltica della relazione e della capacità di portare avanti fino in fondo ciò che il cuore detta: Antigone, protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle. Sono le riflessioni di Giovanni Salonia a guidarci nei sentieri del cuore e delle vicende di questa fanciulla che, con grazia ed intensità tutta femminile, sa proclamare ad una società che si è smarrita nella insensatezza ed aridità di una logica autoreferenziale, quell’ordine degli affetti che – solo – può restituire via e vita. «Solo perché lei sacrifica i suoi affetti più cari non scomparirà nella città il diritto degli affetti». Al saggio di Salonia fanno da cornice una prefazione di Antonio Sichera che introduce ad un lettura gestaltica dell’eroina sofoclea ed una traduzione inedita ed integrale del testo greco, preceduta a sua volta da una breve pagina di delucidazione sui criteri ed i riferimenti che hanno guidato l’opera di traduzione. ISBN: 978-88-6124-365-1 Pagine: 80
www.gestaltherapy.it
Memoria
LETTURE
TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE DEI DISTURBI DI PERSONALITÀ G. Dimaggio, A. Montano, R. Popolo, G. Salvatore (2013), Raffaello Cortina Editore, Milano. Recensione di Andreana Amato Il manuale Terapia Metacognitiva Interpersonale per i disturbi di personalità rappresenta l’esito in evoluzione di un percorso che tende a mettere insieme la riflessione clinica, l’esperienza e la validazione empirica di un modello appartenente alla generazione delle psicoterapie cognitive sviluppatesi negli ultimi vent’anni. La recensione di questo testo ha come sfondo un incontro vivo e fecondo tra Gestalt Therapy e Terapia Metacognitiva Interpersonale durante un seminario di studi organizzato dall’Istituto di GT Hcc Kairòs il 30 gennaio scorso. L’intenzionalità che ha dato forma a questa iniziativa è il desiderio di dialogo con i modelli attuali su un tema così rilevante nella pratica clinica come è quello dei disturbi di personalità. La GT porta con sé da sempre questa particolare attenzione al contesto, sia come attenzione ai modi in cui la sofferenza psichica si manifesta e si evolve nel tempo e nel mutare dei contesti socio-culturali, sia come desiderio di scambio con modelli differenti in quanto fonte di crescita e di evoluzione del pensiero clinico. Attraverso un linguaggio fluido, rigoroso sia nelle formulazioni teoriche sia nella presentazione dei casi clinici, il manuale dipana la procedura di trattamento che la TMI ha formalizzato per i disturbi di personalità. In particolare, si focalizza sui disturbi narcisistici, evitanti, dipendenti, ossessivo-compulsivi, paranoidi e sugli aspetti passivo-aggressivi, schizoidi, depressivi. Poiché nella prassi clinica spesso i pazienti presentano una co-occorrenza di più disturbi di personalità o un disturbo con tratti elevati di altri disturbi, la trattazione non verte sulle singole condizioni cliniche ma identifica delle procedure di trattamento comuni, «sequenze riconoscibili, interventi trasversali, applicabili a qualunque patologia di personalità il paziente presenti» (X). L’intento è dunque quello di fornire procedure generalizzate e riproducibili, supportate da ricerche empiriche in continuo sviluppo; non di meno il testo affida ai numerosi casi clinici,
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accuratamente riportati, l’emergere della ricchezza di sfumature e della specifica qualità delle singole patologie e soprattutto del modo in cui il clinico utilizza la procedura per adattarla all’unicità della persona. I primi capitoli del manuale descrivono le alterazioni del funzionamento cognitivo/affettivo, interpersonale e metacognitivo caratteristiche dei DP, tenendo comunque presente quali aspetti si associno più strettamente a uno specifico disturbo. Il primo capitolo si concentra «sulla patologia della struttura del discorso e dei contenuti dell’esperienza» (2) (ad esempio povertà narrativa, scarso senso di agency e stati mentali ricorrenti), mentre il secondo verte sulle disfunzioni nei processi di comprensione degli stati mentali e di regolazione degli affetti e del comportamento. Due elementi, tra i molti attenzionati, appaiono centrali nella concettualizzazione della psicopatologia dei DP: lo schema interpersonale patogeno e la disfunzione metacognitiva. «Lo schema interpersonale è una struttura procedurale intrapsichica, una rappresentazione soggettiva del destino a cui andranno incontro i nostri desideri nel corso delle relazioni con gli altri» (15), frutto dell’interiorizzazione e generalizzazione di tutte le esperienze relazionali, da quelle precoci a quelle attuali, vissute dalla persona nel corso del tempo. «è un’aspettativa interiorizzata, una configurazione cognitivoaffettiva a carattere previsionale – “Le cose andranno così” –, che guida l’azione» (Ib.). Lo schema include un desiderio, un’immagine sottostante di sé su cui la persona costruisce aspettative circa la soddisfazione o meno del desiderio e una procedura cognitiva e comportamentale attraverso cui tentare di soddisfarlo che elicita una ‘risposta dell’Altro’. Tale risposta, attesa o reale, genera a sua volta una ‘risposta del Sé’ di tipo emotivo, comportamentale e cognitivo. Nei DP gli schemi interpersonali poggiano su rappresentazioni di Sé e dell’altro patogene, in quanto negative, rigide, pervasive, facilmente attivabili e generanti emozioni intense e disregolate, che la persona difficilmente riesce a modulare. Poiché lo schema organizza sia l’esperienza interna sia il comportamento dell’individuo, questi riceverà/selezionerà nell’ambiente risposte che facilmente confermeranno lo schema e l’autoimmagine negativa, in un circolo vizioso di sofferenza e fallimenti relazionali.
