07/2020
Istituto di Gestalt Therapy Kairos
08 psicopatologia ISSN 2039-5337
RIVISTA DI PSICOTERAPIA
PSICOLOGIA FORMAZIONE RICERCA
Istituto Gestalt Therapy hcc Kairos Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt
In un quarto di secolo di attività l’Istituto ha contribuito in modo significativo alla storia e allo sviluppo della Psicoterapia della Gestalt, formando un migliaio circa di psicoterapeuti e intrecciando, con numerosi Enti ed Organismi sia nazionali che internazionali, molteplici e proficui rapporti di collaborazione e affiliazione volti allo scambio scientifico e alla ricerca nell’ambito specifico della psicoterapia e delle relazioni di cura. Sin dalle origini, l’Istituto è stato in contatto con i fondatori della Psicoterapia della Gestalt allora viventi - Isadore From, Jim Simkin - e ha avuto cura di intraprendere scambi didattici e scientifici con gli esponenti
più illustri della seconda generazione di terapeuti della Gestalt - E. Polster, M. Polster, S.M. Nevis, Ed Nevis, R. Kitzler e altri - impegnandosi in progetti di ricerca internazionali sulla teoria e la clinica della Psicoterapia della Gestalt. L'istituto ha intessuto scambi didattici e scientifici con i più prestigiosi Istituti di Terapia della Gestalt italiani ed esteri e con le più accreditate associazioni di Gestalt Therapy nel mondo, con cui mantiene rapporti di collaborazione. Nel 2001 l’Istituto ha avviato una collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore per l’istituzione di Master di secondo livello, ad oggi 16 edizioni.
L’ISTITUTO ORGANIZZA ■ Master Universitari di primo e secondo livello in “Pastoral Counselling” e in “Psico-oncologia” in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Medicina e Chirurgia di Roma, cogestiti con l’Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy “Nino Trapani”, in Sicilia-Lazio-Veneto ■ Corsi di Educazione Continua in Medicina - ECM ■ Training internazionale in “Gestalt Family Therapy” ■ Scuola di Alta Formazione in “Pastoral Counselling” ■ Corsi di formazione per docenti accreditati dal MIUR, in collaborazione con il Centro Phronesis
AFFILIAZIONI EAGT (European Association for Gestalt Therapy), EAP (European Association for Psychotherapy), SIPG (Società Italiana di Psicoterapia della Gestalt), FISIG (Federazione Italiana Scuole e Istituti di Gestalt), CNSP (Coordinamento Nazionale Scuole Riconosciute), FIAP (Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia).
SEDI RICONOSCIUTE DAL MIUR Sicilia Ragusa Lazio Roma Veneto Venezia
DIREZIONE DELLA SCUOLA E COMITATO SCIENTIFICO Giovanni Salonia Responsabile Scientifico Valeria Conte Responsabile Didattico Silvia Salcuni Membro del Comitato Scientifico
D.M. 9.5.94, D.M. 7.12.01 e D.M. 24.10.08
WEB www.gestaltherapy.it BLOG www.gestaltherapy.it/blog/
Rivista annuale on line Gestalt Therapy Kairòs Rivista Di Psicoterapia Direttore Scientifico Giovanni Salonia
Editing Sergio Russo
Direttore Responsabile Concetta Bonini
Traduzioni Elina Guastella
Caporedattore Laura Leggio
Correzione bozze Sergio Russo
Ufficio Legale Silvia Distefano
Fotografie Maurizio Galimberti
Comitato scientifico Angela Ales Bello Vittoria Ardino Paola Argentino Eugenio Borgna Vincenzo Cappelletti Piero Cavaleri Valeria Conte Ken Evans ✝ 15 luglio 2015 Sean Gaffney Erminio Gius Bin Kimura Aluette Merenda Rosa Grazia Romano Antonio Sichera Christine Stevens Silvia Salcuni Membro del Comitato Scientifico dell’Istituto per il MIUR
Stampato da Gruppo Parentesi S.r.l.
Comitato editoriale Giovanni Salonia Antonio Sichera Valeria Conte Aluette Merenda Rosa Grazia Romano
Indirizzo per la corrispondenza GESTALT THERAPY KAIROS Rivista di psicoterapia 97100 Ragusa Sicilia Italia Via Virgilio, n°10 Richieste Editoriali +39 0932 682109 Abbonamenti +39 0932 682109 Per maggiori informazioni redazione.gtk@gestaltherapy.it www.gestaltherapy.it
Progetto grafico ’AFTERSTUDIO Art director M’AS Marco Lentini Graphic designer P’AS Paolo Pluchino © Copyright 2020 Gtk GTK Rivista di Psicoterapia si ispira al codice etico delle pubblicazioni elaborato da COPE. Tutti gli articoli scientifici sono sottoposti ad un sistema di peer-review. Il codice etico, le norme relative alle procedure di revisione, le biografie del comitato scientifico e degli autori sono disponibili sul sito www.gestaltherapy.it.
Abbreviazioni sezioni EDI editoriale IQN in questo numero RIC ricerca NAC nuove applicaizioni cliniche SPS società e psicoterapia DIS gtk dissemination APS arte e psicoterapia LET letture PUB pubblicazioni IT italiano EN inglese
Model - 1923
Indice
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In questo numero..........................................................................................................pag. 9
INDICE
Editoriale..................................................................................................................................pag. 7
Ricerca.........................................................................................................................................pag. 15 Corpo-parola-corpo. L’itinerario terapeutico della Gestalt Therapy Antonio Sichera intervista Giovanni Salonia The Human Animal: Body in Gestalt Therapy Peter Philippson Dunque, sapiente è il corpo Anna Fabbrini Il trauma e il corpo in Gestalt Therapy Simona Gargano Nuove applicazioni cliniche.............................................................................pag. 83 Il terrore muto di chi non sa viaggiare Valeria Conte I vissuti corporeo-relazionali in psico-oncologia: la Gestalt Therapy oltre il limite del modello della Kübler-Ross Paola Argentino The Cape Cod Approach to Working with Couples Joseph Melnick Società e psicoterapia...............................................................................................pag. 133 Il corpo tra «posso» e «possibilità» Giorgio Bonaccorso GTK dissemination.......................................................................................................pag. 145 An Experiential Exploration: The Fertile Void and Creative Indifference. EAGT Budapest Gaspare Orlando Arte e psicoterapia........................................................................................................pag. 153 La scrittura e il corpo: uno sguardo gestaltico Antonio Sichera La DanzaMovimento Terapia incontra la Gestalt Therapy Stefania Antoci intervista Carmen Di Bella Commento di Carmen Ventura Letture.........................................................................................................................................pag. 173 How the Body Shapes the Mind: Book review Aluette Merenda
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L’editoria
Rivista di Psicoterapia Gtk (on-line e bilingue) Collana Gtk, con l’editore Il Pozzo di Giacobbe Collana diàpathos, con l’editore Cittadella
Psicopatologia e nuove prassi cliniche Teoria evolutiva e terapia familiare
titolo Devo sapere subito se sono vivo autori G. Salonia, V. Conte, P. Argentino pagine 296 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2013
titolo Danza delle sedie autore G. Salonia pagine 160 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2015
titolo La luna è fatta di formaggio a cura di G. Salonia pagine 176 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2014
titolo Come l’acqua… autori D. Iacono, G. Maltese pagine 96 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2012
titolo Incontri terapeutici a cura di A. Merenda pagine 152 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2014
titolo Edipo dopo Freud autori G. Salonia, A. Sichera pagine 96 GTK-books/01 anno di pubblicazione 2013
titolo Tra autore B. Kimura pagine 176 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2013
titolo For Oedipus a new Family Gestalt autori G. Salonia, A. Sichera, V. Conte pagine 135 GTK-books/02 anno di pubblicazione 2013
Antropologia titolo Sulla felicità autore G. Salonia pagine 184 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2011 titolo La grazia dell’audacia autore G. Salonia pagine 80 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2012 titolo Comunicazione Interpersonale autori H. Franta, G. Salonia pagine 170 editore LAS anno di pubblicazione 1979 titolo La casa vissuta autore G. Giordano pagine 224 editore Giuffrè anno di pubblicazione 1997 titolo Ogni giorno merita una gestalt a cura di S. Antoci e A. Rusca pagine 156 editore Cittadella editrice anno di pubblicazione 2014
Books Rivista di Psicoterapia ITA/ENG
titolo i come invidia a cura di G. Salonia pagine 112 editore Cittadella editrice anno di pubblicazione 2015 titolo La vera storia di Peter Pan a cura di G. Salonia pagine 84 editore Cittadella editrice anno di pubblicazione 2016
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Editoriale
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TK8 ricomincia dal corpo, ed è certo una buona notizia. Non per una banale questione di moda. Ricominciare dal corpo significa tentare di porre su basi diverse una questione ormai classica nel campo della psicoterapia. L’interrogativo potrebbe formularsi così: c’è un modo specifico, tipico della Gestalt Therapy, di pensare il corpo e di trattarlo clinicamente? Il merito di questo numero è quello di tentare un chiarimento monografico su una domanda così importante. Perché si fa presto a dire ‘corpo’, ma corpo si può dire e si dice oggi in molti modi. Confrontarsi da gestaltisti con questa polifonia delle voci e degli sguardi odierni sul corpo è in fondo il filo rosso di questo numero di GTK. Già a partire dalla lunga intervista di Antonio Sichera a Giovanni Salonia, dove vengono affrontati i nodi più consistenti di una nuova visione della corporeità: una visione autenticamente gestaltica in senso ermeneutico, clinico, evolutivo e politico. La centralità dei concetti di motion e di engagement in una concezione aderente ai principi fondativi della Gestalt, dove il corpo non sia una realtà mossa dall’interno, ma dotata di una propria logica, è il cuore del saggio di Peter Philippson, uno dei maggiori teorici odierni sul piano dei rapporti tra corpo e GT. Delle memorie semantiche profonde discute con la consueta professionalità e competenza Anna Fabbrini, mentre il saggio di Simona Gargano prende di petto il trauma, il ruolo del corpo, nonché lo specifico gestaltico nell’affrontare la ferita profonda che il trauma infligge al corpo, costretto ad accusare il colpo, come ci ha insegnato Van der Kolk. In questo contesto, il lavoro di Valeria Conte, che battendo sugli stessi tasti chiarifica il gioco tra corpo e relazione in Gestalt Therapy, rappresenta un passaggio teorico decisivo del numero. Sul corpo e il morire lavora con grande esperienza clinica Paola Argentino, proponendo un modello gestaltico di accompagnamento della fine, profondamente diverso da quello notissimo di Elizabeth Kübler-Ross. In sintonia con l’idea gestaltica di una considerazione aperta e realistica del possibile, a partire dalle percezioni organismiche del mondo, Joseph Melnick presenta in questo numero di GTK il modello Cape Cod del Gestalt Center of Massachusetts, mentre il concetto di possibilità, nel contesto del grande tema dell’intelligenza artificiale (in confronto all’intelligenza naturale) è sviluppato da un pensatore sensibilissimo ed esperto di questi temi come Giorgio Bonaccorso. Una lettura ‘corporea’ del Canto notturno, un’interessante presentazione del modello di lavoro della DanzaMovimento Terapeuta Carmen Di Bella, un resoconto vivace e dettagliato dell’EAGT Conference di Budapest 2019 (oltre alla solita rubrica di recensioni) completano il numero.
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EDITORIALE
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Arc de Triophe, Paris - 2005
In questo numero
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IN QUESTO NUMERO
Giovanni Salonia pag. 15 Psicologo, psicoterapeuta e teologo. Formato in Terapia Rogersiana (H. Franta), Terapia Familiare (M. Kirschenbaum – C. Gammer), Bodytherapy (G. Downing). Diplomato in Gestalt Therapy (E. e M. Polster, I. From, J. Zinker). Già docente di Psicologia Sociale presso l’Università LUMSA di Palermo e di Psicologia presso la Facoltà Teologica di Palermo. Docente invitato presso l’Istituto Telogico San Paolo di Catania. Docente incaricato presso l’Università Pontificia Antonianum (Roma). Insegna alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Già Visiting professor presso l’Università del Connecticut (USA). Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairòs (Venezia, Roma, Ragusa) e dei Master di II livello cogestiti con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Direttore del Consultorio Familiare Oasi Cana di Palermo. Didatta conosciuto a livello internazionale e professore invitato presso numerose università italiane ed estere. Già Full Member dell’Instituto di Gestalt Therapy di New York (NYGT). È stato Presidente della FISIG (Federazione Italiana Scuole di Gestalt). Ha scritto: Comunicazione Interpersonale (con H. Franta), Kairòs, Odòs, Sulla felicità e dintorni, Danza delle sedie e danza dei pronomi e, come coautore, Devo sapere subito se sono vivo e La luna è fatta di formaggio, I come invidia e La vera storia di Peter Pan, che trattano di tematiche sia antropologiche che cliniche. Ha inoltre scritto numerosi articoli pubblicati in riviste estere e nazionali e capitoli di testi scientifici italiani ed esteri. Ha fondato e diretto la rivista Quaderni di Gestalt (1985-2002). Ha fondato e dirige dal 2008 Gtk – Rivista Internazionale on line di Psicoterapia. Già co-direttore della collana Diàpathos della Cittadella Editrice, dirige la collana GTK del Pozzo di Giacobbe. Peter Philippson pag. 37 M.Sc. in Gestalt Psychotherapy. Psicoterapeuta e formatore iscritto all’albo professionale UKCP del Regno Unito. Formatore e supervisore presso lo Psychotherapy & Training Institute del Regno Unito e membro fondatore del Gestalt Centre di Manchester. È inoltre Full Member dell’Istituto di Gestalt Therapy di New York, formatore Senior per GITA (Slovenia), docente presso IpsiG (Torino), membro del comitato consultivo del Center for Somatic Studies, ed è stato invitato a partecipare in qualità di formatore a molti programmi in-
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ternazionali di formazione. Lavora come psicoterapeuta da 32 anni ed è stato presidente dell’Association for the Advancement of Gestalt Therapy. Ha scritto: Self in relation (edito da Gestalt Journal Press), The Emergent Self (edito da Karnac/UKCP), Gestalt Therapy: Roots and Branches (edito da Karnac) e numerosi articoli e capitoli. È inoltre insegnante (4° dan) e studente di Aikido tradizionale. Anna Fabbrini pag. 51 PhD in Psicologia clinica (Paris VII). Responsabile del Centro Alia – psicoterapia e formazione – di Milano, Didatta Ordinario e Supervisore della FISIG. È stata docente di Psicologia Clinica dell’Università Cattolica e di Milano-Bicocca e presso scuole di specializzazione. Orienta la sua ricerca sul rapporto tra società contemporanea e disagio psichico, sui temi del corpo e dell’identità, sul trauma e la memoria somatica e sulle innovazioni della metodologia clinica legate al lavoro corporeo. Ha pubblicato Il corpo dentro, I luoghi dell’ascolto, L’età dell’oro. Adolescenti tra sogno ed esperienza, Qui e là. Visioni dai luoghi, oltre a numerosi saggi in opere collettive ed articoli su riviste specializzate. Unisce all’attività psicoterapeutica anche quella di fotografa. Simona Gargano pag. 67 Psicologa e psicoterapeuta, laureata in Psicologia Clinica (LM51), presso l’Università degli Studi di Palermo, ha seguito un percorso formativo specifico in neuropsicologia. Formata in Psicoterapia della Gestalt presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos, sede di Ragusa, svolge attività clinica e di ricerca come libero professionista a Palermo, dove collabora anche con il Consultorio familiare “Cana”. Valeria Conte pag. 83 Psicologa, Dirigente presso il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASP provinciale di Ragusa; psicoterapeuta e Didatta Supervisore Ordinario riconosciuto dalla FISIG (Federazione Italiana Scuole ed Istituti di Gestalt). Membro del comitato scientifico e responsabile didattico e clinico dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos. Formata con i maggiori esponenti nazionali ed internazionali della Psicoterapia della Gestalt, ha ampliato la sua specifica formazione con training di specializzazione in Terapia Familiare e in Terapia Corporea. Ha approfondito il modello epistemologico della Gestalt Therapy nel lavoro con i pazienti psichiatrici, le coppie e le famiglie, i cui risultati sono stati pubblicati su riviste nazionali ed estere. Paola Argentino pag. 99 Medico, psichiatra, psicoterapeuta. Direttore dei Master in Psico-Oncologia e di altri Master nell’ambito delle neuroscienze e socio-educativo dell’Università Cattolica Sacro Cuore, Facoltà di
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Medicina e Chirurgia ‘A. Gemelli’ di Roma. Dirigente del Dipartimento Salute Mentale di Siracusa dal 1991. Docente Universitaria di Psicologia Clinica e Psicopatologia dal 2000. Autore di pubblicazioni scientifiche. Appassionata della lettura psico-sociale delle tragedie greche. Didatta dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos.
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Joseph Melnick pag. 123 Ph.D., psicologo clinico e del lavoro di Portland, Maine, Stati Uniti d’America. È stato docente e membro del consiglio direttivo del Gestalt Institute di Cleveland. Attualmente è co-presidente del Cape Cod Training Program presso il Gestalt International Study Center di Wellfleet (Massachusetts) e membro del consiglio di amministrazione. Fondatore e direttore di Gestalt Review, una rivista contemporanea peer-reviewed sulla Gestalt, ha scritto oltre 100 pubblicazioni. È stato invitato in qualità di docente da numerosi Istituti Gestalt e attualmente insegna e tiene eventi di formazione in tutto il mondo. Giorgio Bonaccorso pag. 133 Specializzato in teologia liturgica, si occupa dei riti religiosi e cristiani con particolare attenzione all’aspetto antropologico e ai presupposti epistemologici. È docente presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di S. Giustina di Padova e altri Istituti teologici, pubblica su diverse riviste ed è membro di alcune associazioni teologiche. Tra le sue pubblicazioni: Celebrare la salvezza (20032); Il tempo come segno, (2004); Il corpo di Dio (2006); I colori dello spirito (2009); La liturgia e la fede (20102); Il dono efficace (2010); Il rito e l’altro (20122); L’estetica del rito (2013), Rito (2015); Critica della ragione impura (2016). Gaspare Orlando pag. 145 Psicologo, psicoterapeuta, specializzato presso l’Istituto di Gestalt H.C.C. Ha conseguito un Master Universitario di secondo livello in Psico-oncologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Didatta presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos, svolge dal 2003 attività clinica e di ricerca in psicoterapia. Ha partecipato come relatore a numerosi workshop e conferenze italiane e internazionali, approfondendo in particolare lo studio e la clinica degli attacchi di panico. Antonio Sichera pag. 153 Antonio Sichera insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania ed è docente di Fenomenologia ed Ermeneutica nella Scuola di Specializzazione post-universitaria dell’Istituto di Gestalt Therapy Kairos. Formatosi in Lessicografia
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e Semantica della lingua letteraria europea alla prestigiosa scuola catanese di Giuseppe Savoca, ha scritto saggi e monografie su Foscolo, Pasolini, Pavese, Pirandello, Montale, Quasimodo e su molti altri autori della contemporaneità letteraria, in un’ottica interdisciplinare ed ermeneutica. Si è occupato a più riprese di teoria della critica e dell’agire letterario, in rapporto con il sapere filosofico e teologico, fra Gadamer, Benjamin e Jossua. Sul versante clinico, è autore di diversi saggi sugli aspetti ermeneutici ed estetici della Gestalt Therapy. Ha tradotto dal greco (A Diogneto) e dal francese (diversi testi del Padre Jossua). Stefania Antoci pag. 159 Psicologa e psicoterapeuta della Gestalt, svolge attività libero professionale ed è docente incaricato presso la Scuola di Specializzazione quadriennale in Psicoterapia della Gestalt hcc Kairos diretta dal Prof. Giovanni Salonia e dalla Dott.ssa Valeria Conte. Dal 2018 lavora come psico-oncologa c/o il Reparto Hospice dell’ospedale M.P. Arezzo di Ragusa, portando avanti un progetto e un modello di lavoro ormai ben strutturato per pazienti, operatori e famiglie, dal titolo “La relazione che cura”. Carmen Di Bella pag. 159 Psicologa, psicoterapeuta, DanzaMovimentoTerapeuta, già docente di attività motorie e danza in Istituti statali, nel corso della sua lunga carriera ha elaborato esperienze di studio e di ricerca presso riconosciute scuole ad approccio psico-corporeo in Italia ed in Francia. Oltre che esperta di bioenergetica, ginnastica dolce e musico-terapia, ha conseguito la formazione di DanzaMovimentoTerapia presso l’Istituto Riza Psicosomatica di Milano. Dal 1999 è iscritta al registro italiano dei DMT-APID (associazione professionale dei danzamovimento terapeuti), oltre all’albo nazionale dei Supervisori DMT-APID. Laureata in Psicologia, si è formata in Psicoterapia della Gestalt presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos con cui attualmente collabora come docente esterna nei seminari di formazione degli allievi della scuola di specializzazione. Partecipa con attivi contributi del suo lavoro a congressi internazionali in Italia ed in Europa, oltre che con pubblicazioni sul suo metodo d’intervento. Conduce workshop, gruppi esperienziali e seminari di formazione, integrando le tecniche di Danza-Movimento con quelle Relazionali-Gestaltiche. Carmen Ventura pag. 159 Psicologa, psicoterapeuta, laureata presso l’Università degli Studi di Urbino in Psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Si è specializzata in Psicoterapia della Gestalt presso l’Istituto di Ge-
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stalt Therapy hcc Kairos, sede di Ragusa, dove ha approfondito gli aspetti clinici e di supervisione formandosi come didatta. Attualmente svolge attività didattica presso lo stesso Istituto, collaborando con il gruppo di ricerca nell’ambito dell’età evolutiva. È Psicologa referente dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti della Sezione di Ragusa dove svolge anche il ruolo di consigliere sezionale e dove ha avuto modo di approfondire la conoscenza delle problematiche inerenti le disabilità visive, occupandosi anche di sostegno alla genitorialità.
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Aluette Merenda pag. 173 Psicologa, psicoterapeuta della Gestalt. Ricercatore universitario in Psicologia dinamica presso la Scuola delle Scienze umane e del patrimonio culturale dell’Università degli Studi di Palermo, è docente per supplenza di Psicodinamica dello sviluppo e delle relazioni familiari per i Corsi di Laurea in Scienze e Tecniche psicologiche, Educazione di comunità e Scienze del servizio sociale. Attualmente svolge attività clinica e, in qualità di didatta invitata, fa parte dello staff della Scuola di specializzazione in Psicoterapia della Gestalt presso le sedi di Palermo e Ragusa. I suoi principali ambiti di studio sono circoscritti al paradigma degli attaccamenti multipli, alle relazioni familiari multiproblematiche e agli Young Offenders. Più recentemente, le sue aree di ricerca si orientano allo studio delle nuove tipologie familiari e dei contesti di cura attraverso la prospettiva della Zooantropologia clinica. Maurizio Galimberti Nasce a Como nel 1956, vive e lavora a Milano. Si accosta al mondo della fotografia analogica esordendo con l’utilizzo di una fotocamera ad obiettivo rotante Widelux. Nel 1991 inizia la collaborazione con Polaroid Italia. Viene nominato “Instant Artist” ed è ideatore della “Polaroid Collection Italiana” e della tecnica “Mosaico Fotografico” che immortala nei ritratti eseguiti nel mondo del cinema, dell’arte e della cultura. Il suo ritratto di Johnny Depp, realizzato durante l’edizione del Festival del Cinema di Venezia del 2003, viene scelto come immagine per la copertina del mese di settembre del prestigioso Times Magazine. Vince prestigiosi premi, come il “Gran Prix Kodak Pubblicità Italia” del 1992, e riconoscimenti, come quello di primo fotograforitrattista nella classifica della rivista “CLASS”. Per lui hanno scritto critici e personaggi della cultura contemporanea, come Nicola Piovani, Davide Oldani, Michele De Lucchi.
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Yellow dance, New York - 2006
Corpo-parola-corpo L’itinerario terapeutico della Gestalt therapy
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RICERCA
Antonio Sichera intervista Giovanni Salonia
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La Gestalt Therapy può essere considerata come un’erede privilegiata di tale intuizione freudiana, capace di sviluppare i presupposti del padre della psicoanalisi avvalendosi dell’apporto della fenomenologia e della teoria husserliana del Leib, del corpo vivente, che in termini gestaltici, sulla scia della psichiatria fenomenologicoesistenziale, significa anche corpo vissuto
Antonio ul tema del corpo l’Istituto di Gestalt Therapy Kairos ha condotto in questi anni percorsi di ricerca a livello teorico e clinico che oggi sono centrali nella sua ricomprensione della Gestalt Therapy. Ma per arrivare a delinearli, dobbiamo necessariamente partire dall’approccio storico a questa questione e dalla rilettura che proprio l’Istituto ne ripropone. Per capire bisogna partire da Freud. Per un verso, infatti, è il disagio di Freud con il corpo femminile a far nascere la psicoterapia psicoanalitica classica. Bertha Pappenheim fu per Freud infatti una pietra di scandalo. Capì con lei tutta la potenza e la problematicità di una terapia face to face, in cui i corpi del terapeuta e del paziente fossero liberi di agire e di muoversi l’uno di fronte all’altro. E inventò per questo il lettino, il distacco, l’immobilità del paziente come antidoto al rischio del corpo. D’altro canto, però, solo la genialità di Freud gli consentì di ‘inventare’ una teoria evolutiva tutta centrata sul corpo: l’evoluzione psicologica del bambino è l’evoluzione del suo rapporto con il corpo e di questo corpo con l’ambiente, col mondo, con l’altro. Da questo punto di vista, la Gestalt Therapy può essere considerata come un’erede privilegiata di tale intuizione freudiana, capace di sviluppare i presupposti del padre della psicoanalisi avvalendosi dell’apporto della fenomenologia e della teoria husserliana del Leib, del corpo vivente, che in termini gestaltici, sulla scia della psichiatria fenomenologico-esistenziale, significa anche corpo vissuto. Il tuo contributo fondamentale all’ermeneutica gestaltica del corpo credo debba leggersi a partire da queste premesse. Giovanni Volgendo lo sguardo all’indietro diamo ‘corposità’ al corpo. Nella storia dell’Occidente, segnata da continue emergenze collettive (guerre, fame, epidemie), il corpo individuale non aveva alcuna rilevanza: esisteva il corpo sacro del re, il corpo dei comandanti, il corpo armato. La corporeità del soggetto si limitava e si esauriva nelle funzioni legate alla sopravvivenza: lavorare, fare figli, combattere. Esisteva soltanto il ‘corpo-istituzione’. Non c’era neppure lo spazio mentale per il ‘corpo-interiorità’ o per il ‘corpo-relazione’. Nel diciannovesimo secolo (segnato – come ricorda Polanyi – da una consistente diminuzione di guerre globali e dalla pace ‘pragmatica’) inizia la curvatura antropologico-esistenziale del pensare
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che approda al corpo. Feuerbach riconosce che «il mondo si comprende con il sentire e non solo con il pensare», in Kierkegaard la verità si declina come «verità-per-me» ed infine l’originale e scultorea dichiarazione di Nietzsche: «Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza». È iniziata la rivoluzione antropologica che pone al centro un nuovo paradigma sul corpo. È in questo snodo della storia dell’antropologia in Occidente che Freud inizia la sua opera sviluppando la incipiente ipotesi (Janet, Breuer) dell’esistenza di un malessere che, pur apparendo nel corpo (conversione somatica), deriva non da una base organica ma dal mondo interiore. Nonostante la segreta nostalgia e la ricerca di una base organica del malessere, Freud – in modo geniale e coraggioso – cominciò a curare con la parola. La parola liberata dalla prigione di un ruolo meramente strumentale ritrova (anzi viene restituita a) un potere fino ad allora mai preso in considerazione. Grazie alle donne Freud scopre che la parola guarisce (Lisi). Una rivoluzione antropologica che segnerà i secoli successivi. Ma quando la parola cura? O, meglio, quale parola guarisce? Ed ecco che partendo dalla parola Freud approda al corpo in quanto la parola che cura è soltanto quella che è intimamente connessa con il corpo. Freud sperimenta e inventa il lungo cammino che porta dalle parole senza senso alla parola-corpo. Egli però non può parlare di ‘corpo’ – nel suo contesto storico avrebbe significato altro – e recupera l’antico concetto di ‘inconscio’ e lo ridefinisce come luogo in cui il soggetto colloca il materiale censurato che non deve affiorare alla consapevolezza. Non si rende conto dell’ovvietà che l’inconscio non può non essere che nel corpo. Paga, come ogni genio, un prezzo allo Zeitgeist in cui è immerso. Quando negli anni Cinquanta F. Perls fonda la Gestalt Therapy parte proprio dall’intuizione (forse a lui nemmeno poi così chiara) che per arrivare all’inconsapevole (ex-inconscio) non è necessaria la tecnica delle ‘libere associazioni’ (che Freud aveva mutuato dalla prassi ebraica di leggere la Parola di Jahvè), ma è di grande efficacia clinica ascoltare il corpo per fare emergere (portare al confine di contatto) la parola che esso contiene. Inventa negli anni ’50 la tecnica della ‘concentrazione’ come via regia all’inconsapevole. Oggi le terapie cognitive (Siegel) sono approdate all’intuizione di Perls proponendo la Mindfulness, mentre le terapie psicoanalitiche hanno finalmente teorizzato che l’inconscio è il corpo (Recalcati). Freud allora ebbe – e non poteva non avere – paura del corpo: sia di ciò che poteva procurare il suo toccare i pazienti (prassi che usava agli inizi) ma, ancora di più, dei comportamenti che potevano mettere in atto i pazienti (dall’abbracciare il terapeuta al sedere sulle sue gambe). Si protesse dai corpi – suo e del paziente – inventando il divano come luogo in cui veniva chiesto al paziente di rinunciare alla propria vitalità, alla propria energia. Direbbe Paul
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Ma quando la parola cura? O, meglio, quale parola guarisce? Ed ecco che partendo dalla parola Freud approda al corpo in quanto la parola che cura è soltanto quella che è intimamente connessa con il corpo. Freud sperimenta e inventa il lungo cammino che porta dalle parole senza senso alla parolacorpo. Egli però non può parlare di ‘corpo’ – nel suo contesto storico avrebbe significato altro – e recupera l’antico concetto di ‘inconscio’
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Una ermeneutica che esclude dell’energetica e dell’inter-corporeità e non coglie la cifra euristica del ‘qui-eadesso’ dei corpi in relazione non può, a lungo andare, favorire la consapevolezza (awareness) che cura e si arena nei meandri della consciousness, di un pensare forse affascinante ma nebuloso e inefficace
Ricoeur che scelse l’ermeneutica e rinunciò all’energetica. Sottraendosi poi allo sguardo del paziente (tecnica efficace con pazienti isteriche), tolse anche la dimensione intercorporea tra terapeuta e paziente. L’invenzione della psicoanalisi fu certamente un’operazione culturale che ha segnato la storia recente dell’Occidente a livello antropologico e clinico ma – come ogni statu nascenti (Alberoni) – conteneva già le premesse dei limiti della psicoanalisi stessa, che sarebbero esplosi negli anni Cinquanta ed evidenziati dalla nascita di quelle terapie che si configurarono come la Terza Forza in Psicoterapia (Maslow, Rogers). Una ermeneutica che esclude l’elan vital dell’energetica e dell’inter-corporeità e non coglie la cifra euristica del ‘qui-e-adesso’ dei corpi in relazione non può, a lungo andare, favorire la consapevolezza (awareness) che cura e si arena nei meandri della consciousness, di un pensare forse affascinante ma nebuloso e inefficace.
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Antonio Possiamo dire che già le intuizioni di Freud attorno al corpo, insomma, erano di gran lunga più avanti della sua elaborazione teorica e del suo approccio clinico. Come se avesse intuito molto più di quel che esprimeva, o forse si consentiva di esprimere, nella clinica. Come se avesse pagato questo trovarsi sul confine tra una società ancora fortemente istituzionalizzata, diffidente verso le relazioni non codificate all’interno di quadri di riferimento secolari, e un mondo adveniente, in cui l’essere nel mondo si qualificava come tale, di per sé stesso, e chiamava quindi ad uno sguardo, appassionato e disincantato al contempo, dell’esserci del bambino in rapporto al suo campo vitale.
Sono sempre più convinto che la teoria evolutiva di Freud sia il suo contributo più geniale. Riletta con le categorie gestaltiche si colgono intuizioni originali e rivoluzionarie sul corpo
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Giovanni È ciò che mi colpisce ogni volta che rileggo Freud. Sono sempre più convinto che la teoria evolutiva di Freud sia il suo contributo più geniale. Riletta con le categorie gestaltiche si colgono intuizioni originali e rivoluzionarie sul corpo. Come dici tu, neppure Freud stesso se ne rese conto e sviluppò teorie e prassi in netta contraddizione con la sua teoria evolutiva. Si tratta di intuizioni che lasciano senza fiato per l’acutezza folgorante e l’originalità incredibile. Iniziamo dalla libido, ossia dal piacere. Al di là di tutti i fraintendimenti, Freud capì che essa ha una precisa funzione costitutiva ed evolutiva, e cioè permette al bambino di scoprire il proprio corpo, di sperimentare il corpo dell’altro, di apprendere l’attesa come tempo propizio per riconoscere l’alterità del corpo dell’altro e per trasformare progressivamente il bisogno nella reciprocità del desiderio (Salonia).
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Con l’audacia e la libertà del genio, Freud individua tre luoghi che, in fasi successive, vengono abitati (e resi vitali) dalla libido: la bocca, l’ano e i genitali. Si tratta di luoghi in cui avviene lo scambio tra l’Organismo e l’Ambiente: gli sfinteri sono frontiere in cui il corpo e il mondo si incontrano. La crescita del bambino avviene attraverso un progressivo ampliarsi delle modalità di incontro con l’Ambiente. In modo pioneristico, Freud scopre che le modalità relazionali derivano da una precisa matrice corporea. In ogni fase evolutiva, infatti, viene posta l’attenzione su una nuova frontiera e da questa esperienza intercorporea il bambino (e le figure genitoriali) maturano un nuovo modello relazionale. Così nella fase orale, quando l’Ambiente entra nel corpo del bambino, egli apprende la fiducia; nella fase anale qualcosa del corpo viene espulso nell’Ambiente e fa esperienza della forza espulsiva; nella fase di genere (Salonia, Mitchell) il bambino scopre la propria unicità che diventa autonomia e autosufficienza; nella fase genitale i corpi sperimentano la condivisione e l’incontro delle proprie intime diversità. Dentro questa descrizione del quadro epigenetico (Erikson) Freud intuisce che i cambiamenti intercorporei determinano l’apprendimento di sempre nuove modalità relazionali: l’energetica ha una precisa priorità rispetto all’ermeneutica. Ma avendola scelta come chiave del suo modello teorico, Freud non approfondì quelle intuizioni innovative e sconvolgenti. Un’altra idea-chiave nella teoria evolutiva freudiana fu la spontaneità con cui il corpo del bambino passa da una fase all’altra. Il che significa che il corpo ha un’intima autoregolazione. Non è certamente la figura genitoriale a imporre al bambino il passaggio ad un’altra fase: essa deve solo favorire – e non ostacolare – l’esperienza evolutiva del bambino. Purtroppo Freud dimenticò questa primigenia intuizione e chiamò in causa un’istanza regolativa esterna (il concetto di Super-Io). Negli anni Cinquanta proprio dal concetto di autoregolazione organismica (Goldstein) e relazionale (Perls, Goodman, Salonia) – che Freud aveva intuito e abbandonato – nacquero le terapie umanistiche per rispondere alle richieste dei pazienti che percepivano un’istanza regolativa esterna come un non-senso, un fuori contesto.
In modo pioneristico, Freud scopre che le modalità relazionali derivano da una precisa matrice corporea. In ogni fase evolutiva, infatti, viene posta l’attenzione su una nuova frontiera e da questa esperienza intercorporea il bambino (e le figure genitoriali) maturano un nuovo modello relazionale
Il corpo ha un’intima autoregolazione. Non è certamente la figura genitoriale a imporre al bambino il passaggio ad un’altra fase: essa deve solo favorire – e non ostacolare – l’esperienza evolutiva del bambino
Antonio Per essere più chiari sul modo in cui la Gestalt e in particolare lo sviluppo della ricerca dell’Istituto GTK rivaluti la teoria evolutiva di Freud, rileggiamo in questa chiave quelle che erano secondo lui le tre fasi – orale, anale e fallica – dello sviluppo. Mi pare che ci sia molto da imparare ancor oggi, in un contesto come il nostro, dalla teoria di Freud. D’altronde, i fondatori della Gestalt Therapy – penso qui ovviamente in primo luogo a Perls e a Goodman – capirono già all’inizio degli anni Cinquanta come
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Staccare la sessualità dallo sviluppo integrale della personalità e considerarla una funzione a parte, da educare in maniera del tutto separata, da coltivare come un aspetto isolabile, non avrebbe portato – e non stava portando – ad un aumento della felicità individuale e collettiva
Nel contesto postmoderno la scissione tra comportamenti sessuali e maturazione sessuale ha annullato lo spazio del presessuale inteso come esperienza autonoma e generatrice dell’identità corporea nelle sue declinazioni più sottili e intense, quelle dell’incontro che, per capirci, sembra richiamare le onde misteriose e fascinose dei suoni delle campane tibetane che si propagano con dolcezza in cerchi sempre più ampi fin nell’intimo del corpo, di tutti i corpi
Ritengo che sia questo un grande guadagno della prospettiva gestaltica e della tua in particolare: tener conto del nostro essere nello spazio non in quanto oggetti, ma in quanto punti di irradiazione, campi magnetici che a distanza, con la loro sola presenza, si condizionano reciprocamente e in maniera duratura
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la rivoluzione sessuale che stava già avvenendo negli Stati Uniti non fosse una forma di facile liberazione, di espressione spontanea della sessualità, ma bensì annunciasse il porsi di una nuova, grande questione epocale. Staccare la sessualità dallo sviluppo integrale della personalità e considerarla una funzione a parte, da educare in maniera del tutto separata, da coltivare come un aspetto isolabile, non avrebbe portato – e non stava portando – ad un aumento della felicità individuale e collettiva.
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Giovanni Per rendere più esplicito questo chiarimento, riprendo il tuo assist sulla sessualità. Mi sembra uno dei temi in cui si rivela il genio pioneristico – e per questo esposto al fraintendimento – delle teorie freudiane. Freud, indicando nella fase genitale la capacità di un genuino e profondo rapporto sessuale, segnò una netta divisione tra comportamento sessuale e maturità sessuale. In altre parole, si arriva alla pienezza di un rapporto sessuale solo dopo aver attraversato e assimilato le fasi precedenti e cioè la fiducia nell’Ambiente, il proprio potere, la propria autonomia. Senza l’assimilazione di ognuna di queste fasi, il comportamento sessuale produrrà piaceri parziali, interrotti e prenderà la forma della dipendenza. L’aver bisogno di sensazioni forti per sentire il proprio o l’altrui corpo rivela una desensibilizzazione del corpo o, meglio ancora, della pelle. Nel contesto postmoderno la scissione tra comportamenti sessuali e maturazione sessuale ha annullato lo spazio del pre-sessuale inteso come esperienza autonoma e generatrice dell’identità corporea nelle sue declinazioni più sottili e intense, quelle dell’incontro che, per capirci, sembra richiamare le onde misteriose e fascinose dei suoni delle campane tibetane che si propagano con dolcezza in cerchi sempre più ampi fin nell’intimo del corpo, di tutti i corpi. Antonio Un aspetto di cui Freud, pur citandolo, non tiene poi affatto conto nella sua teoria evolutiva è però il corpo della madre: non perché esso sia decisivo nel cambiamento corporeo ma perché, nella dimensione dell’intercorporeità, può rivelarsi un elemento di facilitazione o, al contrario, un grande ostacolo. Ritengo che sia questo un grande guadagno della prospettiva gestaltica e della tua in particolare: tener conto del nostro essere nello spazio non in quanto oggetti, ma in quanto punti di irradiazione, campi magnetici che a distanza, con la loro sola presenza, si condizionano reciprocamente e in maniera duratura. Qualcosa di idealmente analogo, dal mio punto di vista, al famoso esperimento EPR (l’esperimento mentale o paradosso di Einstein, Podolsky e Rosen) e al fenomeno, oggi molto dibattuto, dell’entanglement, cioè della correlazione a distanza degli elettroni.