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«La metacognizione è l’insieme della abilità che consentono all’individuo di comprendere gli stati mentali, propri e altrui, riflettere su di essi e padroneggiarli» (39). I DP sono caratterizzati da una compromissione di questa funzione nelle sue varie componenti. I pazienti hanno spesso difficoltà a identificare i propri pensieri e le proprie emozioni, a stabilire nessi di causalità psicologica tra pensieri, emozioni e comportamenti, ad assumere distanza critica dalle proprie convinzioni e desideri e a integrare gli stati mentali diversi e contraddittori in una visione unitaria di sé e del mondo. Le ricerche empiriche sembrano supportare l’ipotesi che la metacognizione «sia contesto-dipendente e legata allo stato affettivo e motivazionale» (42). Questa conferma ha rilevanti implicazioni cliniche poiché pone come condizione fondamentale per l’intervento psicoterapeutico la creazione di un contesto relazionale ben modulato nel quale il paziente possa far emergere e accrescere le proprie abilità metacognitive. Attraverso la procedura di assessment che include anche una valutazione testologica, il clinico ricostruisce lo schema interpersonale della persona nelle sue varie componenti, esplorando a questo scopo in modo dettagliato episodi narrativi a partire dal presente per poi allargare il campo all’intero ciclo di vita del paziente, favorendone le capacità associative. L’obiettivo dell’assessment è di giungere a una formulazione accurata del caso, definire le difficoltà metacognitive del paziente che potrebbero ostacolare la ricostruzione dello schema, formulare una diagnosi, progettare il trattamento e compiere una restituzione al paziente. Quest’ultimo aspetto ha una particolare rilevanza nella TMI ed è concepito non solo come comunicazione e attribuzione di una diagnosi categoriale ma, soprattutto, come formulazione del funzionamento del paziente in termini descrittivi e processuali. La restituzione è essa stessa un processo che avviene all’interno della relazione terapeutica e deve tenere conto di come lo schema del paziente entrerà in gioco nelle reciproche percezioni paziente-terapeuta. Nei successivi capitoli il manuale affronta dettagliatamente le procedure di trattamento. La TMI è strutturata in due macrofasi: formulazione condivisa del funzionamento e promozione del cambiamento.
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La prima è finalizzata «a comprendere gli stati mentali dei pazienti, i loro processi di ragionamento e gli schemi interpersonali» (82). La persona viene aiutata a migliorare le proprie abilità autoriflessive, ad acquisire consapevolezza dei propri schemi interpersonali disfunzionali e di come essi guidino comportamenti e azioni generando sofferenza soggettiva e problemi relazionali. La seconda fase del trattamento comprende una serie di procedure volte «ad assumere prospettive differenti, capire che il proprio mondo interno non rispecchia necessariamente la realtà, e a costruire modalità di pensiero e azione che portino verso benessere, adattamento e realizzazione personale» (84). A questo fine la TMI si avvale di un ampio repertorio di tecniche, prevalentemente cognitivo-comportamentali, che consente di focalizzare il lavoro sulla riduzione dei sintomi associati al DP e di promuovere la capacità di gestire i problemi interpersonali per ridurre la sofferenza soggettiva di cui il paziente è portatore. Le tecniche sono utilizzate coerentemente con i presupposti finora evidenziati, ovvero l’attenzione costante alla regolazione della relazione terapeutica e la promozione delle abilità metacognitive del paziente. Benché suddivisa in una sequenza di procedure, la TMI è un modello iterativo che parte e si evolve insieme al livello di funzionamento del paziente e intreccia interventi appartenenti ai diversi livelli del trattamento in base agli aspetti e alle necessità emergenti. Tutta la procedura della TMI è attraversata da un’attenzione al lavoro sulla relazione terapeutica, intesa come «l’insieme dei processi interpersonali che intercorrono tra terapeuta e paziente» (89). Gli obiettivi sono validare l’esperienza del paziente, creare un clima relazionale ottimale in cui egli possa esprimersi, prevenire rotture dell’alleanza terapeutica, rilevare e comprendere i suoi schemi interpersonali e metacomunicare sulla relazione terapeutica stessa, tenendo conto sia del funzionamento del paziente e del suo grado di abilità metacognitive sia della consapevolezza che il clinico ha delle proprie reazioni emotive ai contenuti e alle modalità relazionali portati dal paziente. Il terapeuta si sposta quindi continuamente da interventi basati sulla struttura di personalità e sui sintomi a interventi focalizzati sulla relazione in atto. Lasciando ad un’approfondita lettura del testo la comprensione dei singoli passaggi e delle tecniche proposte, vorrei solo
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accennare a due aspetti che hanno richiamato particolarmente la mia attenzione come psicoterapeuta della Gestalt. Innanzitutto la dimensione del linguaggio, così come affiora dai numerosi stralci clinici. Mi sembra che l’uso del linguaggio nell’incontro diretto con il paziente rimandi a un ‘saper stare con l’esperienza – corporea, emotiva, cognitiva, affettiva – dell’altro’ di cui la GT è precorritrice. Fondante e coerente con la sua matrice fenomenologica è infatti il desiderio di descrivere e comprendere l’esperienza dei pazienti attraverso un linguaggio che eviti la staticità di una categorizzazione e trasformi i contenuti e i sintomi in un processo relazionale dipanato e svelato insieme al paziente. Per la GT il linguaggio «è la dimora del contatto»1, lì dove è possibile individuare la trama dell’esperienza relazionale che il paziente sta vivendo e i diversi modi in cui il disagio psichico esprime l’interruzione del cammino verso un contatto nutriente con l’ambiente2. Un secondo aspetto riguarda l’attenzione alla relazione terapeutica. Pur costituendo un elemento di vicinanza rispetto a una ‘sensibilità relazionale’ verso cui molti approcci si dirigono, rivela anche ciò in cui la GT si differenzia. Direi che per la GT la relazionalità costituisce la cifra distintiva e radicale nella comprensione dell’insorgenza e della manifestazione della psicopatologia ma soprattutto della sua cura3. Il concetto gestaltico di stile relazionale (fobico, narcisista, dipendente) richiama appunto una comprensione della sofferenza psicologica in quanto schema, modalità di esserci-con l’altro cui è sempre sottesa una ferita relazionale e soprattutto un’intenzionalità, o desiderio, di contatto bloccata. Essa si esprime nei vissuti corporeo-relazionali: «Il ‘come mi sento di fronte all’altro’ è innanzitutto avvertito e scritto nel corpo. […] È proprio nell’intercorporeità tra il corpo del bambino e quello della figura genitoriale prima, tra il corpo del paziente e quello del terapeuta poi, che si sperimenta il fluire o l’interrompersi di un
1 G. Salonia (ed.) (2014), La luna è fatta di formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio borderline, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 8. 2 Cfr. G. Salonia (2013), Psicopatologia e contesti culturali, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 17-32. 3 Cfr. Ivi.