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Giovanni È vero. Freud parla solo del corpo del bambino: non avrebbe potuto fare diversamente. Non dimentichiamo che Freud elabora le sue teorie in un contesto molto ‘simbiotico’, in cui era necessario fare emergere ed evidenziare la singolarità del soggetto più che le relazioni. Oggi è diventata centrale l’attenzione al ‘triangolo primario’: come ho avuto modo di dire alla Fivaz nei confronti che abbiamo avuto, la Gestalt Therapy – a differenza del loro modello (il Triangolo di Losanna di Fivaz-Depeursing e Corboz-Warnery) – sottolinea i vissuti corporeo-relazionali (Salonia, Spagnuolo). Se guardiamo il corpo della madre quando allatta il bambino o quando aspetta che faccia i propri bisogni o quando vede i suoi primi passi, ci accorgiamo che la postura e i vissuti della figura genitoriale si modificano di volta in volta sincronizzandosi con il corpo del bambino e dando così il sostegno adeguato. Come dici tu, solo guardando alla sintonia dei due corpi (figura genitoriale-bambino) si comprende il bambino. Basti pensare all’esperimento ‘Still Face’ di Edward Tronick: nel momento in cui il bambino è in difficoltà e sembra disorganizzarsi, per evitare l’errore di una diagnosi di patologia del bambino è sufficiente accorgersi della madre che presenta un volto rigido, che non interagisce. Antonio La completezza di questa rilettura discende dalle origini stesse e dall’impostazione teorica che sin da subito ha caratterizzato la Gestalt Therapy, collocatasi in una zona di confine tra l’ermeneutica di Freud e l’energetica di Reich. Perls e Goodman capirono precocemente che una terapia puramente verbale, fondata sulle associazioni libere di un paziente privato della sua energia vitale, non potesse rendere ragione della struttura olistica del sé e del reale, alla stessa maniera di una clinica volta a tener conto solo del corpo, della pura energetica, senza dare il giusto valore al potere terapeutico della parola, intesa sia come narrazione che come poesia. Si trattava insomma di superare due unilateralismi contrapposti, guardando con fiducia al potere integrativo del sé e al suo funzionamento effettuale. Veniamo così agli aspetti che riguardano più strettamente la nostra elaborazione teorica su questo tema. Giovanni È noto che Perls, didatta psicoanalista, si formò con un terapeuta ortodosso, E. Hirschmann (che, come ci ricorda Carotenuto, Perls spesso provocava), e con due eretici, Karen Horney (di questo ho parlato in un mio specifico lavoro) e Wilhelm Reich, che, ponendo al centro della sua clinica il corpo del paziente, rinuncia
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Perls e Goodman capirono precocemente che una terapia puramente verbale, fondata sulle associazioni libere di un paziente privato della sua energia vitale, non potesse rendere ragione della struttura olistica del sé e del reale, alla stessa maniera di una clinica volta a tener conto solo del corpo, della pura energetica, senza dare il giusto valore al potere terapeutico della parola, intesa sia come narrazione che come poesia
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Esiste però anche un’altra realtà che chiamiamo ugualmente corpo ma indica altro e viene specificata con termini quali: ‘corpo vissuto’ (Merleau-Ponty), Leib (il corpo vivente di Husserl), corpo simbolico (Pasini), schema corporeo implicito (Salonia), carne (Henry). Questo ‘secondo corpo’ (che chiameremo, per facilitare il discorso, ‘corpo vissuto’) non va confuso con l’‘immagine del corpo’ che ognuno elabora a partire dal corpo riflesso allo specchio. Il corpo cui fa riferimento il ‘corpo vissuto’ riguarda il corpo ‘sentito’ dal soggetto
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all’ermeneutica per una scelta radicale sull’energetica. Un altro dei sette fondatori, P. Goodman, fu in analisi con A. Lowen, fondatore della bioenergetica. Queste esperienze permisero ai fondatori di elaborare un modello di psicoterapia (la Gestalt Therapy) che, come afferma Pasini, rappresenta in psicoterapia la più la valida integrazione tra corpo e parola, tra ermeneutica ed energetica. Quanto e quando muoversi dall’uno all’altro registro è una delle competenze di base nella formazione dello psicoterapeuta della Gestalt (E. Polster). La Gestalt Therapy connette corpo e parola nella dinamica gestaltica di figura/sfondo. Come sappiamo, vediamo il mondo sempre attraverso un processo di organizzazione selettiva (FrantaSalonia) per cui dividiamo la realtà in figura (ciò che mettiamo in primo piano) e sfondo (ciò che è periferico e appartiene alla coda dell’occhio). Ma accanto a questa coordinata spaziale si intreccia quella temporale. Quando fisso intensamente la figura, a poco a poco questa diventa evanescente per fare emergere lo sfondo. Lo sfondo tende a diventare figura e la figura tende a diventare sfondo. Applicando questa dinamica al nostro mondo interiore (ai nostri vissuti), il corpo rappresenta lo sfondo da cui emerge una figura che, dopo averci illuminato (‘dove siamo’ e ‘dove vogliamo andare’), ritorna nello sfondo come esperienza assimilata che nutre e fa crescere l’Organismo. Questa dinamica figura/sfondo e le sue vicende (ritmo, rigidità, chiarezza e quant’altro) rivela il nostro stile percettivo e relazionale. È proprio in questo ininterrotto ritmo di figura/sfondo che va inscritta la dinamica corpo/parola/corpo. A questo punto possiamo chiederci: ma quando si parla di ascoltare il corpo o dell’inconscio come corpo, di quale corpo parliamo in modo preciso? Lo chiarisco. La parola ‘corpo’ fa riferimento a realtà differenti che vanno, di volta in volta, precisate. Per ‘corpo anatomico’ intendiamo il corpo come dato di realtà, come ‘cosa’ vivente: è il corpo visitato dal medico, misurato dal sarto, numerato nelle statistiche. Un corpo senza biografia o relazioni. Un corpo reificato, che viene chiamato ‘corpo fisico’, ‘corpo anatomico’, Körper (Husserl). Esiste però anche un’altra realtà che chiamiamo ugualmente corpo ma indica altro e viene specificata con termini quali: ‘corpo vissuto’ (Merleau-Ponty), Leib (il corpo vivente di Husserl), corpo simbolico (Pasini), schema corporeo implicito (Salonia), carne (Henry). Questo ‘secondo corpo’ (che chiameremo, per facilitare il discorso, ‘corpo vissuto’) non va confuso con l’‘immagine del corpo’ che ognuno elabora a partire dal corpo riflesso allo specchio. Il corpo cui fa riferimento il ‘corpo vissuto’ riguarda il corpo ‘sentito’ dal soggetto. Diversamente dagli animali, noi umani abbiamo una percezione intima e implicita del nostro corpo che non coincide con il ‘corpo reale’. Potrei dire – nel registro didattico – che ‘ave-
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re un corpo’ riguarda il corpo visibile mentre ‘essere un corpo’ riguarda il corpo invisibile. Esiste uno scarto tra questi due corpi: è da questa differenza del corpo vissuto dal corpo reale che si genera ogni malessere a diversi gradi di intensità. L’esperienza intima che noi abbiamo di tutto il nostro corpo come unità e come parti è quello che chiamiamo ‘schema corporeo implicito’. Questa esperienza intima e implicita si forma lentamente dall’infanzia: man mano il bambino diventa consapevole dell’unità del suo corpo, della temporalità (il corpo è lo stesso ieri, oggi e domani), della spazialità (il corpo occupa spazio fermo e in movimento), dell’agency (il corpo è capace di agire). Lo schema corporeo si forma lentamente e implicitamente man mano che il bambino riceve conferma empatica dai genitori sui suoi vissuti corporei, man mano che sperimenta l’essere toccato con amore e rispetto e la possibilità di esplorare altri corpi. È lo schema corporeo implicito che, poi, lo guiderà nel mondo (Downing). Quanto più grande è lo scarto tra schema corporeo e corpo anatomico tanto più avremo disagi o blocchi nell’essere-nel-mondo e nel tessere relazioni. È lo schema corporeo che dà il senso intimo di sentire il proprio corpo in tutte le sue parti. In termini poetici, è lo schema corporeo che ci fa abitare il nostro corpo. Un esempio che può essere addotto per comprendere la funzione dello schema corporeo è la sindrome dell’arto fantasma. Ad una persona viene amputato un arto e ciononostante la persona avverte sensazioni e movimento nell’arto che manca (Ramachandran). L’arto rimane presente nello schema corporeo anche se assente nella realtà anatomica. Si pensi alle implicazioni di questa prospettiva nella chirurgia estetica o nella ricostruzione di parti di corpo amputate. Interessante l’esperienza di donne con seno ricostruito che – attraverso un lavoro corporeo – risentono fluire il loro respiro anche lungo la protesi. La via regia per comprendere lo schema corporeo (Janov) è la respirazione. Il respiro è il ponte tra il corpo anatomico e lo schema corporeo inconsapevole, ossia tra Leib e Körper, tra ‘carne’ e ‘corpo’ (Henry). Il respiro rende visibile nel corpo anatomico lo schema corporeo: si respira con l’anima e non con il corpo. Chi è ansioso, ad esempio, ha il respiro corto o affannato – e si vede – ma non per motivi di salute (i suoi polmoni potrebbero respirare con pienezza) ma perché il corpo vissuto ha paura. L’ansia – infatti – viene definita in Gestalt Therapy come l’improvvisa mancanza di ossigeno per sostenere l’arousal dell’Organismo che si è attivato per raggiungere una finalità relazionale. Racconta Perls che iniziava le sedute lavorando sulla respirazione (non per nulla era stato paziente di Reich). Come dicevamo, Perls andò oltre Freud e oltre Reich focalizzando la concentrazione come via per fare emergere il ‘corpo vissuto’ che ‘parla’ nel respiro e nelle tensioni del corpo anatomico. È
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Quanto più grande è lo scarto tra schema corporeo e corpo anatomico tanto più avremo disagi o blocchi nell’esserenel-mondo e nel tessere relazioni. È lo schema corporeo che dà il senso intimo di sentire il proprio corpo in tutte le sue parti. In termini poetici, è lo schema corporeo che ci fa abitare il nostro corpo
Il respiro è il ponte tra il corpo anatomico e lo schema corporeo inconsapevole, ossia tra Leib e Körper, tra ‘carne’ e ‘corpo’ (Henry). Il respiro rende visibile nel corpo anatomico lo schema corporeo: si respira con l’anima e non con il corpo
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chiaro che il respiro è come un termometro che rivela ‘come sto’ in questo momento nel mondo: una sorta di ‘valutazione intima’ dell’esistenza personale e relazionale. Tensioni, blocchi, conflitti… tutto si riversa nelle modalità respiratorie.
E per questo poco senso hanno teorie apparentemente affascinanti e molto di moda come quella dell’embodiment, della mente incarnata, proprio a confronto con la scienza stessa. C’è infatti nell’idea di embodiment una pur sotterranea corrente ermeneutica volta a dare un primato alla ‘mente’
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Antonio Eppure la consapevolezza effettiva di questo corpo vitale, vivente e vissuto, è forse proprio ciò che manca a livello scientifico e culturale in genere. E per questo poco senso hanno teorie apparentemente affascinanti e molto di moda come quella dell’embodiment, della mente incarnata, proprio a confronto con la scienza stessa. C’è infatti nell’idea di embodiment una pur sotterranea corrente ermeneutica volta a dare un primato alla ‘mente’, seppur considerando il corpo un attore indispensabile nel processo complessivo della conoscenza e dell’azione soggettiva e intersoggettiva nel mondo. Non dovremmo parlare di una ‘carne pensante’ per essere coerenti? Ma lascio a te la palla... Addirittura assistiamo all’emergere di un’insistenza – da parte di nuovi saperi, come le neuroscienze – su un primato sì del corpo, ma concepito ancora come una sorta di deposito della mente e, ancor peggio, in un’ottica puramente meccanica. Una concezione che finisce per coniugarsi da un lato con la società dell’apparenza, dall’altro con un certo tipo di teorie di genere che continuano a considerare il corpo come una pura forma ‘esterna’ che può essere modificata. La declinazione clinica della Gestalt Therapy continua dunque a rivelarsi attualissima nei confronti di una concezione del corpo che, nella percezione sociale, nella letteratura, nella filosofia e probabilmente anche nella consapevolezza estetica, continua ad essere enfatizzato puramente come oggetto e come funzione fisiologica. Giovanni È necessario ripartire da un dato di realtà: il nostro corpo esiste prima che noi ne siamo consapevoli. Un bambino si accorge di essere un corpo più o meno intorno ai tre anni (è un dato, questo, che si sta tentando di precisare a livello scientifico). Ed è proprio dal corpo che emergono i suoi pensieri e non viceversa. Ricordiamo la genialità di Freud: da ogni sfintere abitato dalla libido deriva una specifica modalità relazionale. Come dicevo, lui stesso (e i suoi seguaci) dimenticarono questa intuizione. Scrive Erikson: «Le prime manifestazioni del fatto che il bambino ha fiducia nell’ambiente […] sono la facilità con cui si nutre». È proprio il contrario: dal corpo rilassato perché accudito e nutrito affiora – per intenderci – la fiducia. I pensieri di identità e di relazione nascono dal corpo. Già Nietzsche aveva scritto: «Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fra-
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tello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo». Ecco perché parlare di ‘mente incarnata’ è un controsenso perché ripropone lo split mente/corpo, per cui non ha senso parlare di empatia incarnata: è l’esperienza che provocano i neuroni specchio che può diventare empatia. Rizzolati afferma che non esiste un nesso intimo tra neuroni specchio ed empatia: comprendere che il nemico soffre a qualcuno può suscitare piacere. Ogni pensiero di identità e relazione, infatti, è copia verbale di una esperienza primaria che parte dal corpo, trova pienezza e compimento nella parola e torna così al corpo. Già la filosofia ci ricordava che «il vissuto (Erlebnis) e la sua espressione (Ausdruck) sono unità vivente inseparabile» (Scheler in Cusinato). La parola serve a rendere piena l’esperienza che inizia dal corpo. Non è, quindi, la mente che si incarna nel corpo ma, al contrario, è il corpo che diventa parola: come dicevamo, diventa una ‘carne pensante’ o ‘corpo che diventa mente’. Come ha dimostrato Keller, anche la percezione del mondo non è un fatto cognitivo, poiché: «la corporeità nel suo insieme, particolarmente il movimento corporeo – e non soltanto il cervello – determinano in maniera essenziale il modo con cui conosciamo il mondo». Già Koffka aveva intuito che «un oggetto viene percepito nella sua interezza anche per le possibilità di azione che offre»: è il concetto di affordance (un muretto di 60 cm è percepito in modo diverso da un bambino e da un adulto che può sedervisi sopra). Anche nel funzionamento dei ‘neuroni specchio’ vige il principio che la comprensione dell’intenzione e del movimento dell’altro è connessa con la competenza che ha il mio corpo: se due persone guardano un balletto, questo avrà maggiore risonanza a livello di ‘neuroni specchio’ nel corpo di colui che ha più esperienza di danza. La differenza tra queste due teorie (‘mente incarnata’ e ‘carne che diventa pensiero’) segna una linea di demarcazione tra due modelli differenti di diagnosi e di clinica. I cambiamenti avvengono partendo dal corpo e approdando al corpo. Le nuove terapie corporee (Ogden, Van der Kolk) hanno in effetti sostenuto e confermato l’approccio clinico della Gestalt Therapy: chiamato in termini tecnici il percorso bottom-up, significa partire dalle sensazioni. Questa prospettiva – che parte dal corpo – diventa elettiva quando si lavora su eventi traumatici che sono scritti e blindati nella memoria corporea. Ecco perché Van der Kolk – a mio avviso il terapeuta più esperto sul lavoro sul trauma – sostiene che le terapie cognitive non sono adeguate a lavorare sul trauma. A conferma di ciò, le terapie cognitive in questi ultimi anni cercano di includere nel loro lavoro clinico il lavoro corporeo (l’EMDR, la Mindfulness, le tecniche corporee). Un intervento terapeutico deve comunque modificare lo schema corporeo. L’inizio può es-
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Ogni pensiero di identità e relazione, infatti, è copia verbale di una esperienza primaria che parte dal corpo, trova pienezza e compimento nella parola e torna così al corpo. Già la filosofia ci ricordava che «il vissuto (Erlebnis) e la sua espressione (Ausdruck) sono unità vivente inseparabile» (Scheler in Cusinato). La parola serve a rendere piena l’esperienza che inizia dal corpo
Questa prospettiva – che parte dal corpo – diventa elettiva quando si lavora su eventi traumatici che sono scritti e blindati nella memoria corporea
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sere ‘cognitivo’, ma il punto di arrivo del lavoro clinico deve essere – nei tempi e nelle modalità adeguati – il vissuto corporeorelazionale. Ricordo un paziente che mi parlava nelle prime sedute dei filosofi che amava. Dopo un po’ di tempo commentai: «Come si sente uno che vive con questi grandi a vivere nel quotidiano?». «Solo», fu la sua risposta. Parlammo di questa solitudine. Un giorno gli chiesi: «Dove e come sente la solitudine nel suo corpo?». «Nel petto», mi rispose. Ed emersero i vissuti della mancanza di contatto con il corpo del padre. Completo il discorso ricordando che esiste anche una situazione in cui sono i pensieri che determinano i vissuti. Si tratta di precisi pensieri-attesa che suscitano emozioni derivate da tali attese. Se io ho imparato che ogni persona che incontro mi deve salutare, diventerò triste se qualcuno non risponde a questa attesa. Ma, in questo caso, la tristezza è generata dal pensiero: non è esperienza primaria. Si tratta di quelle che A. Ellis chiama «irrational beliefs».
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Antonio In questo senso la Gestalt ha sempre mantenuto ferma la grande intuizione che bisogna partire dal corpo. Anzi, proprio l’Istituto GTK ha condotto in questi anni, sotto la tua direzione, una propria specifica ricerca sulla dimensione corporea rispetto alle funzioni Es, Io e Personalità e quindi sui riflessi clinici di questo lavoro. Come a dire che il nostro modo di sentire il mondo, il nostro modo di decidere e di agire nel mondo, nonché i processi in base ai quali diventiamo noi stessi, ci ‘autodefiniamo’ nel mondo, e quindi sentiamo, decidiamo e agiamo, sono piantati nel corpo. Credo sia una intuizione fondata su un’analisi fenomenologica dell’esperienza quotidiana. Se, ad esempio, ho assimilato nel mio corpo il mio essere padre, grazie magari ad una storia evolutiva positiva sul piano familiare, la paternità per me non sarà un ruolo ma un modo di essere al mondo: sentirò da padre, deciderò da padre, agirò da padre... Giovanni Sì, esatto. Proprio agli inizi della elaborazione della GT l’attenzione al corpo – come accennavo – è maturata da tre saperi: la fenomenologia (I. From), la terapia corporea (Perls, paziente di Reich, e Goodman, paziente di Lowen) e l’influsso delle tecniche orientali di lavoro sul respiro (Weiss, Perls). I capisaldi della GT hanno sempre un intreccio organismico-relazionale. L’intenzionalità che spinge l’Organismo verso l’Ambiente emerge dal corpo, si compie nel corpo e dal corpo riceve la valutazione più genuina della autenticità e della validità. La teoria del contatto/ritiro dal contatto che analizza cosa accade al confine di contatto tra Organismo e Ambiente, ossia in che modo Organismo e Ambiente si possono
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incontrare o non incontrare (interruzione del ciclo di contatto), è sempre una descrizione di ciò che accade nel corpo. Una ragazza che interrompe ogni intenzionalità di contatto perché le risuona dentro l’introietto materno «Mi raccomando, sta’ attenta» non è bloccata da queste parole (quante altre parole avrà ascoltato e non le sono rimaste impresse!), ma è bloccata dalla tensione del corpo della madre nel dire queste parole: è la tensione della madre che l’ha contagiata più delle parole. Quando un ragazzo dice che non si sente voluto bene, certamente sta pensando a ‘gesti’ precisi che avrebbe voluto riceve e non ha ricevuto o che ha ricevuto e non avrebbe voluto ricevere. Anche la teoria del sé gestaltico – altro punto fermo dell’impianto della GT, di cui parlavi – è una teoria corporea, confermata proprio dalle neuroscienze (si pensi a MacLean, con le intuizioni sul cervello uno-trino e ai successivi sviluppi di questa teoria). Quando nel sé si attiva la funzione-Es, il corpo avverte delle sensazioni che man mano prendono forma (gestalt) e si configurano come una emozione, ossia una spinta a raggiungere in modo nuovo l’Ambiente. Per dirla con Agostino, nel presente si rappresenta il futuro, là verso dove si è spinti ad andare (presente-futuro). Sembra un gioco di parole, ma è proprio che il futuro si rappresenta, si rende presente nel presente. A questo punto emerge dal corpo vissuto quello che Damasio chiama il «sé biografico corporeo», ossia ‘chi sono diventato’ io che sento questa emozione. Si tratta della memoria corporea (cellulare?) che si esprime nei ‘sentimenti’ che – come sappiamo – sono le emozioni che hanno raggiunto lo scopo e sono state assimilate. La neocorteccia ha dato parole e identità alla storia del corpo, ossia alle esperienze assimilate: ‘chi sono io’. Per tornare ad Agostino, è il passato che diventa presente (presente-passato). A questo punto, se c’è contatto tra ‘dove voglio andare’ e ‘chi sono diventato’, può accadere il polemos. Chi decide? La funzione-Io. A differenza della psicoanalisi, nella quale nella lotta tra Es e SuperIo decide l’Io che è il risultato di questa lotta, nella GT la decisione non la prende la neocorteccia ma tutto il corpo (Goodman). Proprio come ha confermato Keller (e con lui le neuroscienze): non esiste un direttore di orchestra che decide, ma la decisone viene dal corpo che crea. Dal corpo, inteso come totalità dell’Organismo in relazione, emerge una creatività che trova una integrazione (adattamento creativo) che fa crescere l’Organismo integrando e portando passato e futuro in un presente ‘nuovo’ e coerente’.
Non esiste un direttore di orchestra che decide, ma la decisone viene dal corpo che crea. Dal corpo, inteso come totalità dell’Organismo in relazione, emerge una creatività che trova una integrazione (adattamento creativo) che fa crescere l’Organismo integrando e portando passato e futuro in un presente ‘nuovo’ e coerente’
Antonio Come si lavora su questo fronte, a livello clinico, in Gestalt? Mi pare un aspetto su cui si misura la profonda innovatività, oltre che la sapienza umana, della Gestalt Therapy...
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Tutte le terapie parlano di corpo: la diversità sta nel modo in cui ci si approccia a ‘questo’ corpo concreto che è il corpo del terapeuta e il corpo del paziente. Diversamente dalla terapia reichiana e bioenergetica, il gestaltista non premette all’intervento la lettura e l’analisi del corpo del paziente per individuare le parti bloccate su cui lavorare, ma aspetta che queste emergano nella relazione terapeutica
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Giovanni Da un punto di vista tecnico, parlare di corpo in Gestalt o di lavoro sul corpo in Gestalt potrebbe suonare un non-senso, in quanto si obietta che la Gestalt Therapy lavora in modo olistico sull’Organismo-in-contatto-con-l’Ambiente. E il corpo esiste insieme alla parola. È ovvio, quindi, che siamo nel registro didattico. Nel lavoro gestaltico si guarda alla relazione terapeuta-paziente nella sua integrità (corpo, parole, movimenti e silenzi). Entro nel concreto. Tutte le terapie parlano di corpo: la diversità sta nel modo in cui ci si approccia a ‘questo’ corpo concreto che è il corpo del terapeuta e il corpo del paziente. Diversamente dalla terapia reichiana e bioenergetica, il gestaltista non premette all’intervento la lettura e l’analisi del corpo del paziente per individuare le parti bloccate su cui lavorare, ma aspetta che queste emergano nella relazione terapeutica. È principio gestaltico che i blocchi accadono in una relazione primaria, si manifestano nella relazione e si curano in una relazione. Per cui, ad esempio, non dico al paziente che sto vedendo la sua mascella serrata: o aspetto che ne prenda consapevolezza egli stesso ascoltando il suo corpo (‘concentrazione’) o aspetto che ciò si attivi nella relazione terapeutica quando si arriva sullo stesso tema relazionale di quando è emersa. Spero proprio sia passato il tempo in cui si chiedeva al paziente che si stava carezzando un braccio «Costa sta facendo la tua mano?» o «Chi vorresti accarezzare?». Queste domande, spesso, dopo la prima sorpresa bloccavano la spontaneità del paziente. Al limite potrò dire qualcosa tipo: «In certi momenti si ha voglia di accarezzare o di essere accarezzati». Sarà lui – se pronto – a diventare consapevole con pienezza di quello che stiamo vivendo nella relazione terapeutica. Anche i commenti sul corpo del paziente devono essere molto attenti al tempo e al modo in cui farli, tenendo presente l’utilità per lui. Per esempio, un paziente, tremando per l’emozione, dice al terapeuta: «Sono contento di essere qua». Cosa si risponde? Una risposta del tipo «Da una parte lei dice che è contento, dall’altra sta tremando: come mette insieme questi due aspetti?» è tecnicamente perfetta, ma forse non coglie l’intenzionalità del paziente come farebbe una risposta del tipo: «Se capisco bene, è contento di essere qui anche se è (stato) difficile». In questo esempio diventa chiaro come il lavoro sul corpo è sempre dentro una visione olistica che raccoglie tutti gli elementi presenti nel campo dentro l’intenzionalità (terapeutica) del paziente. Nel nostro Istituto abbiamo approfondito sia il tema del corpo come matrice dei vissuti e delle parole (la Gestalt sembra tradurre e approfondire la valenza clinica della sapienza medievale: nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu) sia il tema della memoria corporea specialmente nel lavoro sul trauma. In questi ultimi
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anni, stiamo riprendendo e riscrivendo in modo innovativo il significato e il lavoro sul ‘gesto mancato’. In realtà la cifra ermeneutica della clinica in Gestalt Therapy è l’interruzione (di contatto), ma tale interruzione concretamente significa non aver compiuto il gesto preciso che l’Organismo intendeva compiere per arrivare allo scopo (il contatto pieno). Da Janet («Questi pazienti stanno continuando l’azione, o meglio un tentativo di azione che iniziò quando successe l’evento: e si esauriscono in un eterno ricominciare») a Freud (sul coito interrotto come causa di nevrosi), a Laborit (con la sua teoria del Sistema Azione Interrotta), a Sperry («Il cervello è un organo di movimento e per il movimento: il cervello è l’organo che fa muovere i muscoli. Esso fa molte altre cose, ma tutte queste sono secondarie al far muovere i nostri corpi») esiste una convergenza sul dato che il blocco dell’azione determini il malessere psichico. Anche il poeta ha cantato: «Silenzio, solitudine dei gesti mancati» (Luzi). Un gesto mancato – un gesto che avremmo voluto ma non abbiamo compiuto, un gesto che avemmo voluto ricevere e non abbiamo ricevuto – provoca un vuoto in una zona precisa del corpo che determina una contrazione dell’‘io posso’. Come ritrovare il gesto mancato? Non è facile perché deve essere un gesto preciso (in una poesia nessuna parola può essere sostituita da un suo sinonimo) e, contestualmente, non può essere lo stesso visto che sono passati anni. Si tratta di dare sostegno al paziente perché quando vive una situazione che richiama i temi che hanno prodotto l’interruzione riesca con il sostegno del terapeuta a compiere e il gesto ‘fit’ che chiude la gestalt del qui-e-adesso: una chiusura genuina di adesso ripristina il gesto di ieri. Janet usava parlare di «atto di trionfo» per indicare questo evento. Stiamo esplorando e ottenendo molti riscontri aprendo percorsi che intrecciano ‘gesto mancato’ e funzione-Personalità del Sé (ordo amoris) (Agostino). Ci siamo accorti, inoltre, che per avere risultati duraturi è necessario approfondire l’immagine per connetterla con i vissuti corporei nella triplice suddivisione temporale heideggeriana: riproduzione (Nachbildung), preformazione (Vorbildung) e formazione (Abbildung) (Steeves). È impossibile prevedere il gesto mancato prima che si compia: anche il terapeuta abitualmente rimane sorpreso (un bel segno, questo) di come il gesto mancato emerge nel lavoro terapeutico. Tra non molto pubblicheremo qualcosa al riguardo (Salonia – Smonker).
In questi ultimi anni, stiamo riprendendo e riscrivendo in modo innovativo il significato e il lavoro sul ‘gesto mancato’. In realtà la cifra ermeneutica della clinica in Gestalt Therapy è l’interruzione (di contatto), ma tale interruzione concretamente significa non aver compiuto il gesto preciso che l’Organismo intendeva compiere per arrivare allo scopo (il contatto pieno)
Si tratta di dare sostegno al paziente perché quando vive una situazione che richiama i temi che hanno prodotto l’interruzione riesca con il sostegno del terapeuta a compiere e il gesto ‘fit’ che chiude la gestalt del qui-eadesso: una chiusura genuina di adesso ripristina il gesto di ieri. Janet usava parlare di «atto di trionfo» per indicare questo evento
Antonio A partire dalla propria visione sul corpo e sulla relazione, la Gestalt ha potuto sviluppare anche una propria lettura antropologica, che si rivela particolarmente significativa in un contesto
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come quello attuale, in cui la difficoltà nel maturare consapevolezza nei confronti del corpo viene spesso mascherata dall’esaltazione e dall’enfasi sul corpo. Parliamo tanto del corpo, lo mostriamo in maniera esasperata, lo coltiviamo rispetto al modo in cui ‘appare’ sulla scena mondana, ma lo ‘sentiamo’ poco...
Ascoltare il corpo, e il corpo in relazione, ritrovarlo e riprenderlo come il luogo più vicino e più lontano, come ineliminabile condizione di viator: il corpo come ‘tao’, come cammino verso la pienezza. E la pienezza – direbbe Ricoeur – è raggiungere il forestiero che siamo noi a noi stessi
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Giovanni Dopo secoli in cui – come abbiamo visto – la corporeità era rimasta nello sfondo con accezioni spesso negative e moralistiche, nella postmodernità, illuminando la soggettività, è stato rivalutato il corpo, anzi è diventato centro del cambiamento (‘In principio era il corpo’). Un cammino segnato da slogan quali «non avere un corpo ma essere un corpo» o «il corpo è mio e lo gestisco io» che, come tutti gli slogan, evidenziano e prendono di mira gli aspetti negativi di un certo modo di pensare. Direbbe, però, M. Proust che è complicato cantare «io sono un corpo» quando un dolore o una malattia ci fa quasi odiare il corpo. Certamente nel corpo c’è la chiave della nostra condizione umana: della nostra identità e della nostra relazione, della nostra nascita e della nostra fine. Siamo corpo ‘tra’ corpi, e – come la Gestalt ci insegna – l’intercorporeità è la matrice dell’intersoggettività. Cosa accade tra i corpi non lo sappiamo, ed è certamente molto più di quello che possiamo sapere. L’intenzionalità – come si rapportano due corpi – è quella linea d’oro che, tra le tante sensazioni dei corpi, sceglie una coerenza e una direzione. Ascoltare il corpo, e il corpo in relazione, ritrovarlo e riprenderlo come il luogo più vicino e più lontano, come ineliminabile condizione di viator: il corpo come ‘tao’, come cammino verso la pienezza. E la pienezza – direbbe Ricoeur – è raggiungere il forestiero che siamo noi a noi stessi. E il corpo – ricordiamocelo – non è solamente via regia alla individuazione e alla pienezza, ma è anche il luogo in cui vibra la vita, è la migliore contestazione agli habitus che negano la vita, che diventano routine, che addormentano. E questo si vede proprio nel modo in cui si leggono, ad esempio in letteratura, testi che avrebbero una portata rivoluzionaria ma vengono ‘addormentati’. Penso al lavoro che hai fatto tu prima con Pirandello e poi, ampliando lo sguardo, con la letteratura della modernità, in quel famoso orizzonte che abbraccia la nostra storia occidentale (Sichera). Qui mi limito ad esempi direi più ‘a portata di mano’. Pensiamo ad Alice nel Paese delle Meraviglie, dove già Carroll aveva individuato la centralità del corpo. Tutti ricordiamo, tra le altre pagine, quella del geniale scambio di battute col Cappellaio, che suggerisce ad Alice come sarebbe bello poter ordinare al tempo di scorrere dalle nove a mezzogiorno, così da far passare subito le ore di scuola e arrivare all’ora di pranzo: lei gli risponde che, se
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questo accadesse, arriverebbe a quell’ora senza avere fame. Una battuta folgorante che dichiara che l’istanza regolativa non va cercata fuori di noi ma dentro i nostri corpi. E ancora il Pinocchio di Collodi, un libro anch’esso rivoluzionario, che è stato stemperato e sacrificato agli ‘idola’ del tempo. Nella storia di Pinocchio vi è una grande lezione che – se compresa – destabilizza molte delle nostre pedagogie. Ricorda che ubbidire le regole in modo passivo rende burattini. Si merita un corpo quando si ubbidisce alla regola d’oro di avere un cuore buono: l’unica che ci fa umani. E infine il Peter Pan di Barrie. Se si chiede in giro chi è Peter Pan, ci si sente rispondere: «Il bambino che non vuole crescere». Questa risposta, pur essendo decisamente falsa, è diventata purtroppo la esegesi classica. A rileggere il testo – ricordi che l’abbiamo fatto assieme? – Peter Pan è una critica potente all’anaffettività genitoriale, alla mancanza di corporeità nella crescita dei figli (ricorda la triste infanzia dell’autore). Il tema del libro esplode con chiarezza evidente per chi lo legge senza preconcetti: i bambini crescono bene solo se sono baciati. «Un bacio salva la vita»: questa frase che grida gioioso Peter Pan è la cifra ermeneutica di tutto il testo. Come mai è stata disconosciuta un’affermazione così commovente e così forte? Ulteriore dimostrazione di come la chiave di lettura gestaltica, integrando élan vital e significato, dona prospettive nuove ed intriganti non solo a livello clinico ma anche antropologico. Antonio Questo approccio culturale ci aiuta anche a leggere fenomeni attuali – politici e sociali – spostandoci, in qualche modo, alla lettura di ciò che riguarda le caratteristiche del ‘corpo sociale’. La metafora del corpo ha sempre accompagnato lo sviluppo della teoria politica, dall’apologo di Menenio Agrippa a San Paolo, fino alla modernità, da Hobbes in poi. Si tratta forse oggi di rileggere queste intuizioni in un’ottica diversa e la Gestalt Therapy sin dal suo sorgere ha dato un contributo in questa direzione. Giovanni In proposito potremmo citare Marcuse, che per primo ha legato Marx e Freud, riconoscendo in questo intreccio il punto di apertura alla città dell’eros. Molti studi recentemente focalizzati sul rapporto tra la guerra e la politica con i corpi e con l’eros hanno ipotizzato che la guerra – come i tumori – nasca da corpi repressi. Si tratta forse di una semplificazione degli studi di Reich sul fascismo, ma di certo non si può negare che un corpo represso sia un corpo violento e che una città di corpi repressi sia una città di corpi violenti.
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L’apertura politica della Gestalt va nella direzione di un conflitto di interessi, inevitabile nella polis, ma che sia autoregolato dai corpi. Una città diventa umana e crea umanità se prevede spazi per i corpi, per tutti i corpi, anche quelli dei piccoli e quelli ‘feriti’ da limiti
Dal punto di vista dei conflitti economici e sociali, ci supportano le intuizioni di economisti (pensiamo a Stefano Zamagni o ad Amartya Sen) secondo cui la patologia dell’economia sta nel far coincidere il concetto di benessere col concetto di possesso, che – quando si esprime in modo esponenziale – provoca la patologia della felicità perché ne crea l’illusione ma poi la consuma. Ecco come il benessere psichico diventa elemento costitutivo dell’economia
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L’apertura politica della Gestalt va nella direzione di un conflitto di interessi, inevitabile nella polis, ma che sia autoregolato dai corpi. Una città diventa umana e crea umanità se prevede spazi per i corpi, per tutti i corpi, anche quelli dei piccoli e quelli ‘feriti’ da limiti. Spazi di gioco, di incontro, di verde, di bellezza. Una città ‘bella’ favorisce un clima di bellezza relazionale. Dal punto di vista dei conflitti economici e sociali, ci supportano le intuizioni di economisti (pensiamo a Stefano Zamagni o ad Amartya Sen) secondo cui la patologia dell’economia sta nel far coincidere il concetto di benessere col concetto di possesso, che – quando si esprime in modo esponenziale – provoca la patologia della felicità perché ne crea l’illusione ma poi la consuma. Ecco come il benessere psichico diventa elemento costitutivo dell’economia. Ed ecco perché quando la Gestalt invoca il corpo, lo fa per dire: mettiamo l’ascolto dei corpi al centro della città, prestiamo attenzione ai corpi delle donne, dei bambini, dei deboli, perché un gruppo che dà la parola solo ai forti ha un tempo di sopravvivenza già segnato. In terapia non si comincia a lavorare sul corpo da quelle parti che si esprimono già nella dimensione dell’iper, ma da quelle che si esprimono ancora nella dimensione dell’ipo: quando anch’esse cominceranno a circolare, le energie di tutte le parti cominceranno a fluire in un senso di integrazione. Allo stesso modo, per pensare ad una città sana, devo pensarla come un corpo in cui tutte le parti siano vive: solo se la strategia della città prevedesse di partire dalle periferie, coinvolgendole in modo strategico, si compirebbe una proliferazione di energie finalmente capace di coinvolgere tutti. Possiamo applicare al corpo, alla casa e alla città la felice intuizione di Gibran: «Nacqui una seconda volta quando la mia anima e il mio corpo si innamorarono e si congiunsero in matrimonio».
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L’editoria IT
Psicopatologia e nuove prassi cliniche
Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di Psicopatologia Gestaltica Autori: Giovanni Salonia, Valeria Conte, Paola Argentino Come comprendere la follia propria ed altrui? Dove cercare il motivo originario dell’umano smarrirsi? La Gestalt Therapy propone quale cifra ermeneutica di ogni esistere, nella pienezza e nello smarrimento, l’intenzionalità di contatto, ovvero l’insopprimibile bisogno di raggiungere e di sentirsi raggiunti dall’altro. I fallimenti di questa intenzionalità – inscritta e vibrante nei vissuti corporei relazionali – generano il disagio psichico nelle sue varie forme. Su questo Grundkonzept si costruisce e articola la Psicopatologia della Gestalt Therapy nei suoi vari capitoli: eziologia, diagnosi, terapia. Grazie ad una lunga esperienza di clinica, di formazione e di ricerca, gli Autori di Devo sapere subito se sono vivo presentano alcune forme di disagio psichico, coniugando, in un genere letterario immediato e toccante, la lettura del disturbo e l’intervento relazionale. Ne viene fuori un nuovo modo di guardare alla sofferenza psichica e di curarla, ma anche una diversa epistemologia della scienza e dell’esperienza terapeutica. ISBN: 978-88-6124-432-0 Pagine: 292
La Luna è fatta di Formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio borderline G. Salonia (ed.) Se un paziente dice al terapeuta: «la luna è fatta di formaggio», e il terapeuta risponde: «la luna e il formaggio sono gialli entrambi», stiamo ascoltando le parole di una rivoluzione ermeneutica e clinica. A darle inizio è stato, molti anni fa, uno dei più acuti terapeuti della Gestalt, Isadore From, quando intuì come i pazienti che usano un linguaggio borderline – perché il linguaggio è la dimora del contatto – non attendano dal terapeuta una definizione, un’interpretazione o, peggio ancora, una correzione della loro esperienza, bensì solo una rispettosa, illuminante ‘traduzione’. Tradurre vuol dire riconoscere e accogliere la diversità e la dignità dell’altro. L’intuizione di allora, approfondita a livello teorico e sperimentata in lunghi anni di pratica, è diventata un preciso, innovativo modello di cura – la traduzione gestaltica del linguaggio borderline – che viene presentato a livello di paradigmi e di verbatim. Nel serrato, concreto e critico dialogo con gli altri approcci (da Gabbard a Kernberg, dall’empatia alla mentalizzazione), emerge la novitas del modello elaborato dall’Istituto di Gestalt Therapy GTK. Il ‘giallo’ di From che connette luna e formaggio connette anche terapeuta e paziente nella loro umile e ostinata ricerca di verità nel e del contatto. ISBN: 978-88-6124-495-5 Pagine: 176
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Incontri terapeutici a quattro zampe. Gestalt Therapy e prospettiva di zooantropologia clinica Aluette Merenda (ed.) Il volume si propone di delineare il valore terapeutico degli animali d’affezione nei diversi contesti di cura, tracciandone risvolti psicoeducativi e finalità terapeutiche. Il focus si orienta verso ambiti di studio e questioni metodologiche che abbracciano l’approccio zooantropologico e la medicina veterinaria, la zooantropologia clinica e la psichiatria, l’educazione cinofila nelle famiglie attuali – con particolare riferimento ai principi della psicologia canina e alla Gestalt Animal Assisted Psycho-therapy (GAAP) –, coinvolgendo il cane, l’asino ed il cavallo come figure mediatrici della competenza emotiva dell’adulto e del bambino. La zooantropologia clinica viene pertanto a delinearsi quale sfondo di riferimento per ogni percorso teorico e clinico mirato a dare centralità all’incontro con l’altro nella sua radice che è l’intercorporeità, il sentire animale. Il volume è rivolto agli operatori dei vari ambiti disciplinari, agli studenti delle lauree triennali e specialistiche delle Scuole delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale, di Medicina veterinaria e Medicina e Chirurgia, nonché ad ogni terapeuta e ad ogni persona capace di comprendere la condizione umana.
Tra. Per una fenomenologia dell’incontro Autore: Bin Kimura Viviamo ogni giorno trasportati dall’onda inarrestabile del quotidiano. Eppure il nostro organismo è costantemente in contatto con un fondamento della vita che ci supera e ci sostiene, mentre appare al contempo strutturalmente aperto al mondo in cui accade per noi e per tutti il gioco dell’esistenza. In Gestalt Therapy il principio vitale che regge e armonizza le dinamiche dell’esserci si chiama Sé, l’istanza che esprime il nostro essere collocati al confine dell’esperienza, lì dove siamo protesi verso l’altro e incontriamo l’ambiente che ci sollecita e ci nutre. Da questo punto di vista, Tra di Bin Kimura, uno dei più noti e influenti psichiatri giapponesi, può a buon diritto essere considerato come un vero e proprio trattato di fenomenologia gestaltica, dove, con un linguaggio rigoroso e concettualmente controllato, si racconta la manifestazione del Sé nella concretezza del contatto intersoggettivo e intrapersonale. ISBN: 978-88-6124-300-2 Pagine: 160
ISBN: 978-88-6124-545-7 Pagine: 152
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Nusch au miroir - 1935
The Human Animal: Body in Gestalt Therapy
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There is first the basis. Let us call it the “animal self”. Here, we are like little children, merely organic beings, beings with their needs, their primitive functions, though often very differentiated functions, and their feelings1.
Alla radice siamo animali, come sottolinea la citazione di Perls, e tutto il resto di ciò che ci rende unici si basa su questo. Il punto centrale di una terapia corporea è di mantenere le connessioni con la base animale, non di invertire questo punto e vedere il corpo attraverso le lenti di una mente ‘disincarnata’
Gli esseri umani tendono ad avere difficoltà ad accettare di essere animali
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RICERCA
Peter Philippson
Introduction will give an overview of my understanding of a Gestalt view of embodiment, both in terms of philosophy and of therapy. Central to my viewpoint is a wish to avoid a Cartesian splitting of body and mind, one of the basic aspects of the ‘plan’ of our major founding text2. For this reason, I am wary of the common split between physical and lived body (Körper and Leib), and between the physical field and the ‘phenomenal field’. At root we are animals, as the Perls quote points out, and all the rest that makes us unique builds on top of that. The whole point of an embodied therapy is to maintain the connections to the animal base, not to reverse this and view body through the lens of some disembodied mind. I will suggest that the way we usually organise therapy supports this splitting, and therefore reduces our therapeutic effectiveness generally, and specifically in the case of embodied ‘symptoms’ and eating disorders. Humans and animals Human beings tend to find it difficult to accept that we are animals, a product of evolution from non-human ancestors, and that we will therefore be no more immortal as a species than we are as individuals. We will either evolve into something different or just become extinct in our turn. Cartesian splitting allows us to differentiate ourselves from other animals because of a nonphysical substance, mind or soul, that partially removes us from the physical world. Then, having posited this extra and essential substance, those of us who want to base our understanding of human beings and therapy in the physical world can be seen as ‘reductionist’.
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A further advantage in this dualism is that it avoids facing difficult drive experiences, especially sexuality. In fact, the instinctual drives that Freud (following Groddeck3) called the It (Id) are rarely taught in Gestalt psychotherapy training, though they are not ignored in the literature: Above all, we must remember that where the contestants are natural drives – aggressions, special gifts, sexual practices that in fact give pleasure, etc. – they cannot be reduced, but their manifestations only deliberately suppressed, bullied or shamed out4. It is the drive theory that states that the body, the physical being, has its own requirements for survival, contact, and procreation and that these, while being object-seeking, are more geared to the satisfaction of a hunger than to the specificity of the object. I need to eat, even if the food is not tasty. I need parental attachment, even if the attachment comes at a high price. I need people to connect to, even if the only people around me require me to submit to pain and frustration. I lust for sex, and gravitate towards those who might provide it, though I might conceal that attraction behind moral condemnation and other sublimations5. In fact, both Fritz and Laura Perls studied with Groddeck, who was also a friend of two of Fritz’s analysts, Landauer and Horney6. The animal in therapy Animals are moving, sensing and engaged creatures. Our sense of ourselves in the present situation naturally arises in our spontaneous moving and our active engagement. Our verbal expression, thinking and planning arise out of complex actions that need to be planned in order to be completed well, or out of a desire to communicate with others. Yet most therapy is done by two (or more in a group) people sitting in chairs in a position of stable equilibrium where we have to put energy into standing up in order to move closer to, or further from, a person or location, and where our legs and hips are made useless. People either do not look at each other, or look into each other’s eyes, at least partly to avoid looking at any other parts of each other’s bodies! I often comment that this is probably the worst way to know oneself, and easily ends up with self-commentary, egotism as defined by PHG rather
Gli animali si muovono, percepiscono e contattano le creature. Il nostro senso di noi stessi nella situazione attuale deriva naturalmente dal nostro movimento spontaneo e dal nostro coinvolgimento attivo
3 Cfr. G. Groddeck (1949), The Book of the It, Vision Press, London. 4 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1994) (ed. or. 1951), Gestalt Therapy: Excitement and Growth in the Human Personality, cit., 138. 5 P.A. Philippson (2012), Gestalt Therapy: Roots and Branches, Karnac Books, London, 54. 6 Cfr. B. Bocian (2010), Fritz Perls in Berlin, 1893-1933, EHP Verlag, Cologne.
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Sia nella terapia individuale che in quella di gruppo, incoraggio le persone a muoversi, come modo per orientarsi fisicamente nella loro situazione, scoprire dove vanno e dove non vanno, sia con le gambe che con gli occhi. Mi muovo anche io, ed esploriamo la danza che creiamo insieme, sperando di trovare una nuova danza piuttosto che i nostri passi familiari, così scoprire noi stessi in un modo nuovo
È vero che non possiamo conoscere il mondo se non attraverso il nostro corpo, e che non conosciamo il nostro corpo se non attraverso il nostro coinvolgimento nella situazione attuale
A volte ci sono momenti senza parole, non necessariamente silenziosi ma che enfatizzano il suono e il movimento piuttosto che la comunicazione verbale. Ogni volta che facciamo questo, l’energia sale e le persone trovano nuove possibilità.
Le normali forme di sperimentazione della Gestalt si basano tutte sul lavoro con i processi corporei
than awareness, which is active and engaged. In terms of the PHG self functions, the object of scrutiny is the disowned personality function, rather than the owned activity of contacting (id and ego functioning). This known, and therefore fixed, personality then ‘sits’ between therapist and client, and is the bridge through which they connect with each other. This actually causes problems if the client significantly changes how they are, because the bridge has disappeared! For this reason, in both individual and group therapy, I encourage people to move around as a way to orient themselves physically in their situation, find out where they go, and where they do not go, both with their legs and with their eyes. I move around as well, and we explore the dance we create together, hopefully finding a new dance rather than our familiar steps, and so discovering ourselves in a new way. Rather than objectifying bodies and talking about them, we explore our body-selves as energetic, engaged aspects of the field. It is both true that we cannot know the world except through our bodies, and that we do not know our bodies except through our engagement in the current situation. Our bodies take their present form through their engagement in the world: temperature, air quality, food, sexual expression, the physical impact of our work and play on our musculature and skin texture, our body relationship to other people, keeping a distance or coming close to make physical contact, cultural ways of shaping our bodies and maintaining personal space. Our familiar ways of engaging and disengaging will be mirrored in the neural connections that we make, particularly in the first two years of life, so that the relational patterns we build up in our early childhood remain more neurally supported than patterns which we have little chance of embodying. I hold strongly to Perls’ understanding of muscle tensions as physical expressions of two opposite impulses, both of which need exploring, rather than relaxed away or released uncontactfully as catharsis, about which Perls wrote ‘when this emotion is used by ourselves for creative purposes, the whole catharsis theory is rubbish. Nature is not so wasteful as to create emotions to throw them away … Emotions are the very means of our ability to make contact’ 7 . So a tense arm is a result of activation of two opposing muscles that move the arm in two opposite directions at the same time, and in therapy can be slowly moved towards and away from the client, giving voice to each movement. A sudden abdominal tensing inhibiting breathing can be a guide to something that I have done or the client has imagined that frightens them. Sometimes we have times without words, not necessarily silent but emphasising sound and movement rather than verbal communication. Each time we do that, the energy goes up and people find new possibilities. I can
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7 F.S. Perls (1978), Finding Self through Gestalt Therapy, cit., 60-62.
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then suggest that we bring back words, but only where they add to the contact and awareness possibilities, not as a default. The normal forms of Gestalt experimentation all have their place in body process work. Clients can focus on their sensory experience in the moment; they can exaggerate a movement, for example increasing tension and noticing how they experience that; they can reverse a movement, moving legs that have become very still, or changing their posture to be more open or more closed; or they can dialogue between two postures or movements. Having said this, it is important to notice that these are experiments are not engaged with to ‘learn about oneself’ (once again confusing egotism with awareness), but to support the opening of a wider embodied relational field in which new self-configurations, experiences, contacts and relationships become available. In our most avoidant areas, we all limit our contacting and awareness to that which seems familiar, safe, or controllable (even if the outcome is familiarly disappointing!), and there are no new possibilities available in those areas. Some years ago I was asked to present on Gestalt Therapy for a conference of Dance-Movement Therapists. I decided to describe Gestalt Therapy in terms of dance and movement, and found that it represented my work really well, so I reproduce it here:
È importante notare che si tratta di esperimenti con cui non ci si impegna a “conoscere sé stessi” (confondendo ancora una volta l’egotismo con la consapevolezza), ma a sostenere l’apertura di un campo relazionale corporeo più ampio in cui si rendono disponibili nuove auto-configurazioni, esperienze, contatti e relazioni
La mia immagine della terapia è di ballare con qualcuno per la prima volta
My image of therapy is of dancing with someone for the first time. We will each have our own preferred ways to dance, and, if we have had bad early experiences of dancing spontaneously we will be rigid, and will have developed our ways of encouraging our partners to dance our way. If I am dancing with a rigid, non-spontaneous partner, do not just follow how he or she leads, but don’t impose my own rigid way to dance, we will (after a period of awkwardness and maybe stepping on each other’s toes) find our own unique dance together, and the other person (the client) will have discovered their possibility for spontaneity. I do not just mean this as a metaphor: we can do this with actual dancing, and many other ways8. The animal and body image In the situation of chronic low-grade emergency that we have been describing, sense, the initiation of movement, and feeling are inevitably presented as “Mind”, a unique isolated system9.
8 Cfr. P.A. Philippson (2017), We Can Be Together, But You and Me Can Meet, <https://www.amazon.co.uk/Together-Meet-Topics-Gestalt-Therapy-ebook/ dp/B06Y1D2X14/ref=sr_1_10?keywords=peter+philippson&qid=1571757648&s =digital-text&sr=1-10 >. 9 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1994) (ed. or. 1951), Gestalt Therapy: Excite-
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Gli esseri umani vivono in due spazi diversi: ciò che Daniel Stern chiama “esplicito” e “implicito”, verbalizzato / simbolizzato e sperimentato direttamente
Questo mondo virtuale può essere, per noi, una rappresentazione della nostra situazione attuale, una narrazione costruita a partire da ricordi selezionati (chiamati il nostro ‘passato’ o la nostra ‘storia’), o di un mondo che vogliamo costruire, che ci aspettiamo, o che vogliamo evitare (chiamato il nostro ‘futuro’)
Un aspetto centrale della Gestalt Therapy è, nelle parole di Perls: “perdere la testa e tornare ai sensi”
While the distinction between mind and body, or lived-body and physical body, is problematic and moves an understanding of psychotherapy away from a Gestalt model, it is based on something we all experience. Human beings live in two different spaces: what Daniel Stern10 calls the ‘explicit’ and the ‘implicit’, the verbalised/symbolised and the directly experienced. As well as living sensorially in our world, a situation where we make no separation between ourselves and the world we are part of, we live in an imagined world, as if on a screen that we are facing – or, better, as a ‘virtual reality’ world where what is on the screen is ‘tagged’ with memories, narratives, categories and names (Perls named this capacity to ‘tears things from their environment’ into objects and named categories as ‘objectivation’) 11. This virtual world can be, for us, a representation of our current situation, a narrative built from selected memories (called our ‘past’ or our ‘history’), or of a world that we want to build, that we expect, or want to avoid (called our ‘future’). In any case, the ‘I’ that views this world is not part of the world we view, any more than the player of a video game lives in the world of the game. We are then super-natural beings, minds separate from nature, while our bodies are our ‘avatars’ in the physical game world. We go to that second world when the world is too complex to simply live, or where we want to create or plan something new. Paul Goodman’s argument is that our world is so complex that culturally we mostly first approach it in the ‘virtual’ version, sometimes not giving ourselves time to bring our senses to bear at all. Thus our intuition is that there is a separate ‘thing’ called ‘mind’ that constantly animates our material body and moves our avatar around the world. A central aspect then of Gestalt Therapy is, in Perls’ words, to ‘lost your mind and come to your senses’. Goodman’s thesis has recently been given new life (but without acknowledgement) in McGilchrist12. It is fascinating to me that many Gestaltists who praise this book do not know the Goodman original, and become exasperated at Perls’ dictum, all of which say exactly the same thing!
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Chaos and complexity What is the relationship between these two modes of being, if they are not to be two separate Cartesian substances? Fortunately, we have new ways to understand the emergence of a more complex system out of a simpler system so long as it has enough
ment and Growth in the Human Personality, cit., 41. 10 Cfr. D.N. Stern (2004), The Present Moment in Psychotherapy and Everyday Life, W.W. Norton, New York. 11 F.S. Perls (1978), Finding Self through Gestalt Therapy, cit., 65. 12 Cfr. I. McGilchrist (2019), The Master and His Emissary: The Divided Brain and the Making of the Western World, Yale University Press, London.
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available energy and feedback loops. The work of people like Prigogine13 and Kauffman14 on chaos and complexity theories, and Edelman15 on ‘re-entry’ allow us to understand consciousness as a complex organisation of our sensory and neural connections with the world (shared with many animals), rather than something other. It also connects us back to the ideas of Smuts16 around evolving wholes of increasing complexity. My favourite image is of a car in relation to the running of its engine. A collection of car parts cannot run. When they are organised in a particular way, with all the non-linear elements of a car engine, they have a potential to run, to ‘come alive’ in a sense, but need a separate system to start that running. The way it runs also depends on external factors: temperature, driving surface, slope, fuel and the way it is driven. Outside its tolerances, it goes back to its ‘dead’ or stalled position either temporarily or permanently. The running of the car is a function of the organisation of the whole, not something separate from the physical engine that can live on after the car has been scrapped. What is more, this organisation can continue in very much the same way after parts have been replaced with new ones that perform the same function within the whole. Eating disorders The separation between physical body and lived-body becomes most problematic with clients with eating disorders and body image distortions, particularly with anorexia. The sense of the bloated, ugly, hated body is precisely the body as it is lived by these clients, and it has been radically separated from the physical body. I have written17 about anorexia as a radical denial of the animal with all its hungers, locating the self as a disembodied ‘spirit inside’ the disowned skin and flesh. In the background of this is repeated experience of not being met, or being met painfully, at the skin surface. Meanwhile the rageful responses to those experiences have nowhere available or safe to find expression, and are retroflected onto this disowned animal flesh. They can act out their destructive aggression by not eating, especially since they do not believe their real ‘spiritual’ being requires to eat. So the animal shrinks, but then they are faced with a problem: they still do not want to meet the skin surface! As the flesh
La separazione tra corpo fisico e corpo vissuto diventa più problematica con i pazienti con disturbi alimentari e distorsioni dell’immagine corporea, in particolare con l’anoressia. Il senso del corpo gonfio, brutto e odiato rappresenta il corpo come viene vissuto da questi pazienti e che è stato radicalmente separato dal corpo fisico
13 Cfr. I. Prigogine, I. Stengers (1984), Order Out of Chaos, Flamingo, London. 14 Cfr. S. Kauffman (1995), At Home in the Universe, Viking Books, London. 15 Cfr. G.M. Edelman, G. Tononi (2000), A Universe of Consciousness: How Matter Becomes Imagination, Basic Books, New York. 16 Cfr. J. Smuts (1996) (ed. or. 1926), Holism and Evolution, Gestalt Journal Press, Highland, NY. 17 Cfr. P.A. Philippson (2014), The Self and the Skin, in D. Bloom, B. O’Neill (eds.) (2014), The New York Institute for Gestalt Therapy in the 21st Century: An Anthology of Published Writings since 2000, Ravenwood Press, Queenwood, Australia. 199-218.
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La direzione del lavoro è sempre sostenere e stimolare il paziente a riappropriarsi del proprio corpo, compresi pelle e organi sensoriali
Quasi invariabilmente, c’è un alto grado di desensibilizzazione e una mancanza di piacere nel tocco dell’ambiente, inclusa la reattività sessuale
shrinks, the self pulls even further away ‘inside’, and this process can continue till the death of the ‘animal’. My clients with anorexia have recognised this description of the process and found it helpful. So, for example, a severely underweight anorectic woman I worked with had made a breakthrough when she came to see me one day, very agitated and wanting my help ‘because I am eating like an animal!’. Of course, I felt relief rather than agitation, as the eating animal was less likely to starve herself to death. In the case of a client eating compulsively, the image of the self inside the skin is the same, but this time the disowned flesh is seen as a bodyguard or armour protecting the vulnerable person ‘inside’. There is usually in my experience a history of physical or sexual violence for these clients, so the avoided experiences at the skin surface is of frequent pain. The implication of this disowning is that it is the client’s own strength and self-protective capacity that is projected onto the ‘bodyguard’, and this is actually why the person’s ‘lived-body’ is envisioned as weak and needing the outside protection! In this case, the issue is not whether the body looks good, as this is not a consideration for a bodyguard. It is interesting to me that this image of armouring is the same one used by Reich18, that Perls criticised precisely for this disowning of the muscular activity. For Perls it is a sign of a body process to be engaged with, and a dilemma to be reowned, rather than an actual ‘armour’ to be worked through like a ‘resistance’ in psychoanalysis. In both these situations, the direction of the work is basically the same: to support and challenge the client to reown their bodies including their skin and sensory organs. While the aim can be simply stated, it is difficult and slow work, because the client will have had significant reasons to disconnect physically, and, particularly in the case of clients with anorexia, would rather die than reconnect! I have found it very useful to explain this analysis of the eating disorder process, which clients have always in my experience related to well, and which has given them a sense of why they might do what their whole being revolts against.
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Coming to your senses In both of these situations, the eating has been disconnected from the usual physical responses connected to food: both the response to feeling a lack of food, and the response to having eaten enough. Almost invariably, there is a high degree of desensitization and a lack of pleasure in the touch of the environment, including sexual responsiveness. Some people report a sense of floating
18 Cfr. W. Reich (1980), Character Analysis, Farrar, Straus & Giroux, New York.
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and being disembodied. The body is an object outside oneself, with a symbolic purpose for which it is to be literally shaped, a set of functions to fulfil. It is not seen as the source of one’s aliveness. However, the good news is that the animal does not fit comfortably into this way of living, and protests in a number of ways. A very common physical resistance involves cutting oneself or hurting oneself in various ways (including extreme exercise, or getting someone else to hurt them). When somebody who has disowned their body-selves cuts, feels the sting and sees the blood, they feel relief and more connected. I remember having violent sexual images with a seemingly very shy woman client, and telling her that this was not something usual for me, so did she have any sense of what it was about? She smiled and said ‘Oh yes, I want to be loved in a way that I will go on feeling afterwards. If it is gentle, I just won’t feel it.’ This shared understanding helped us to organise our work together. Fortunately, causing pain is not the only way to re-embody oneself. It often works to pat oneself firmly round the body, not so strongly as to cause pain, but strongly enough that the skin goes on feeling the sensation after stopping patting. In a group, members can ask other people to do this for them. The rules I put on this are that the member chooses the people to do this, and the people have to be fully willing to agree. The member then lies down, first face-up, then face-down. After they experience this, people regularly report that their senses are sharper, and they feel more energised and mobile. People who have disembodied as a response to painful experiences will also feel strong emotions and have disturbing memories at times, which can then be worked with. Touch This leads me to the theme of touch between therapist and client. I have over the years changed my views around touch. I used to believe and teach that touch is a form of communication that can easily lead to miscommunication, and be interpreted in a way that may fit with a history of physical or sexual violence. Therefore it is important to limit touch to situations where it is unlikely to be misinterpreted. More recently, I have become very aware that the end result of this is that we end up in a situation where there is an unspoken agreement between therapist and client that the basic human need for touch remains taboo, and essentially that clients who have experienced physical or sexual violence are too damaged ever to recover the ability to have these experiences in a caring and pleasant way. The animal has to be treated as dead! I now believe, and teach, the opposite: that a therapy that finishes without
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Dopo aver fatto questa esperienza, le persone segnalano regolarmente che i loro sensi sono più acuti e si sentono più energici e mobili
Nel corso degli anni ho cambiato il mio punto di vista intorno al tocco
Io credo, e insegno che una terapia che termina senza che il paziente abbia recuperato la capacità di relazionarsi in modo piacevole, sensoriale e sessuale, è una terapia incompleta
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Il lavoro comportamentale non consiste nell’insegnare nuovi comportamenti, ma nel muoversi insieme in uno spazio relazionale più ampio e scoprire come appare il mondo in quello spazio
Un primo passo importante è che il terapeuta e il paziente parlino di questi problemi, e che per il terapeuta sia chiaro che, pur non spingendo il paziente laddove questi non voglia andare, non eviti, però a priori, qualsiasi area rilevante relativa al tocco ed alla sessualità
Possiamo quindi trovare lentamente la nostra strada all’interno di ciò che è possibile, momento per momento, verificando di non sentirci messi in pericolo dai passi che stiamo facendo
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the client having recovered the capacity for pleasurable sensory and sexual relating is a therapy that is incomplete. This does not mean that we have to be less carefully aware of the pitfalls, nor that every therapy can be completed, but that the therapist should not act as if this limitation is settled and has to be accepted. I have also become aware that an unspoken assumption of mine was wrong. While someone who has assimilated reasonable formative experiences of loving and pleasant touch can call up this assimilation in a caring environment such as therapy, and can use it to support their growth, someone who has not had those experiences, or whose experiences were abusive and painful, will not be able to imagine pleasant experiences of touch. This is one example of a wider problem: very often people who say that they are frightened to take a step in their lives actually mean that they are frightened of their fantasies of what it would be like, never having taken such a step in actuality, or only in an early and painfully limited environment. What they discover when they actually take the step (risking showing what they feel, or risking coming closer to someone) is something very different from their fantasies – but they can only discover this by trying it! In this way, embodied Gestalt Therapy must be about behaviour, not just about self-concepts or feelings, because for many clients those are a part of a world that has been closed for many years, and acting as if the situation from which they withdrew is still the situation they face in the present, with all the familiar feelings, expectations and behaviours that would have been appropriate to a situation that is long-gone. Of course the behavioural work is not about teaching new behaviour, but about moving together into a wider relational space (the new dance I wrote about earlier) and discovering what the world looks like in that space. An important first step is for therapist and client to talk about these issues, and for the therapist to be clear that, while s/he will not push the client anywhere s/he doesn’t want to go, neither will s/he in principle avoid any relevant areas round touch and sexuality. The therapist also needs to be accepting of the mistrust and fear that this kind of dialogue will arouse, and not act to try and manipulate the client into trusting him/her. (One woman client, who was manipulated into trusting a relative in childhood and was then abused by him, said that she had to leave a previous therapist who tried to ‘create trust’, and it felt like such a repeat of her childhood experiences that she wanted to kill him!) We can then slowly find our way within what is possible moment by moment, each of us checking that we do not feel compromised by the steps we are taking. I have found that a good start is often touching feet, then maybe fingertips. It might be that at some stage, the client will decide that the next step will need to be
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with another therapist, maybe of a different gender, but the ability to discriminate needs in this way is growthful in itself. If there is something I do not want to do, I will not do it even if the client wants. For example, a woman client with a history of abuse wanted to experiment with taking her clothes off in front of me as she felt that she would be safe to do that. I said that I completely understood, but that I would inevitably have a sexual response to her doing that and therefore did not agree to her request. I want us both to stay in a space where each of us can say ‘yes’ and ‘no’ where appropriate to us. Sex and sexuality Once again, this is a difficult area for therapists and clients to explore, and yet it is clear that people’s early experiences can impair their ability to engage in pleasurable and consensual sexual relationships for many years, and for their whole lives if they cannot work through their experiences. An example of how this can go is with a woman client who had not been in a sexual relationship for many years. I told her that it seemed important to me that, though I am a body-oriented therapist, I notice that I would not consider touching her. This seemed to me a significant part of what we were doing together. At first she did not understand what I was saying, but did become interested after some weeks. We then explored moving slowly towards each other, and ended up holding hands and discovering what that felt like. This kind of exploration contributed to her being able to re-engage sexually. I have argued19 that in separating the lived-body from the physical body, and focusing on relationship to the exclusion of drives, ‘The human animal, with its appetites, skin and genitalia, is gone! So we are left with a cerebral version of sexuality which has lost its rawness and danger. The primary sexual organ is then the brain and our narrative capacity. We have been skinned and castrated.’ At the drive level of the animal, dualities such as male and female, gay and straight, normal and abnormal lose their significance. All that is there is the raw power of attraction to this person at this moment, expressed as bodily response rather than through words. Of course the other levels, of culture, relationship, ethics and morality, self-identifications and similar considerations do enter our expression of our sexuality, but they can too easily be treated as if they are the whole thing, rather than secondary to our physical attractions and desires. Our sexual attractiveness then becomes
Questa è un’area difficile da esplorare per terapeuti e pazienti, eppure è chiaro che le prime esperienze delle persone possono compromettere la loro capacità di coinvolgersi in relazioni sessuali piacevoli e consensuali per molti anni, e per tutta la vita se non riescono a lavorare su di esse
19 Cfr. P.A. Philippson (2018), Sexuality: Drive and Relationship, <https://www. amazon.co.uk/gp/product/B07F22MBVZ?ie=UTF8&linkCode=xm2&camp=20 25&creative=6738&tag=&creativeASIN=B07F22MBVZ&SubscriptionId= >.
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Per il paziente che si è allontanato dalla sessualità a causa di difficili circostanze iniziali, l’unico motivo valido per rischiare di tornarvi è la pulsione istintiva
Per i terapeuti, ci sono diversi importanti supporti per lavorare a questo livello con il corpo e la sessualità
Mi sembra che ogni corso di formazione per la consulenza e la psicoterapia debba affrontare i temi della pulsione, del corpo e della sessualità, per fornire una base corporea alle organizzazioni più complesse che altrimenti rimangono un mondo di concetti
identified with clothes, cosmetics, adjustment of our body shape (I see no evidence that thin people have better sexual relationships than more rounded people!). But this second level is safer for the therapist than the animal level, which has no ethics, no cultural boundaries, and no desires beyond the moment. We even see couples therapy separated off from sex therapy, and sexual issues and themes never mentioned in couples work. Yet for the client who has been put off sex by difficult early circumstances, the only valid reason to risk going back into that pool is the animal drive. If it is not that, either sex will stay out of reach, or it will be recovered in an attempt by the client to ‘become normal’, which is for them a particularly bad reason. For therapists, there are several important supports for work at this level with body and sexuality. One is that they are in good contact with and accepting of their own drives and desires. This will be supported by engaging with body-oriented therapy of their own. Secondly, it is supported by their adherence to a code of ethics, that they will not become sexually involved with present or former clients. Unfortunately, these codes are often used by therapists and clients alike as an injunction not to explore sexual attraction or similar themes as they arise in therapy, but they are actually a support for these explorations as they provide the boundary within which they can occur. Similarly, in a therapy group, I have a rule that people do not form sexual relationships within the group, so that those explorations can take place in the group with a similar bounding frame. The place of therapy is as a support for more fully engaging in the world outside therapy, not to short-circuit this by replacing the client’s community with (often idealised) friendships and relationships within the therapy. It seems to me that every training course for counselling and psychotherapy should engage with issues of drive, body and sexuality, to provide an embodied foundation for the more complex organisations that otherwise remain a world of concepts. Sometimes we can meet our desires very simply and directly, and let ourselves be ‘carried away’ by the delights of the moment. We have found over the years that a failure to engage with the animal-self in training and therapy does not mean that ethical boundaries are always kept. Rather it means that therapists do not have the support to know how to handle physical desire when it arises, and either get into unethical relationships or stifle the work clients need to recover their own animal functioning.
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Conclusion I have given an outline of my understanding of body process from a Gestalt perspective, while questioning the way more recent Gestalt formulations have over-emphasised relationship and ig-
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nored drives (unlike our original text) and therefore moved away from the original aim to heal the Cartesian split between ‘Mind’ and ‘Body’. This approach emphasises sensory awareness and movement rather than sitting and talking-about (egotism). Therapy is a dance between two physical people, not an exploration of the self-concept of the client. Change is a widening of the possibilities of the dance, not a change in that self-concept.
La terapia è una danza tra due persone fisiche, non un’esplorazione del concetto di sé del cliente. Il cambiamento è un ampliamento delle possibilità della danza, non un cambiamento di quel concetto di sé
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(2004), The Present Moment in Psychotherapy and Everyday Life, W.W. Norton, New York.
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Abstract
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In this paper, I outline my understanding of body-oriented Gestalt therapy, body process work that explores the body in drive, motion and engagement rather than ‘from the inside’. I relate this to issues round touch and sexuality, and argue for the need to include these considerations in both therapy and training
L’articolo illustra le personali conoscenze dell’autore in merito alla Gestalt therapy orientata al corpo: un lavoro sui processi corporei che esplora il corpo dal punto di vista dell’impulso, del movimento e del coinvolgimento, anziché ‘dall’interno’. Inoltre, l’autore mette quanto precedentemente espresso in relazione a tematiche che riguardano il tocco e la sessualità e sottolinea la necessità di includere tali considerazioni nella terapia e nei relativi programmi di formazione.
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Vera Canon - 2006
Dunque, sapiente è il corpo
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Anna Fabbrini Dunque, sapiente è il corpo, che sa morire e consegnare alla luce, mostrare i denti piegare le due sponde delle labbra, lacrimare solo o faccia a faccia sanguinare e spaccarsi e dire parlare dire instancabilmente parlare inascoltato. Chandra Livia Candiani, La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore
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Correre o diciotto anni. Tre cose mi tengono attaccata alla vita. La poesia, l’attesa di un amore e la corsa. Mi piace correre e sono veloce. Appena posso vado in riva al mare a cercare quel piacere, quel silenzio, quello stato strano. Molti anni dopo troverò, in un libro di Haruki Murakami1, la descrizione di questa esperienza e mi sembrerà, attraverso le parole dello scrittore, di ritrovare casa. Di solito decido la distanza da percorrere ma spesso poi non ne tengo conto. C’è una dimenticanza che si installa. Le gambe comandano la volontà. Entro in una condizione tutta speciale: il modo in cui l’aria taglia la faccia, il battito sordo dei passi sulla sabbia del bagnasciuga, il respiro che trova il suo ritmo, il cuore che esce dal suo ordinario silenzio e genera quel palpito di vita. La mente che si svuota. La me di allora non si fa domande. Nella corsa trovo dimora. Corro e basta per il piacere e per quella fatica che mi rifà ogni volta nuova. Una serie di circostanze e voci che corrono tra gli amici mi fa decidere di iscrivermi a quella che oggi è diventata la Facoltà di Scienze motorie. Davvero quella cosa può diventare una professione? Davvero c’è la possibilità che qualcuno mi insegni ad affinare quell’arte del correre? Pare di sì. Faccio il concorso e vengo ammessa. Nel giro di pochi mesi, oltre a seguire gli studi curriculari, entro a far parte di una società atletica. La pratica quotidiana gui1
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Cfr. H. Murakami (2012), L’arte di correre, Einaudi, Torino.
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data dalla competenza dell’allenatore decostruisce tutto il sistema spontaneo per mettere in luce – con mia grande sorpresa e non poche resistenze – i segreti della macchina motoria. Si ridefiniscono l’assetto, la falcata, il ritmo del respiro, l’oscillazione delle braccia. Il miracolo del gesto spontaneo diventa analisi scientifica. Per guadagnare centesimi di secondo basta modificare centimetri di inclinazione. In breve tempo, inaspettatamente e contro il mio scalpitare insofferente, quelle minuziose conoscenze si ricompongono via via in un gesto unificato in una sorta di dimenticanza dei saperi sostenuta dall’amplificazione del sentire interno. A mia apparente insaputa, spontaneamente, il correre si fa più veloce, più piacevole, fluido, inconscio. La componente agonistica aggiunge piacere al piacere. L’anima della macchina motoria Intanto, nell’ambito degli studi teorici, gli insegnamenti sono settoriali, specialistici, interessanti ma scuciti. Non restituiscono un insieme-persona che corrisponda anche lontanamente all’esperienza che sto vivendo. Sono interessata a comprendere come i saperi si trasformino ed entrino nel corpo, come il senso dell’essere interi contenga, in una mappa unitaria, il pensiero, gli andamenti emotivi, le oscillazioni degli stati d’animo… Decido di approfondire. Con alcuni colleghi animati dagli stessi interessi costituiamo un gruppo di studio sull’esperienza corporea presso l’Istituto di Psicologia. Ci riuniamo nello scarso tempo libero a discutere delle letture sotto la guida incoraggiante e discreta di un docente illuminato. L’incontro con i testi di Reich, di Lowen, Groddek, che propongono una lettura psicologica della fisicità e visioni terapeutiche ardite nelle quali il corpo domina la scena dell’inconscio e diventa chiave di lettura dei fatti psichici, segna una svolta fondamentale. La nostra crescita personale e le nuove conoscenze diventano tutt’uno attraverso le animate riunioni che si protraggono fino a notte inoltrata. E sentiamo tutti nell’aria l’odore dei grandi cambiamenti che poi segneranno quegli anni.
Sono interessata a comprendere come i saperi si trasformino ed entrino nel corpo, come il senso dell’essere interi contenga, in una mappa unitaria, il pensiero, gli andamenti emotivi, le oscillazioni degli stati d’animo…
Così comincia il mio viaggio alla ricerca della sapienza del corpo. Il seguito è segnato da alcune tappe fondamentali, prima fra tutte l’assegnazione di una borsa di studio ministeriale che mi consente un soggiorno di due anni a Parigi per un dottorato in Psicologia clinica. Vengo ammessa all’École des Hautes Études, al Laboratorio diretto allora da Serge Moscovici, il quale accetta un mio progetto di ricerca sulle comunicazioni non verbali, trovando insolito ma interessante che in ambito psicosociale si porti attenzione al tema del corpo. Mi fa gli auguri, riferendosi alla scarsa bibliografia che avrei trovato sull’argomento.