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episodio di contatto»4. La relazione terapeutica, nella cui attualità rintracciare la natura relazionale del sintomo, diviene quindi strumento e oggetto della cura stessa5 e non solo un aspetto da monitorare affinché i problemi relazionali non inficino il trattamento. Il terapeuta della Gestalt si focalizza su ciò che accade tra lui e il paziente a livello di vissuti reciproci (espressi attraverso i sensi, il corpo, il linguaggio), per cogliere e sostenere l’intenzionalità dell’altro a seconda del momento della seduta, dell’intero processo terapeutico così come del ciclo di vita. «Nella GT il terapeuta si chiede: Cosa è accaduto/sta accadendo tra noi due? Come i nostri rispettivi vissuti si autoregolano reciprocamente? Come immettere il mio eventuale fastidio nell’intreccio dei reciproci vissuti?»6. In GT la regolazione mentale del terapeuta è intesa quindi come capacità di essere consapevole dei propri vissuti in quanto vissuti intercorporei che emergono al confine di contatto con il paziente e si intreccia strettamente con il focus terapeutico: significa cioè analizzare costantemente il fluire della relazione terapeuta-paziente «diventando sempre più consapevoli (da parte del terapeuta e del paziente) delle vicende relazionali che man mano si succedono nel qui-e-adesso delle sedute»7. Pur discendendo da premesse epistemologiche molto differenti, mi sembra che questi aspetti possano costituire terreno di confronto fecondo tra modelli terapeutici, in un momento in cui l’attenzione alla dimensione relazionale dello sviluppo, della psicopatologia (e della cura) rappresenta un elemento trasversale del contesto scientifico attuale e si intreccia con la costante e necessaria riflessione su come coniugare linguaggio e procedure rigorosi e condivisibili con l’unicità del paziente, o meglio, dell’incontro terapeutico.
4 Ivi, 32. 5 Cfr. V. Conte (2013), La Gestalt Therapy e i pazienti gravi, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo, cit., 69-93. 6 G. Salonia (2013), L’ANXIETY come interruzione nella Gestalt Therapy, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo, cit., 33-53, 48. 7 G. Salonia (2013), L’improvviso, inesplicabile sparire dell’Altro. Depressione, Gestalt Therapy e postmodernità, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo, cit., 181192, 189.
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PUBBLICAZIONI ANTROPOLOGIA
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Nel libro testi di D. Iacono e G. Maltese, G. Salonia, A. Sichera.
L’
invidia è la piÚ triste e universale delle passioni: un tarlo che ci insidia e ci costringe a guardare di sbieco (in-videre) fuori di noi, un desiderio persistente di ciò che non abbiamo avuto o di cui la vita, crediamo, ci abbia privato. PerchÊ non ho, ovvero non sono, come lui, come lei, come te? PerchÊ tanti di quelli che conosco sono stati piÚ fortunati di me? I come invidia prende avvio dalle interpretazioni fondamentali della passione triste e con gli strumenti della Gestalt Therapy offre una prospettiva nuova al desiderio di unicità e di contatto che ci abita sin da bambini. E da cui tutto comincia.
G. Salonia (ed.)
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Giovanni Salonia (ed.)
i come invidia
Giovanni Salonia, psicologo e psicoterapeuta, insegna all’Università Pontificia Antonianum di Roma. Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dell’Istituto di Gestalt Therapy HCC Kairòs, didatta a livello internazionale, ha pubblicato recentemente Sulla felicità e dintorni e Odós. La via della vita e, come coautore, Devo sapere subito se sono vivo e La luna è fatta di formaggio, che trattano tematiche antropologiche e cliniche. Ha fondato e diretto la rivista Quaderni di Gestalt e dal 2008 è direttore scientifico di GTK Rivista on line di Psicoterapia. Per Cittadella Editrice dirige, con Rosella De Leonibus, la collana Dià pathos. Nel volume, contributi di Valentina Chinnici, Giovanni Salonia, Dada Iacono, Ghery Maltese.
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La vera storia di Peter Pan. Un bacio salva la vita A cura di: Giovanni Salonia Peter Pan è uno dei testi piÚ incompresi e mistificati della letteratura per l’infanzia. Presentata come la storia di un bambino che non vuole crescere, essa rivela in realtà la tendenza diffusa ad etichettare il comportamento dei bambini e a creare teorie salva-adulti: il complesso di Edipo, di Telemaco, di Peter Pan. Ma chi è Peter? Basta aprire il libro per scoprirlo: Se voi, o io, o Wendy fossimo stati là , avremmo visto che Peter Pan assomigliava proprio al bacio della signora Darling. Il volto di Peter è quello del bacio che mamma Darling trattiene all’angolo della sua bocca: il bacio che non raggiunge Wendy, il suo desiderio, il suo corpo. Il bacio che sotto le specie del bottone di Peter di lÏ a poco le salverà la vita. Tale è lo sfondo ermeneutico da cui emerge in questo libro il punto di vista gestaltico su Peter. Con registri diversi: dalla teoria clinica alla psicoterapia infantile, dalla critica semantica al pensiero educativo.