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La psicoterapia si apre ai nuovi orientamenti umanistici, diventa scienza dei processi e include la corporeità come componente essenziale della mente. Si trasforma la stessa idea di inconscio che, da incombente luogo del rimosso, viene ritematizzato come serbatoio di creatività. Si parla di sviluppo del potenziale umano
Umanesimo Siamo agli inizi degli anni Settanta. Il fermento culturale del contesto è eccitante, le nostre vite sono esposte allo squilibrio tipico dei grandi cambiamenti. Il mondo della psicologia e in generale di tutte le scienze è ad una svolta epistemologica: un cambiamento radicale del modo di pensare, di interrogarsi, di conoscere. La psicoterapia si apre ai nuovi orientamenti umanistici, diventa scienza dei processi e include la corporeità come componente essenziale della mente. Si trasforma la stessa idea di inconscio che, da incombente luogo del rimosso, viene ritematizzato come serbatoio di creatività. Si parla di sviluppo del potenziale umano. Le nuove pratiche della cura mettono l’accento sulla costruzione dell’esperienza. Si abbandona l’idea di crescita secondo gli schemi degli stadi evolutivi e il concetto di maturità adulta come punto d’arrivo stabile: si postula l’idea di mutamento continuo nel corso di vita, marcato da movimenti ricorsivi, crisi e rinascite. Ci si domanda come facciamo esperienza e come apprendiamo dall’esperienza. L’umano non è più pensato come un essere che sacrifica il meglio di sé per adattarsi alla civiltà, ma come sistema psicofisico complesso e capace di autocura, fondato sul rapporto con l’altro, come soggetto di comunicazione che si realizza nell’incontro col mondo, impegnato nella continua costruzione della propria identità. Viene messa in discussione la psicodiagnostica per tentare una rilettura della devianza e della follia. E grazie soprattutto al movimento delle donne, si portano in luce i processi di mortificazione del corpo e della sessualità da parte del sistema patriarcale. Voci maestre ci cambiano la vita e lasciano intravvedere la possibilità di avere a che fare in modo nuovo con le fatiche del quotidiano, con la sofferenza, col desiderio di ripensare sé stessi e di realizzarsi in quel tempo inquieto. L’esigenza di trasformazione personale si impone come una necessità. Vogliamo sperimentare, metterci in gioco.
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Iniziazione In quegli anni molti terapeuti americani di orientamento umanistico cominciano a diffondere in Europa le nuove psicoterapie corporee. La voce corre da bouche à oreille con un alone di mistero che fa somigliare questi seminari ad esperienze iniziatiche. La prima maratona terapeutica alla quale partecipo a Parigi è una esperienza sconvolgente e vedo finalmente in pratica e constato sulla mia pelle che cosa vuol dire che il corpo e l’anima sono una cosa sola. Incontro così la psicoterapia fenomenologica di orientamento gestaltico ed è amore a prima vista: lì trovo un modo particolarmente rispettoso di chiamare in causa il corpo nel lavoro terapeu-
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tico esperienziale. Decido di saperne di più e inizio la mia formazione personale. Il mare è lontano e anche le piste di terra rossa. La corsa diventa un’esperienza saltuaria e da tempo libero. Senza nostalgia, perché quello che sto trovando è entusiasmante tanto quanto le esperienze che sto congedando. I bambini mi hanno insegnato Rientrata in Italia prendo servizio in un centro di igiene mentale per l’età evolutiva, faticando non poco a dimostrare l’importanza del lavoro corporeo in terapia con i bambini e con le famiglie. I tempi non sembrano maturi. Prevalenti sono gli orientamenti psicodinamici. Il movimento umanistico non ha ancora passato i confini. Il corpo resta un tema marginale, recepito con diffidenza dal mondo psicoterapeutico. Inizia un periodo di ricerca. Con la pubblicazione del libro Il corpo dentro racconto di come i bambini immaginano l’interno del loro corpo, come si rappresentano organi e funzioni costruendo una fisiologia emotiva, basata sul sentire che mette in ombra i saperi scolastici. Alcuni di loro sono affetti da epilessia e fanno emergere nei dialoghi il vissuto della malattia. Il loro rapporto col corpo è segnato dalla sofferenza e dominato dal campo delle sensazioni somatiche che li pervade e li sovrasta. Il loro universo relazionale e la loro stessa identità sono segnati dalla convinzione di essere abitati dai demoni2. Nel lavoro di cura inizio a spostare l’attenzione dal visibile all’invisibile, nella direzione del mondo misterioso del sentire profondo. Intrecci Con la fondazione del Centro Alia – psicoterapia e formazione a Milano si costituisce ufficialmente un Istituto di ricerca. Inizia un periodo di lavoro intenso e fruttuoso grazie anche all’incontro con un gruppo di terapeuti canadesi e francesi che invitiamo in Italia. Con loro confrontiamo le nostre prospettive e i nostri interrogativi. Condividiamo l’orientamento fenomenologico, abbiamo in comune l’interesse per il corpo in terapia e cerchiamo nuove mappe teoriche e cliniche che includano il mondo delle sensazioni e dei ritmi profondi che riteniamo essere alla radice dell’esperienza di contatto3.
Con la pubblicazione del libro Il corpo dentro racconto di come i bambini immaginano l’interno del loro corpo, come si rappresentano organi e funzioni costruendo una fisiologia emotiva, basata sul sentire che mette in ombra i saperi scolastici. Alcuni di loro sono affetti da epilessia e fanno emergere nei dialoghi il vissuto della malattia
Attraverso le nostre ricerche abbiamo integrato la griglia gestaltica allargando il concetto di percezione a tutti i processi sensoriali – non solo visivi – che permettono la connessione col mondo ed anche a quelli propriocettivi e cenestesici che sono la via più intima e interna al corpo
2 Cfr. A. Fabbrini (1980), Il corpo dentro, Emme Edizioni, Milano; Id., (1982), Pour guerir les epileptiques il faut ecouter les messages de leur corps, in «Psychologie», 146. 3 Il Centro Alia-psicoterapia e formazione è stato fondato da Anna Fabbrini e Alberto Melucci. Avvia il suo percorso negli anni ’70 dalla convergenza di un gruppo di terapeuti francesi e canadesi inizialmente coordinato da Jean Ambrosi e Marie-Chrisitiane Beaudoux. A partire da precedenti esperienze in
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Da allora si può parlare di un passaggio d’epoca. Il corpo è diventato centrale in modo pervasivo nella cultura diffusa della cura di sé e, in ambito clinico, è presente in molti approcci di relazione d’aiuto. Nessun orientamento psicoterapeutico prescinde ormai dal trattare, in qualche modo, la corporeità
Nel corso del tempo, attraverso le nostre ricerche abbiamo integrato la griglia gestaltica allargando il concetto di percezione a tutti i processi sensoriali – non solo visivi – che permettono la connessione col mondo ed anche a quelli propriocettivi e cenestesici che sono la via più intima e interna al corpo. Questa estensione ha dato origine a specifiche innovazioni nel metodo di cura e ha reso più visibile come nell’integrazione di percetti ed endocetti sia possibile essere contemporaneamente affacciati nelle due direzioni del Sé e del mondo. Abbiamo esplorato i fenomeni di sinergia e di spostamento transmodale, cioè le risorse che permettono di trasferire le percezioni da un canale percettivo all’altro, e fenomeni di risonanza che nutrono il sapere intuitivo nel campo relazionale e nell’ambiente esteso. Ci siamo interessati agli stati di coscienza diversi dallo stato vigile: alle fantasie, agli stati intermedi come il dormiveglia, il sognare ad occhi aperti, agli stati meditativi, estatici, al sonno e allo stato onirico, come manifestazioni di un pensare-altrimenti, legate alla corporeità. E non abbiamo trascurato gli studi di genere: se e come corpi diversi, maschili e femminili, al di là dell’ovvia differenza fisica, si esprimano attraverso modi di presenza e universi peculiari. Contestualmente abbiamo anche sperimentato nuovi dispositivi terapeutici – a integrazione delle procedure gestaltiche classiche – volti a ricomporre una sostenibile unità psicosomatica della persona. La fatica non fa vacillare la convinzione che si tratti di programmi di ricerca fertili, sostenuti in questo dalla passione condivisa col gruppo del Centro Alia, dagli allievi della giovane Scuola di Psicoterapia della Gestalt che abbiamo fondato e dalla rete dei colleghi francesi e confortata da promettenti risultati clinici.
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Questi riferimenti al passato non vogliono essere solo una nota autobiografica. Sono anche la traccia di cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni che intrecciano iter personali con trasformazioni sociali e culturali. Da allora si può parlare di un passaggio d’epoca. Il corpo è diventato centrale in modo pervasivo nella cultura diffusa della cura di sé e, in ambito clinico, è presente in molti approcci di relazione d’aiuto. Nessun orientamento psicoterapeutico prescinde ormai dal trattare, in qualche modo, la corporeità e sono nate forme di terapia originali che si fondano essenzialmente sul risveglio somatico. ambito psicoanalitico, il gruppo ha orientato la ricerca verso le emergenti psicoterapie a indirizzo umanistico, esistenziale e corporeo. Nel 1979 il Centro Alia attiva la prima scuola italiana di formazione in Psicoterapia della Gestalt, proseguendo l’attività di ricerca. Le innovazioni teoriche e cliniche nel corso del tempo sono state oggetto di pubblicazioni, relazioni e workshop a convegni nazionali e internazionali. Il Centro Alia è stato membro fondatore della Federazione Italiana Scuole e Istituti di Gestalt (FISIG).
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Quale corpo? Credo che la prospettiva gestaltica, ormai enormemente arricchita da importanti contributi, oggi si esprima come uno degli approcci terapeutici capaci di superare la tradizionale dicotomia tra terapia verbale e terapia corporea e possa collocarsi in una prospettiva integrata ed ecologica tendente a cogliere l’umano nella sua complessità. Nel mio attuale orientamento, ritengo che la corporeità vada intesa come un livello simbolico trasversale presente in ogni campo dell’esperienza e costantemente implicato nel processo terapeutico, anche quando non è oggetto di una evocazione esplicita o di un intervento puntuale. Nel campo pre-riflessivo il corpo è presente attraverso la propriocezione e il sistema cenestesico del sentire profondo. È il corpo delle sensazioni, degli stati d’animo indifferenziati, sensibile alle atmosfere, al senso dello spazio vissuto come ambiente che contiene, ai ritmi biologici, agli endocetti, alla sensitività indifferenziata, al rapporto inconscio con la gravità, la verticalità e il senso dell’equilibrio. È questo un mondo privo di parola poiché queste esperienze appartengono all’organizzazione sottocorticale della fisiologia, area normalmente silente i cui messaggi in forma di sensazioni possono essere captati – solo in parte – dalla coscienza attraverso particolari dispositivi di ascolto profondo. A questa dimensione si àncora il senso di essere vivi, il senso di esserci. Nel campo simbolico, dove prendono forma gli stati emotivi, dove si accede ai nomi delle cose, il corpo aderisce ai codici culturali del linguaggio socialmente condiviso, attraverso il comunicare verbale e non verbale. Il campo dell’azione è l’espressione del corpo-volontario, delle abilità del fare, dell’agire finalizzato a modificare l’ambiente. C’è poi il campo vivo e intimo del non-contatto, del vuoto fertile che trova il corpo meditativo, capace di attivare processi interni, chiuso – ma non autistico – in forme di protezione del sé nella disposizione di assimilare l’esperienza e costruire matrici di memoria evolutiva4. Quando queste diverse aree esperienziali sono vive, attive e percorribili, quando sono connesse tra loro e possono esprimersi in un processo dinamico e trasformativo, l’esperienza viene percepita soggettivamente come coerente e dotata di senso. Questo produce quel particolare stato di presenza che percepiamo come ‘essere sé stessi’, come ‘sentirsi reali’. Quando una o alcune di queste esperienze corporee sono spente, disanimate, non praticabili
Nel mio attuale orientamento, ritengo che la corporeità vada intesa come un livello simbolico trasversale presente in ogni campo dell’esperienza e costantemente implicato nel processo terapeutico, anche quando non è oggetto di una evocazione esplicita o di un intervento puntuale
4 Gli elementi dei campi esperienziali qui riferiti ed ampliati riprendono il ben noto ciclo del contatto o ciclo dell’esperienza, introdotto da Perls (1971) e riproposto con varianti da numerosi autori ben noti alla tradizione gestaltica, tra i quali J. Zinker, S. Nevis, S. Ginger, P. Clarkson, G. Delisle.
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Quando una o alcune di queste esperienze corporee sono spente, disanimate, non praticabili o dissociate, si interrompe il fluire del processo. Si genera incoerenza e sconnessione che si esprime nei sintomi, nel senso di estraneità a sé stessi, nel non sapere chi si è, nel vivere in modo caotico e confuso
Tutti questi corpi che siamo sono costantemente presenti e implicati nel percorso terapeutico sui due versanti, di chi cura e del paziente. Si fanno di volta in volta presenti nella relazione, e sono tutti ugualmente veicoli di significato
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o dissociate, si interrompe il fluire del processo. Si genera incoerenza e sconnessione che si esprime nei sintomi, nel senso di estraneità a sé stessi, nel non sapere chi si è, nel vivere in modo caotico e confuso. La percezione del sentirsi vivi e reali nel proprio corpo è alla base del senso di identità e del benessere normalmente inteso. Essa struttura l’esperienza dell’essere-situati (io ci-sono) e fonda la consapevolezza dei limiti nel percepire di poter essere di volta in volta in un sol luogo (qui) e in un tempo (ora). Intorno a queste coordinate si impernia la percezione del dentro, del fuori, dei confini e della forma del corpo che costituiscono primariamente la sensazione di occupare una porzione di ambiente, di cogliersi come solido organizzato e visibile dall’esterno. Il corpo così vissuto è una esperienza di soglia: è al tempo stesso presenza al mondo condiviso ma è anche l’aspetto fondativo e irriducibile della singolarità. La percezione dell’essere incarnato rende evidente al soggetto la propria condizione di non trasparenza nel momento stesso in cui fonda la consapevolezza della propria visibilità. Ed è proprio questa coscienza di non trasparenza che sostiene la motivazione al comunicare. Il corpo, massa di materia, opaco e impenetrabile al pensiero altrui, contenuto in confini propri, impone al soggetto la necessità del linguaggio come tentativo continuo di ridurre lo scarto nella relazione e come tensione alla vicinanza, alla compartecipazione, alla condivisione.
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Il sapere del corpo è, dunque, un campo inesauribile perché ognuno di noi è molti corpi e siamo tutti corpi diversi. Siamo corpi maschili e femminili diversamente connotati da una diversa biologia e dagli stili di accudimento ricevuti, sempre influenzati dai valori culturali presenti nella nostra storia. Siamo anche corpoimmagine esposto al mondo, siamo corpi giovani e vecchi, sani e malati. Siamo il corpo energetico del senso della vitalità e siamo anche il misterioso corpo remoto dove si iscrive la preistoria e la memoria somatica preverbale inaccessibile alla parola e alla cognizione. E ancora, siamo l’irraggiungibile corpo dei processi biochimici, delle funzioni degli organi, degli orologi biologici, dei ritmi e delle pulsazioni profonde a cui abbiamo accesso solo indirettamente attraverso la tecnologia medica e che così fortemente influenzano il nostro vivere. Il corpo che siamo resterà sempre in gran parte ignoto e solo in parte comunicabile. Non è interamente nella sfera del nostro sapere e del nostro controllo e non è condivisibile. Tutti questi corpi che siamo sono costantemente presenti e implicati nel percorso terapeutico sui due versanti, di chi cura e del paziente. Si fanno di volta in volta presenti nella relazione, e sono tutti ugualmente veicoli di significato.
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Così come oggi lo intendo dunque, il corpo non coincide col dato biologico, né può essere considerato sede di una presunta natura originaria e spontanea. Lo intendo come campo di forze, cioè corpo che, senza abdicare alla propria fisiologia, occupa uno spazio tra natura e cultura ed è il luogo dell’esperienza. Ricomporre l’unità In psicoterapia noi ci prendiamo cura della capacità di fare esperienza perché la trama del processo può spezzarsi in ogni punto. Ne L’Io diviso Laing ci accompagna nel mondo della follia, dove la frattura si installa drammaticamente nella dissociazione tra corpo e mente5. Ma nel campo dell’esperienza le fratture possono farsi a diversi livelli. Possiamo incontrare un reale non simbolizzato, come nei disturbi psicosomatici; possiamo incontrare sensazioni intense e soverchianti che non accedono alla parola e producono la confusione di vissuti-senza-nome, come nelle situazioni borderline; possiamo avere comportamenti senza risonanza interna, come nella normopatia, dove troviamo soggetti anestetizzati, etero-definiti, frammentati nei diversi ruoli sociali, incapaci di riconoscere la continuità di sé stessi nel fluire tra i diversi ambiti del quotidiano. Possiamo trovare soggettività dissociate, afflitte da un senso di dispersione identitaria o da un’apertura ricettiva agli stati altrui amplificata, tale da non poter distinguere più sé dall’altro. Poiché la nostra matrice è fin dalle origini relazionale, la dinamica interna sottesa ai modi del contatto si configura sulla qualità delle esperienze fatte e dunque può essere anche altamente perturbata. La terapia con persone che hanno subito traumi nell’infanzia ci mostra in modo estremo come i danni della crescita possano compromettere a tutti livelli il contatto profondo e i diversi aspetti di sé nella relazione. In questi casi i vissuti del corpo, la capacità di pensiero e la parola propria sono invasi da paure profonde e dalle barriere costruite nel corso del tempo a protezione dalle minacce all’integrità vissute nel passato.
Poiché la nostra matrice è fin dalle origini relazionale, la dinamica interna sottesa ai modi del contatto si configura sulla qualità delle esperienze fatte e dunque può essere anche altamente perturbata. La terapia con persone che hanno subito traumi nell’infanzia ci mostra in modo estremo come i danni della crescita possano compromettere a tutti livelli il contatto profondo e i diversi aspetti di sé nella relazione
Autorizzati dalla domanda del paziente, con la sua collaborazione cerchiamo le fratture nella rete per ricomporre il campo dell’esperienza. La scelta terapeutica delle vie d’accesso richiede una particolare sensibilità da parte di chi cura poiché deve tenere conto del potenziale di auto sostegno disponibile. Contando sul fatto che il sistema-persona è un tutto integrato, di volta in volta si potrà procedere dalla dimensione cognitiva alla sensibilità profonda (top down) o dalle sensazioni all’emergere di emozioni e pensieri (bottom up). La domanda che rivolgiamo al paziente, «che cosa pensi», può esse-
5 Cfr. R.D. Laing (2010), L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, Einaudi, Torino.
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re trasformativa tanto quanto la domanda «che cosa senti». Tuttavia, qualunque sia la direzione del processo di consapevolezza, non possiamo prescindere dal raggiungere e coinvolgere nel percorso terapeutico il sentire del corpo che è il fondamento dell’essere animati, non indifferenti al mondo, non anestetizzati. Sappiamo infatti che le sensazioni sono il codice minimo dell’esperienza, fondamento necessario per accedere al mondo emotivo, al mondo del pensiero, della parola, dell’azione, della costruzione del senso e dell’identità6. Un paziente mi dice: «Ora che sento qualcosa nel corpo è come se avessi a disposizione le lettere dell’alfabeto sparse… poi arrivano i pensieri e le parole. Solo adesso comincio a comporre il mio poema». Per sostenere la composizione del poema del paziente, ai terapeuti è richiesto di operare con discrezione, nello spazio di sostenibilità di ogni vita. Non siamo operatori della felicità né costruttori di armonie ma di reti, di dialoghi, di potenziali trasformativi sui quali il paziente ha sempre l’ultima parola. Ma perché ci sia trasformazione, dal corpo non possiamo prescindere. Capire non basta per cambiare.
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Vulnerabilità Nei corsi di insegnamento che tengo all’Università e nelle scuole di psicoterapia sul tema del corpo, spesso comincio con un gioco di libere associazioni. Chiedo agli allievi di scrivere su un tabellone tutte le parole che salgono alla mente a partire dalla parola corpo. Di solito la produzione è ampia ma ho osservato nel tempo che tendono a prevalere parole di segno positivo come armonia, contatto, bellezza, emozioni, crescita… Più raramente entrano nel campo libero associativo termini come dolore, malattia, limite, tristezza, sofferenza. E conto sulle dita di una mano le volte in cui è comparsa la parola morte. C’è una riflessione da fare. Allora racconto una storia. Nel film Il cielo sopra Berlino di Wenders, Damiel è un angelo che sceglie di abbandonare la sua condizione angelica e di entrare a far parte degli uomini perché vuole capire che cosa sia l’esperienza. Nel suo viaggio di caduta dal cielo alla terra, la corazza che gli appar6 Un importante contributo sull’integrazione del corpo con l’identità personale è presente nei lavori di A. Damasio. L’autore afferma che il senso di essere sé stessi è composto dal sé autobiografico, con la sua caratteristica di stabilità e di costanza nel tempo, e dal sé nucleare, dimensione transitoria che riguarderebbe la capacità di modulazione continua che ha un organismo interagendo attraverso variazioni in un determinato ambiente. Secondo l’autore, i due sistemi sarebbero connessi attraverso le sensazioni (il proto-sé). La connessione è dunque di natura biologica, riguarda cioè processi corporei non coscienti: le sensazioni non sono come tali generatori di coscienza, ma sono indispensabili affinché questa si costituisca. Cfr. A.R. Damasio (2000), Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, 32-38.
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teneva come essere angelico gli casca sulla testa e gli fa male. La prima scoperta di Damiel è un bernoccolo e, subito dopo, il sapore del sangue sul dito. Più avanti chiede a un passante il nome dei colori su un muro, poi si stupisce del calore di una tazzina di caffè tra le mani. In seguito cerca la donna che deve insegnargli quel che resta. Nel farsi uomo, incarnandosi, incontra innanzitutto la consistenza fragile del corpo, il rischio, la sofferenza7. Un allievo interviene: «Dunque c’è una certa pericolosità nell’essere vivi?». Certo, c’è una pericolosità. Il sentire non porta a percepire solo le sensazioni positive perché la legge del corpo vuole che piacere e dolore percorrano la stessa via sensoria. L’esperienza del contatto vivo include la frizione della differenza, la conflittualità, la disarmonia e la necessità di accordare la velocità delle pressioni ambientali con la lentezza della biologia. Nell’essere incarnati troviamo la gioia del contatto ma anche le paure, la tristezza, la vulnerabilità del nostro essere che è sempre esposto a mancanze, a usura, a ferite e al dolore. Il corpo, come organizzatore spaziotemporale, nel momento stesso in cui si situa nel qui ed ora del presente, porta a coscienza il fatto di non poter essere anche altrove e di non poter essere per sempre. Nell’essere incarnati sappiamo che siamo stati generati e che non abitiamo l’eternità. L’essere umano è l’unico vivente che ha il sapere della propria origine e della propria fine. E se è vero, come dice Winnicott, che la salute non è compatibile con la negazione di alcunché, come terapeuti e ricercatori non possiamo avvicinare la questione del corpo senza almeno sfiorare la coscienza del nostro essere mortali, se non a prezzo di una dissociazione8. È possibile allora una qualche forma di saggezza del vivere che ci preservi dalla ideologia ormai pervasiva della ricerca ossessiva della felicità e che, tuttavia, ci consenta di provare gioia e speranza nel corso di una vita che include nel suo scorrere anche le trasformazioni del corpo nell’esaurirsi della sua potenza? Dunque, sapiente è il corpo? Decisamente il tempo del correre è tramontato. Direi del mio procedere, che si è fatto più lento e riflessivo e prova in altro modo il senso dell’essere vivo e gioioso. Tuttavia, contemplo nuovi universi e mi confronto con nuove domande che abitano il tempo presente: sconvolto e interessante.
È possibile allora una qualche forma di saggezza del vivere che ci preservi dalla ideologia ormai pervasiva della ricerca ossessiva della felicità e che, tuttavia, ci consenta di provare gioia e speranza nel corso di una vita che include nel suo scorrere anche le trasformazioni del corpo nell’esaurirsi della sua potenza?
7 Cfr. P. Jedlowski (1994), Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano. 8 Cfr. A. Fabbrini (2003-2005), La morte, per esempio, in «Quaderni di Gestalt», XIX-XX-XXI, 36/41, 81-85.
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La richiesta di terapia, un tempo legata ai temi del conflitto, tipica di contesti sociali normativi, ha lasciato il posto ai problemi legati alla ricerca di identità. I nodi del disagio si manifestano attraverso la fragilità, l’incertezza, l’ansia e la stanchezza. Oggi è diffusa negli individui una condizione di grande smarrimento dei codici: sono cambiati gli stili di vita, il lavoro, il rapporto col tempo, con lo spazio e col corpo, sono cambiate le regole, i rapporti sociali e familiari; fatichiamo a organizzare priorità di pensiero e di azione. Siamo di fronte a esperienze senza storia e senza modelli riguardo alla rappresentazione di noi stessi, ai rapporti con gli altri, alla sessualità, alla vita di coppia, alla genitorialità, all’incontro coi nuovi valori e con le nuove forme del comunicare. Non sappiamo più come interrogare il mondo, non sappiamo cosa è necessario sapere e come sostenere il nostro io disperso in molti mondi. Più che cercare risposte, a volte sembra che si tratti di costruire le domande, riorganizzare la percezione della realtà. Il mondo è cambiato e le forme della sofferenza individuale rispecchiano anche questi mutamenti perché ogni società genera mali che le sono propri. La complessità del vivere oggi richiede un di più di sapienza e di disciplina, una capacità di invenzione perché nell’indietro non troviamo tracce utili per i nostri passi. Anche la ricerca clinica, dunque, è impegnata in un apprendimento dall’esperienza, sollecitata dai nuovi mali del tempo, espressione della complessità contemporanea, dei traumi di un mondo malato e ingiusto, con una storia dalla quale ostinatamente non vuole o non sa apprendere. Con questo oggi mi confronto, così come, penso, tanti colleghi. E mi confronto anche con le nuove corporeità del mondo virtuale, con le protesi di memoria di cui tutti ci gioviamo, con l’esperienza espansa che la globalizzazione ci impone, con le inedite forme di contatto incorporeo possibili attraverso la rete e i nuovi dispositivi di connessione, con categorie di tempo e spazio vissute in modo completamente denaturalizzato e con le nuove condizioni del corpo esposto a un più lungo tempo di vita e con le nuove domande sul nascere e sul morire.
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Seguo con rispetto ma anche con cautela l’andamento della ricerca clinica: il corpo ritrovato e incluso nei processi di cura non è il luogo mitico di una naturalità originaria. È un corpo culturalizzato, anch’esso figlio di questo tempo: mi domando quanto possiamo salvare della prospettiva umanistica senza cedere a derive neo-organiciste che sembrano desiderose di ancorarsi alla nuova religione delle neuroscienze come a un posto sicuro che, promettendo di svelare il funzionamento della macchina, si illude anche di trarre da lì notizie sulla direzione del viaggio.
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Mi chiedo costantemente, nell’universo delle contraddizioni e delle disuguaglianze, nel mare della complessità che viviamo, con quali corpi oggi abbiamo a che fare in psicoterapia e mi chiedo, a volte, se c’è ancora una sapienza del corpo sulla quale possiamo contare per essere più interi, più umani e più giusti. I lavori sono in corso… Post scriptum Porto a termine questo scritto nei giorni del Coronavirus. Coincidenza perturbante che apre nuove riflessioni sul tema del corpo. Ci confrontiamo con la fragilità della nostra salute troppo spesso data per scontata, vissuta come bene privato e non come risultato di equilibri comunitari di cui tutti siamo parte. Il contatto che ci unisce nella reciprocità delle strette di mano e degli abbracci ora è vietato. Il nostro bene e il bene dell’altro è stare a distanza, non toccarsi, ritirarsi nelle case. Siamo pervasi come non mai dal senso di precarietà e scopriamo, attraverso il rischio del contagio, come l’invisibile del corpo ci abiti e possa dominarci. Faremo in modo che la catastrofe non ci annienti, che l’inusitato isolamento, il silenzio surreale delle nostre città e la nostra stessa paura si facciano motore di pensiero critico e bussola per un agire collettivo più giusto e solidale. Aveva ragione lo studente: «C’è una certa pericolosità nell’essere vivi». Cerchiamo dunque la misura nel governo del limite alla nostra onnipotenza e nel nostro vacillare di creature.
Mi chiedo costantemente, nell’universo delle contraddizioni e delle disuguaglianze, nel mare della complessità che viviamo, con quali corpi oggi abbiamo a che fare in psicoterapia e mi chiedo, a volte, se c’è ancora una sapienza del corpo sulla quale possiamo contare per essere più interi, più umani e più giusti. I lavori sono in corso…
Aveva ragione lo studente: «C’è una certa pericolosità nell’essere vivi». Cerchiamo dunque la misura nel governo del limite alla nostra onnipotenza e nel nostro vacillare di creature
Cerchiamo piste tra le strade d’asfalto, tracce della selvaggia verità che illumina la notte. Alberto Melucci, Ancora s’illumina la notte
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Abstract IT
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L’autrice ripercorre nel testo le tappe personali e professioni di un itinerario di studi e ricerche che fin dai primi anni Settanta, attraverso il movimento umanistico, è stato orientato al tema del corpo in psicoterapia. Vengono messi in evidenza aspetti diversi della corporeità con una attenzione particolare per l’area della sensibilità propriocettiva e dei suoi rapporti con l’identità personale. Sul piano clinico questo orientamento ha permesso di elaborare dispositivi terapeutici in grado di dialogare con le memorie somatiche profonde e cogliere il senso di sé come campo: luogo di convergenza e integrazione di componenti psicosomatiche, relazionali e culturali.
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Pubblicazioni
Antropologia
Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo Autore: Giovanni Salonia La felicità passa, ma a volte ritorna. È questo il messaggio in codice che viene dalla lettura di questo libro. Come a dire che non dobbiamo deflettere, che non è mail il caso di deporre la speranza. Anche nella condizione più difficile si può farle spazio, affinché la tanto attesa ritorni. ISBN: 978-88-6124-182-4 Pagine: 184
La Grazia dell’audacia. Per una lettura gestaltica dell’Antigone Autore: Giovanni Salonia Il volume è ispirato da un personaggio che è icona della forza gestaltica della relazione e della capacità di portare avanti fino in fondo ciò che il cuore detta: Antigone, protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle. Sono le riflessioni di Giovanni Salonia a guidarci nei sentieri del cuore e delle vicende di questa fanciulla che, con grazia ed intensità tutta femminile, sa proclamare ad una società che si è smarrita nella insensatezza ed aridità di una logica autoreferenziale, quell’ordine degli affetti che – solo – può restituire via e vita. «Solo perché lei sacrifica i suoi affetti più cari non scomparirà nella città il diritto degli affetti». Al saggio di Salonia fanno da cornice una prefazione di Antonio Sichera che introduce ad un lettura gestaltica dell’eroina sofoclea ed una traduzione inedita ed integrale del testo greco, preceduta a sua volta da una breve pagina di delucidazione sui criteri ed i riferimenti che hanno guidato l’opera di traduzione. ISBN: 978-88-6124-365-1 Pagine: 80
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Teoria evolutiva e terapia familiare
Come l’acqua. Per un’esperienza gestaltica con i bambini tra rabbia e paura Autori: Dada Iacono, Ghery Maltese
Danza delle sedie e danza dei pronomi. La Gestalt Therapy con le coppie e le famiglie Autore: Giovanni Salonia
Si esce dalla lettura di Come l’acqua... con delle sensazioni forti, come quando si viene fuori da uno di quei fiumi rigeneratori presenti in ogni cammino di iniziazione. Il corpo che vibra e le gocce che giocano sulla pelle narrano dell’acqua che scorre, della dolcezza del fluire ritrovato, della forza che proviene dagli argini, dell’impeto come energia che attraversa gli ostacoli. Leggendo si impara tanto su come, nella teoria e nella prassi della Gestalt Therapy, si lavora (o meglio: si entra in contatto) con i bambini. E non solo con loro. E non solo nel setting terapeutico o educativo. Perché i bambini ci aiutano a crescere. E forse, per far crescere la «nostra statura prossima» (quella di cui parla mirabilmente Mario Luzi), abbiamo bisogno di raggiungere ogni bambino ferito nel suo dolore, nella sua disperazione, e di coinvolgerlo (e coinvolgerci) nella danza relazionale che dentro il suo corpo vibra e preme per fluire. Come l’acqua...
La famiglia postmoderna porta avanti un progetto inedito e ambizioso: essere il luogo della piena realizzazione di ognuno e di tutti. Dentro tale intenzionalità accadono difficoltà e conflitti che spesso sembrano contraddire questo progetto. Coniugare, infatti, maternità e paternità, maschile e femminile, sessualità e vita quotidiana, sogni e tradimenti, piccoli e grandi, centralità e periferia, primogeniti e secondogeniti è fatica spesso impossibile. La Gestalt Therapy, assumendo come principi ispiratori e clinici la centralità del soggetto in relazione, il corpo vissuto, il qui-e-adesso del contatto, offre chiavi di lettura e di intervento che facilitano nella famiglia la ripresa della danza relazionale, dove diventa musica il ritmo di ogni membro della famiglia. Categorie come intercorporeità, funzione-Personalità, grammatica della relazione, diventano nella presentazione dell’autore strumenti terapeutici preziosi per ridare alla famiglia il sogno di una pienezza del singolo e di tutti.
ISBN: 978-88-6124-384-2 Pagine: 96
ISBN 978-88-6124-388-0 Pagine: 160
Nel giardino di Frida - 2002
Il trauma e il corpo in Gestalt Therapy
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La parola ‘trauma’ ha un legame etimologico con il verbo greco τιτρώσκω (ferisco, ledo): il trauma psicologico può essere definito, infatti, come un’esperienza che interrompe bruscamente il naturale armonico dispiegarsi dell’esistenza
Introduzione Quando si vuole affrontare il tema del trauma psicologico, occorre precisare sin dall’inizio che si tratta di un tema complesso, sul quale esiste ancora parecchia confusione, soprattutto se si pensa al problema della classificazione diagnostica ufficiale. Il DSM-5, infatti, lo inquadra, ancora oggi, principalmente come Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), non riconoscendo la solidità teorica e clinica della proposta dei membri della Developmental Trauma Disorders Taskforce (istituita all’interno del NCTSN – National Child Traumatic Stress Network e guidata dallo psichiatra Bessel Van der Kolk) che hanno identificato un costrutto diagnostico definito Disturbo Traumatico dello Sviluppo (Developmental Trauma Disorder – DTD): tale costrutto si riferisce a traumi relazionali ripetuti e subiti in età evolutiva e nasce dall’evidenza clinica che questi ultimi provochino effetti abbastanza diversi – e richiedano, perciò, anche interventi di tipo diverso – rispetto ad esperienze traumatiche isolate e vissute in età adulta. La parola ‘trauma’ ha un legame etimologico con il verbo greco τιτρώσκω (ferisco, ledo): il trauma psicologico può essere definito, infatti, come un’esperienza che interrompe bruscamente il naturale armonico dispiegarsi dell’esistenza. Il presente contributo, pur riguardando sia il PTSD che il trauma complesso, si focalizza maggiormente su quest’ultimo e lo intende come esperienza o insieme di esperienze relazionali, vissute in età evolutiva e caratterizzate da una natura estremamente soverchiante (abuso) o deficitaria (neglect). Per quanto riguarda il trattamento, stando a quanto si evince dalla letteratura scientifica, sembrerebbero ormai evidenti alcuni aspetti fondamentali del lavoro con le persone traumatizzate: l’inscindibilità della relazione tra esperienza traumatica e corpo1; 1
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RICERCA
Simona Gargano
Basti pensare al Somatic Experiencing di Peter Levine o alla Psicoterapia Sensomotoria di Ogden, Minton e Pain: entrambi gli approcci, infatti, partono dall’idea che, poiché il trauma disorganizza la fisiologia corporea, occorrerà intervenire primariamente proprio sul corpo. In particolare, secondo Levine, nell’uomo gli istinti di sopravvivenza (mediati dal tronco encefalico) potrebbero essere ostacolati dall’intervento della neocorteccia, specifica dell’essere umano. Il trauma, quindi, si genererebbe a causa dell’intervento – talvolta disfunzionale – di questa area cerebrale, che ci impedirebbe di lasciar fluire le reazioni finalizzate a rispondere adattivamente alla minaccia ed a preservare la nostra integrità psico-fisica: l’energia di sopravvivenza mobilizzata per la lotta o la fuga e non scaricata finirebbe, così, per convertirsi in sintomi. Alla luce di ciò, la risoluzione del trauma risiederebbe nel completare e scaricare i processi fisiologici interrotti, piuttosto che nel ricordare o ripercorrere l’evento: il trauma sarebbe, quindi, una risposta fisiologica incompleta, tenuta in sospeso dal-
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l’importanza del tempo, evidente soprattutto nella strutturazione ‘per fasi’ del trattamento2, e, infine, il valore imprescindibile della relazione terapeutica come elemento centrale della cura3. Poiché, come sappiamo, corpo, tempo e relazione costituiscono i cardini dell’impostazione teorica ed epistemologica della Gestalt Therapy (GT)4, emerge, in modo quasi autoevidente, come lo sfondo teorico del nostro approccio possa configurarsi come matrice epistemologica di base per il trattamento delle persone traumatizzate. Come è noto, i due principali pilastri teorici della GT sono costituiti dalla Teoria del Sé e dalla Teoria del Contatto: si tenterà, quindi, un inquadramento del fenomeno attraverso le lenti interpretative fornite da tali teorie.
Poiché, come sappiamo, corpo, tempo e relazione costituiscono i cardini dell’impostazione teorica ed epistemologica della Gestalt Therapy (GT), emerge, in modo quasi autoevidente, come lo sfondo teorico del nostro approccio possa configurarsi come matrice epistemologica di base per il trattamento delle persone traumatizzate
la paura. Anche la Psicoterapia Sensomotoria di Ogden, Minton e Pain si basa sull’idea che il trauma è essenzialmente un’esperienza inscritta nel corpo che genera una disregolazione cronica dell’arousal, che, a sua volta, rende impossibile assimilare l’esperienza. Nell’approccio sensomotorio, quindi, il terapeuta aiuta il paziente a diventare curioso e interessato al modo in cui le risposte corporee del passato continuano a presentare la loro influenza nel contesto presente e a trovare dei modi per cambiare queste risposte. Nello specifico, la principale strategia adottata dalla Psicoterapia Sensomotoria per aiutare il paziente ad elaborare i ricordi post-traumatici è quella di confrontarsi gradualmente con questi ultimi, approcciandoli inizialmente attraverso la componente sensomotoria, mantenuta in un primo tempo disconnessa rispetto alle dimensioni emotive e cognitive. In questo modo, il terapeuta, esponendo il paziente ad una piccola quantità di informazioni alla volta, lo aiuterebbe a mantenere il suo stato di attivazione psicofisiologica all’interno della finestra di tolleranza: lavorare direttamente con le sensazioni e i movimenti permetterebbe di promuovere successivamente un cambiamento anche nelle emozioni, nei pensieri, nelle credenze e nelle capacità relazionali. L’atteggiamento mindful – curioso e non giudicante – del terapeuta sensomotorio è lo stesso che sta alla base degli interventi basati sulla Mindfulness (in particolar modo, si ricordano il programma Mindfulness-Based Stress Reduction e il Mindfulness Intervention for Child Abuse Survivors) e che ha dimostrato di avere un’efficacia comprovata nella riduzione dei sintomi post-traumatici. 2 Negli ultimi anni, gli esperti hanno concordato nell’affermare che il trattamento dei disturbi correlati a traumi complessi deve essere strutturato per fasi. In particolare, la International Society for Traumatic Stress Studies ha individuato le seguenti fasi, comuni ai diversi modelli di intervento: stabilizzazione, rielaborazione del trauma, consolidamento dei risultati e integrazione. 3 Sulla scia di quanto avevano sostenuto anche Alexander e French, che, già nel 1946, parlavano di «esperienza emozionale correttiva», Schore – poiché tutta la psicopatologia rispecchierebbe più la disregolazione affettiva che la compromissione delle cognizioni – afferma che «la regolazione interattiva affettiva […] è il meccanismo principale del trattamento, e non l’insight raggiunto tramite l’interpretazione» (A. Schore (2008), La regolazione degli affetti e la riparazione del sé, Astrolabio, Roma, 382). In effetti, diverse ricerche, soprattutto nell’ambito dell’infant research, hanno evidenziato il ruolo della ‘regolazione interattiva’ tra le figure genitoriali e il bambino come premessa indispensabile per consentire a quest’ultimo di raggiungere l’autoregolazione degli stati psicofisiologici ed emotivi. 4 Cfr. G. Salonia (1992), Tempo e relazione. L’intenzionalità relazionale come orizzonte ermeneutico della psicoterapia della Gestalt, in «Quaderni di Gestalt», 14, 7-21; Id. (2004), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, tempo e parola, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani; Id. (2008), La psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano, 51-71; G. Salonia, V. Conte, P. Argentino (2013), Devo sapere subito se sono vivo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani.