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I come Invidia. A cura di: Giovanni Salonia L’invidia è la piÚ triste e universale delle passioni: un tarlo che ci insidia e ci costringe a guardare di sbieco (in-videre) fuori di noi, un desiderio persistente di ciò che non abbiamo avuto o di cui la vita, crediamo, ci abbia privato. PerchÊ non ho, ovvero non sono, come lui, come lei, come te? PerchÊ tanti di quelli che conosco sono stati piÚ fortunati di me? I come invidia prende avvio dalle interpretazioni fondamentali della passione triste e con gli strumenti della Gestalt Therapy offre una prospettiva nuova al desiderio di unicità e di contatto che ci abita sin da bambini. E da cui tutto comincia. ISBN: 978-88-3081-428-8 Pagine: 112
Ogni giorno merita una Gestalt. A cura di: Stefania Antoci, Alessandro Rusca Il volume rappresenta il primo diario gestaltico curato dall’Istituto Gestalt Therapy hcc Kairos. L’istituto, al suo quarto decennio di attivitĂ , opera nell’ambito della formazione e della ricerca in psicoterapia della Gestalt a livello nazionale e internazionale. Propone una sorta di “quarta anima della Gestaltâ€? che apre nuove prospettive sull’antropologia e sulla clinica del vivere insieme e della crescita, sviluppando contributi innovativi sia a livello ermeneutico che clinico. Tra gli ultimi si annoverano l’elaborazione di una teoria sui modelli relazionali di base e la psicopatologia, un modello di teoria evolutiva e un modello di Gestalt Therapy con le coppie e le famiglie (teoria del SĂŠ e dell’intercorporeitĂ ). ISBN: 978-88-3081-392-2 Pagine: 156
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Colazione sull’erba
LETTURE
LA LUNA È FATTA DI FORMAGGIO TERAPEUTI GESTALTISTI TRADUCONO IL LINGUAGGIO BORDERLINE Giovanni Salonia (ed.) (2014), Il Pozzo di Giacobbe, Trapani. Recensione di Paolo Ottavi Mentre leggevo degli sforzi, encomiabili, di tradurre il linguaggio del paziente borderline, mi accorgevo di essere impegnato, a mia volta, in una traduzione: dal linguaggio gestaltico a quello cognitivista. Dopo un po’ ho deciso di smettere di lavorare e di godermi il testo. Che ha un contenuto importante, complesso, direi ponderoso, ma scritto in una prosa chiara, incisiva, scorrevole, talvolta evocativa e lirica. Chi è in grado di scrivere un testo che riesca a descrivere e spiegare con eleganza l’enorme complessità del Disturbo Borderline di Personalità (DBP) in meno di 170 pagine? Pochi. Eppure gli autori guidati da Salonia ci riescono e lo fanno in maniera apprezzabile: rendendo chiare, semplici, addirittura popperianamente falsificabili, le loro ipotesi. Le sintetizzo, partendo dall’eziologia: i pazienti con DBP sono fondamentalmente vittime di comportamenti incoerenti, imprevedibili e manipolativi, talvolta violenti, da parte dei loro caregivers («imbrogli», nel linguaggio degli autori; «invalidazioni», nel linguaggio della terapia dialettico-comportamentale della Linehan). Tali comportamenti finiscono col minare alle fondamenta il senso di sé dei futuri BDP, non consentendo loro di integrare le esperienze affettivo-relazionali e generando il sentimento preponderante di confusione (cioè di non-integrazione). Il danno può avvenire a 3 livelli, responsabili dei diversi gradi di gravità del disturbo. Il livello più profondo – che darà origine a maggiore gravità – avviene nel registro senso-motorio: non hanno la certezza di ciò che provano oppure possono provare emozioni incoerenti e incompatibili (per esempio desiderio e paura). Un secondo livello è quello della confusione (nonintegrazione) rispetto all’ownership: sono io che provo questo sentimento o è l’altro? Il terzo è quello semantico: confondono i nomi delle emozioni, che però sentono in maniera distinta e di cui riconoscono la paternità.
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Sulla base di questo danno centrale si articola la traiettoria esistenziale del paziente: senso di identità precario, rappresentazione oscillante, non integrata, talora dicotomica di sé e dell’altro, bisogno imperioso di sentirsi e di avere chiarezza, difficoltà a regolare i propri stati emotivi, fame di relazioni unita a caoticità nelle stesse relazioni, aggressività (come ricerca di chiarezza e reazione all’imbroglio), impulsività e quant’altro conosciamo del caleidoscopico universo borderline. Da tali principi esplicativi del modello discendono le indicazioni terapeutiche, descritte con una chiarezza chirurgica. Primum: non interpretare. Come non essere d’accordo! E poi: non farsi irretire dalla richiesta di calore e passionalità, ma restare all’interno di un registro di cordialità (Liotti direbbe: all’interno di un sistema motivazionale di tipo cooperativo1); attenzione prioritaria rivolta alla regolazione della relazione e dell’alleanza terapeutica (attenzione al clima/sfondo piuttosto che alla figura, nel linguaggio degli autori); sforzo continuo di chiarificazione e traduzione del linguaggio del paziente. Inoltre, un invito energico, rivolto a noi terapeuti, all’autenticità totale, al fine di evitare il rischio, sempre presente con questi pazienti, di diventare involontariamente autori noi stessi di invalidazione («imbroglio») nei loro confronti. Interessantissimi e brillanti sono, a questo proposito, i commenti ai verbatim di terapeuti famosi (da Kernberg a Fonagy). Finito di leggere, mi concedo di tornare alle traduzioni e ai confronti. E agli incontri possibili e auspicabili. A mio avviso i limiti imputabili a questo testo, prezioso ma necessariamente circoscritto, sono essenzialmente due. Innanzitutto la scarsa connessione con la ricerca, specie quella relativa all’attaccamento e al trauma. Questo non tanto per dovere di citazione, ma perché questo tipo di ricerche porta con sé un grosso potenziale euristico per il clinico che si confronta con il paziente borderline. Si pensi soltanto all’importanza che riveste la disorganizzazione dell’attaccamento nell’eziologia del disturbo e quanto l’utilizzo massiccio di
1 Cfr. G. Liotti, F. Monticelli (2014), Teoria e clinica dell’Alleanza Terapeutica. Una prospettiva cognitivo-evoluzionista, Raffaello Cortina, Milano.
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‘strategie controllanti’2 dell’attaccamento incida sulla relazione terapeutica. Vado ad illustrare con un esempio clinico. Un giorno Franca, paziente con DBP di 23 anni, arriva trafelata, con un po’ di ritardo e iniziamo la seduta parlando di alcuni temi rimasti in sospeso dalla volta precedente. Lei appare ponderata, tranquilla e padrona di sé. A un certo punto, dopo un mio intervento, mi dice: «sì, guardi, ha ragione, è tutto vero. Ma io non sento niente. Quello che mi dice lo sento vero e apprezzo la sua onestà e il suo sforzo, ma non provo niente per quello che dice». Nessun tono polemico, nessuna critica, anzi, ci tiene a rassicurarmi che non ho nulla di sbagliato, che vado bene, ma purtroppo non riesco ad ‘accenderla’. In realtà io neanche ci provo a farlo, non è questo il mio scopo con lei (seguo il ‘registro della cordialità più che del calore’). Ma cosa si nasconde dietro questa imponente necessità di sentire forti sentimenti relazionali? Decido di esplorare l’argomento e le chiedo di caratterizzare meglio l’esperienza del ‘non sentire’, voglio entrare nell’esperienza. «Non sento niente. Cioè, sto bene, sono tranquilla, davvero, ma… è come se fossi un po’ scollata». «Scollata… interessante. È proprio un ‘come se’, una metafora o qualcosa di più, un’esperienza difficile da descrivere?». «No, non è come se, è che sono scollata. Mi sento bene, ma sono scollata». A questo punto decido di ricostruire passo passo l’evoluzione nel tempo dell’esperienza di ‘scollamento’ con la tecnica della ‘moviola’3. Le chiedo di individuare il momento esatto in cui ha iniziato ad avvertire lo scollamento. Risponde velocemente ma la risposta è generica e non situata: «quando sto qui, seduta davanti a lei». «Quindi poco prima, mentre stava prendendo l’acqua dal distributore, non era scollata…». «No…, cioè sì, ero già scollata. In realtà ora che ci penso, la sensazione è iniziata appena ho aperto il portone dello studio e l’ho vista in piedi davanti alla segreteria che mi aspettava. Io ero in ritardo, affannata». Continuiamo,
2 Cfr. K. Lyons-Ruth, E. Spielman (2004), Disorganized infant attachment strategies and helpless-fearful profiles of parenting: Integrating attachment research with clinical intervention, in «Infant Mental Health Journal», 25, 318-335. 3 Cfr. V.F. Guidano (1992) (ed. or. 1991), Il sé nel suo divenire, Bollati Boringhieri, Torino.
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fotogramma per fotogramma, seguendo contemporaneamente due monitor: in uno ciò che avviene (cosa vede, cosa dico, cosa fa), nell’altro cosa sente. Alla fine gli elementi sono tanti, ma, finalmente, chiari: quando Franca mi vede ha un sentimento di vergogna e di paura. Mi sente troppo, altroché. In quel momento si spaventa e si distacca, ma continua a temermi. Mi cerca, vuole parlarmi e ricevere aiuto, ma ha paura. Come con la madre, depressa, rabbiosa e imprevedibile. Quando lei aveva bisogno, la mamma poteva picchiarla, così, senza motivo. E allora ben venga lo scollamento, la dissociazione. Così, certamente, gestisce le proprie paure, ma vuole anche sentire di più. Fa questo per controllare! Quando Franca ha paura dell’altro, mette in atto alcune ‘strategie controllanti’ per proteggersi in un momento in cui l’attivazione dell’attaccamento la fa sentire vulnerabile e bisognosa e per uscire dalla paura senza sbocco: quando ha paura e ha bisogno d’aiuto, io sono quello che lei cerca per stare meglio, ma sono pure quello che la inquieta. Meglio non avere bisogno, quindi si distacca (si «scolla»). Non solo: mi chiede, senza altro bisogno che non quello di controllarmi, di cambiare registro ed entrare nel range delle emozioni forti, dove si sente in posizione dominante e sicura. Per non sentirsi bisognosa potrebbe sedurmi, o protestare, o accudirmi. Così può disinnescare la bomba. Ecco da dove viene il bisogno di una forte emozionalità in terapia: non per sentire di più, ma per controllare l’altro nel momento in cui si sente vulnerabile e disattivare un pericoloso bisogno di cura. Un secondo limite riguarda la scarsa enfasi che nel testo viene posta alla regolazione mentale dello psicoterapeuta o, perlomeno, alle modalità di tale regolazione. Nella Terapia Metacognitiva Interpersonale una rilevanza centrale viene data a tale regolazione, e gli strumenti che utilizziamo sono essenzialmente due: le Operazioni di Disciplina Interiore (ODI)4 e le metacomunicazioni con svelamento della mente del terapeuta5. Un altro esempio tratto dalla clinica. Stefania è una mia paziente di 24 anni. Alcoolismo e tagli sui polsi. Frequenti disrego-
4 Cfr. J.D. Safran, Z.V. Segal (1993) (ed. or. 1990), Il processo interpersonale nella terapia cognitiva, Feltrinelli, Milano. 5 Cfr. J.D. Safran, J.C. Muran (2003), Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica, Laterza, Roma-Bari.