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Teoria del Sé Relativamente alla Teoria del Sé, si potrebbe supporre che il trauma, causando, oltre che una grave disfunzione a livello della funzione-Es (che riguarda la dimensione senso-motoria dell’esperienza), anche un’ulteriore disfunzione a livello della funzionePersonalità (relativa alla dimensione cognitivo-narrativa), possa intaccare la possibilità di coinvolgersi in modo nutriente nel contatto, dando vita alle diverse forme di disagio relazionale proprio a partire dalla disfunzione che esso genera a livello della funzionePersonalità. Vediamo come.
È ormai noto che il trauma disorganizza la psicofisiologia del corpo, provocando una ricablatura del cervello e della reattività fisiologica. Ciò spiega quanto osservato nel caso di persone con storie di traumi a livello sensorio della funzioneEs: quest’ultima si caratterizza per un ‘sentire troppo’ o ‘troppo poco’, evidente nella forma dei ben noti sintomi di iperarousal e/o ipoarousal
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Funzione-Es Secondo Van der Kolk, «l’abuso e la trascuratezza cronici nell’infanzia interferiscono con l’appropriato cablaggio dei sistemi di integrazione sensoriale»5: in effetti, è ormai noto che il trauma disorganizza la psicofisiologia del corpo, provocando una ricablatura del cervello e della reattività fisiologica. Ciò spiega quanto osservato nel caso di persone con storie di traumi a livello sensorio della funzione-Es: quest’ultima si caratterizza per un ‘sentire troppo’ o ‘troppo poco’, evidente nella forma dei ben noti sintomi di iperarousal e/o ipoarousal. Questa consistente difficoltà nella regolazione fisiologica dell’Organismo (O.) si associa anche ad un difetto a livello di ciò che Porges definisce «neurocezione»6: poiché il trauma esita in una fondamentale trasformazione del modo in cui l’O. percepisce se stesso e il mondo, anche la capacità di valutare correttamente il grado di sicurezza presente nell’Ambiente (A.) viene meno. Come è noto, infatti, le persone traumatizzate si sentono continuamente in pericolo. In effetti, quando lo sfondo delle sicurezze di base viene messo in discussione, rimarrà, come gestalt aperta, «la mancanza di un ground di sicurezze esistenziali»7 che inciderà sul modo in cui l’O. si porterà nel mondo: ciò genera un profondo deficit nel ground senso-motorio della persona. Questo modo di percepire il mondo ed il Sé, profondamente permeato dall’esperienza dell’angoscia e della paura, si riverbera inevitabilmente nello stile relazionale dell’O., che sarà – conseguentemente – improntato all’evitamento: sempre per Perls e Goodman, infatti, «l’adattamento creativo in un campo così difficile diventa la rimozione dell’esperienza vissuta»8. Il trauma, però, non ostacola soltanto l’accesso ai propri vissuti corporei, ma esercita anche un effetto paralizzante a livello 5 B. Van der Kolk (2015), Il corpo accusa il colpo, Raffaello Cortina, Milano, 371. 6 Con questo termine Porges si riferisce al processo automatico che consente al sistema nervoso di valutare il livello di pericolo presente nell’ambiente. 7 G. Salonia (2013), Disagio psichico e risorse relazionali, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo, cit. Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 55-67, 58. 8 Ib.
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motorio. In effetti, già Janet aveva riscontrato che i sopravvissuti ad eventi traumatici sono inclini a «proseguire l’azione, o meglio, il tentativo (inutile) di svolgere quell’azione iniziata al momento dell’evento»9. L’intuizione geniale di Janet è stata confermata da diversi studi10, dai quali si evince che «essere in grado di muoversi o di fare qualcosa per proteggersi è un fattore essenziale nel determinare se un’esperienza traumatica lascerà cicatrici profonde che rimarranno per molto tempo»11: infatti, se, come è noto, «le persone che attivamente fanno qualcosa per affrontare un disastro […] utilizzano gli ormoni dello stress nel modo adeguato, e quindi hanno un rischio minore di essere traumatizzate»12; d’altro canto, nel caso delle persone che – proprio a causa delle particolari caratteristiche dell’evento traumatico – non hanno potuto difendersi né fuggire, avviene che «il rilascio continuo degli ormoni dello stress contrasti proprio quelle azioni che gli ormoni stessi dovrebbero alimentare»13 14. Alla luce di ciò, si intuisce quanto sia fondamentale, nella terapia, ‘chiudere la gestalt’ rintracciando e portando a termine il gesto mancato15 – quel gesto preciso in quella relazione
Janet aveva riscontrato che i sopravvissuti ad eventi traumatici sono inclini a «proseguire l’azione, o meglio, il tentativo (inutile) di svolgere quell’azione iniziata al momento dell’evento»
9 B. Van der Kolk (2015), Il corpo accusa il colpo, cit., 371. 10 Sembra qui utile ricordare anche l’ipotesi di Henri Laborit, secondo la quale i disturbi emotivi e/o psicosomatici deriverebbero da un’inibizione dell’azione prolungata nel tempo, ad opera del cosiddetto «Sistema di Inibizione dell’Azione» (SIA) (tratto da http://www.treccani.it/enciclopedia/shock-e-stress). 11 Ivi, 62. 12 Ivi, 249. 13 Ib. 14 La consapevolezza di ciò ha dato vita a diverse tecniche volte a sostenere l’integrazione dell’esperienza traumatica originaria attraverso il movimento. Ad esempio, la tecnica del gesto chiave ideata da Stupiggia si basa sull’ipotesi – simile a quella di Levine e fondata (come quest’ultima) sulle osservazioni di Janet – che la persona traumatizzata cominci a produrre risposte motorie durante l’evento minaccioso, ma poi, sopraffatta, non le porti a compimento: tali frammenti di azioni incompiute verrebbero poi immagazzinate nei nuclei cerebrali profondi. Alla luce di ciò, attraverso l’amplificazione di ciò che Stupiggia definisce «gesto-chiave», si rimetterebbe in connessione la sequenza muscolare-emozionale, in modo tale che l’emozione trattenuta nel movimento possa esprimersi e che possa essere favorito il collegamento tra aree cerebrali corticali e subcorticali. Anche Ogden, Minton e Pain, rifacendosi a Janet, parlano di «atto di trionfo», concetto in linea col pensiero di Stupiggia e con l’idea alla base del Somatic Experiencing di Levine: secondo questi approcci, l’azione consentirebbe una riorganizzazione somatica e semantica dell’esperienza traumatica, attraverso l’integrazione delle sue componenti fisiologiche, emotive e cognitive. 15 In GT l’azione è vista come luogo di trasformazione, il cui compimento, quando sgorga da una consapevolezza corporea piena, conduce alla sperimentazione ed all’apprendimento di elementi decisivi e nuovi della propria identità. In effetti, in GT, l’azione non si limita a seguire il pensiero, ma lo può anche precedere e trasformare: tale caratteristica la rende da sempre elemento centrale della terapia gestaltica. Le tendenze all’azione rimaste bloccate nel corpo della persona traumatizzata in GT vengono definite più precisamente come «gesti mancati», con riferimento al fatto che, nella prospettiva gestaltica, si tratta sempre di gesti precisi in relazioni precise, che, per varie ragioni, non sono stati portati a compimento. È proprio qui che si evidenzia forse una delle principali differenze tra la terapia gestaltica e gli altri approcci terapeutici: nel blocco muscolare-emozionale, la GT vede non solo un’emozione trattenuta che tende alla ‘scarica’, ma anche e soprattutto un’interruzione di contatto.
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Sembrerebbe quindi che il minimo comune denominatore alla base di ogni forma di trauma sia da identificare in una perdita del senso di agency: tale perdita genera una compromissione della possibilità di percepirsi e pensarsi come esseri autoefficaci, intenzionali e capaci di autodeterminazione
Stando anche ai più recenti studi in ambito neuroscientifico, sembrerebbe che la percezione di sé e del mondo sia influenzata proprio dal grado di possibilità d’azione che il soggetto sente di avere: l’‘io posso’ influenzerebbe e determinerebbe, così, il modo in cui vediamo noi stessi ed il mondo, ripercuotendosi necessariamente sul nostro modo di rapportarci ad esso. Come dice Salonia, dunque, «percepirò il mondo in modo diverso, a seconda delle potenzialità che sento di avere in esso»
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precisa – che, durante l’esperienza traumatica, non aveva potuto essere portato a compimento.
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Trauma, senso di agency e Funzione-Io Sembrerebbe quindi che il minimo comune denominatore alla base di ogni forma di trauma sia da identificare in una perdita del senso di agency16: tale perdita genera una compromissione della possibilità di percepirsi e pensarsi come esseri auto-efficaci, intenzionali e capaci di autodeterminazione. In effetti, sia nel PTSD, sia nelle due forme di esperienza (soverchiante o deficitaria) alla base del trauma complesso, ciò che accade è sostanzialmente una ‘passivizzazione’ estrema dell’O., che fa esperienza della propria irrimediabile impotenza, giacché l’evento traumatico è inevitabile e ricade necessariamente al di fuori della sua sfera d’influenza. In tal modo, verrà meno la stessa forza vitale e propulsiva (in termini gestaltici, quella ‘aggressività dentale’ esercitata dalla funzione-Io del Sé17 sull’A. durante gli episodi di contatto) che permette all’essere umano di viversi – appunto – come ‘umano’, ovvero capace di trascendere la propria condizione biologica deterministicamente data attraverso l’esercizio della propria libertà e possibilità di autodeterminarsi. Tutto ciò sta probabilmente alla base della frequente associazione, documentata in letteratura, tra l’aver subito (o assistito a) eventi traumatici e l’insorgenza di sintomi depressivi18: il trauma (e specialmente quello evolutivo) andrebbe, quindi, a riconfigurare lo sfondo del soggetto, influenzandone in modo profondo e pervasivo lo stile relazionale e riducendone drasticamente le potenzialità disponibili al confine di contatto. In effetti, stando anche ai più recenti studi in ambito neuroscientifico19, sembrerebbe che la percezione di sé e del mondo sia influenzata proprio dal grado di possibilità d’azione che il soggetto sente di avere: l’‘io posso’20 influenzerebbe e determinerebbe, così, 16 L’agency potrebbe essere intesa come «la capacità di agire in modo attivo e trasformativo nel contesto in cui si è inseriti e si realizza attraverso la facoltà di generare azioni, finalizzate a ottenere degli scopi. Riguarda tutti gli atti compiuti intenzionalmente, indipendentemente dal loro esito, con una sottostante convinzione di poter avere effettivamente un’influenza sugli accadimenti», in B. Van der Kolk (2015), Il corpo accusa il colpo, cit., 110-111.. 17 In GT, in effetti, la funzione-Io costituisce la struttura «decisionale del sé»: essa, infatti, «è deliberata, di modo attivo, vigile dal punto di vista sensoriale e aggressiva da quello motorio»; è quella funzione del Sé che dà «il senso di essere ‘attivi’, di fare lo sperimentare», in F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 185-187. 18 Cfr. ad esempio J.R.T Davidson (1994), Issues in the diagnosis of posttraumatic stress disorder, in R.S. Pynoos (ed.), Posttraumatic stress disorder: A clinical review, Sidran Press, Lutherville, 1-15. 19 Cfr. F. Keller, Agisco dunque penso, su http://www.pusc.it/sites/default/files/ issra/document/Keller_articolo.pdf. 20 In particolare, secondo Merleau-Ponty, la motilità si costituirebbe come «intenzionalità originale»: infatti: «originariamente la coscienza non è un “io penso che”, ma un “io posso”», in M. Merleau-Ponty (2003) (ed. or. 1945), Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 193. Per il filosofo, quindi, la
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il modo in cui vediamo noi stessi ed il mondo, ripercuotendosi necessariamente sul nostro modo di rapportarci ad esso. Come dice Salonia, dunque, «percepirò il mondo in modo diverso, a seconda delle potenzialità che sento di avere in esso»21. Funzione-Personalità Come affermano Perls e Goodman, «la Personalità è una copia verbale del sé»22. Come è noto, le persone traumatizzate presentano importanti deficit a questo livello: spesso, infatti, soffrono di alessitimia23. L’impossibilità di dare parole all’esperienza vissuta nel corpo ha importanti ripercussioni nella costruzione della rappresentazione di sé: uno degli insegnamenti più chiari delle neuroscienze contemporanee, infatti, è che «il senso di noi stessi è ancorato, in una connessione vitale, ai nostri corpi. Non conosciamo veramente noi stessi se non siamo in grado di sentire e dare un senso alle nostre sensazioni fisiche»24. Ciò spiega anche i sintomi di depersonalizzazione, così frequenti nel caso di persone con storie traumatiche. Il trauma evolutivo, inoltre, incide ancor più radicalmente sulla rappresentazione intima di sé, che sarà caratterizzata da un senso di «autodisgusto, di difettosità e di disvalore»25: come afferma Van der Kolk, infatti, «L’essere stati costantemente picchiati, molestati o maltrattati in altri modi, non può che portare a percepirsi come difettosi e senza valore»26. Alla luce di quanto detto, poiché il precipitato delle esperienze dell’O. nel corso della sua vita «è inevitabilmente presente nel ciclo
Poiché il precipitato delle esperienze dell’O. nel corso della sua vita «è inevitabilmente presente nel ciclo di contatto o come ostacolo o come sostegno», si potrebbe sostenere che l’effetto paralizzante del trauma si manifesti principalmente attraverso il danno che esso genera a livello della funzionePersonalità
coscienza non è più sinonimo di conoscenza, ma di «intenzionalità motoria», ed il soggetto si costituisce come insieme delle sue possibilità motorie: come scrive Merleau-Ponty, «Io ho il mondo come individuo incompiuto attraverso il mio corpo come potenza di questo mondo […] perché il mio corpo è movimento verso il mondo», in ivi, 455. 21 G. Salonia, corso di formazione in, Istituto Gestalt Family Therapy Kairos, Ragusa, 1-3 marzo 2019. 22 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 188-189. 23 In effetti, diversi studi hanno documentato una significativa disattivazione dell’area di Broca in persone esposte a triggers collegati al trauma. Un ulteriore elemento neurofisiologico che contribuisce a questa ‘indicibilità’ del trauma risiede nel collasso del talamo, che, essendo una struttura preposta all’integrazione delle afferenze sensoriali, spiega «perché il trauma non possa essere riferito come un racconto, ma come una serie di impronte sensoriali isolate, immagini, suoni e sensazioni fisiche», in B. Van der Kolk (2015), Il corpo accusa il colpo, cit., 51-54. 24 In particolare, tra gli studi in ambito neuroscientifico che dimostrano lo stretto rapporto esistente tra le esperienze traumatiche ed un diminuito senso del sé, uno dei più noti è quello di Lanius (2004): nel corso di tale studio, si osservò che nei pazienti con PTSD non si registrava quasi alcuna attivazione della Default State Network (DSN), «che attiva le aree cerebrali che contribuiscono alla creazione del senso di sé», in ivi, 105. 25 Ivi, 183. 26 Ib.
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di contatto o come ostacolo o come sostegno»27, si potrebbe sostenere che l’effetto paralizzante del trauma si manifesti principalmente attraverso il danno che esso genera a livello della funzionePersonalità: come scrive Van der Kolk, le persone traumatizzate «non riuscendo ad integrare le loro memorie traumatiche, sembrano perdere anche la loro capacità di assimilare nuove esperienze. È come se la loro personalità si fosse bruscamente fermata a un certo punto, e non riuscisse più ad aprirsi a nuovi elementi e alla loro assimilazione»28. Si potrebbe ipotizzare, quindi, che il trauma – non potendo essere distrutto e assimilato e configurandosi come esperienza intercorporea che si riverbera negativamente sulle parole e i pensieri che l’O. formerà su se stesso e sul mondo – vada a configurarsi come una sorta di ‘introietto intercorporeo’, che necessariamente ostacolerà la funzionalità relazionale dell’O. In effetti, «una Personalità che risulta da situazioni incompiute, atteggiamenti inflessibili, lealtà disastrose […] diventa un ostacolo all’esperienza e al contatto»29: quando la Personalità si irrigidisce, quindi, essa «organizza e mantiene gli elementi arcaici nella struttura della situazione attuale»30.
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Trauma e teoria del contatto Probabilmente gli studiosi che hanno descritto meglio ciò che accade nel dispiegarsi temporale di un episodio traumatico31 da un punto di vista psicofisiologico sono Ogden, Minton e Pain32, che hanno individuato 7 fasi della risposta difensiva che si genera durante un’esperienza traumatica: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Marcato cambiamento di arousal; Risposta di orientamento accentuata; Sistemi di attaccamento e di impegno sociale; Strategie difensive mobilitanti; Strategie difensive immobilizzanti; Ripresa/recupero; Integrazione.
La prima fase fa riferimento al fatto che, quando uno stimolo viene valutato come minaccioso, si verifica un cambiamento istan27 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 188-189. 28 B. Van der Kolk (2015), Il corpo accusa il colpo, cit., 207. 29 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 188-189. 30 Ib. 31 Si prenderà qui in esame quanto avviene nel caso di episodi traumatici di tipo soverchiante, rimandando a futuri ed ulteriori approfondimenti la trattazione specifica di ciò che accade nel caso del neglect. 32 P. Ogden, K. Minton, C. Pain (2012), Il trauma e il corpo, Istituto di Scienze Cognitive Editore, Sassari, 113-121.
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taneo e automatico nel livello di arousal, che generalmente si manifesta con un aumento dello stesso: potremmo dire che, mentre l’O. si trova in una qualsiasi situazione di equilibrio psico-fisiologico (confluenza), un evento esterno fa improvvisamente schizzare il suo arousal, in modo repentino e drammatico, al di sopra della sua finestra di tolleranza33, intrudendo bruscamente nel suo campo percettivo ed invadendolo. Dal punto di vista della teoria del contatto, ciò che avviene è, quindi, una brusca rottura della confluenza iniziale, attraverso un repentino aumento dell’energia, ancor prima che l’O. abbia ben identificato la fonte e l’entità del pericolo: non possono, quindi, aver luogo quella prima valutazione organismica iniziale e quella prima simbolizzazione delle sensazioni, che normalmente consentono di collocare il sentire dell’O. all’interno del «frame of reference dei significati che l’O. ha strutturato lungo tutta la sua storia»34. La funzione-Io opera a questo punto un ‘restringimento’ del contatto, provocando un’immediata focalizzazione dell’attenzione sullo stimolo minaccioso: ciò avviene già prima del pieno dispiegarsi della fase di orientamento, che, in circostanze ordinarie, porterebbe l’O. ad individuare una propria direzionalità. Secondo Porges, se, a fronte di una situazione minacciosa, il ‘sistema di impegno sociale’ si rivela inefficace, verrebbero attivate le ‘strategie difensive mobilitanti’ (attacco/fuga). Successivamente, se anche questo secondo sistema di difesa si rivela inefficace, si attiverebbero le ‘strategie difensive immobilizzanti’ mediate dal parasimpatico35. Si potrebbe forse sostenere che i diversi livelli in cui si articolerebbe il sistema di difesa potrebbero corrispondere a momenti differenti del ciclo di contatto. In particolare, secondo questa ipotesi, la strategia evoluzionisticamente più arcaica – quella dell’immobilizzazione mediata dal parasimpatico – porterebbe la curva del contatto ad inabissarsi repentinamente in una zona di confluenza caratterizzata da un livello di energia più basso rispetto a quello iniziale e molto vicino ai livelli energetici associati alla morte (si parla infatti di ‘morte apparente’), e ciò avverrebbe subito dopo il brusco e drammatico incremento dell’energia associato alla prima risposta simpatica di allarme.
33 Siegel definisce la finestra di tolleranza come «quel range all’interno del quale le diverse intensità di attivazione emotiva e fisiologica possono essere integrate senza interrompere la funzionalità del nostro sistema», in D. Siegel (1999), La mente relazionale, Raffaello Cortina, Milano. 34 G. Salonia (1989), Tempi e modi di contatto, in «Quaderni di Gestalt», V, 8/9, 55-64, 57. 35 Porges descrive tre sistemi gerarchicamente organizzati del SNA, appartenenti a periodi diversi della nostra storia filogenetica, che governano le reazioni neurobiologiche alla stimolazione ambientale: 1) il ramo ventrale parasimpatico del nervo vago (impegno sociale, di formazione evoluzionisticamente più recente), 2) il sistema simpatico (attacco/fuga), e 3) il ramo parasimpatico dorsale del nervo vagale (spegnimento o collasso, evoluzionisticamente più arcaico).
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La strategia difensiva evoluzionisticamente successiva, ovvero quella costituita dalle risposte di attacco/fuga, mediate dal sistema simpatico, sembrerebbe invece più vicina al momento proiettivo del ciclo di contatto: l’O., infatti, non avendo il tempo di raccogliere gradualmente le proprie energie e di incanalarle consapevolmente verso una specifica intenzionalità organismica, si sente minacciato e si autopercepisce – correttamente, nel caso di situazioni traumatiche soverchianti – come ‘più piccolo’ rispetto all’A. Così, invece di contenere in sé l’eccitazione, l’O. «sente l’emozione, ma questa è libera e non è relativa al senso attivo del Sé»36: anche qui, infatti, la funzione-Io opera un restringimento del contatto funzionale alla sopravvivenza, che fa sì che l’O. proietti la propria energia all’esterno in modo automatico e veloce, massimizzando le proprie possibilità di sopravvivere. Successivamente, Ogden, Minton e Pain individuano la fase del recupero, che si attiverebbe subito dopo la conclusione dell’episodio traumatico. Questa fase, attraverso tremori, pianto e movimenti corporei (ove necessario per la persona), consentirebbe il ripristino dell’equilibrio psicofisiologico dell’O. In questa fase, che coincide con l’inizio del post-contatto, la funzione-Io opera un ulteriore adattamento creativo, spostando il focus dell’attenzione dall’A. allo stesso Sé organismico, ed intervenendo sul confine di contatto, al fine di ripristinarne le qualità (grado di tensione tra interno ed esterno, grado di permeabilità), in modo funzionale al recupero della propria ‘aggressività dentale’ (o agency) e del proprio senso di grounding. L’ultima fase individuata dagli studiosi è quella dell’integrazione, che «rappresenta un processo a lunga durata di riorganizzazione che include l’assimilazione, sia fisica che psicologica, dell’esperienza traumatica»37. Come sappiamo, nella teoria gestaltica, la funzione del Sé che emerge in figura nel post-contatto è la funzione-Personalità, preposta proprio all’assimilazione dell’esperienza: come scrive Goodman, «in circostanze ideali il sé non ha molta personalità»38, come a dire che, quando il contatto è fluido, il processo di assimilazione avviene facilmente e non richiede molto tempo; invece, «nei casi in cui il sé ha molta personalità ciò è dovuto al fatto che esso porta addosso molte situazioni incompiute, degli atteggiamenti inflessibili e ricorrenti, delle lealtà disastrose»39. Di conseguenza, nei casi in cui il Sé abbia perlopiù ‘subìto’ il contatto, tale processo risulta estremamente lungo e fa-
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36 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 258. 37 P. Ogden, K. Minton, C. Pain (2012), Il trauma e il corpo, cit., 113-121. 38 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 235. 39 Ivi, 233.
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ticoso: come afferma Salonia, «nel trauma è stato sottratto il precontatto, quindi il tempo del post-contatto è raddoppiato»40. In effetti, una delle caratteristiche del trauma è proprio la sua imprevedibilità, il suo carattere inaspettato e improvviso. Un’esperienza traumatica, quindi, non può essere assimilata, non soltanto a causa della sua natura soverchiante, ma anche perché l’O. non è pronto per essa: come scrive lo stesso Perls, «Senza un’appropriata preparazione (masticare, eccetera), il cibo non può esser assorbito»41. Un contatto traumatico, dunque, non può essere assimilato e non può far crescere l’O., ma, al contrario, blocca necessariamente il processo evolutivo di quest’ultimo, irrigidendo la dinamica di formazione delle figure. Come si vede, quindi, l’esperienza traumatica, non potendo essere assimilata, rimane intatta. Questa caratteristica ‘inassimilabilità’ dell’evento traumatico potrebbe forse svelarne, in qualche misura, una certa ‘natura introiettiva’: come chiarisce lo stesso Perls, infatti, «introiezione significa preservare la struttura delle cose assorbite, mentre l’O. esige la loro distruzione»42. Questa impossibilità di elaborare l’evento sembra essere particolarmente dannosa per l’O.: come scrive Perls «ogni elemento di carattere straniero, alieno od ostile, introdotto nella Personalità, crea frizione interna, ostacola il suo funzionamento e può anche finire per disorganizzarla e disintegrarla […] questo materiale estraneo, se non è propriamente metabolizzato e assimilato dalla Personalità, può danneggiare ed anche rivelarsi fatale per essa»43. Terapia gestaltica del trauma Come abbiamo visto, sembra che gli elementi cardine del trattamento del trauma secondo i principali approcci contemporanei siano essenzialmente due: a livello sensorio, si pone una particolare attenzione allo sviluppo di una buona autoconsapevolezza corporea da parte del paziente; a livello motorio, ciò che viene ritenuto prioritario risiede nel rintracciare la ricerca dell’intenzionalità motoria bloccata nel corpo della persona traumatizzata e nel portarla a compimento. Come è noto, in GT l’obiettivo primario della cura risiede, da sempre, proprio nel conseguimento dell’integrazione sensoriale e motoria dell’esperienza. Nello specifico, si parla di ‘esperienza sinaptica’, espressione che indica un’esperienza unitaria e globale, vissuta come un tutto armonico che si dispiega fluidamente e che
40 G. Salonia, seminario su Abuso e EMDR, Palermo, Chiesa di Sant’Antonio Abate allo Steri, 22-23 marzo 2014. 41 F. Perls (2011) (ed. or. 1942), L’io, la fame, l’aggressività, Franco Angeli, Milano, 175. 42 Ivi, 140. 43 Ivi, 115.
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accade quando il contatto è sano e nutriente: «Ogni atto di contatto costituisce una totalità di consapevolezza, di risposta motoria e di sentimento – una collaborazione tra i sistemi sensoriali, muscolari e vegetativi»44. In GT, quindi, «Il conseguimento della gestalt forte è esso stesso la cura»45. Poiché il trauma si configura essenzialmente come elemento che ‘dis-integra’ l’esperienza – sia a livello intrapersonale che a livello interpersonale –, un approccio che si pone come obiettivo primario quello di ricostruire l’‘integrità’ e la ‘pienezza’ dell’esperienza nel qui-ed-ora della relazione appare, quindi, particolarmente indicato per il trattamento dei pazienti traumatizzati. Oltre a questa attenzione all’integrazione dell’esperienza, un altro elemento specifico del nostro approccio risiede nella particolare importanza attribuita alla relazione di cura, vista come principale elemento terapeutico, capace di fornire sostegno e contenimento al paziente, spesso traumatizzato proprio nel contesto delle relazioni primarie. In effetti, l’O. che ha avuto uno sviluppo traumatico, essendo cresciuto all’interno di una trama relazionale inadeguata, non ha potuto ricevere il sostegno necessario per poter transitare dal bisogno (di integrità) al desiderio (di pienezza), andando incontro ad un importante blocco evolutivo. In particolare, «il trauma esiste se esiste una trama traumatica»46: come a dire che ciò che rende traumatica un’esperienza consiste soprattutto nell’assenza di una trama relazionale adeguata o capace di rendere tale esperienza tollerabile, favorendone l’assimilazione. Alla luce di ciò, il primo passo per consentire l’elaborazione dell’esperienza traumatica consiste proprio nel fornire al paziente una trama relazionale sana, giacché «avere una trama in cui assimilare l’esperienza significa elaborare il trauma»47. Tale esperienza relazionale farà sì che le sensazioni intense del trauma vengano pian piano associate «alla sicurezza, al conforto, e alla padronanza»48 sperimentati nel qui-ed-ora dell’incontro col terapeuta. Inoltre, poiché il trauma, configurandosi come un «grave tradimento delle aspettative»49, provoca una rottura della fiducia tra O. ed A., uno dei principali obiettivi terapeutici con il paziente traumatizzato consiste proprio nel ricostruire tale fiducia, principalmente attraverso la stabilità, l’affidabilità e la prevedibilità della relazione terapeutica stessa. Il venir meno della fiducia e la memoria corporea del trauma creano nel corpo della persona traumatizzata una serie di tensioni e desensibilizzazioni che ne rimpiccioliscono o alterano lo sche44 45 46 47 48 49
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Ib. Ivi, 42. Ib. Ib. Ivi, 131. G. Salonia, seminario Il trauma: una lettura gestaltica, Istituto Gestalt Therapy Kairòs, Roma, 25-26 ottobre 2019.
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ma corporeo implicito50 generando una sorta di ‘postura antalgica’51 che funzionerà come un’autentica «fisiologia secondaria»52: come afferma Salonia, infatti, «nel trauma il corpo non è più rilassato, non ha fiducia e si protegge lì dove è stato ferito»53. La postura antalgica così generata si configurerà come un insieme di adattamenti ad «esigenze ambientali croniche dolorose»54 e porterà necessariamente ad un funzionamento ridotto e/o alterato del Sé: il paziente, infatti, metterà in atto inconsapevolmente modalità relazionali poco funzionali o nettamente disfunzionali nel presente, avendo perso nel tempo la consapevolezza della loro originaria funzione adattiva. In effetti, per i pazienti traumatizzati, «fare esperienza dei propri corpi può essere stato associato così fortemente al dolore, alla malattia o alla violazione da indurli a trasformare i loro corpi in qualcosa da evitare»55: in particolare, «più funzioni di contatto sono rinnegate, più ristretta è la gamma dei comportamenti disponibili per l’azione all’interno dell’ambiente. L’io diventa più rigido e compresso»56. Di conseguenza, poiché l’azione in GT è vista come la naturale evoluzione della sensazione, se quest’ultima risulta inaccessibile o scarsamente accessibile alla consapevolezza, allora anche la gamma di azioni possibili nel mondo, inevitabilmente, risulterà limitata. Come accennato, ciò comprometterà l’‘io posso’ (o agency) dell’O. e avrà pesanti ricadute sul suo stile relazionale: il trauma, ostacolando l’accesso alla totalità delle sensazioni e delle potenzialità motorie, emotive ed esperienziali dell’O., andrà ad influire in modo distruttivo sulla sua autopercezione ed autorappresentazione, compromettendo rovinosamente la possibilità di un coinvolgimento pieno nel contatto con l’A. Alla luce di ciò, sarà di grande importanza riuscire ad individuare le tensioni inscritte nel corpo del paziente, poiché proprio in esse sarà possibile riscoprire l’originaria intenzionalità organismica bloc50 Nello specifico, secondo la GT – che riprende e rielabora in chiave corporeorelazionale le intuizioni di Schilder – lo schema corporeo implicito viene concepito come l’immagine del proprio corpo che risulta dalla percezione, a livello propriocinetico, delle sue parti e dalla totalità d’insieme (cfr. G. Salonia La psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo, cit.). 51 La postura antalgica è «la trascrizione nel corpo di tutti i contatti falliti. Non solo perché il corpo tiene il conto di ogni fallimento relazionale chiudendosi, bloccandosi, trattenendo respiro e movimenti, ma anche perché ogni interruzione di intenzionalità di contatto accade bloccando un preciso gesto che il corpo avrebbe voluto fare o ricevere, una precisa parola che il corpo avrebbe voluto dire o ricevere per andare avanti verso il contatto pieno», in G. Salonia (2017), Danza delle sedie e danza dei pronomi. Terapia gestaltica familiare, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 78. 52 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 209. 53 G. Salonia, seminario Il trauma: una lettura gestaltica, cit. 54 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 209. 55 J. Kepner (2016) (ed. or. 1987), Body Process. Il lavoro con il corpo in psicoterapia, Franco Angeli, Milano, 35. 56 Ib.
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Le nuove esperienze relazionali col terapeuta, una volta assimilate dall’O., andranno a depositarsi sullo sfondo dei suoi successivi episodi di contatto: si creeranno, così, le premesse per contatti più sani, basati su modi nuovi di percepirsi e di pensarsi in relazione al mondo, nati in seno alla relazione di cura
cata, e fornire al paziente stesso il sostegno specifico necessario per portarla a compimento. In particolare, poiché molte tensioni corporee sono legate a gesti che non abbiamo portato a termine, come afferma Salonia, «individuare le tensioni vuol dire individuare dove c’è un gesto mancato o un’immagine57 bloccata»58. Per far ciò, dal momento che «il respiro è il ponte tra il volontario e l’involontario, tra l’anatomia reale e quella simbolica»59, occorrerà osservare, oltre agli atteggiamenti posturali del paziente, anche il suo stile respiratorio, stando al contempo in contatto con le nostre ‘risonanze intercorporee’ di terapeuti. In tal modo, potremo cogliere il sistema di tensioni muscolari che ostacola il pieno accesso alle sensazioni corporee e la completa espressività motoria del paziente. Sarà inoltre necessaria una corretta valutazione circa la funzione del Sé primariamente coinvolta: se il trauma è avvenuto in epoca pre-personale (prima dei 3 anni, quando non si è ancora formata la funzione-Personalità), occorrerà prestare attenzione soprattutto alla funzione-Es del Sé, cercando di costruire insieme al paziente la possibilità di tollerare e rendere chiaro il sentire corporeo; nel caso in cui invece il trauma sia avvenuto in una fase evolutiva, in cui la funzione-Personalità è già formata, si cerca di lavorare prevalentemente sul gesto mancato, prima individuandolo insieme al paziente («Quale parte del tuo corpo è trattenuta?», «Cosa avresti voluto fare/dire?»), e poi immaginando di agirlo, oppure agendolo nel contesto sicuro della terapia. Ciò permetterà al paziente di mettere in contatto l’esperienza traumatica con l’‘io posso’: quando avverrà il cambiamento, il corpo si rilasserà ed emergeranno nuove possibilità di azione60. In tal modo, le nuove esperienze relazionali col terapeuta, una volta assimilate dall’O., andranno a depositarsi sullo sfondo dei suoi successivi episodi di contatto: si creeranno, così, le premesse per contatti più sani, basati su modi nuovi di percepirsi e di pensarsi in relazione al mondo, nati in seno alla relazione di cura61.
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57 Alcuni studi neuroscientifici hanno mostrato come le immagini rappresentino un possibile punto d’ingresso per le emozioni e che il loro uso nel trattamento di persone traumatizzate può sostenere l’integrazione tra il livello senso-motorio e quello cognitivo. Come afferma Smonker, «utilizzare l’immagine può riportare alla luce della coscienza un ventaglio di possibilità disponibili per il momento presente» (N. Smonker, seminario Come l’immagine diventa intervento terapeutico. Il contributo della Gestalt Therapy, Istituto di Gestalt Therapy Kairos, Ragusa, 15 novembre 2019). 58 G. Salonia, seminario Il trauma: una lettura gestaltica, cit. 59 G. Salonia (2000), Respiro il corpo che parla di me, in «Mappe e Carteggi», 4, 14-16, 16. 60 Tratto da G. Salonia, seminario Il trauma: una lettura gestaltica, cit.? 61 A questo proposito, è utile ricordare quanto scrive Salonia: «Le neuroscienze hanno confermato che le idee di identità e relazione emergono dal corpo e che l’azione è decisiva per la costruzione dell’identità […] l’agire non è solo acting out ma crea l’identità corporea e relazionale. Keller sostiene addirittura che l’‘io posso’ struttura la percezione» (G. Salonia (2019), Saggio introduttivo, in R. Lisi Isteria e Gestalt Therapy. Quando tutto è pertinente, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 5-17, 13).
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Abstract IT
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Nell’elaborato, dopo un breve inquadramento teorico del fenomeno traumatico e un accenno alle principali metodologie contemporanee sviluppate per la sua cura, si propone la Gestalt Therapy come possibile approccio d’elezione per il trattamento dei pazienti traumatizzati. In particolare, viene abbozzata una lettura del trauma psicologico a partire dai principali cardini teorici dell’impostazione gestaltica (Teoria del Contatto e Teoria del Sé). Nello specifico, per quanto riguarda la Teoria del Sé, si ipotizza che il trauma possa compromettere il funzionamento dell’Organismo soprattutto a partire dalla disfunzione che esso genera a livello della funzionePersonalità: incidendo negativamente sul senso di agency, e quindi sull’‘io posso’, infatti, il trauma andrebbe a riconfigurare lo sfondo dell’Organismo, influenzandone in modo profondo e pervasivo lo stile relazionale e riducendone drasticamente le potenzialità disponibili al confine di contatto.
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Agata Buzek - 1998
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Valeria Conte
Sto, nel terrore muto di chi non sa viaggiare. Echi lontani di dolori taciuti, mi rigettano negli abissi, mentre il sole splende nei cuori delle cose vive. A tratti le Tue Mani calde mi riportano alla Fede, nel Mare del Tuo Grembo, ma poi scivolo via, lontana, in un posto che non so dire, dove tutto è fermo, dove tutto tace, dove sono stanca di lottare.
NUOVE APPLICAIZONI CLINICHE
Il terrore muto di chi non sa viaggiare
Sara
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Come sappiamo, per la Gestalt Therapy l’identità si forma dalle esperienze corporee e relazionali in cui sin dalla nascita siamo immersi. La GT, infatti, guarda alla crescita del bambino non in termini intrapsichici, ma relazionali: l’identità si struttura attraverso la capacità di appartenere e di individuarsi e si costruisce a partire dalla casa familiare e relazionale che abbiamo abitato
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e esperienze traumatiche oggi interessano gran parte della comunità scientifica, che cerca di definirle nelle sue molteplici forme. Alcuni elementi sono considerati fondamentali per la prognosi e l’intervento clinico, specifico per le diverse tipologie di trauma: in particolare, occorre valutare la fase dello sviluppo in cui è avvenuto il trauma (traumi subiti in età evolutiva o da adulti), la durata (eventi traumatici singoli o ripetuti nel tempo), il tipo di relazione (paritaria o asimmetrica) e il contesto (intrafamiliare o esterno). In accordo con quanto emerso dalle più recenti ricerche in ambito psicotraumatologico, è importante riconoscere il trauma complesso come categoria diagnostica da differenziare ed affiancare a quella del PTSD. Il trauma complesso, che riguarda esperienze soverchianti vissute in età evolutiva, ha particolari implicazioni nello sviluppo dell’identità. Come sappiamo, per la Gestalt Therapy l’identità si forma dalle esperienze corporee e relazionali in cui sin dalla nascita siamo immersi. La GT, infatti, guarda alla crescita del bambino non in termini intrapsichici, ma relazionali: l’identità si struttura attraverso la capacità di appartenere e di individuarsi e si costruisce a partire dalla casa familiare e relazionale che abbiamo abitato. Il processo di crescita del bambino è figura che emerge da uno sfondo e necessita, per un sano sviluppo, di avere fiducia nell’adulto che si prende cura, di sperimentare una presenza costante e accogliente, di avere certezze e sicurezze, di ascoltare parole calde e rassicuranti. Se, per qualche ragione, le esperienze sperimentate nella prima infanzia risultano disfunzionali, assume particolare importanza la comprensione dei vissuti fenomenolo-
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gici e relazionali di una specifica esperienza del Sé. Sappiamo che il corpo è il luogo dell’accadimento primario dell’evento traumatico, ma non solo per questo è significativo tornare all’esperienza corporea, giacché quest’ultima è il luogo in cui il Sé si posiziona quando deve entrare in contatto con l’ambiente. Il divenire delle esperienze future sarà quindi seriamente compromesso dall’esperienza traumatica subita dal bambino. Se ci chiediamo cosa è accaduto nel corpo a chi ha subito abusi nell’infanzia, ci accorgiamo che spesso ciò che è accaduto non è descrivibile con le parole: rimane una sensazione/esperienza confusa, all’interno di una relazione confusa, e sicuramente manca all’interno della famiglia un clima di sostegno e fiducia, che consenta di potere dire, senza avere paura e/o sentirsi in colpa per ciò che è accaduto. In effetti, il trauma evolutivo incide in modo radicale sulla rappresentazione intima di sé, dando vita ad «un’autopercezione e autorappresentazione alterate, generando vissuti di inadeguatezza relazionale che inficeranno profondamente la possibilità di coinvolgersi pienamente nelle relazioni umane»1.