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lazioni emotive ma più spesso sovramodulazione degli affetti, con sentimenti di vergogna, sintomi di depersonalizzazione e una prepotente immagine di sé come stupida e incapace. Nonostante l’ottimo stato dell’alleanza terapeutica, mi accorgo di avvertire spesso un senso di disagio, di solito quando cerco di approfondire un tema attraverso delle domande. In una seduta si ripresenta questa percezione di disagio, e mentre ascolto la paziente inizio le mie ODI. Mi chiedo innanzitutto come mi sento. E mi rispondo: «mi sto accanendo con le domande, sto in ansia»; «perché ansia? Sto combattendo con il sentirmi stupido, incapace, imbranato… sì, è vergogna». Poi passo allo step successivo: «cosa mi fa sentire così? avviene quando lei mi dà quelle risposte laconiche… forse mi sento inadeguato perché non risponde come vorrei? Ma non sempre mi capita di sentirmi stupido quando uno mi risponde a monosillabi. No, c’è qualcosa nel modo in cui mi risponde, anzi, nell’espressione del viso… Ci sono: la smorfia che fa con la bocca, come a dire “bah, mi sembrano tutte cazzate…”! Sì, la interpreto come un segno di disapprovazione, come se giudicasse negativamente le mie domande. E poi, seguendo la lezione magistrale di Jeremy Safran, mi chiedo cosa può esserci di condiviso con la paziente: «Vediamo, anche lei si sente continuamente giudicata negativamente, soffre spessissimo di vergogna, ha un’immagine di sé come di una stupida e incapace. Forse mi sta facendo sentire come si sente lei di solito perché vuole mettermi nella posizione più scomoda? Oppure si è sentita lei stessa in questo modo con le mie domande?». Decido di esplorare con la paziente queste ipotesi, attraverso una self-disclosure. Mi scusi Stefania, ma vorrei parlarle di una cosa che avviene dentro di me da un po’, in risposta a certi suoi messaggi non verbali. Ho notato da tempo questa sua tipica espressione [mimo il comportamento n.v.], molto frequente quando io le pongo delle domande. Ora, mi sono accorto che questa smorfia mi provocava un senso di disagio che ho voluto capire meglio. In realtà, quello che mi provocava era un senso di vergogna legato all’idea di essere stupido, imbranato e incapace di fare le domande giuste. Ora, potrebbe trattarsi di un mio problema personale, ma in realtà di solito non mi accade. Con lei sì, ma solo quando emette quel c.n.v. Allora mi è venuto in mente che lei si sente spessissimo così, che è un
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suo modo tipico di sentirsi nelle relazioni. A questo punto, ho pensato che poteva essere utile riferirle questa mia sensazione ed esplorarla insieme a lei, per capire se, quando emette quel verso, lei non provi pensieri e/o emozioni simili a quelle che le ho descritto. La risposta della paziente: Mah, no… cioè prima sì, all’inizio [della terapia] intendo… Ma adesso io mi fido di lei, non mi sento criticata. Quel verso… non me ne sono accorta. Non so cosa stessi pensando, però forse ero un po’ scoglionata… T: quando è iniziato lo scoglionamento? A inizio seduta non lo notavo… P: No, è quando lei mi fa tutte quelle domande… T: la disturbano? P: No… cioè sì ma non come all’inizio [della terapia] quando mi facevano incazzare… Non ero incazzata con lei. No, è che quando mi fa quelle domande, boh… [sbuffa] T: Quando le faccio quelle domande…? Cosa le viene da pensare in quel momento? P: Che non ce la posso fare a risponderle, che è troppo difficile, che sono… [pausa; sorride] T: Che sono…? P: Cavolo ha proprio ragione… Abbiamo provato la stessa cosa. Io mi sono sentita proprio stupida e incapace, incapace di risponderle, di starle dietro…. E lei si è sentito così, uguale uguale... Cavolo… Ma può essere che con queste espressioni io faccia incazzare gli altri? Me lo dice sempre il mio ragazzo che io ci godo a farlo sentire cretino, ma non capivo… Ma l’incontro non è tale se il convitato (io, in questo caso, o il cognitivismo) non porta via con sé qualcosa dell’anfitrione (Salonia, o la Gestalt Therapy). E allora qui mi sembra di individuare due debolezze del cognitivismo, che trarrebbero grande giovamento dalla lezione gestaltica. Innanzitutto, il corpo! Il terapeuta gestaltico lo sa leggere, decodificare, e ci sa lavorare in terapia. Credo che si tratti di una ricchezza enorme che solo ora il cognitivismo sta approcciando, grazie alla diffusione delle terapie bottom-up o senso-motorie (Ogden) e della terapia polivagale (Porges), che sempre di più attraggono terapeuti e teorici cognitivisti. E
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poi, il contatto. Trovo molto interessante l’attenzione al ‘ciclo di contatto’ tra terapeuta e paziente, in cui di nuovo confluisce l’esperienza corporea di entrambi i soggetti, e che sta a rappresentare quello sfondo implicito – «antepredicativo», direbbe Husserl – della relazione che deve essere colto e rappresentato precocemente dal terapeuta, per non rimanere impaniato nelle varie e mutevoli figure che da esso emergono, ma che spesso finiscono per occultare la vera matrice (la «fondazione originaria», sempre con Husserl) dell’incontro umano. Infine, un plauso al richiamo continuo all’autenticità del terapeuta e all’atteggiamento validante, fino alla capacità di ammettere i propri errori in situazioni di attacco frontale. Anche qui vorrei dare il mio contributo clinico. Giovanna entra nella stanza di terapia molto tesa e cupa in volto. Io mi scuso per averla ricevuta con 8 minuti di ritardo. Giovanna immediatamente afferma, durissima: «ecco, queste cose mi fanno proprio incazzare. Far aspettare fuori dalla porta è proprio un gesto da maleducati, una mancanza di rispetto. È una questione di principio! Queste cose mi fanno andare in bestia… Cioè, questa è maleducazione all’italiana, come dal medico o alle poste. Tanto il cliente sta lì buono ad aspettare come un cretino…». Tenendo conto che nei momenti più difficili ho protratto la seduta oltre il limite orario per consentirle di attenuare il dolore che la pervadeva e che il paziente della seduta precedente è uscito visibilmente provato e in lacrime, ognuno può immaginare quale reazione urgeva in me. Anche qui le ODI mi hanno aiutato a regolare le emozioni e a ritrovare una posizione empatica, difficilissima in quel contesto. Alla fine sono riuscito a dire così: «Sì, credo abbia ragione… di fatto le ho procurato un abuso. Ora che mi ci fa pensare credo di aver fatto come suo padre. Sono stato concentrato su di me e sulle mie esigenze e ho dato per scontato che lei potesse capire, sottovalutando il danno che le avrei provocato. Mi dispiace veramente». Non c’è stato bisogno di dire altro: Giovanna sentendo validato il proprio dolore e sentendo disconfermate le aspettative di trovarsi di fronte un muro sordo e indisponibile, ha velocemente modulato la rabbia, disponendosi, di lì a poco, a riflettere su ciò che era accaduto, identificando gli schemi dolorosi che l’avevano così tanto attivata.