Se ci chiediamo cosa è accaduto nel corpo a chi ha subito abusi nell’infanzia, ci accorgiamo che spesso ciò che è accaduto non è descrivibile con le parole: rimane una sensazione/ esperienza confusa, all’interno di una relazione confusa, e sicuramente manca all’interno della famiglia un clima di sostegno e fiducia, che consenta di potere dire, senza avere paura e/o sentirsi in colpa per ciò che è accaduto
La storia di Sara Tutte le madri del mondo, nei secoli dei secoli vissute e viventi, vibranti, adesso, nel tuo abbraccio. Grembo marino e caldo, si fa soffice culla per chi ti è straniero; occhi profondi di dolcezza antica accarezzano perfino le paure più nere; mani sicure e delicate accompagnano piano le ancestrali lacrime del ventre. Tenerezza infinita, oceanica accoglienza, delicata, attendi che il dolore altrui ti si dischiuda tra le braccia forti e sulle spalle grandi. Tutta ti dai, calore e fermezza, lì dove i bambini piangono più forte e le ferite sepolte urlano di più. Passo leggero, presenza discreta, la tua Grandezza, custodita e celata, come scrigno prezioso si dona al viandante fortunato. Arrivi, come Dono di Mare, proprio a me, che ti ho aspettata tanto, e l’odore di fumo sui tuoi vestiti mi diventa odore di Madre.
Sara arriva in terapia da me nel mese di aprile del 2016. È divorziata e senza figli, ha 40 anni e insegna lingua e letteratura italiana in una scuola in provincia di Catania, dove vive da sola. Gli unici familiari per lei significativi sono un fratello di tre anni più piccolo, che vive all’estero, ed entrambi i suoi genitori, divorziati da quando lei aveva 21 anni. La paziente, che in passato aveva già intrapreso due percorsi psicoterapici, decide di iniziare una terza psicoterapia a causa di una sintomatologia depressiva, a suo 1
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S. Gargano (2020), Il trauma e il corpo in GT, infra, 67-81.
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dire da sempre presente nella sua vita e acutizzatasi a partire dal divorzio (avvenuto 13 anni prima). La prima esperienza di psicoterapia era stata intrapresa quando aveva 18 anni, subito dopo la fine della scuola superiore, e la seconda a 27 anni, a seguito della separazione dal marito. Sara appare sin da subito molto motivata al trattamento, la sua richiesta di aiuto si colloca nel contesto di un nuovo passaggio evolutivo (40 anni): la sensazione di star transitando in un’altra fase del proprio ciclo di vita ha costituito lo sfondo di tale scelta. La paziente riferisce di sentirsi depressa per la maggior parte del tempo e di avere periodicamente pensieri suicidari. Inoltre, riporta la presenza disturbante di una memoria somato-sensoriale relativa ad un abuso sessuale subito in età infantile ad opera dello zio, fratello minore della madre (successivamente morto in un incidente stradale), che vedeva spesso a casa dei nonni. Quando Sara parla della propria storia, nel corso dei primi incontri, ricorda principalmente episodi – che hanno costellato la sua infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza – contraddistinti da violenti litigi con la madre, causati, a dire della paziente, dai suoi scatti d’ira impetuosi e imprevedibili. Durante l’adolescenza, la paziente si rifugiò nello studio, unica attività che trovava interessante e soddisfacente. Il primo fidanzato lo ebbe a 21 anni ed ebbe con lui i primi contatti intimi ed il primo rapporto sessuale. Dopo la fine della sua prima relazione iniziò un periodo di promiscuità sessuale, che durò per circa due anni. A 24 anni conobbe l’uomo che divenne suo marito. Uno dei momenti riconosciuti da Sara come più significativi nella sua storia è rappresentato proprio dalla separazione dal marito, a tre anni di distanza dal matrimonio, in seguito all’ennesimo tradimento di lui. Dopo la separazione, Sara riferisce di avere avuto altre relazioni non significative, brevi e superficiali. Al momento dell’inizio della terapia la paziente riferiva di star bene da sola e di non avere alcuna intenzione di cambiare la sua condizione sentimentale nemmeno in futuro. Il frammento mnestico somato-sensoriale relativo all’abuso sessuale è emerso per la prima volta nel corso della sua prima psicoterapia ad indirizzo cognitivo-comportamentale2, iniziata a 18 anni per una sintomatologia ansiosa (panico generalizzato e pensieri di tipo ipocondriaco). Nel corso di questa prima esperienza terapeutica era stata trattata con l’EMDR. Per motivi non chiari si interrompe il rapporto di fiducia con la terapeuta e di conseguen-
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2 Non sempre il trauma subito viene ricordato dalla persona traumatizzata: particolari condizioni ne favoriscono l’emergere, come ad esempio l’inizio di un percorso psicoterapico, anche se per motivi ben lontani dal ricordo del trauma, o anche cambiamenti e situazioni di vita favorevoli, paradossalmente aspetti evolutivi della persona, oppure situazioni che in qualche modo sono connesse con le sensazioni senso-motorie traumatiche.
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za il percorso psicoterapico. Sara convive con vissuti di forte ansia, ma non intraprende alcun percorso psicoterapico fino a che non si separa dal marito, momento molto doloroso per lei, che genera sintomi depressivi e idee suicidarie e che la spinge a intraprendere la sua seconda psicoterapia. Nel corso del nostro primo colloquio, mi colpisce da una parte la facilità con la quale Sara inizia subito a parlare di aspetti delicati di sé stessa (grazie ai due percorsi psicoterapici precedenti, mostra di avere un buon livello di consapevolezza di sé e utilizza – in modo più o meno appropriato – il gergo psicologico), dall’altra, il ritmo incalzante dell’eloquio e la presenza di uno scollamento tra i contenuti e l’esperienza vissuta ad essi relativa. Avverto nello sfondo la sua ansia e la sua paura di affidarsi, ma emerge come figura un atteggiamento ostentatamente sicuro. Il suo aspetto piacevole stride con un corpo rigido e controllato, come se fosse non abitato e a tratti desensibilizzato3. Un elemento che colpisce in Sara è identificabile nel divario presente in lei tra la sua parte ‘adulta’ – in apparenza molto sicura di sé e a tratti persino irritante – e la sua parte ‘bambina’, estremamente tenera e bisognosa di affetto. Ho la sensazione che la paziente tenti di instaurare con me una relazione di tipo simmetrico-paritario – qualcosa che avviene comunemente con i pazienti con stile relazionale narcisistico – ma in lei percepisco la profondità di questa scissione, un adattamento necessario ad una sofferenza a cui sopravvivere. Nel corso dei primi mesi di psicoterapia emergono sentimenti di vergogna e umiliazione, associati all’emergere di emozioni e bisogni, come calore, fragilità e dolore, da lei considerati come infantili, inadeguati e disprezzabili4. Sara sembra essere impegnata in una dura battaglia: da un lato, c’è la sua voglia di abbandonarsi alla relazione con me, il suo desiderio di un calore materno chiaro e nutriente, mai sperimentato prima, al quale lei stessa allude definendolo «sete di madre»; dall’altro, la paura di essere ingannata e tradita anche da me. La madre viene descritta come una donna estremamente bella e
Avverto nello sfondo la sua ansia e la sua paura di affidarsi, ma emerge come figura un atteggiamento ostentatamente sicuro. Il suo aspetto piacevole stride con un corpo rigido e controllato, come se fosse non abitato e a tratti desensibilizzato
Sara sembra essere impegnata in una dura battaglia: da un lato, c’è la sua voglia di abbandonarsi alla relazione con me, il suo desiderio di un calore materno chiaro e nutriente, mai sperimentato prima, al quale lei stessa allude definendolo «sete di madre»; dall’altro, la paura di essere ingannata e tradita anche da me
3 In situazioni di trascuratezza o abuso, infatti, il bambino reagisce «ritraendosi dalla superficie di contatto della pelle e dei muscoli. Di fronte ad una ferita che si è ripetuta, il bambino si ritira ancora più lontano dalla fonte di dolore, separando il proprio sé dal proprio corpo, rinnegando la sede del dolore per ridurre il danno», in J. Kepner (2016) (ed. or. 1987), Body Process. Il lavoro con il corpo in psicoterapia, Franco Angeli, Milano, 47. Nello specifico, come afferma Salonia, «quando una parte del corpo non è inclusa nello schema corporeo implicito, viene sperimentata come contratta o desensibilizzata» in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino (2013), Devo sapere subito se sono vivo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani. 4 Come è noto, nel narcisismo al femminile, tali aspetti dell’identità vengono squalificati e disprezzati, poiché associati agli aspetti infantili e dipendenti della madre, verso la quale la paziente con stile relazionale narcisistico nutre un sentimento di rabbia: «la figlia si trova così divisa tra il bisogno di appartenenza alla madre e il bisogno di differenziarsi da lei» in V. Conte (2013), La modalità relazionale narcisistica nella postmodernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 4, 17-37.
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seducente, ma facilmente irritabile: stando ai racconti della paziente, bastava un nonnulla per scatenare violente reazioni d’ira. Quando si verificavano situazioni del genere, la paziente ricorda gli interventi ‘salvifici’ del padre, un uomo definito da lei buono «ma troppo innamorato della madre». Un aspetto che si rivelerà importante nel corso del trattamento è da identificare nel difficile rapporto con la corporeità della madre di Sara: la signora, infatti, si vergognava di mostrare il proprio corpo e provava disgusto per alcuni aspetti della corporeità della figlia preadolescente.
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Nei primi mesi di terapia: P.: Non lo so perché, ma mi sento come ansiosa, o qualcosa del genere. Forse ho paura… forse ho paura di come puoi stare tu, cioè, se ti trovo arrabbiata o di cattivo umore… T.: È mai successo? P.: No, ancora no, però ho paura che succeda…
Una tale esperienza relazionale farà sì che le sensazioni intense del trauma vengano pian piano associate «alla sicurezza, al conforto, e alla padronanza» sperimentati nel quied-ora dell’incontro col terapeuta
La sua esperienza del materno è caratterizzata dall’imprevedibilità e dal repentino e inspiegabile passaggio dal calore all’ostilità. In effetti, un elemento cardine che determina il danno nell’esperienza traumatica è la mancanza di una presenza significativa adeguata e capace di rendere tale esperienza dicibile e tollerabile, una presenza che possa aiutare il bambino a contenerla e assimilarla il trauma nasce dentro una «trama traumatica»5. Alla luce di ciò, e poiché il trauma provoca una grave rottura della fiducia dell’Organismo verso l’Ambiente, per il suo trattamento è necessario costruire una relazione terapeutica stabile, affidabile e prevedibile, che possa permettere all’Organismo di risanare il danno, tenendo conto del fatto che, durante il percorso terapeutico, la tenuta di questa relazione viene continuamente verificata dalla persona traumatizzata. Una tale esperienza relazionale farà sì che le sensazioni intense del trauma vengano pian piano associate «alla sicurezza, al conforto, e alla padronanza»6 sperimentati nel qui-ed-ora dell’incontro col terapeuta7. Inizia a riemergere il vissuto traumatico. Un giorno, mentre Sara parlava del suo sentirsi “bloccata” e perennemente con poche energie, le ho chiesto di respirare facendo attenzione a come sentiva il suo corpo durante la respirazione: P.: Boh, sento che il respiro si blocca nel petto. E sento come se fossi divisa: la parte di sopra mi sembra forte e grande, ma quella di sotto non la sento proprio.
5 G. Salonia, seminario Il trauma una lettura gestaltica, Istituto Gestalt Therapy Kairos, Roma, 25-26 ottobre 2019. 6 F. Perls (2011) (ed. or. 1942), L’io, la fame, l’aggressività, Franco Angeli, Milano, 131. 7 Cfr. S. Gargano (2020), Il trauma e il corpo in GT, cit.
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T.: Se dovessi dare un’immagine per descrivere come senti entrambe le metà del tuo corpo, cosa diresti? P.: Mah… nella parte superiore, mi sento come una regina, potrei dire. In quella inferiore… non lo so, non sento niente, non mi viene nessuna immagine. Faccio un intervento mirato a sostenere l’integrazione delle due parti: T.: Come sarebbe seduta una regina secondo te? Sara allarga il petto e lo porta in su, ma le gambe non sa come metterle. Le chiedo di fare diversi tentativi fino a quando non trova una posizione “da regina” anche per le gambe. Dopo qualche tentativo, Sara prova ad accavallarle. P.: Forse una regina starebbe seduta così. Sorrido. T.: Sì, potrebbe stare così. Come senti la parte inferiore del corpo adesso? P.: Mah… ancora non la sento tanto… T.: Prova a respirare immaginando di fare arrivare il respiro nella parte inferiore del corpo. Quando lei prova a farlo, va subito in iperarousal: il respiro si fa improvvisamente affannoso, il suo viso si contrae in un’espressione di terrore, mentre grosse lacrime le solcano le guance. È emersa una prima memoria traumatica. Intervengo per riportarla all’interno della sua finestra di tolleranza. T.: Guarda me. Metti i piedi a terra e dammi le mani. P.: Mi sento piccolissima… Il respiro è ancora veloce, ho la sensazione di avere davanti una bambina terrorizzata che cerca qualcuno. T.: Stai tranquilla, va bene così. Da adesso ci sarò io con te. Non dovrai più avere paura e potrai fare a me tutte le domande che vuoi su quello che ti è successo. L’espressione del viso di Sara si rasserena all’istante. Cerca – e trova, finalmente! – presenza, sostegno e rassicurazione. Il giorno dopo la seduta, Sara mi scrive: «Cara Valeria, come forse immagini, da ieri non faccio che ripensare a quanto emerso in seduta e oggi sto avendo un po’ di ansia e sensazioni fisiche… ora ho un po’ di paura, è già accaduto durante le altre volte in cui ho lavorato sul trauma… eventualmente ti scrivo?». Dopo qualche giorno, Sara mi aggiorna sul suo stato: «Cara Valeria, per fortuna sembra che i sintomi stiano restando ‘sotto
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Nei mesi, Sara sentirà spesso il bisogno di essere accolta, accettata e sostenuta da un femminile accogliente e materno, che possa darle le necessarie conferme alla sua femminilità, portando a termine ciò che era rimasto incompiuto nella sua infanzia a causa della mancanza del necessario sostegno ambientale alla sua crescita
soglia’ questa volta, e non mi sto agitando più di tanto… però le sensazioni fisiche frequenti e un lieve mal di stomaco mi buttano un po’ giù… e niente, ti scrivo perché la mia parte piccola sente il bisogno di saperti vicina». È emerso l’evento traumatico, Sara non ricorda nessuna scena, nessuna immagine, ma sente il bisogno, come allora, di una presenza significativa che possa rassicurarla, ora finalmente presente e accessibile. L’energia prima impiegata per tenere il suo segreto fuori dalla consapevolezza l’ha portata per lunghi anni a periodi depressivi significativi con pensieri suicidari e senso di impotenza e ineluttabilità. Nei mesi, Sara sentirà spesso il bisogno di essere accolta, accettata e sostenuta da un femminile accogliente e materno, che possa darle le necessarie conferme alla sua femminilità, portando a termine ciò che era rimasto incompiuto nella sua infanzia a causa della mancanza del necessario sostegno ambientale alla sua crescita. Nel corso del nostro cammino terapeutico, le sue sensazioni corporee, fino ad allora confuse a causa dell’intrusività dell’abuso, le verranno gradualmente e delicatamente restituite, attraverso un lento percorso di riappropriazione del suo sentire, che le consentirà di fare chiarezza nella confusione generata dal trauma.
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Un giorno mi dice: P.: Sai, per ora mi sono ritornate le immagini… è strano, perché non ritornavano da un casino di tempo… T.: Ti ricordi qualche scena del trauma? P.: Sì… te le devo descrivere? Abbondanti lacrime sgorgano dai suoi occhi, impedendole di parlare. P.: Non… non ci riesco. Ho le immagini, ma… non ho le parole per dirlo8. Sara inizia a raccontare l’accaduto in uno stato di semi-dissociazione: sembra in ipoarousal, e fa fatica a trovare le parole. Mi viene da pensare che i piccoli non hanno parole per descrivere ciò che non capiscono
Mi avvicino a lei, in modo da poterle fare sentire il mio sostegno. Sara inizia a raccontare l’accaduto in uno stato di semi-dissociazione: sembra in ipoarousal, e fa fatica a trovare le parole. Mi viene da pensare che i piccoli non hanno parole per descrivere ciò che non capiscono. Dopo il difficile racconto, un pianto viscerale le sgorga da dentro, in modo improvviso ed esplosivo, portandola a gettarsi sul pavimento, cercando il mio abbraccio. Mi stringe forte le gambe singhiozzando. La sostengo cercando di farle sentire il mio con-
8 In effetti, diverse ricerche hanno dimostrato che, nei soggetti traumatizzati, l’area di Broca (situata nella terza circonvoluzione frontale dell’emisfero sinistro e cruciale per la produzione del linguaggio) risulta ipoattivata.
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tenimento e provando – a tratti – a mettere parole a quel dolore: “hai ragione.., non sarebbe dovuto succedere…, ci sono io adesso...”. Dopo qualche minuto, il pianto si calma. Sara solleva il viso e mi guarda, e le accarezzo il volto con dolcezza. Sara riesce a fidarsi di me e la relazione terapeutica è ormai certa e stabile: ciò ha reso possibile il passaggio alla ‘seconda fase’ del trattamento, dedicata all’elaborazione graduale delle memorie traumatiche9. Nel contesto sicuro della nostra relazione terapeutica, l’esperienza e i gesti mancati vengono portati a compimento. In questo tempo nasce la prima delle diverse poesie di cui Sara mi farà dono, durante il nostro percorso insieme. E se il mio corpo, nudo, di donna nuda, rannicchiato, come un feto indifeso, se tu lo accogliessi, come il mare, nel mare del tuo ventre, blu, se lo cullassi tra le tue braccia forti come rami, vive come foglie verdi… che ne sarebbe dell’anima mia smarrita? Ritroverebbe, forse, la strada danzando una danza vibrante di tutti i colori dell’arcobaleno […]. Ritroverei… forse, chissà… Ricorderei…l’Originaria Grazia del Mio Corpo che danza.
P.: Mi viene in mente una fantasia che mi hai fatto fare una volta… mi hai fatto immaginare di trovare un grosso diamante su una spiaggia e mi hai chiesto cosa avrei fatto. Io ti ho risposto che l’avrei subito ributtato in mare, perché non era mio. Mi sembra di non meritare le cose belle, perché le sento come troppo belle per me. T.: Puoi immaginare un dialogo tra te e il diamante? Cosa ti direbbe? P.: Il diamante? Mah… mi direbbe che è arrabbiato, perché è proprio dentro di me, ma io non lo vedo e non lo uso, lo ignoro completamente. Mi direbbe che sto sprecando la mia vita… ma non posso usarlo se non sento che è mio… io non lo sento mio. E comunque mi manca il coraggio di usarlo, di vivere pienamente.
9 Recentemente, infatti, la International Society for Traumatic Stress Studies ha individuato le seguenti fasi, comuni ai diversi modelli di intervento sul trauma: Fase 1: sicurezza, stabilizzazione e riduzione dei sintomi del trauma; Fase 2: lavoro diretto e profondo sulle memorie traumatiche; Fase 3: integrazione, consolidamento dei risultati e riabilitazione. Cfr. a tal riguardo S. Gargano (2020), Il trauma e il corpo in GT, cit.
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Qualche tempo dopo, mentre mi parla delle sensazioni fisiche non meglio definite, che da qualche tempo sono ritornate, vedo il suo corpo collassare.
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P.: Ho la sensazione che, se tu mi conoscessi per come sono veramente, se tu sapessi e vedessi tutto di me, in realtà io ti farei schifo e mi abbandoneresti. E ancora: P.: Ho sensazioni fisiche forti… mi sento completamente senza forze e sento braccia e gambe pesantissime… sento la gola strozzata. La sua voce diventa quasi un sussurro. T.: Secondo te potrebbe essere un pianto, un urlo o una parola? Sara respira e si prende qualche istante per rispondere. P.: Forse un urlo. T.: Cosa urleresti? «basta», «no»? Gli occhi di Sara si inumidiscono. P.: È vero. La parola è quella. E quindi: P.: Tutta questa rabbia è… per mio zio?... Non ho mai provato rabbia per mio zio, nemmeno in quel momento… forse ho desiderato che qualcuno venisse a salvarmi, ma la rabbia non l’ho sentita… ma è pericoloso, devo calmarmi… è una rabbia così forte che potrei uccidere, potrei distruggere tutto… T.: Potresti provare ad urlare quella parola? Sara urla la parola basta e, dopo averla pronunciata, l’urlo diventa viscerale e profondo, lei cade a terra mentre continua ad urlare. Sembra che quell’urlo racchiuda tutto il terrore e il dolore che era rimasto sepolto dentro di lei da quando aveva 5 anni. Mi chino su di lei, che si aggrappa disperatamente a me, nello stesso modo in cui un naufrago si aggrapperebbe ad un soccorritore per non essere risucchiato dall’abbraccio mortale del mare, mentre l’urlo si trasforma in un pianto disperato. Singhiozza Sara ed io sono lì con lei: il pianto di dolore si trasforma pian piano in pianto di commozione. La guardo con tenerezza. Mi scrive: «Oggi, pensando alla scoperta che abbiamo fatto ieri (l’esistenza di questa parte arrabbiata a morte con lui) una rabbia che non ho mai sentito …, mi sono commossa e sentita meglio. Il fatto che questa parte esiste, vuol dire che c’è una parte di me che lui non ha mai piegato, né sopraffatto, né umiliato. C’è una parte di me che l’ha ucciso, una parte che non ha mai smesso di lottare e non si è mai piegata a subire. In un mondo parallelo, io l’ho ucciso prima che mi toccasse».
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Durante una seduta successiva, Sara mi dirà: P.: Oggi ho sentito il dolore e la rabbia di non essere intera, e il desiderio straziante di vivere pienamente, con tutto il mio corpo. A causa dell’abuso, il suo corpo ha memorizzato il terrore di aprirsi, il disgusto e il dolore: sebbene, a livello cognitivo, la paziente si renda conto che non c’è niente di male nella possibilità di vivere una sana sessualità, a livello viscerale permane un vissuto di disgusto e un senso di colpa associato alle sensazioni sessuali. P.: Vorrei essere asessuata, così mi sentirei pulita davanti a te. T.: Cosa cambierebbe se non avessi una sessualità? P.: Non farei schifo… e forse mio zio non mi avrebbe toccata10. L’esperienza traumatica l’ha confusa a livello della funzione-Es e lo schifo associato all’esperienza è stato trasferito alla parte del suo corpo coinvolta in essa. Il disgusto di Sara associato alle parti intime del proprio corpo ed alla propria sessualità sembra chiaramente da ricollegare, oltre che all’abuso, anche alle reazioni materne di fronte al corpo della figlia11.
A causa dell’abuso, il suo corpo ha memorizzato il terrore di aprirsi, il disgusto e il dolore: sebbene, a livello cognitivo, la paziente si renda conto che non c’è niente di male nella possibilità di vivere una sana sessualità, a livello viscerale permane un vissuto di disgusto e un senso di colpa associato alle sensazioni sessuali
10 Come è noto, infatti, tutti i bambini abusati hanno un profondo vissuto di colpa e vergogna in merito all’esperienza dell’abuso, come se ne fossero responsabili loro stessi: infatti, la loro sana apertura verso il mondo e la loro fisiologica curiosità verso il proprio corpo vengono da loro identificati come le vere cause di ciò che è accaduto. Cfr. V. Conte (2010), Il paziente borderline: un’ostinata e sofferta richiesta di chiarezza, in «GTK Rivista di Psicoterapia» 1, 59-73. Come scrive Salonia, «si configurano come patologie gravi quelle confusioni traumatiche che si producono nelle fasi in cui il bambino si sveglia alla consapevolezza e che si collocano a livello delle sensazioni corporee (funzione-Es del Sé)»: per tale ragione, l’abuso sessuale si configura come una delle esperienze più gravi di confusione traumatica. In particolare, si nota qui quello che Salonia identifica come il «secondo livello di apprendimento confuso» – che si colloca tra il primo (che riguarda il registro senso-motorio e quindi la funzione-Es) ed il terzo (concernente invece la confusione relativa ai nomi dei vissuti che il bambino esperisce, e quindi la funzione-Personalità) – che «riguarda non tanto i processi di formazione dell’esperienza dei vissuti, ma la loro appartenenza», in G. Salonia (2014), La luna è fatta di formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio borderline, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 19-23. 11 Come sappiamo, secondo la GT, lo schema corporeo implicito si sviluppa lentamente, attraverso specifiche e ripetute esperienze (corporeo-relazionali) di contatto tra il bambino e le sue figure genitoriali. Come specificano Bettamin e Giordano, «alcuni fattori che influenzano il nostro schema corporeo sono: il calore dell’accoglienza, la possibilità di sentire la propria forza sperimentando e manipolando l’ambiente, le parole che si possono dire/non dire sul proprio corpo, quelle che si sono ricevute e che si possono ricevere, come siamo stati visti/toccati (troppo o troppo poco), come ci è stato permesso di toccare» (S. Bettamin, K.Giordano (2014), Il corpo in Psicoterapia della Gestalt, in G. Pintus, M.V. Crolle Santi, La Relazione assoluta. Psicoterapia della Gestalt e dipendenze patologiche, Aracne Editrice, 270-311, 284). In effetti, già Schilder aveva asserito: «Nell’elaborare la nostra immagine corporea ci atteniamo alle esperienze acquisite attraverso le azioni e gli atteggiamenti altrui. Possono essere parole o azioni dirette verso il nostro corpo, ma un grande influsso può essere esercitato anche dagli atteggiamenti altrui nei confronti dei loro propri corpi», in P. Schilder (2007) (ed. or. 1935), Immagine di sé e schema corporeo, Franco Angeli, Milano, 342
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Mani di Madre
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Solo infinite melodie potrebbero dire delle Tue Mani… Mani che scorrono sul viso come rivoli di seta, Mani che accarezzano capelli come fossero neonati, Mani che riscaldano, come grembi d’anima, brandelli freddi, Mani che sostengono pesi stanchi [...], Disperato Dono, regalato proprio a me, che non sapevo e non credevo nulla (e come avrei potuto mai…?) […]
Durante la seduta successiva, Sara mi porta il suo desiderio di riappropriarsi di tutto il suo corpo. Subito dopo averlo detto, però, compaiono alcuni sintomi dissociativi di ipoarousal. P.: Mi dà fastidio che il trauma mi debba influenzare così, ancora! E non posso nemmeno ammazzarlo perché è già morto! E ancora: P.: Mi vengono immagini… mi viene quella più brutta… Sara si sforza di articolare le parole, ma non riesce a dire nulla. T.: Prova comunque ad immaginare cosa avresti potuto fare per cambiare le cose. P.: Ci voleva un calcio… avrei dovuto spingerlo con le gambe! Sara scoppia in singhiozzi e si tuffa in braccio a me. Poi si placa. T.: Cosa vedi ora? P.: Le due finestre della stanza. Il cielo azzurro. T.: Cosa vorresti fare che non potevi fare12. P.: Spingere, ecco cosa è rimasto in sospeso… oggi ho sentito il senso di colpa per non averlo spinto con le gambe, per non aver lottato… so che non avrei potuto fare altro, ma forse questo senso di colpa c’è ancora… La sensazione di essere stati traditi dal corpo è tipica dei soggetti traumatizzati, che spesso si sentono in colpa per non aver reagito. In realtà, come ha recentemente dimostrato Porges13, se si attiva il sistema di difesa più arcaico, che coinvolge il nucleo va-
12 Poiché il senso di estrema impotenza che sempre si associa alle esperienze traumatiche, specialmente se avvenute in età evolutiva, intacca profondamente il senso di agency del soggetto, sarà di estrema importanza dare spazio ad interventi volti a sostenere l’emergere dell’‘io posso’ del paziente, giacché quest’ultimo ‘struttura la percezione’ di sé e del mondo, come afferma Salonia: «Percepirò il mondo in modo diverso, a seconda delle potenzialità che sento di avere in esso», in G. Salonia, corso di formazione in Gestalt Family Therapy, Istituto Kairos, Ragusa, 1-3 marzo 2019; cfr. inoltre Id. (2019), Saggio introduttivo, in R. Lisi, Isteria e Gestalt Therapy. Quando tutto è pertinente, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 5-17 ; S. Gargano (2020), Il trauma e il corpo in GT, cit. 13 Cfr. S.W. Porges (2018), La guida alla teoria polivagale,Giovanni Fioriti, Roma.
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gale dorsale, è fisiologicamente impossibile fare alcunché per difendersi, giacché, in quel caso, l’organismo ha valutato che la cosa migliore da fare per proteggersi da una minaccia soverchiante è “spegnersi”, collassando. P.: Se potessi delirare, ti direi che c’è un nemico nel mio corpo, da cui mi sento perseguitata e nei confronti del quale mi sento una vittima eternamente impotente. Perché non posso certo staccarmela questa parte del corpo. Non posso togliermela, perché è parte del mio corpo, una parte importante, visto che in teoria sono una donna, visto che questo è legato alla mia identità […]. Io so che sono biologicamente donna, per certi aspetti mi ci sento anche, ma per altri mi sento ancora bambina […]: donna nel mio lavoro, bambina nella sessualità e nell’intimità. Il suo corpo non le appartiene, diventando per lei un “nemico”, dalle cui sensazioni si sente minacciata, ma al contempo irresistibilmente attratta, come emerge da un suo sogno: P.: Questa notte ho sognato di trovarmi in un posto in cui cadevano le bombe. Stavo continuamente in ansia e pensavo che non si può vivere così. Quando la bomba cadeva, vedevo un fascio di luce grande e potentissimo, dal cielo alla terra, e guardandolo proavo un misto di terrore e meraviglia. Purtroppo, la riappropriazione di sé stessa passa necessariamente per l’attraversamento del dolore e dell’impotenza legati al trauma: come scrive Sara, “sentire la voglia di vivere fa scattare quasi contemporaneamente un senso di assoluta impotenza, come se avessi un cancro in fase terminale e non potessi vivere”. Ogni volta che Sara sente il desiderio di aprirsi alla vita, infatti, una parte di s* stessa, “la Guerriera”, che è ormai diventata una “fisiologia secondaria”14: per proteggerla, la fa chiudere nuovamente, senza che lei senta di avere realmente possibilità di scegliere in modo responsabile e consapevole, e ciò va a rafforzare il senso di estrema impotenza che sempre si associa alle esperienze traumatiche. P.: Non riesco a fare niente. Mi chiedo se tutto questo malessere nasca dall’abuso… è possibile che nasca tutto da lì? Chi sono io allora? Se non ci fosse stato l’abuso chi sarei stata io?
Ogni volta che Sara sente il desiderio di aprirsi alla vita, infatti, una parte di sé stessa, “la Guerriera”, che è ormai diventata una “fisiologia secondaria”: per proteggerla, la fa chiudere nuovamente, senza che lei senta di avere realmente possibilità di scegliere in modo responsabile e consapevole, e ciò va a rafforzare il senso di estrema impotenza che sempre si associa alle esperienze traumatiche
Sara sembra rabbuiarsi in viso. T.: Sembra che ci sia qualcosa che vorresti fare, ma che non fai.
14 In effetti, come spiegano Perls, Hefferline e Goodman in Teoria e pratica della Terapia della Gestalt (1997), il funzionamento del Sé che si genera a partire dalle situazioni traumatiche («esigenze ambientali croniche dolorose» e «corpi estranei persistenti») risulta ridotto e/o alterato, dal momento che gli adattamenti a tali esperienze vanno a costituire, nel tempo, una vera e propria «fisiologia secondaria». Cfr. S. Gargano (2020), Il trauma e il corpo in GT, cit.
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P.: Non lo voglio fare, dopo il divorzio ho giurato a me stessa che non avrei più commesso lo stesso sbaglio e che non mi sarei mai più fidata di un uomo.
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T.: In realtà, sembra un giuramento che hai fatto ancora prima del divorzio… nell’infanzia. P.: Quand’ero piccola ogni tanto ci pensavo e controllavo che il ricordo dell’abuso ci fosse ancora. Sentivo che era importante non dimenticare, per non dover soffrire ancora. E ancora: P.: Già quando ero piccola ho promesso a me stessa che non avrei commesso lo stesso errore di mia madre e di mia nonna. Loro mi dicevano sempre di non sposarmi e di non avere figli per non dover sacrificare tutti i miei sogni e per potermi godere la vita. Anche quando mi sono sposata, in realtà, non ci credevo veramente, sentivo e sapevo che sarebbe finita presto. Questo ‘mattoncino’ sta alla base della mia esistenza, se lo togliamo, crollo.
Il dolore e la rabbia dovranno cedere spazio alla possibilità che il presente ci ripaghi e ci ridia vita, questa volta vissuta e voluta
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A fine seduta, Sara mi manda questo messaggio: «Io non so se un giorno riuscirò davvero a ‘vivere pienamente’, qualunque cosa voglia dire. Quello che so è che mi sento comunque immensamente fortunata [...] di potermi nutrire delle tue cure attente, della tua dolcezza infinita, del tuo calore buono e della tua accoglienza sconfinata… tutto questo, mi sembra un Dono talmente grande da compensare ogni cosa, ogni dolore, ogni difficoltà. Io non so se arriverò mai a destinazione, qualunque essa sia, ma ringrazio la Vita di averti avuto accanto nel mio cammino. E ringrazio te per essere capace, come nessuno lo è stato mai, di farmi sentire accolta come una figlia». L’elaborazione della fine della terapia non sarà facile, non si può dimenticare ciò che è stato tolto. Il dolore e la rabbia dovranno cedere spazio alla possibilità che il presente ci ripaghi e ci ridia vita, questa volta vissuta e voluta. Non aggiungere perdita alle perdite, rischiare con paura e coraggio di vivere e non accettare di sopravvivere: questo è il mio augurio a te, Sara, che accompagnerò ancora verso questo divenire.
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Abstract
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Le esperienze traumatiche interessano gran parte della comunità scientifica, che cerca di definirle nelle sue molteplici forme. Oggi c’è una particolare attenzione su di esse, sia in ambito clinico (come vanno trattate) sia nell’ambito della ricerca (cosa succede ad una persona traumatizzata). Il trauma complesso, che riguarda il caso clinico che presento, è tra le esperienze dette soverchianti, proprio perché vissute in età evolutiva, che compromettono lo sviluppo dell’identità. Anche per la Gestalt Therapy, il corpo è il luogo dell’accadimento primario dell’evento traumatico. Ma per la sua matrice corporea relazionale, non solo è significativo tornare all’esperienza corporea durante il trattamento clinico: è fondamentale attivar nella relazione terapeuta/paziente un prendersi cura profondo e sostitutivo di ciò che non c’è stato. È proprio questa mancanza che aggiunge danno all’esperienza traumatica. È il dispiegarsi della relazione t/p che, nel suo divenire, può risanare pezzi dell’esperienza mancata, fornendo di volta in volta cornice e senso a ciò che ha confuso e invaso.
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Le violon dâ&#x20AC;&#x2122;Ingres - 1924
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Si tratta di un modello, frutto di studi descrittivi di indubbio valore pioneristico, che presenta però anche dei limiti sostanziali a livello clinico, per quanto riguarda sia l’assenza dell’osservazione dei vissuti corporeo/ relazionali sia l’indicazione dello specifico intervento clinico in ciascuna fase
a psico-oncologia è il luogo clinico dove la psicologia e la medicina si incontrano: in essa la corporeità integrata tra il Leib (corpo vissuto) e il Korper (corpo anatomico)1, cioè la duplice qualità del corpo di essere percepito soggettivamente e di essere osservato dall’esterno, si esperisce nella relazione di cura, in una processualità dialettica, sincronica e diacronica, che collega i due poli dell’essere e dell’avere un corpo, foss’anche un corpo malato, e ancor di più in fin di vita. Nell’ambito della psico-oncologia è universalmente conosciuto il modello elaborato da E. Kübler-Ross che individua nei pazienti, dopo lo shock iniziale alla diagnosi di malattia terminale, le seguenti reazioni psicologiche: rifiuto, rabbia, patteggiamento, depressione (reattiva e preparatoria) ed accettazione2. Si tratta di un modello, frutto di studi descrittivi di indubbio valore pioneristico, che presenta però anche dei limiti sostanziali a livello clinico, per quanto riguarda sia l’assenza dell’osservazione dei vissuti corporeo/relazionali sia l’indicazione dello specifico intervento clinico in ciascuna fase. Infatti, in modo generico Kübler-Ross indica «l’amore incondizionato» come modalità di accompagnamento unitaria nel fine vita. Inoltre i progressi della ricerca nell’ambito oncologico e delle neuroscienze evidenziano la necessità di interventi di sostegno psicologico che non riguardano soltanto i pazienti con malattia in fase terminale, ma anche, ai due poli, sia i soggetti in fase prediagnostica (medicina preventiva) che i cosiddetti ‘lungo-sopravviventi’, ovvero pazienti che guariscono e devono sottoporsi periodicamente ai follow up, o a percorsi di riabilitazione, con il permanente vissuto della «spada di Damocle»3. La Gestalt Therapy è in grado di superare i limiti del modello della Kübler-Ross fornendo risposte valide ed efficaci alle mutate richieste nell’ambito della psicologia clinica ed in particolare della psico-oncologia. In questo scritto presenterò, sinteticamente4, l’applicazione in oncologia dei principi epistemologici della GT,
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NUOVE APPLICAIZONI CLINICHE
I vissuti corporeo-relazionali in psico-oncologia: la Gestalt Therapy oltre il limite del modello della Kübler-Ross
1 Queste riflessioni appartengono alla fenomenologia soggettiva di K. Jaspers (1959), alla psicopatologia clinica di K. Scheneider (1965), alla psichiatria antropoanalitica ed alla Daseinanalyse di L. Binswanger (1955), ed infine alla psicopatologia della vita di E. Minkowski (1968). 2 Cfr. E. Kübler-Ross (2005) (ed. or. 1969), La morte e il morire, Cittadella, Assisi. 3 Cfr. P. Argentino (2015), La spada di Damocle: la gestione della cura nel malato oncologico, videolezione FAD SanitàInformazione. 4 Per una trattazione più dettagliata ed approfondita, con casi clinici, si rimanda a P. Argentino (2020), Psico-Oncologia e Psicologia Sanitaria. La prospettiva della Gestalt Therapy, in press.
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analizzando i vissuti corporeo-relazionali nella triade paziente-familiari-curanti, coerentemente con la prospettiva olistica che contraddistingue questa psicoterapia, confermata dalle recenti ricerche di neuroscienze, ed accennerò lo specifico intervento gestaltico nel percorso di consapevolezza di malattia, secondo le funzioni del Sé ed il ciclo dell’esperienza di contatto5. 1. I vissuti corporeo-relazionali nella triade paziente-familiari-curanti 1.1 Il corpo del malato In condizioni abituali il nostro corpo è quasi sempre nello sfondo, appartiene alla nostra percezione sensoriale dei ‘contatti scontati’, assimilati nella traità primaria o archè-traità6, dal concepimento7 ai primi tre anni circa di vita, e si sviluppa – a livello evolutivo – nell’intreccio tra relazionalità e identità8. È un percorso di crescita che deriva dallo sperimentare, tramite la traità intrapersonale9 prima ed interpersonale10 dopo, la propria vitalità corporea, in termini di corpo vissuto (Leib): «Si può dire con Sartre che il mio corpo non è un corpo, cioè uno dei tanti oggetti-corpo. Esso è irriducibilmente ed originariamente mio, perché è tutt’uno con il soggetto che io stesso sono. Il mio corpo è intriso di soggettività, è corpo-soggetto, non è solo schema o qualcosa che io ho: “io sono il mio corpo” (Marcel)»11. Nella malattia la percezione corporea non è più sullo sfondo dei contatti scontati, ma diventa protagonista sul palcoscenico della vita del paziente: il corpo malato si pone
Nella malattia la percezione corporea non è più sullo sfondo dei contatti scontati, ma diventa protagonista sul palcoscenico della vita del paziente: il corpo malato si pone come figura centrale, attore unico, totalizzante il vissuto quotidiano
5 Cfr. F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma; G. Salonia (1989a), Dal Noi all’Io-Tu: contributo per una teoria evolutiva del contatto, in «Quaderni di Gestalt», V, 8/9, 45-54; Id. (1989b), Tempi e modi di contatto, in «Quaderni di Gestalt», V, 8/9, 55-64. 6 Archè-traità: «L’Io arriva a se stesso solo se un Tu lo aiuta a far questo», in G. Salonia (2013b), L’esserci-tra. Aida e confine di contatto in Bin Kimura e Gestalt Therapy, in B. Kimura, Tra. Per una fenomenologia dell’incontro, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 14. 7 Cfr. P. Argentino (2000), Percorso nascita e processi relazionali: il ciclo di contatto intrauterino, in «Quaderni di Gestalt», 30/31, 110-118. 8 «I pensieri di identità e quelli relazionali emergono dal corpo con le sue tensioni e nelle sue interazioni con altri corpi», in G. Salonia (2011a), L’errore di Perls. Intuizioni e fraintendimenti del postfreudismo gestaltico, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 2, 49-69, 61. Per ulteriori approfondimenti cfr. G. Salonia (2001), Disagio psichico e risorse relazionali, in «Quaderni di Gestalt», XVII, 32/33, 13-23. 9 Traità intrapersonale: «L’incontro Io-Tu accade a condizione che sia il Tu che l’Io arrivino al confine di contatto essendo presenti a se stessi», in G. Salonia (2013b), L’esserci-tra, cit.,11. 10 Traità interpersonale: «A seconda delle persone-che-sono-accanto si modificano, in modo più o meno significativo, più o meno consapevole, i vissuti-difondo (i background feelings) dell’Organismo», in ivi., 8. 11 B. Callieri, M. Maldonato, G. Di Petta (1999), Psicopatologia fenomenologica, A. Guida, Napoli, 97; con riferimento a J.P. Sartre (2014) (ed. or. 1943), L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano; cfr. inoltre G. Marcel (1970) (ed. or. 1951), Il mistero dell’essere, Borla, Roma.
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Per comprendere dunque i vissuti di un corpo ferito dalla malattia oncologica è necessario conoscere la metafora che il soggetto attribuisce al cancro, o meglio il senso che egli dà alla sua sofferenza, nel qui ed ora della sua esistenza, il significato profondo che riveste per lui nella sua vita relazionale
come figura centrale, attore unico, totalizzante il vissuto quotidiano. Il paziente è continuamente in ascolto del proprio corpo e la malattia, con relativa terapia medica, scandisce, condiziona e regola i ritmi spazio-temporali della sua vita. Ancor di più se la malattia è oncologica, in quanto l’immaginario collettivo diffuso, sia dalla prospera narrativa editoriale sull’argomento che dal piccolo e dal grande schermo (tanto da dare vita al movimento dei Cancer Movie), ha determinato un costrutto mentale negativo, legato a vissuti angoscianti di sofferenza e di morte. Nonostante i progressi in ambito oncologico, infatti, il vissuto soggettivo del cancro e l’interpretazione sociale di questa malattia restano quelli di un processo insidioso e incontrollabile che invade, trasforma e inesorabilmente porta a morte. Il cancro, come scrive S. Sontag, appartiene alle «malattie come metafora»12 di guerra. Per comprendere dunque i vissuti di un corpo ferito dalla malattia oncologica è necessario conoscere la metafora che il soggetto attribuisce al cancro, o meglio il senso che egli dà alla sua sofferenza, nel qui ed ora della sua esistenza, il significato profondo che riveste per lui nella sua vita relazionale. Salonia, parafrasando Kierkegaard, afferma che se si possiede un ‘perché’, un ‘significato’, si può sopportare il ‘come’13, prova ne sono le testimonianze liriche nei campi di concentramento di E. Hillesum, di D. Bonhoeffer, di V. Frankl14. Proprio conoscere questo significato della vita e della morte è la punta di diamante dello psico-oncologo per operare l’intervento gestaltico, che non è solo comprensione empatica del vissuto di malattia, ma è la capacità del terapeuta di sintonizzarsi sul significato più intimo che il paziente dà alla propria malattia: una lettura ermeneutica gestaltica della sua narrazione. Riporto alcune frasi di pazienti come esempio: «Ho tanto dolore in tutto il corpo, penso che tutti i Santi hanno sofferto, è come un martirio questo tumore, mi aprirà le porte del Paradiso» (significato mistico); «Il malocchio è stato! Tutti mi invidiavano, specialmente la mia vicina di casa» (significato magico); ed ancora «Me lo sono cercato perché non ho smesso di fumare: cancro polmonare, come mio zio» (significato autopunitivo). È importante che lo psico-oncologo, piuttosto che entrare nel merito delle singole credenze, offra un’apertura dialogica che possa aiutare il paziente ad assimilare ed integrare nel vissuto corporeo-relazionale la novità dell’esperienza di malattia, a partire dalle percezioni somato-sensoriali e motorie condivise. Occorre, quindi, accogliere il paziente nella
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12 Cfr. S. Sontag (2002) (ed. or. 1978), La malattia come metafora, Mondadori, Milano. 13 Cfr. G. Salonia (2011b), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani. 14 Cfr. V. Frankl (1967), Uno psicologo nei lager, Ares, Milano; E. Hillesum (2007), Pagine mistiche, Ancora, Milano; D. Bonhoeffer (2015), Resistenza e resa, San Paolo, Milano.
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sua donazione di senso alla malattia e comprenderne le modalità relazionali agite in conseguenza, per poterlo poi sostenere nel percorso clinico. Si tratta di un percorso che si sviluppa tenendo conto di diversi parametri puramente corporei, appartenenti al vissuto del paziente, e dunque alla sua età (diverse sono le reazioni psichiche nei vari stadi della linea evolutiva), al sesso (la risposta emotiva è differente al maschile e al femminile), alla localizzazione d’organo (ad es. tumori a localizzazione negli organi genitali comportano crisi identitarie sessuali e procreative, mentre localizzazioni in organi più interni richiamano angosce ancestrali, dalla paura di morire soffocati per il cancro polmonare alla paura di impazzire per la localizzazione cerebrale), o ancora, alla tipologia strutturale della neoplasia (ad es. i tumori ‘solidi’ sono mentalmente facilmente delimitati e dunque psicologicamente più contenuti a livello ansiogeno, rispetto ai tumori ‘liquidi’, come quelli ematologici, percepiti più pervasivi e dilaganti). Anche la struttura di personalità di base del paziente, il suo ‘stile relazionale’ in termini gestaltici, influenza e condiziona i vissuti corporei nel percorso della malattia oncologica e di ciò bisogna tenere conto nell’intervento psico-oncologico: ad es. nei casi di alopecia iatrogena da chemioterapia antiblastica, il vissuto corporeo si manifesta in un paziente con stile relazionale narcisistico con modalità differenti rispetto ad un paziente con stile relazionale istrionico, in quanto, pur essendo entrambi personalità attente al codice visivo, per il narcisista l’evento corporeo incide sul ‘falso sé’, mentre per l’istrionico incide sulla ricerca di una nuova modalità seduttiva (cappelli, parrucche, foulard, ecc.), per sentirsi visto, accettato. In sintesi, nella prospettiva gestaltica l’orizzonte di cura psico-oncologica è nell’integrazione tra il vissuto corporeo e lo stile relazionale del paziente nel percorso dell’esperienza di malattia.
Occorre, quindi, accogliere il paziente nella sua donazione di senso alla malattia e comprenderne le modalità relazionali agite in conseguenza, per poterlo poi sostenere nel percorso clinico
1.2. Il corpo dei familiari Callieri individua nel corpo vissuto (Leib) una triplice modalità spazio-temporale: «appartenente al mondo, esserci-nel-mondo, apertura verso il mondo»15. Nell’esperienza della malattia tutte e tre queste modalità spazio-temporali della corporeità vissuta sono compromesse: emerge dal dolore e si rende tangibile, con più forza, la consapevolezza che il ‘qui ed ora’ del nostro esser-ci (DaSein) è intimamente legato alla dimensione affettiva co-esistentiva dell’esserci-con, il Mit-Da-Sein del corpo familiare. Noi possediamo il corpo che la nostra famiglia ci ha riconosciuto, o meglio ci ha permesso di sperimentare nell’intercorporeità familiare. Così il corpo vissuto si pone (e si scopre) nell’interrelazione con l’altro (è
Callieri individua nel corpo vissuto (Leib) una triplice modalità spazio-temporale: «appartenente al mondo, esserci-nelmondo, apertura verso il mondo». Nell’esperienza della malattia tutte e tre queste modalità spazio-temporali della corporeità vissuta sono compromesse
15 B. Callieri (1987), Dimensioni antropologiche della psicopatologia della corporeità, in «Neurologia, Psichiatria, Scienze umane», 7, 709-722, 711.
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Ogni famiglia nella situazione di stress dovuta alla malattia amplifica le modalità relazionali preesistenti tra i membri familiari, ed in base alla teoria dell’esperienza di contatto della GT possiamo individuare famiglie con modalità relazionali prevalentemente confluenti, introiettive, proiettive o retroflessive
l’altro a rivelarmi il mio corpo) come intermediarietà intersoggettiva dell’incontro con l’altro (traità interpersonale) e dell’incontro con me stesso (traità intrapersonale). Diviene, inoltre, campo di espressione e campo di relazione: in ogni momento gli occhi, le mani, le dita, il volto, tutto è continua comunicazione di me-corpo col mondo. Questa mondanità propria del corpo definisce la nostra esistenza quale essenza individuale/relazionale, in un costituirsi dialogico, spaziale e temporale: «L’alterità, come un’ombra, accompagna costantemente l’identità: non solo ne eccede i margini, ne oltrepassa i confini, ma dimora nel nocciolo stesso dell’identità. L’alterità è co-essenziale non perché semplicemente inevitabile, ma perché l’identità è fatta anche di alterità»16. Dunque, poiché l’alterità precede l’identità e procede con essa, l’unico orizzonte di ogni possibile altra esperienza è il riconoscimento del proprio corpo nella realtà alter-egoica17, nell’incontro con l’altro da sé, che è «grazia e mistero»18, e dà un senso all’esistenza, alla vita. A maggior ragione nella malattia – nella misura in cui l’identità è originariamente alterità e dunque la corporeità è co-appartentiva all’alterità – si amplifica il vissuto corporeo della sofferenza del paziente nei corpi dei familiari, che risuonano delle stesse ansie, paure, confusione, tristezza, speranza, ecc., tutte emozioni che se trovano lo spazio per esprimersi, nell’ascolto e nell’accoglienza dialogica empatica, evolvono nella solidale prossemica familiare. Ogni famiglia nella situazione di stress dovuta alla malattia amplifica le modalità relazionali preesistenti tra i membri familiari, ed in base alla teoria dell’esperienza di contatto della GT possiamo individuare famiglie con modalità relazionali prevalentemente confluenti, introiettive, proiettive o retroflessive19. Questo quadro teorico di riferimento costituisce una linea guida per lo psico-oncologo gestaltico per orientare le famiglie dei pazienti oncologici verso una sana condivisione al fine di raggiungere l’integrità e la pienezza affettiva20.
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1.3. Il corpo dei curanti Tutti i componenti dell’équipe curante in oncologia e soprattutto lo psico-oncologo necessitano, prima di entrare in relazione con il paziente ed i suoi familiari, di una basilare formazione
16 B. Callieri, M. Maldonato, G. Di Petta (1999), Psicopatologia fenomenologica, cit., 212. Per ulteriori approfondimenti cfr. B. Callieri (2001), Quando vince l’ombra. EUR; Roma. 17 Cfr. E. Husserl (1988) (ed. or. 1907), L’idea della fenomenologia, Il Saggiatore, Milano. 18 Cfr. M. Buber (1993) (ed. or. 1954), Il principio dialogico ed altri scritti, San Paolo, Milano, 64. 19 Cfr. G. Salonia (2017), Danza delle sedie e danza dei pronomi. Terapia Gestaltica Familiare; Il Pozzo di Giacobbe, Trapani. 20 Cfr. Id. (2015b), Eros e logos: la prospettiva gestaltica, in M. Pizzimenti (ed.), Aggressività e sessualità. Il rapporto figura/sfondo fra dolore e piacere, Franco Angeli, Milano, 177-185.
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professionale che permetta loro innanzitutto di ascoltare il proprio corpo, saper contattare le proprie percezioni, sensazioni e paure verso la malattia, di aver già maturato a livello etico e spirituale la propria donazione di senso alla sofferenza e al fine vita, di aver elaborato i lutti affettivi e cicatrizzato le ferite esistenziali personali. Si tratta dunque di persone consapevoli dei propri vissuti corporeorelazionali e aperte alla relazione di aiuto, di persone «belle», come dice Kübler-Ross che pur avendo conosciuto la sconfitta, la sofferenza, lo sforzo, la perdita, hanno trovato la loro via per uscire dal buio, acquisendo una stima, una sensibilità, e una comprensione della vita che le riempie di compassione, gentilezza e un interesse di profondo amore. Si tratta dunque di persone belle che professionalmente si sono formate21. L’esserci, qui ed ora, degli operatori sanitari, pienamente centrati sull’intercorporeità, è condizione basilare per valutare, nel tempo presente, la reazione psicologica alla malattia che il paziente vive nello spazio dove attualmente dimora (nella sua stanza dell’hospice, nel lettino del day hospital, nell’ambulatorio, nel suo domicilio ecc.). Nello specifico, lo psicooncologo occorre che si ‘sintonizzi’ tramite l’ascolto gestaltico22 con la narrazione della malattia fatta dal paziente, un «ascolto interessato» – come spiega Salonia23 –, dall’etimologia del termine «inter-esse», ovvero essere-tra, che è dunque un soggiornare nella traità. Dall’interesse si passa all’‘intessere’ la trama della relazione di cura24, usando il ‘filo delle parole che curano’25. Oltrepassando la ‘congiura del silenzio’, cioè il non detto, le verità parziali ed incomplete, il linguaggio tecnico-scientifico incomprensibile, le omissioni intenzionali, e ancora tutte le altre distorsioni comunicative sanitarie, il compito dello psico-oncologo è profondamente etico ed essenzialmente relazionale: sanare la frattura tra indicibile e l’inudibile26. L’urlo di dolore diventa reclamo della relazione che è bisogno e rifiuto, confronto e scontro, rabbia e disperazione e, a livello terapeutico, ascolto e memoria, riconoscimento, condivisione, integrazione e crescita. È questo il processo di cura gestaltico, un percorso di consapevolezza che ho inteso definire «palin-
Oltrepassando la ‘congiura del silenzio’, cioè il non detto, le verità parziali ed incomplete, il linguaggio tecnico-scientifico incomprensibile, le omissioni intenzionali, e ancora tutte le altre distorsioni comunicative sanitarie, il compito dello psico-oncologo è profondamente etico ed essenzialmente relazionale: sanare la frattura tra indicibile e l’inudibile
21 Cfr. E. Kübler-Ross (2001), Impara a vivere, impara a morire, Armenia, Milano. 22 Cfr. P. Argentino (2016), Empowerment relazionale medico-paziente. Il paradigma della Gestalt Therapy, Idelson-Gnocchi, Napoli. 23 Cfr. G. Salonia (2018), docenza al Master in Counselling Socio-Educativo il 195-2018 dell’Università Cattolica Sacro Cuore presso l’Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy “Nino Trapani” di Siracusa. 24 Cfr. P. Argentino (2015), Traumi relazionali e Trama familiare, Relazione X Convegno, Siracusa 31-5-2015. 25 Cfr. G. Salonia (2011b), Sulla felicità e dintorni. cit., Trapani, 69-73, con riferimento al canto del poeta psicoterapeuta: «solo parole abbiamo/per trovarci/e d’amore il filo/ che resiste», in A. Melucci (2002), Mongolfiere, Archinto, Milano. 26 Cfr. P. Argentino (2006), Il limite del potere curativo e la sacralità del prendersi cura, relazione al convegno Del limite e del sacro, organizzato dall’Associazione Dialogos a Roma il 7 e 8 ottobre 2006.
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genesi terapeutica»27, traslando il termine ‘palingenesi’ dalla teoria biologica di Haeckel28 e dalla teoria geologica di Sederholm29, per indicare, in campo psico-oncologico, il processo che dall’ascolto dell’esperienza di malattia del paziente, ripercorrendo il racconto della sua vita (parimenti allo sviluppo ontogenetico di Haeckel), prima e dopo la diagnosi di cancro (evento vissuto come un sisma corporeo-relazionale), conduce alla re-integrazione delle parti frantumate del Sé (similmente a ciò che accade nei processi successivi all’anatessi di Sederholm), e dunque ad una rigenerazione corporeo-relazionale. Nei momenti più intensi e profondi dell’incontro clinico, è immediatamente evidente, parafrasando la teoria buberiana delle tre sfere30, che tra l’Io e il Tu emerge «la sfera dell’interrelazione»31, del tra, che in GT si declina nel confine-di-contatto in azione32, il luogo dove l’Io ed il Tu s’incontrano, dove si concretizza la relazione di cura ed avviene la crescita del Sé per entrambi: per paziente e psico-oncologo, un arricchimento reciproco!
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1.4. L’intercorporeità nella malattia «Sia che si tratti del corpo altrui, sia che si tratti del mio, non ho altro modo di conoscere il corpo umano che viverlo, cioè assumere sul mio conto il dramma che mi attraversa e confondermi con esso»33. Attraversare il ‘dramma’ della malattia e non ‘confondersi con esso’ è possibile se nel campo psico-oncologico creiamo una rete relazionale di sostegno funzionale alla conoscenza di ciò che accade nel corpo del paziente, nei corpi dei familiari e nei corpi dei curanti stessi. È l’applicazione clinica in psico-oncologia del concetto gestaltico di ‘Traità Intercorporea’ elaborato da Salonia: «La traità è sempre corporea e comunque intercorporea. L’intercorporeità è, infatti, una categoria puntuale a livello teorico ed efficace 27 Id. (ed.) (2005), Tragedie greche e psicopatologia, Medicalink Publiskers, Siracusa, 25. 28 Haeckel con il termine «palingenesi» intende il fenomeno espresso dalla «legge biogenetica fondamentale», secondo la quale lo sviluppo ontogenetico di un individuo ricapitola le tappe della sua filogenesi (teoria della ricapitolazione, ormai superata). 29 Sederholm indica con «palingenesi» l’insieme dei processi successivi all’anatessi, ovvero la rifusione di rocce dello strato profondo della litosfera, per una rigenerazione ed omogeneizzazione nella nuova massa magmatica che ne deriva (migmatismo). 30 «Queste tre sfere sono natura, uomini, ed essenze spirituali. Nella differenza che sussiste tra queste, riconosciuta da Buber come costituita in maniera rilevante dalla ‘soglia della parola’, egli ne afferma tuttavia l’unità», in F. Ferrari (2012), Presenza e relazione nel pensiero di Martin Buber, Dell’Orso, Alessandria, 171. 31 M. Buber (1983), Il problema dell’uomo. Elle Di Ci, Torino, 122. 32 Cfr. P. Cavaleri, G. Lombardo (1992), In principio era l’azione. Riflessione sull’azione in Gestalt Therapy, in «Quaderni di Gestalt», VIII, 15, 25-35. 33 M. Merleau-Ponty (2005) (ed. or. 1945), La fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 231.
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dal punto di vista clinico proprio in una prospettiva squisitamente gestaltica. Ad esempio, in GT si parla di interruzioni di contatto, ma questo concetto diventa fenomenologicamente osservabile e raggiungibile solo se si coglie nel suo essere ‘incarnato’ a livello intercorporeo»34. Attraversare il dolore significa, in termini corporei, ridefinire il proprio modo di esserci nel mondo, di vivere nel mondo con le limitazioni (e, a volte, le mutilazioni) che la malattia comporta, come dice Schopenhauer: «Se ognuno di noi non fosse che un puro soggetto sensoriale, una testa d’angelo alata senza corpo, non potremo mai uscire dai fenomeni, ma poiché siamo corpo non ci limitiamo a guardarci dal di fuori ma ci sentiamo vivere… Il corpo è il passaggio sotterraneo attraverso cui facciamo esperienza del mondo… Grazie al corpo, non c’è più un conoscere il mondo, ma un vivere nel mondo»35. E poiché il nostro vivere nel mondo è un con-vivere, co-abitare, co-esistere, in quanto noi non siamo soli nel mondo, ma siamo corpi che viviamo in relazione, quando arriva l’evento malattia grave, viene minato non solo il corpo del malato, ma anche la sua intercorporeità. Pertanto, in ambito sanitario diviene di fondamentale importanza prendersi cura dei vissuti corporeo-relazionali nella malattia tramite una intercorporeità sana (e sanante), che necessita di tre aspetti: presenza (come empatica partecipazione); chiarezza e trasparenza (nel tipo di intervento clinico che si effettua); attenzione e prudenza (intesa come massimo rispetto dell’altro). Questi sono i principi basilari del Nurturing Touch36, «il tocco che nutre», descritto come «una carezza per l’anima», che utilizza nella relazione di cura tutti i sensi, ed in particolare la sensorialità tattile (il tatto è il primo senso a svilupparsi nella vita intrauterina e l’ultimo a svanire alla soglia della morte) come sollievo al dolore fisico e psichico. Per superare il dolore occorre dunque attraversarlo come dice F. Perls «The only way to get out is to go though» citato da Salonia37, che inoltre spiega che l’etimo del verbo “attraversare” significa “diventare forti”: obiettivo dello psico-oncologo è accompagnare il paziente in questo attraversamento, «offrendo al dolore il grembo di una relazione dentro la quale può esprimersi, trasformarsi e divenire fecondo»38.
Questi sono i principi basilari del Nurturing Touch, «il tocco che nutre», descritto come «una carezza per l’anima», che utilizza nella relazione di cura tutti i sensi, ed in particolare la sensorialità tattile (il tatto è il primo senso a svilupparsi nella vita intrauterina e l’ultimo a svanire alla soglia della morte) come sollievo al dolore fisico e psichico
34 G. Salonia (2011), L’errore di Perls, cit., 60. 35 A. Schopenhauer (1940) (ed. or. 1844), Il mondo come volontà e come rappresentazione, Mondadori, Milano, 137-138. 36 Dispensa didattica di Marinella Bailone Cellai, Nurturing Touch: oltre le parole, una carezza per l’anima. L’approccio all’altro attraverso il con-tatto, per allievi Master in Psico-Oncologia UCSC Roma il 10-10-2015. 37 Cfr. G. Salonia (2015), Lectio Magistralis al Convegno Il dolore tra algos e pathos: Psiconcologia e Gestalt Therapy, Università Cattolica Sacro Cuore – Policlinico A. Gemelli, Roma, 29-1-2015. 38 Id. (2011b), Sulla felicità e dintorni, cit., 80.
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2. L’intervento Psico-Oncologico secondo i principi della Gestalt Therapy
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2.1. Principio Gestalt (intercorporeità estetica) La GT invita a vedere la corporeità dell’altro nella sua bellezza e interezza, nella sua essenza incarnata in una forma armonica, una Gestalt dotata di senso, che è la sintesi tra il Dasein autentico, la bellezza dell’unicità che si sprigiona dall’umana esistenza, e il Mit-Dasein, ovvero l’esperienza di reciprocità, vissuta spazialmente e temporalmente, nella sfera interrelazionale dell’intercorporeità che ho inteso definire ‘estetica’. La percezione visiva, l’occhio clinico, in GT viene educato non solo a vedere una specifica facies, o altri segni visibili di patologia, come insegna la semeiotica classica, ma anche a vedere nell’ottica fenomenologico-esistenziale ogni elemento patico, da cogliere e costituire in forme gestaltiche e strutturali, armoniche e significative, ovvero dotate di senso e di una intrinseca bellezza. A tal proposito emblematico è il paragone della Kübler-Ross delle persone come finestre di vetro a specchio che brillano e luccicano quando il sole è alto, ma quando arriva l’oscurità, la loro vera bellezza si rivela solo se c’è una luce all’interno39. È la trasduzione nella clinica psico-oncologica del concetto della psicologia della Gestalt, secondo cui il tutto è più della somma delle singole parti, e del pensiero fenomenologico di Husserl, per il quale «il vedere fenomenologico è strettamente affine con la visione estetica dell’arte pura»40. In questa visione clinico-estetica, il corpo-presenza-al-mondo di ogni uomo trova la sua configurazione di bellezza, anche il corpo dell’uomo affetto da malattia, il corpo-presenza deformato o mutilato, persino il corpo al limite della morte. Nessuno è esente dalla possibilità di immettersi in questo percorso di trasformazione estetica e di costituzione formale che ha a che vedere con la bellezza. Non bellezza artistica comunemente intesa, ma una bellezza che ha colto quella passione che anima esistenza e mondo, che rende la forma ‘bella’ in quanto forma vissuta. Spesso emergono dalle narrazioni dei pazienti delle Gestalt ‘aperte’, ossia dei bisogni non elaborati o esperienze non assimilate che premono per una risoluzione e che fino a quando non si completano impediscono
39 Cfr. E. Kübler-Ross (2005) (ed. or. 1995), La morte è di vitale importanza, Armenia, Milano. 40 E. Husserl (1994) così scrive nella lettera a Hugo von Hoffmansthal il 12-1-1907: «il vedere fenomenologico è strettamente affine con la visione estetica dell’arte pura: è ovvio, però, che non si tratta di un vedere che abbia per scopo il piacere estetico, ma che ha in vista, piuttosto, la ricerca, la conoscenza, la costituzione dei fondamenti scientifici di una nuova sfera, la sfera filosofica», in G. Scaramuzza (ed.) (1985), Una lettera di Husserl a Hofmannsthal, in «Fenomenologia e scienze dell’uomo», 2, 1985, 205.
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al paziente di rapportarsi alla realtà presente nella sua interezza (effetto Zeigarnik41). Obiettivo dello psico-oncologo gestaltico è riuscire a comprendere le distorsioni percettive della malattia – che si rilevano nel qui ed ora della relazione clinica, tramite il codice visivo, e che rimandano ad un vissuto incompleto, ad una gestalt aperta del paziente –, per far emergere il bisogno inespresso e favorirne la risoluzione, trasformandolo in desiderio42. Si tratta di dare forma alle esperienze vissute e narrate dal paziente, fino a costituirle in eventi intrinsecamente dotati di senso per lo stesso. Questo percorso, reso possibile dalla percezione visiva nell’intercorporeità estetica, emerge dai cambiamenti evidenti a livello corporeo, ad esempio nell’espressione del viso, nella frequenza del battito cardiaco e nel ritmo respiratorio. Lo dimostrano le neuroscienze ed in particolare la teoria polivagale di Porges43, che evidenzia come nell’interazione vis à vis si attivi il sistema nervoso vegetativo simpatico e parasimpatico (nella triplice connessione occhi-cuore-polmoni), e gli esperimenti di Still Face di Tronick44 e dell’Infant research di Stern45.
Obiettivo dello psico-oncologo gestaltico è riuscire a comprendere le distorsioni percettive della malattia – che si rilevano nel qui ed ora della relazione clinica, tramite il codice visivo, e che rimandano ad un vissuto incompleto, ad una gestalt aperta del paziente –, per far emergere il bisogno inespresso e favorirne la risoluzione, trasformandolo in desiderio. Si tratta di dare forma alle esperienze vissute e narrate dal paziente, fino a costituirle in eventi intrinsecamente dotati di senso per lo stesso
2.2. Principio Esperienza/Azione (Intercorporeità funzionale) Un aspetto innovativo della GT rispetto alla psicoanalisi, di cui è erede ‘eretica’, è l’aver valorizzato l’azione nel contesto terapeutico, tramite il cosiddetto «esperimento gestaltico»46, quale metafora agita dal paziente per riconnettere la consapevolezza del blocco psichico con la responsabilità di agire in modo creativo per il cambiamento. Specifica Salonia: «Un lavoro gestaltico sulla consapevolezza prevede, al termine, l’esperimento: un’azione che esprime, spesso in metafora, la ripristinata connessione tra consapevolezza e azione (esperienza sinaptica)»47. Questo concetto di «esperienza sinaptica»48 indica la stretta connessione tra il sistema sensorio ed
41 Dal nome della psicologa Bljuma Zeigarnik, tale effetto è la tendenza a ricordare i compiti o le azioni incompiute o interrotte con maggior facilità di quelle completate. 42 Cfr. G. Salonia (2013), Desiderio e bisogno, in «Parola spirito e vita – Il desiderio», 67, 243-255. 43 Cfr. S. Porges (2016) (ed. or. 2011), La Teoria Polivagale: fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione, Giovanni Fioriti, Roma. 44 Cfr. E. Tronick (2008), Regolazione emotiva, Raffaello Cortina, Milano. 45 Cfr. D. N. Stern (1987) (ed. or. 1985), Il Mondo Interpersonale del Bambino, Bollati Boringhieri, Torino. 46 Scrivono i fondatori della GT: «Noi accentuiamo l’autoconsapevolezza del paziente in un esperimento che egli stesso svolge, e ci aspettiamo che egli crei un genere di complesso più vantaggioso», in F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 269. 47 G. Salonia (1986), La Consapevolezza nella teoria e nella pratica della Psicoterapia della Gestalt, in «Quaderni di Gestalt», II, 3, 1986, 138. 48 E. Polster, M. Polster (1986) (ed. or. 1973), Terapia della Gestalt integrata, Giuffrè, Milano, 207.
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il sistema motorio, in tempi nettamente anticipatori delle ricerche di LeDoux49 sul Sé sinaptico e di Ogden e Fisher50 sulla psicoterapia sensomotoria, e trova una sua collocazione privilegiata nel vissuto corporeo-relazionale in psico-oncologia gestaltica. Introdurre l’azione in psicoterapia51 è stato senza dubbio una intuizione geniale gestaltica antesignana degli studi di filosofia fenomenologico-esistenziale e delle recenti scoperte di neuroscienze. Dirà Ricoeur: «Nell’azione io provo il mio corpo come ciò che non solo sfugge alle mie intenzioni, ma anche che mi precede nell’azione»52. Il neurofisiologo Keller53 afferma che il cambiamento di maggiore portata teorico-pratica dell’ultimo ventennio è stato il passaggio da una concezione della percezione come formazione di una semplice rappresentazione interna del mondo esterno ad una concezione più funzionale, secondo la quale un oggetto viene sempre percepito nella sua interezza, incluse le possibilità di azione che esso offre: è l’unificazione dei fenomeni percettivi e motori in una teoria unitaria. Come esempio concreto, Keller e Bersani54 indicano il concetto gibsoniano di affordance55, un concetto relazionale secondo il quale la percezione di un oggetto dipende da tutte le azioni che appaiono fisicamente possibili con esso, relative dunque al codice funzionale del corpo. Si tratta di quel corpo funzionale che – come afferma Salonia56 – si identifica nell’Homo Ludens e nell’Homo Faber. Purtroppo nella malattia oncologica si sperimenta la perdita della funzionalità complessiva del corpo ed in particolare dell’organo colpito: è un vissuto traumatico, in cui la possibilità di azione nel mondo è limitata e si riducono sempre più i movimenti fino a giungere alla passività tipica del sick role, dove il ruolo sociale del malato diventa complementare al ruolo dei medici, come afferma Parson57, fondatore della Medical Sociology.
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49 Cfr. J. LeDoux (2002), Il Sé sinaptico, Raffaello Cortina, Milano. 50 Cfr. P. Ogden, J. Fisher (2016), Psicoterapia Sensomotoria: Interventi per il trauma e l’attaccamento, Raffaello Cortina, Milano. 51 Cfr. P. Cavaleri e G. Lombardo (1992), In principio era l’azione, cit. 52 P. Ricoeur (1986) (ed. or. 1977), La semantica dell’azione, Jaka Book, Milano, 170. 53 Cfr. F. Keller (2014), I Act, Therefore I Think, Laboratory of Developmental Neuroscience, Università Campus Bio-Medico, Roma Perception-MovementAction Research Centre, University of Edinburgh, presentato dall’autore nella Giornata di studio ISSRA, Roma 25 ottobre 2014. 54 Cfr. F. Keller, F. S. Bersani (2015), Corporeità e conoscenza: la mente nasce del cervello o piuttosto dal corpo nella sua interezza e dalle sue dinamiche? Relazione al IX Convegno Internazionale Athena ed Oreste tra mente, corpo e relazione, Siracusa 6 giugno 2014. 55 Cfr. J. J. Gibson (1979), The Ecological Approach to Visual Perception. Lawrence Erlbaum Ass., New Jersey. 56 G. Salonia (2008), La Gestalt Therapy e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano, 51-71, 56. 57 Cfr. T. Parsons (1965) (ed. or. 1951), Il sistema sociale, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea.
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Il paziente sperimenta «l’impotenza funzionale» del proprio corpo rispetto alla malattia, vissuto che nella traità intercorporea si verifica anche nei familiari e nei curanti, in un percorso definito nella lingua anglosassone dai tre termini: disease, illness, sickness58. Inoltre, l’intuizione innovativa di introdurre l’esperimento nel setting terapeutico ha un correlato neuroscientifico nelle ricerche recenti di Porges sul potere trasformativo della sensazione di sicurezza59. La teoria gestaltica dell’«Io posso» di Salonia60 consente di strutturare un intervento clinico psico-oncologico in sintonia con le più moderne scoperte delle neuroscienze. Consiste nel dare un potere decisionale, seppur modesto, al paziente e ai familiari nella gestione del loro spazio-tempo della cura. Ad esempio, indicare ai pazienti dei margini possibili di organizzazione del tempo relativamente alle indagini strumentali e alle terapie farmacologiche, in modo che possano decidere tenendo conto delle loro necessità, bisogni e desideri. 2.3. Principio Figura-Sfondo (intercorporeità cenestesica) Nella clinica psico-oncologica trova rilevanza applicativa il rapporto figura-sfondo, assunto dagli studi sulla percezione visiva della psicologia della Gestalt ed integrato in GT nel modello di funzionalità dell’Organismo Animale Umano, non solo come pertinente alla realtà spaziale in termini di ordine visivo, ma anche in qualità di processo temporale che regola il movimento dalla figura allo sfondo e viceversa. È l’armonico succedersi in modo fluido e spontaneo dell’alternanza figura/sfondo che consente di raggiungere quell’«armonia nascosta» di cui parla Gadamer61, che è assimilabile ad un equilibrio di benessere globale della persona. Riguarda il codice cenestesico, ovvero il canale sensoriale relativo alle percezioni fisiche sia esterne (tattili) sia interne (sensazioni, ricordi, emozioni) che ci danno la possibilità di sentire le varie parti del nostro corpo ed il corpo nel suo insieme (esperienza propriocettiva dello stare e cinestetica del movimento). La percezione propriocettiva cosciente è una costruzione elaborata
L’intuizione innovativa di introdurre l’esperimento nel setting terapeutico ha un correlato neuroscientifico nelle ricerche recenti di Porges sul «potere trasformativo della sensazione di sicurezza». La teoria gestaltica dell’«Io posso» di Salonia consente di strutturare un intervento clinico psico-oncologico in sintonia con le più moderne scoperte delle neuroscienze. Consiste nel dare un potere decisionale, seppur modesto, al paziente e ai familiari nella gestione del loro spazio-tempo della cura
58 La logica di suddividere il concetto di malattia in più dimensioni appartiene all’approccio fenomenologico ed ermeneutico della Narrative Based Medicine (NBM): il termine disease indica la patologia organica e rappresenta il punto di vista oggettivo del curante secondo la classificazione biomedica; con illness s’intende il vissuto soggettivo della malattia proprio del paziente; infine sickness riguarda la percezione sociale di quella specifica condizione clinica. 59 Cfr. S. Porges (2018), La guida alla Teoria Polivagale. Il potere trasformativo della sensazione di sicurezza, Giovanni Fioriti, Roma. 60 Cfr. G. Salonia (2019), docenza al Master in Psico-Oncologia il 7-12-2019 dell’Università Cattolica S.C. presso l’Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy “Nino Trapani” di Siracusa; Id. (2014b), Yes, we can. Il fascino del potere di creare e distruggere una relazione., in «Messaggero Cappuccino», agostosettembre, 5, 12-15. 61 Cfr. H.G. Gadamer (1994), Dove si nasconde la salute?, Raffaello Cortina, Milano.