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PUBLICATIONS JOURNAL OF PSYCHOTHERAPY (ITA/ENG)
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Editorial
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Research The anxiety of acting between excitement and transgression. Gestalt Therapy with the phobic-obsessive-compulsive relational styles Giovanni Salonia
Research Gestalt Therapy and its serious patients Valeria Conte
Research The personality-function in Gestalt Therapy Antonio Sichera
The Perls’ Mistake. Perceptions and misunderstandings of the gestalt post-Freudianism Interview to Giovanni Salonia by Piero A. Cavaleri
Theory of Self and the liquid society. Rewriting the Personality-function in Gestalt Therapy Giovanni Salonia
Research The moon is made of cheese. Exercises of gestaltic translation of borderline language Giovanni Salonia
Art and psychotherapy The recovered body. Writings and images of a therapy I can’t write it… Eva Aster
Art and psychotherapy Borderline Border-line Annalisa Iaculo
The borderline patient: an insistent, anguished demand for clarity Interview to Valeria Conte by Rosa Grazia Romano Art and psychotherapy To Alda Merini Paola Argentino Catch my soul Giuliana Gambuzza New clinical pathways Onotherapy and Gestalt Therapy: New Applications of Pet Therapy Silvia Zuddas and Francesco Padoan Readings Aluette Merenda, Fabio Presti
New clinical pathways Narcissus: the reflex without water The myth according to bill Viola, reflections on the narcissistic experience Giovanna Silvestri Readings Aluette Merenda
Re-reading ‘the re-discovered body’ interview to Maurizio Stupiggia ed. by Elisa Amenta Society and psychotherapy The flight of Bauman in Siracusa. Interview to Zygmunt Bauman ed. by Orazio Mezzio Readings Aluette Merenda
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The relational narcissistic model in the post-modern world and therapeutic work in Gestalt Therapy Valeria Conte Beyond Oedipus, a brother for Narcissus Paola Aparo
ISSN 2039-5337
psicopatologia
Istituto di Gestalt Therapy Kairos
Istituto di Gestalt Therapy Kairos
dicembre 2014/05
dicembre 2014/05
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psicopatologia
RIVISTA DI PSICOTERAPIA
COLLECTION INDICE 05 RIVISTA DI PSICOTERAPIA
Editoriale .................................................................................. pag.
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In questo numero .............................................................. pag. 11 Ricerca ....................................................................................... pag. 17 Gestalt animal assisted psychotherapy: incontri eterospecifici in psicoterapia Aluette Merenda Intersezioni. La terapia della Gestalt incontra l’etnopsichiatria Michela Gecele Arte e psicoterapia .......................................................... pag. 69 Poesie sul femminile Chiara Gatti Nuove applicazioni cliniche....................................... pag. 75 Da Geppetto a Pigmalione: il maschile come presenza che (si) trasforma Claudia Angelini Con te non ho paura. Per una rilettura del testo «Attacchi di panico e Postmodernità» Annalisa Castrechini L’elaborazione del lutto in psicoterapia della Gestalt Nadia Iannella Società e psicoterapia.................................................... pag.125 Now moment o finally contact? Incontri e confronti con D. Stern, amico e maestro Giovanni Salonia GTK dissemination ........................................................... pag.131 Report VI CONVEGNO F.I.A.P. L’emergere del Sé in psicoterapia. Neuroscienze, psicopatologia e fenomenologia del Sé 2-5 Ottobre 2014 Riva del Garda (TN) Grace Maiorana Letture ........................................................................................ pag.145 Aluette Merenda, Giovanni Salonia
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Psicoterapia
LETTURE
LA RELAZIONE ASSOLUTA PSICOTERAPIA DELLA GESTALT E DIPENDENZE PATOLOGICHE Giancarlo Pintus, Maria Vittoria Crolle Santi (eds.) (2014), Aracne, Roma. Recensione di Zi Lin Luca You È difficile non rimanere colpiti da La Relazione assoluta. L’introduzione di Crolle spiega in maniera cristallina cos’è e cosa non è questo volume. Non ha le pretese di essere un manuale esaustivo sulle dipendenze patologiche, come invece si potrebbe pensare dal sottotitolo Psicoterapia della Gestalt e dipendenze patologiche. Esso è invece una raccolta di riflessioni teoriche, cliniche e sociali di alcuni terapeuti, accomunati dalla formazione presso la prima scuola italiana di GT, l’Istituto HCC, e da decenni di esperienze nel settore addiction. Sarebbe un errore credere che una raccolta di riflessioni equivalga ad una manciata caotica di articoli psicoterapeutici. Ciò che abbiamo davanti è piuttosto un ricco mosaico in cui i vari e diversi contributi si incastrano, sottintendendo una trama comune, organizzata, che li unisce in un unico tutto: il modus cogitandi della GT sulle dipendenze patologiche. Gli autori vogliono spiazzare subito il lettore specializzato, non importa se gestaltico o di altri orientamenti, ribadendo che lo scopo dell’intervento terapeutico non è arrivare all’astinenza dalla sostanza poiché «non è parte del nostro metodo e comunque sarebbe una sfida impari destinata a fallire» (67). Un fallimento ben noto agli addetti ai lavori, che facilmente annuiranno. L’obiettivo terapeutico è piuttosto quello di sostenere l’intenzionalità del paziente, che si è interrotta, dopo un fallimento relazionale precoce, nell’incontro con la sostanza. In accordo col modello della GT per cui ogni sintomo rappresenta un appello relazionale, la sostanza è un instead of, un surrogato che il soggetto ha imparato ad usare quando l’ambiente-adulto non ha saputo sostenerlo nel suo bisogno di creare contatti nutrienti con il mondo. Ma è proprio il bisogno relazionale che sta alla base della ricerca del piacere.
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È con questo pensiero che la GT offre una chiave di lettura alle dipendenze patologiche, sganciandosi agilmente da un riduzionismo medico-tossicologico e invitando il lettore ad uscire dall’illusione del controllo-astinenza per entrare nella scoperta del piacere dell’alterità come cura. Tale pensiero si racchiude nella metafora di Salonia quando scrive: «non è turandosi le orecchie con la cera o facendosi legare ad un palo che si supera l’incanto delle sirene, ma portando sulla nave Orfeo» (24). Proprio la presentazione di Salonia, i primi capitoli di Pintus e quello di Crolle sul vissuto del terapeuta nella relazione col paziente, sembrano quasi una guida in quanto forniscono gli strumenti teorici necessari per godere pienamente della seconda parte del volume. Il libro a questo punto si apre a ventaglio, offrendo una serie di articoli densi di lavoro e riflessioni germinate dall’operatività quotidiana e dall’esperienza nei vari setting dell’addiction. Il lettore è praticamente esortato a non seguire più la progressione numerica dei capitoli ma, in puro stile gestaltico, è libero di cercare il contributo più adatto a lui in quel momento, quello che più lo attira e lo solletica intellettualmente. Vi troviamo allora contributi preziosi come quello di Crolle, il secondo, stavolta sui gruppi terapeutici o la ricerca di Occhipinti sui vissuti dei pazienti con diagnosi da gambling patologico, o ancora il capitolo sulla terapia per il tabagismo di Cannarozzo. Non manca il tema della prevenzione grazie all’articolo di Marchiori, che si sofferma proprio su ruolo non solo del terapeuta, ma anche del genitore, single o meno, come fattore protettivo in adolescenza. Alcuni capitoli si fanno masticare con più caparbietà. Ne è un esempio il contributo di Cavaleri: riflessioni dense e corpose, che affondano le radici negli scritti di Perls e Goodman e si diramano fino al pensiero di Bin Kimura e le neuroscienze di Damasio; un articolo che va letto e riletto (specialmente dopo aver toccato altri contributi) per coglierne il vero potenziale, particolarmente adatto ad un lettore dal palato più sofisticato. Altri articoli rivelano invece una freschezza e dinamicità quasi divulgativa, come le Identità sospese di Battaglini; il lettore qui troverà molti suggestioni per rivedere la propria esperienza di terapeuta, di operatore nel sociale e di uomo post-moderno.
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Come è lecito aspettarsi da un libro sulla GT, non possono mancare i contributi legati al corpo. L’articolo di Libranti porta l’esperienza del lavoro sul respiro nei gruppi di detenuti con dipendenze patologiche. La coppia Bettamin-Giordano invece illustra in maniera minuziosa com’è il corpo fenomenologico e vissuto nei pazienti addicted, e come si possa lavorare su tale aspetto nelle comunità terapeutiche. Anche La Paglia dedica un ulteriore capitolo alle comunità terapeutiche, forse il setting più comune per gli esperti del settore. Essenziali poi la riflessione ed esperienza sulla doppia diagnosi portate con chiarezza da Arezzi, un articolo che attirerà di sicuro il lettore vicino ai servizi e alla problematica del confine tra pazienti psichiatrici e tossicodipendenti. La chiusura del volume è affidata a Di Petta, terapeuta e fenomenologo del gruppo Dasein-analitico, approccio differente ma straordinariamente familiare all’orecchio gestaltico. Quest’ultimo pensiero ci esorta ad abbandonare la posizione difensiva e osare un «contatto interpersonale spiazzante» (384) col paziente addicted, primo passo per bucare l’inscalfibile totalità percettiva della sostanza e agganciarlo. La ricchezza di stili di scrittura diversi e l’enorme varietà di riflessioni allontanano definitivamente l’idea del manuale didattico o nosografico, lasciando la piacevole sensazione di trovarsi in una fucina di idee. L’eterogeneità dei pensieri non disorienta mai, in quanto ogni sezione è fortemente ancorata all’impianto teorico ed ermeneutico illustrato nella prima parte del libro. Ritorna di continuo, infatti, la concezione di dipendenza patologica come figura fissa su uno sfondo irrigidito, della terapia come lento passaggio dal piacere della sostanza al piacere della relazione, dell’importanza dei vissuti sia del paziente che del terapeuta. Il lettore più pretenzioso potrebbe rimanere deluso dal poco spazio dedicato alle nuove dipendenze (come lo shopping o la sex addiction), sebbene vengano accennate in molti capitoli. Come ricorda Crolle però, gli autori sono ben consapevoli di non aver toccato tutte le tematiche dell’addiction, ma l’esaustività non è mai stato lo scopo di quest’opera. La relazione assoluta non si presenta affatto come un libro completo sulle dipendenze. La lucida consapevolezza che in questo campo non se ne sappia mai abbastanza e che la pa-
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rola ‘fine’ sia illusione di onnipotenza, ci viene trasmessa senza che ciò generi insoddisfazione intellettuale. Emerge inoltre un richiamo estetico al lavoro clinico o educativo con le dipendenze patologiche, scevro da giudizi moralistici o da entusiasmo illusorio. Il lettore senza dimestichezza nel settore scoprirà che c’è della bellezza anche nel lavoro con le addiction, solitamente evitato da molti terapeuti a causa di una pessima nomea. Il clinico con esperienza invece troverà nutrimento per la propria professione e nuovi strumenti da applicare nell’operatività quotidiana. Senza presunzione, ma semplicemente con forte professionalità, gli autori hanno confezionato un testo di elevata qualità ed eccezionale utilità teorica, clinica e sociale, indipendentemente dall’orientamento terapeutico del lettore. Esso non solo riempie di fatto una lacuna del panorama bibliografico della GT, ma esorta il clinico ad essere vivo nel suo lavoro e, perché no, a contribuire alle suggestioni offerteci da questi artigiani del contatto.
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ISSN 2039-5337
Psychopathology Gestalt Therapy Kairos Institute jenuary 2016/05
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Gestalt Therapy Kairos Institute jenuary 2016/05
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Psychopathology
JOURNAL OF PSYCHOTHERAPY
COLLECTION INDEX 05 JOURNAL OF PSYCHOTHERAPY
Editorial............................................................................................ p.
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In this issue ................................................................................... p. 11 Research .......................................................................................... p. 15 Gestalt animal assisted psychotherapy: heterospecific encounters in psychotherapy Aluette Merenda Intersections. Gestalt Therapy meets Ethnopsychiatry Michela Gecele New clinical pathways ........................................................ p. 69 With you, I’m not afraid. For a re-reading of the script Panic attacks and postmodernity Annalisa Castrechini Society and psychotherapy
............................................ p.
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Now moment or final contact? Meetings and comparisons with D. Stern, friend and teacher Giovanni Salonia Readings ......................................................................................... p. 89 Aluette Merenda
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