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Questa percezione corporea cenestesica del paziente dipende inevitabilmente dalla relazione intercorporea cenestesica con i familiari ed i curanti: si pensi a quanto sia importante la modalità di accudimento corporeo, specialmente laddove i malati perdono di autonomia negli atti di vita vegetativa
dalla corteccia cerebrale sulla base delle informazioni provenienti dai recettori periferici, unitamente alle informazioni provenienti dalla memoria (sensazioni passate) e dall’esperienza (attribuzione di valori personali). La sintesi di questi tre tipi di informazioni dà luogo a ciò che comunemente viene definito ‘immagine corporea’, la consapevolezza cioè dell’esistenza, della posizione e del movimento del nostro corpo, o meglio, della capacità di ‘abitare’ questo corpo, seppur gravato da sofferenza e piagato dalla malattia. Questa percezione corporea cenestesica del paziente dipende inevitabilmente dalla relazione intercorporea cenestesica con i familiari ed i curanti: si pensi a quanto sia importante la modalità di accudimento corporeo, specialmente laddove i malati perdono di autonomia negli atti di vita vegetativa. Ad esempio: modalità manipolative nell’intercorporeità carezzevoli e delicate, piuttosto che brusche e violente; sguardi sorridenti e incoraggianti, piuttosto che compassionevoli o di ribrezzo; voci gentili e allegre, piuttosto che sommesse o urlate; e così via per tutti i canali sensoriali intercorporei, queste modalità sono determinanti per la costituzione ed il succedersi di episodi di formazione/distruzione/ristrutturazione di figure più o meno significative per il paziente nel vissuto della malattia. Mutuando la teoria di triune brain di MacLean62, compito dello psico-oncologo gestaltico è far emergere, durante il colloquio clinico, lo sfondo affettivo del paziente dal paleopallium, mostrando interesse a conoscere ad esempio le sue passioni, i suoi hobby, i suoi desideri preesistenti alla malattia ed integrandoli con le sensazioni corporee provenienti dall’archipallium, relative all’ansia di sopravvivenza, e con le elaborazioni mentali del neopallium, che cerca, razionalizzando, di dare un senso al vissuto presente. In tal modo il paziente può integrare i vissuti corporei (il ‘cosa sento’) con i vissuti biografici (il ‘chi sono’), nel qui ed ora dell’esperienza di malattia e proiettarsi verso il next, nella piena consapevolezza delle sue scelte di vita. Quando questo percorso di consapevolezza si realizza i pazienti acquisiscono una serenità ed una forza d’animo che si irradiano intorno a loro e raggiungono tutti, familiari e curanti, tramite l’intercorporeità cenestesica. In GT ciò viene descritto come momento finale del ciclo dell’esperienza di contatto, ove i pazienti raggiungono il contatto pieno e creano una nuova figura integrata della loro esistenza. Ma io oserei dire che più che una nuova figura è la loro esperienza corporeo-relazionale che li ‘trasfigura’: questi pazienti, nell’integrazione figura/sfondo del loro vissuto di malattia accolto ed elaborato nella relazione di cura psico-oncologica, raggiungono
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62 Cfr. P. MacLean (1984), Evoluzione del cervello e comportamento umano, Einaudi, Torino.
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quell’armonia nascosta che si esprime in un mutamento di figura, di aspetto o di espressione, splendente della bellezza della trasfigurazione. 2.4. Principio Autoregolazione della relazione (intercorporeità liminare) I fondatori della GT, a partire dalle ricerche di Goldstein63 sull’autoregolazione organismica, sviluppano una teoria che scardina la visione topica di Freud64 della struttura psichica governata dal Super-Io, introducendo in psicoterapia il principio dell’autoregolazione delle relazioni65. Questo rivoluzionario principio epistemologico ha trovato ampie conferme nelle successive ricerche di neuroscienze, in particolare quelle di Edelman66 sulla materia della mente, di Siegel67 sulla mente relazionale e di Damasio68 sul Sé autobiografico. Ciò che accade a livello fisiologico e psicologico nell’autoregolazione delle relazioni umane ho inteso denominarlo «intercorporeità liminare» (dal latino limen-liminis), quale fenomeno che si colloca al ‘confine di contatto’, ovvero «l’insieme dei contatti alla linea di demarcazione nel campo organismo/ambiente»69, microscopicamente analizzato in GT nella successione modale spaziotemporale70. Si tratta di una autoregolazione della relazione che è bidirezionale, influenzabile e modificabile reciprocamente, basilare nella clinica, come descritto da Salonia71, e dimostrato dalle ricerche di neuroscienze delle relazioni umane, da Kandel72 a Cozolino73.
63 Cfr. K. Goldstein (1940), Human nature in the light of psychopathology, Harvard University, Cambridge. 64 Freud descrive la mente umana in due modi, detti topiche: la prima distingue inconscio, preconscio e coscienza, mentre la seconda distingue tra Es, Io e Super-io. Cfr. S. Freud (1975) (ed. or. 1920), Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino; Id. (1976-1980) (ed. or. 1923), Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 12 vol. 65 Cfr. G. Salonia, M. Spagnuolo Lobb, A. Sichera (1997), Postfazione, in F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit. 66 Cfr. G. M. Edelman (1993) (ed. or. 1992), Sulla materia della mente, Adelphi, Milano. 67 Cfr. D. J. Siegel (2013) (ed. or. 2001), La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Raffaello Cortina, Milano. 68 Cfr. A. Damasio (2012) (ed. or. 2010), Il Sé viene alla mente, Adelphi, Milano. 69 Cfr. F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 415. 70 Cfr. G. Salonia (1989a), Dal Noi all’Io-Tu, cit.; Id. (1989b), Tempi e modi di contatto, cit. 71 Cfr. Id. (2001), Disagio psichico e risorse relazionali, in «Quaderni di Gestalt», XVII, 32/33, 13-23. 72 Cfr. E. Kandel (1998), A new intellectual framework for psychiatry, in «American Journal of Psychiatry», Apr., 155, 4, 457-469; E. Kandel et alii (2003) (ed. or. 2000), Principi di neuroscienze, Ambrosiana, Milano. 73 Cfr. L. Cozolino (2008) (ed. or. 2006), Il cervello sociale, Raffaello Cortina, Milano.
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In campo psico-oncologico si evidenzia a livello biologico come le cellule perdano la capacità di autoregolazione proprio a livello liminare, divenendo così tumorali, ovvero con le caratteristiche descrittive di cellule invasive, narcisistiche e perenni. Illuminanti a tal proposito sono gli studi sul cancro come patologia della comunicazione cellulare74, che evidenziano le distorsioni dell’informazione che esso provoca nella rete biologica dell’organismo, le ricerche sull’apoptosi75, gli studi sull’epigenetica76 e di biologia molecolare (sugli oncogeni, i protooncogeni e gli oncosoppressori), gli studi sugli effetti dello stress nel cancro e la PNEI77, ed ancora le ricerche attualmente in corso sui meccanismi di comunicazione intercellulare a distanza, dagli organoidi agli esosomi, e le scoperte sulle strategie di ‘motilità collettiva’ nella migrazione metastatica. In queste ultime ricerche le cellule tumorali presentano delle dinamiche comportamentali e relazionali di fatto identiche a quelle tipiche di tutte le entità migratorie, come gli stormi di uccelli, che tendono a muoversi in gruppo per confondere l’aggressore: vi sono delle cellule leader che guidano il movimento, soggette a una diminuzione progressiva dell’efficienza e a una riduzione della motilità dovute alle forze di frizione che incontrano durante la migrazione, al pari di una cellula singola. Ma a differenza di una cellula solitaria, che a causa dei danni cellulari provocati dalle suddette forze può andare incontro ad apoptosi, i cluster cellulari mettono in atto un processo di turn over continuo, così espongono all’esterno sempre cellule nuove che non sono state ancora indebolite. I ricercatori78 hanno dimostrato ciò stimolando il gradiente chemiotattico ed individuando delle glicoproteine, denominate “integrine”, che regolano le comunicazioni tra cellula e cellula: quindi tra di loro le cellule tumorali comunicano e si organizzano intelligentemente per diffondersi!
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74 Cfr. P. M. Biava (2002), L’incomunicabilità psicotica: il cancro come patologia della significazione, in Id. (ed.), Complessità e biologia. Il cancro come patologia della comunicazione, Mondadori, Milano, 77-100. 75 L’apoptosi è un fenomeno, scoperto nel 1972, riguardante il processo di morte della cellula, programmato e controllato da particolari geni all’interno del suo ciclo vitale (che rimuovono cellule danneggiate o presenti in eccesso). A differenza della necrosi, la morte traumatica per le cellule con edema ed infiammazione, l’apoptosi, è un processo naturale, dal greco apoptosis che indica la caduta dei petali dei fiori o quella delle foglie dagli alberi, per cui le cellule che muoiono si condensano e staccano dalle strutture di supporto tessutali sulle quali stanno crescendo. I tumori possono essere considerati come conseguenza del fallimento dell’apoptosi: la cellula neoplastica acquisisce un potenziale replicativo illimitato, invade e colonizza altri tessuti, diviene autosufficiente per quanto riguarda i segnali di crescita e insensibile ai meccanismi di controllo cellulare. 76 Cfr. V. Tschuschke (2008) (ed. or. 2006), Psiconcologia. Aspetti psicologici dell’insorgenza e della capacità di adattamento al cancro, CIC, Roma. 77 Cfr. F. Bottaccioli, A. G. Bottaccioli (2017), Psiconeuroendocrinoimmunologia e Scienza della Cura Integrata il Manuale, Edra, Milano. 78 Cfr. G. Malet-Engra et alii (2015), Collective Cell Motility Promotes Chemotactic Prowess and Resistance to Chemorepulsion, in «Current Biology», 25, January 19, 242-250.
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Il cancro rappresenta una patologia in cui si manifesta una sorta di incomunicabilità psicotica tra le cellule del corpo, con comportamenti talmente anomali da essere definiti ‘pazzia biologica’: queste cellule presentano l’incapacità di comunicare con quelle accanto e quindi di autoregolare la propria crescita rispettando, al confine di contatto, le altre cellule dell’organismo e inoltre costruiscono un ‘linguaggio’ proprio a distanza: un agito biologico metaforico di ciò che accade a livello interpersonale ed intercorporeo nella triade paziente-familiari-curanti. L’intervento clinico psico-oncologico può aiutare a ripristinare l’autoregolazione della relazione lavorando sullo sfondo emozionale e sulla espressività del vissuto di malattia, infrangendo il muro dell’alessitimia (frequente in questi pazienti) e la congiura del silenzio. 3. La Gestalt Therapy oltre il limite del modello della Kübler-Ross 3.1. Dai vissuti corporeo-relazionali all’adattamento creativo Nella mia esperienza trentennale di formazione nei Master universitari in Psico-Oncologia ho riscontrato che gli allievi immediatamente associano e collegano le cinque fasi del modello della Kübler-Ross (rifiuto, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione) con le cinque modalità dell’esperienza di contatto in GT (confluenza, introiezione, proiezione, retroflessione e assimilazione) e si sforzano di trovare ‘corrispondenze’ con la Teoria del Sé gestaltica. In realtà l’esperienza di malattia, essendo un episodio di contatto della vita, è chiaramente inclusa nel paradigma teorico del ciclo dell’esperienza di contatto, ma non è per niente una correlazione biunivoca, bi-direzionale! Ovvero, il modello della Kübler-Ross non può contenere al suo interno la ricchezza dell’epistemologia gestaltica, non possiede i presupposti teorici della GT che consentono di vedere, come una super-lente di ingrandimento, il qui ed ora della relazione di cura, cioè il confine di contatto in funzione. Infatti il modello della Kübler-Ross non è in grado di analizzare i processi intercorporei nella loro globalità relazionale, in quanto ha un punto di osservazione unicamente intrapsichico, limitato alle reazioni del paziente alla malattia terminale ed alla morte, ed esclude dal campo percettivo i corpi dei familiari e dei curanti (ignorando le ricadute epistemologiche del principio di indeterminazione di Heisenberg, degli studi della cibernetica, della teoria del campo di Lewin, delle ricerche di psicologia della Gestalt sulla percezione visiva di Wertheimer, Koffka, Kohler, ecc.). E, ancora, le reazioni emotive indicate nelle fasi dalla Kübler-Ross sono disconnesse dal significato profondo sotteso alla storia del paziente e lette unicamente in relazione alla malattia, che si col-
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Il cancro rappresenta una patologia in cui si manifesta una sorta di incomunicabilità psicotica tra le cellule del corpo, con comportamenti talmente anomali da essere definiti ‘pazzia biologica’: queste cellule presentano l’incapacità di comunicare con quelle accanto e quindi di autoregolare la propria crescita rispettando, al confine di contatto, le altre cellule dell’organismo e inoltre costruiscono un ‘linguaggio’ proprio a distanza: un agito biologico metaforico di ciò che accade a livello interpersonale ed intercorporeo nella triade pazientefamiliari-curanti
Il modello della Kübler-Ross non può contenere al suo interno la ricchezza dell’epistemologia gestaltica, non possiede i presupposti teorici della GT che consentono di vedere, come una super-lente di ingrandimento, il qui ed ora della relazione di cura, cioè il confine di contatto in funzione
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loca – reificata – al centro del modello a cinque fasi. Pertanto, ogni emozione – e questo è a mio avviso il limite più grande del modello della Kübler-Ross – non ha alcun valore in sé né alcun significato per il terapeuta rispetto al vissuto del paziente, se non nella posizione di ‘momento di passaggio’ per giungere all’accettazione finale. Invece, nella prospettiva psico-oncologica gestaltica, ciascuna fase porta un valore inestimabile proprio in ogni emozione espressa al confine di contatto con il terapeuta, perché in essa c’è tutto il vissuto del paziente:
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1. le sue percezioni corporee, dal dolore all’angoscia, dai bisogni fisiologici ai sogni attesi, dalle preoccupazioni alle gestalt aperte ecc. (funzione-Es del Sé); 2. la sua biografia, che è molto più dell’anamnesi personale e familiare, perché dalla personale storia di vita emerge il significato profondo che egli attribuisce alla malattia, l’assimilazione delle esperienze relazionali vissute (funzionePersonalità del Sé); 3. la decisione di esprimere questa emozione (nelle varie modalità di comunicazione umana: non-verbale, verbale, paraverbale), e la scelta di condividere ciò che vive allo psicooncologo (funzione-Io del Sé).
Di conseguenza, tutte le emozioni proprie di ciascuna fase del modello della Kübler-Ross vengono riconosciute dalla GT nel loro valore intrinseco e relazionale come un modo sano e funzionale dell’organismo di reagire psicologicamente in quel preciso momento dell’esperienza di malattia, ovvero come capacità di «Adattamento Creativo» del paziente ad una situazione di minaccia per la sua esistenza
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È un appello79 ad una relazione terapeutica fatta di ascolto e comprensione empatica, ma anche di sostegno al momento presente verso il next. Di conseguenza, tutte le emozioni proprie di ciascuna fase del modello della Kübler-Ross, descritte nella letteratura scientifica come reazioni emotive inadeguate – una sorta di meccanismi di difesa dell’organismo, modalità incongrue da contenere e direzionare, come resistenze al momento di accettazione finale della propria morte –, vengono riconosciute dalla GT nel loro valore intrinseco e relazionale come un modo sano e funzionale dell’organismo di reagire psicologicamente in quel preciso momento dell’esperienza di malattia, ovvero come capacità di «Adattamento Creativo»80 del paziente ad una situazione di minaccia per la sua esistenza. Si tratta di una situazione oltremodo difficile e complessa, perché la minaccia esistenziale non viene dall’esterno, dal mondo lì fuori, ma dall’interno, dal suo stesso corpo!
79 Cfr. A. Sichera (2013), Ermeneutica e Gestalt Therapy. Breve introduzione ai fondamenti di una diagnosi Gestaltica, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 11-15. 80 Cfr. F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit. 415-442. Per un approfondimento sull’adattamento creativo in psico-oncologia, cfr. P. Argentino (2020), Psico-oncologia e Psicologia sanitaria, cit.
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3.2. Dalla «concentrazione» all’«integrità e pienezza» L’orizzonte ermeneutico della GT è nell’intenzionalità relazionale81, che si dispiega nell’esperienza del ciclo di contatto: un modello di cura che a partire dalla «concentrazione corporea»82 nelle coordinate spazio-temporali del qui ed ora («mindfulness gestaltica»83) ha la sua epifania nel percorso di consapevolezza di malattia. Si tratta di un modello di cura innovativo ed efficace e di un prezioso strumento clinico per il sostegno specifico in ambito psico-oncologico che attenziona tre dimensioni tra di loro strettamente correlate: fasi, tempi e modi di contatto84. Di contro, il modello della Kübler-Ross è assolutamente sprovvisto di strumenti clinici e relega il terapeuta non al ruolo di psico-oncologo ma di tanatologo con una sorta di coinvolgimento empatico: costui accompagna nel fine vita il paziente, ascolta il suo dolore, con ‘amore incondizionato’, affinché possa giungere all’accettazione della sua stessa morte. Nella prospettiva psico-oncologica gestaltica – a differenza del modello della Kübler-Ross – l’ultima fase non consiste nell’accettazione della propria morte, ma nel raggiungere l’integrità e la pienezza di vita85.
Nella prospettiva psico-oncologica gestaltica – a differenza del modello della KüblerRoss – l’ultima fase non consiste nell’accettazione della propria morte, ma nel raggiungere l’integrità e la pienezza di vita
81 Cfr. G. Salonia (1992), Tempo e relazione. L’intenzionalità relazionale come orizzonte ermeneutico della Gestalt Terapia, in «Quaderni di Gestalt», VIII, 14, 7-23. 82 La GT sostituisce con la concentrazione le libere associazioni di Freud. Cfr. F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit. 83 Per un approfondimento sulla mindfulness gestaltica in psico-oncologia cfr. P. Argentino (2020), Psico-Oncologia e Psicologia Sanitaria, cit. 84 Cfr. P. Argentino (2020), Psico-Oncologia e Psicologia Sanitaria, cit.; M. Partinico, E. Conte, M. Mione (2003-2005), L’esperienza del morire come ultimo importante atto del vivere umano, in «Quaderni di Gestalt», 36/41, 9-37. 85 Sui concetti di integrità e pienezza in GT cfr. G. Salonia (2014), Psicoterapia della Gestalt e teorie evolutive, in G. Francesetti, M. Gecele, J. Roubal, La psicoterapia della Gestalt nella pratica clinica, Franco Angeli, Milano, 259-275.
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Analizzando i vissuti corporeo-relazionali nella triade paziente-familiari-curanti, l’autrice presenta la prospettiva gestaltica in psico-oncologia. In modo originale correla alcuni principi epistemologici della GT all’intervento clinico di psicologia sanitaria, individuando quattro aree: l’intercorporeità estetica, funzionale, cenestesica e liminare. Evidenzia, infine, come la GT, fornendo strumenti clinici di sostegno specifico nel percorso di consapevolezza di malattia, supera i limiti del modello della Kübler-Ross, affinché l’ultima fase della malattia non consista nell’accettazione della propria morte, ma nel raggiungere l’integrità e la pienezza di vita.
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Pubblicazioni
Teoria evolutiva e terapia familiare
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Editoriale
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In questo numero
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Edipo dopo Freud. Dalla legge del padre alla legge della relazione Giovanni Salonia
Oedipus after Freud. From the law of the father to the law of relationship Giovanni Salonia
The moon is made of cheese Gestalt translation of borderline language (GTBL) Giovanni Salonia
Postmodernism and the family: basic relational models
Il trivio della condizione umana: tra verità e relazione, tra diade e triade E se invece gli dei non esistessero? Il triangolo primario: nell’Atene di Sofocle, nella Vienna di Freud, nella postmodernità Dal disagio del figlio al disagio del triangolo primario Dal trivio una nuova ermeneutica per la co-genitorialià Bibliografia
From Freudian fracture to Gestaltic continuity: the epistemological gap of Gestalt Therapy Antonio Sichera
The relational borderline pattern Gestalt translation of the diagnostic criteria of the dsm-5 (‘Alternative’ model) Gabriella Gionfriddo
Dalla frattura freudiana alla continuità gestaltica: lo scarto epistemologico di Gestalt Therapy Antonio Sichera L’inconscio e il suo oltrepassamento in una prospettiva storico-culturale La prima mossa: l’ermeneutica relazionale dell’inconscio La seconda mossa: lo scioglimento estetico Conclusioni rapide Edipo Re Sofocle traduzione di Guido Paduano
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Letter to a young Gestalt therapist. Gestalt therapy approach to family therapy Giovanni Salonia The refund grandson Co-therapy carried out by V. Conte and G. Salonia Giusy’s failed degree Therapy conducted by G. Salonia
«…As if i was born ‘uneven’…» The Gestalt translation of the borderline language model (Gtbl) clinical attestations Andreana Amato «If i am afraid to die, could i die?» Gestalt Therapy with a patient with borderline language Valeria Conte
Developing models of family therapy between historical continuity and present perspectives Occurances and models of gestalt and family therapy Towards a new model of family gestalt therapy, dance of the chairs and dance of the pronouns Therapeutic work with families Sessions of family gestalt therapy
London - 2004
The Cape Cod Approach to Working with Couples
Il Modello Cape Cod è un semplice quadro di riferimento per comprendere il comportamento umano, e più specificamente come le persone interagiscono. È anche un approccio per vivere nel mondo. Infine, è un modello per condurre una psicoterapia con coppie, famiglie e gruppi, o per intervenire nelle organizzazioni come consulente
L’approccio ha le sue radici nel Center for Intimacy, una ex divisione del Gestalt Institute di Cleveland (GIC)
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Introduction he Cape Cod Model is a simple framework for understanding human behavior, and more specifically for how people interact. It is also an approach to living in the world. Last, it is a model for conducting psychotherapy with couples, families, and groups, or for intervening in organizations as a consultant. It is grounded in a core value of optimism and rests on the fabric of the Cycle of Experience (COE), that dictates a specific method for assessing and intervening in a couple’s relational interactions. As a method it is taught in progressive, scaffolding manner that is aligned with our philosophical values In this article I will start by describing its roots, growth, and development. I will then present its philosophical assumptions, describe our way of working with couples, and end with a brief description of how we teach.
NUOVE APPLICAIZONI CLINICHE
Joseph Melnick
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What is the Cape Cod Model? We have struggled whether to call our work a model or an approach. It is both. As a model, it is a structured set of beliefs and procedures that are connected to each other, and utilized to provide psychotherapy and coaching to couples, families and work teams. Yet this model has relevance far beyond the therapeutic situation. As an approach to living, it rests on a foundation of philosophical assumptions and beliefs concerning what makes for healthy, and vibrant individuals and relationships. Roots The approach has its roots in the Center for Intimacy, a former division of the Gestalt Institute of Cleveland (GIC). The Center, which focused on teaching therapists to work with couples and families, eventually separated from GIC and transformed into a new institute, The Gestalt International Study Center (GISC) in Wellfleet, Massachusetts, USA. Here we have continued to develop our approach1 and to teach it throughout the world. The creators of the model were the original faculty of GISC and included Joseph Zinker, PhD, who, introduced our approach to many throughout the world, via workshops and his writings2; Pen1
Cfr. J. Melnick, S. Nevis (2018), The evolution of the Cape Cod model; Gestalt conversations theory and practice, Gestalt International Study Center, Massachusetts, Istituto di Gestalt HCC, Italy. 2 Cfr. J. Zinker (1977), Creative process in Gestalt therapy, Brunner/Mazel, New
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ny Backman, MSW, who studied with many of the original family therapy masters and helped assimilate their insights into our approach; Sonia Nevis, PhD, who was the first Gestalt therapist to focus on couples and families; and me, Joseph Melnick, PhD, who applied the model to social justice3 and along with Sonia helped to shape our approach into what we call the Cape Cod Model4. Carol Brockman, MSW; Stuart Simon, MSW; Sharona Halpern, M.A; and Nancy Rutkowski, MSW, PhD, have joined our faculty and have contributed to the approach’s development. Philosophical Assumptions Optimism Lately there has been a large focus on the power of optimism and its profound impact on individuals5, couples, and families6 as well as organizations and larger systems7. The benefits of an optimistic orientation are supported by research that indicates that people who are optimistic live longer, are healthier (both physically and psychologically), are more successful, and more resilient8. Optimism is a way of living that incorporates a positive perspective, i.e., a focus on what is working well. Few of us ever wake up thinking “I am going to mess up my day.” But even the best of us messes up often. Mistakes are ordinary. The Cape Cod Model rests on a fundamental Gestalt belief that we are all doing the best we can, given our perception of the world around us. Now, of course, there is also an important place for pessimism in our lives. In order to survive we are “wired” to be able to focus on potential threats and danger, as well as on what is going well. For example, most of us want this perspective in our lawyers, accountants, and surgeons. However, in couples, a focus on the negative, when overused, creates unnecessary anxiety, prevents our noticing new opportunities, and diminishes the potential for joy and creativity.
Il modello Cape Cod si basa sulla fondamentale convinzione della Gestalt che tutti noi facciamo del nostro meglio, data la nostra percezione del mondo che ci circonda
York; Id. (1994), In search of good form, Jossey-Bass, San Francisco. 3 Cfr. J. Melnick, E. Nevis (eds.) (2012), Mending the world: social healing interventions by gestalt practitioners worldwide, Rutledge (Taylor & Francis), New York. 4 Cfr. J. Melnick, S. Nevis (2018), The evolution of the Cape Cod model; Gestalt conversations theory and practice, cit. 5 Cfr. M. E. P. Seligman (1991), Learned optimism, Knopf, New York. 6 Cfr. J. Melnick, S. Nevis (2005), The willing suspension of disbelief: optimism, in «Gestalt Review», IX, 1, 10/26; Id. (2018), The evolution of the Cape Cod model; Gestalt conversations theory and practice, cit. 7 Cfr. D. Cooperrider et alii (eds.) (2000), Appreciative inquiry: Rethinking human organization toward a positive theory of change, Stipes Publishing, Champaign; J. Melnick, S. Nevis (2018), The evolution of the Cape Cod model; Gestalt conversations theory and practice, cit. 8 Cfr. J. Melnick, S. Nevis (2005), The willing suspension of disbelief: optimism, cit.
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Quello che intendo dire, invece, è un’attenzione a ciò che funziona bene
Piuttosto che insegnare alle coppie a sbarazzarsi di schemi fastidiosi, insegniamo loro prima a notarli e poi a interessarsi di ciò che stanno facendo
So, what do I mean by optimism? I don’t mean the naïve type, i.e., viewing the world through rose colored glasses, nor a belief that we will win the lottery, or that ultimately everything is “for the best.” What I mean instead, is a focus on what is working well. Optimism encompasses a belief that the individual, couple, small group, or large organization has a great deal of the resources needed to deal with whatever happens in the next moment. We all experience hardships in life, but an optimistic perspective allows us to face them with integrity and, at the end, be resilient. This ability allows us to keep moving forward, to stay in motion, and to move through small and large traumas that unfortunately are a fundamental part of living. It allows us to leave our bed in the morning to face the unknown day.
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Awareness and Change Optimism dictates a specific path to growth and rests on a fundamental Gestalt belief that awareness leads to change9. When we become aware, we notice. Only by noticing do we experience a choice between doing something different, or doing things as we always have. Thus, the way we change is not by trying to be different, but by embracing who we are, and by becoming interested in what we and others are doing. Rather than teaching couples to get rid of bothersome patterns, we teach them first to notice, and then to become interested in what they are doing. Once they realize that every pattern or habit, no matter how good or bad, was originally an attempt to solve a problem, they can look at the “cost” of its overuse. Change rarely occurs via elimination but instead involves the addition of new habits and behaviors. Experience stays forever within us, and even when “extinguished or eliminated” remains in the intrapsychic, interpersonal, familial, and cultural ground10. I should point out that awareness is not necessarily always good, for it can lead to depression and sadness, such as when we become aware of pain, or we become aware of wants that cannot be fulfilled. Resistance By resistance I simply mean that others have different thoughts, values, life experience, and world views than we do. Sadly, we also sometimes use this label for couples who are not doing what we
9 Cfr. A. Beisser (1970), The paradoxical theory of change, in Fagan J., Shepherd I. (eds.), Gestalt therapy now; Theory, techniques, and applications, Science and Behavioral Books, Palo Alto CA, 77 – 80. 10 Cfr. J. Melnick, S. Roos (2007), The myth of closure, in «Gestalt Review», XI, 2, 90-107.
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wish them to do. And, of course, most couples are at least ambivalent when seeking our services. Couples, while both wishing for and verbalizing a commitment to change, will naturally experience an attraction, often significant, to the old. This is because every relational pattern, no matter how currently destructive, has a nugget of competence in it, though so often overused and distorted that it is hard to see its faded beauty. Said simply, there is competence in every resistance pattern. For example, couples that present themselves as constantly fighting often have forgotten that what they call arguing holds within it the individualism, passion, and excitement that helped form the core of their relationship. We embrace resistance as positive and as almost always present, but not necessarily overt. We support it. We “lean into it” and we move towards the resistance and resister (s). We join them and become interested in them. We appreciate that our interest is a primary way to build trust and connection. So, if a couple complains that the last session was “useless,” we create a dialogue by wanting to hear more. At the end we compliment them for having the courage to be honest and direct with us. And, if appropriate, we process what happened with them and own our part in creating the problematic session. If we do not experience at least minimal resistance in the couples we work with, we are concerned. Resistance, if it goes underground, it might eventually sabotage our work. Appreciating Context – The Situation Every contact includes many ingredients that shift as a function of the situation. We often think of interaction in terms of people’s traits, character, history, and cause and effect dynamics. Yet it is the current situation that is the primary organizer of our experience. Whenever a couple is interacting – working together, talking, watching TV, etc. -, whatever happens has been crafted by both of them. Most of the time it does not feel that way. As simple as it may sound, viewing relationships as “situation dependent” is a radical departure from how most of us understand relational dynamics. Cycle of experience The founders of GIC created a visual template for describing the flow of energy and named it the Cycle of Experience (COE). Originally taken from the work of Perls and Goodman11, it summarized the process by which people, either individually or collectively, become aware of what is going on at a given moment.
Noi abbracciamo la resistenza come positiva e come quasi sempre presente, ma non necessariamente palese
I fondatori del GIC hanno creato un modello visivo per descrivere il flusso di energia e lo hanno chiamato il Ciclo di Esperienza (COE). Originariamente tratto dal lavoro di Perls e Goodman, riassumeva il processo attraverso il quale le persone, sia individualmente che collettivamente, diventano consapevoli di ciò che accade in un determinato momento
11 Cfr. F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1951), Gestalt therapy: Excitement and growth in the human personality, Julian Press, New York.
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It describes how they become aware, mobilize energy to act, engage, make meaning out of experiences, and assimilate them12. Originally described as a cycle, it is in fact more a sine wave that can be artificially divided into sensation, awareness, mobilization, action, meaning making, and withdrawal, with contact occurring at all stages. In working with couples, we often notice a favoring of certain stages at the cost of others. For example, I remember working with a couple that loved to stay in the sensation/awareness stage, but complained that they never seemed to move forward in life. Another couple had trouble withdrawing from each other. Both reported being “bored and smothered.” Other times, couples are out of rhythm with each other, with each living out various phases. For example, one might have a quicker need for closure than the other. They struggle over whether to linger over a cup of coffee after a meal or how and when to exit the party. So, after an altercation, one might need to resolve it right then, while their partner needs more time to assimilate and withdraw.
Ogni coppia sviluppa abitudini per affrontare il mondo, alcune delle quali continuano ad essere funzionali e altre no. E possiamo mappare queste abitudini attraverso il Ciclo di Esperienza
La maggior parte delle nostre abitudini continuano ad essere utili. Alcune, tuttavia, non sono più produttive, ma continuiamo ad utilizzarle comunque
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Habits We are designed to organize our experience into patterns that are largely similar to those of other people. Organizing in this way prevents us from living in the chaos and confusion so common to babies, geniuses, and the mentally ill. Habits (a common label for repetitive patterns and fixed Gestalts) allow us to move forward in the world. If we had to think each day about how to brush our teeth, which shoe to put on first, and how to get out of bed, we might never leave our home. As mentioned above, every couple develops habits for facing the world, some of which continue to serve them well and some that don’t. And we can map out these habits via the Cycle of Experience. Optimism supports our viewing habits as neither good nor bad, but instead as an attempt to solve a problem. Most of our habits continue to be useful. Some, however, are no longer productive, but we continue to use them anyway. For example, many of us drink socially in order to relax, i.e., to “loosen our tongues.” But for the alcoholic this habit becomes overdeveloped13; redundant, overused, and independent of context, ultimately squeezing out the possibility of other relational forms. When relational habits are tightly scripted, they can create safety and predictability, but they can also lead to boredom and 12 Cfr. E. Nevis (1987), Organizational Consulting: a gestalt approach, Gardner Press, New York. 13 Cfr. J. Melnick, S. Nevis (2005), The willing suspension of disbelief: optimism, cit.
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lack of growth. When relational habits are loose, risk taking and creativity might emerge, but so too might chaos and confusion. Power and Hierarchy Power is neither good nor bad. It does not exist solely within individuals, but rather between people, be they couples, groups, organizations, or nations. We pay attention to how couples energetically move through the Cycle: how awareness is shaped, how influence is expressed and received, and ultimately how decisions are finalized and acted out. Like power, hierarchy is a relational concept, neither good nor bad. Most of our relationships contain some form of hierarchy, whether implicit or explicit, or fluid or rigid. Sometimes hierarchy reflects position, gender, competence, context, or the situation. With couples, many of the power relationships are relatively fixed. The best cook nearly always prepares the meals and the most coordinated changes the light bulbs. We believe that in couples, flexible hierarchies generate more intimacy. And, of course, hierarchy needs to be acknowledged and the rules for clear communication respected by all.
Noi crediamo che nelle coppie le gerarchie flessibili generino più intimità
How We Teach We teach the Cape Cod Model as a scaffolding process, a step by step progression that mirrors the COE. Each module is designed to teach specific skills that are incorporated one at a time. Our programs are practice heavy, and participants learn much like a beginning musician learns to play scales. In time they develop their own style, and their work looks more like jazz: improvisational and responsive to ever changing contexts. Engaging; Small Talk We first engage in “small talk” to allow for all to relax in order to begin to create trust and connection, which sets the stage for learning. Therapists generate initial trust via their degrees, dress, and resumes. However, a more enduring trust must be earned, for only naïve couples trust too quickly, a phenomenon that portends signs of trouble up ahead. And of course, trust is two way, for if we do not trust the couples we work with, we too will not be open to connecting and doing psychotherapy. Instruct the Couple We tell couples how we are going to work with them before we begin, so they do not need to guess. If you are wondering what is going to happen next, you will not be open to the present moment14. We tell them that we are going to sit back and observe
Prima di tutto ci impegniamo in “piccole chiacchiere” per permettere a tutti di rilassarsi, per iniziare a creare fiducia e connessione, il che pone le basi per l’apprendimento
Diciamo alle coppie come lavoreremo con loro prima di iniziare, in modo che non abbiano bisogno di indovinare
14 Cfr. Id. (1987), Power, choice and surprise, in «The Gestalt Journal», IX, 43/51.
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them, noticing how they interact and, at some point, tell them what we heard and saw.
Cerchiamo schemi di connessione ridondanti, quelle che potremmo chiamare abitudini o Gestalt fisse, che sono al centro dei loro schemi energetici
I nostri primi interventi sono volti ad aumentare la consapevolezza della competenza della coppia per liberare energia, interesse e curiosità
Gli esperimenti sono strumenti cocreati con le coppie per aumentare la consapevolezza e per sostenere la pratica di una nuova abilità o modello
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Observe the Couple We sit back and see. This form of “seeing” involves an open, relaxed stance: a seeing rather than looking, a receptivity rather than staring. We look for redundant patterns of connection, what we might call habits or fixed Gestalts, that are at their core energetic patterns. We don’t just notice the form and amount of energy, but also where it’s from and where it ends up. And, of course, we are always appreciating that redundant patterns contain competencies. Intervene By intervening, we mean a stronger more potent statement than an ordinary exchange, one that is designed to draw attention to a specific behavioral pattern. The intervention is not about flattery or positive judgments. It is a phenomenologically based description of specific, identifiable behaviors that the couple is doing. “Are the two of you aware that you are both good at making strong declarations of what you are experiencing? Would you like an example?” Our first interventions are to heighten the awareness of the couple’s competence so as free up energy, interest, and curiosity. Once the couple becomes aware of a pattern, new possibilities emerge. It allows them to do something different. We often use the term “well developed” to categorize these competencies15. Sit Back, Observe Patterns and Intervene. Once the first intervention has had impact, we sit back to see what happens next, knowing that every well-developed competency has its cost. For example, the couple that is competent at making strong declarations might not be good at asking questions or making “we” rather than just “I” statements. We might say, “We notice that when you speak, you each lean in, but seldom sit back,” or “We notice that when one speaks, there is rarely space for the words to have impact, as the other responds almost instantly.” Create an Experiment, a “Try This” Experiments are vehicles co-created with couples to heighten awareness and to support the practice of a new skill or pattern. They draw on a fundamental principle of the Gestalt approach. It 15 There are a number of important Cape Cod Model concepts such as welldeveloped/less developed, presence, and strategic/intimate interactions not included in this article. Cfr. Id. (2018), The evolution of the Cape Cod model; Gestalt conversations theory and practice, cit.
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is a belief in embodiment. For the learning to have long term impact, it must be absorbed – not just cognitively, but also emotionally and physically in our bodies. End Well We usually end all sessions by asking the couple to articulate what they got out of the hour and to create next doable steps. This is the “meaning making,” closure part of the COE16. Conclusion The Cape Cod Model is a Gestalt based approach that is designed to work with individuals, couples, families, work teams, and organizations. It is holistic in that it incorporates the belief that we move towards good form as reflected by the Cycle of Experience. By developing a series of skills, (such as how to create trust, see patterns, intervene, and deal with resistance), the therapist is able to help clients notice habits and appreciate the good and bad of them. An optimistic stance supports couples in appreciating what they do well and allows them to add to their competencies.
Una posizione ottimistica aiuta le coppie ad apprezzare ciò che fanno bene e permette loro di aumentare le loro competenze
16 Cfr. J. Melnick, S. Roos (2007), The myth of closure, cit.
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Zinker J.
(1994), In search of good form, Jossey-Bass, San Francisco.
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The Cape Cod Model is both a step by step approach for intervening in couples, families, work groups, and organizations, as well as a theory for understanding human behavior. In this article I will first describe its roots, then its philosophical assumptions and beliefs, and end with a description of the different phases of the model framed in terms of how we teach it to our students.
Il modello Cape Cod è sia un approccio dettagliato e graduale per intervenire su coppie, famiglie, gruppi di lavoro e organizzazioni sia una teoria per comprendere il comportamento umano. Nel presente articolo l’autore fornisce una descrizione iniziale delle origini del modello, presenta le teorie filosofiche e le convinzioni ad esso legate ed infine conclude con una descrizione delle diverse fasi del modello, in relazione alle modalità adottate per istruire gli studenti.
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Il corpo tra ‘posso’ e ‘possibilità’
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l’insistenza sul corpo non deve far cadere, a sua volta, in riduzionismi che lo collochino al di sotto della sua preziosa complessità. Ed è proprio in questa complessità che emerge un aspetto centrale del corpo, ossia quello che nella tradizione di pensiero che va da E. Husserl a M. Merleau-Ponty prende il nome di «ioposso»
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l sonno della ragione è senz’altro motivo di oscurantismo, ma il risveglio della ragione rischia altri oscurantismi se poggia sul sonno del corpo. Il risveglio del corpo, di tutto il corpo, in cui abita anche la ragione, è l’autentico obiettivo di una civiltà pienamente umana. Purtroppo, il rischio di un oscurantismo razionale, come pure di vecchi oscurantismi, è sempre latente. Lo dimostra la continua tentazione di cadere in antichi o più recenti dualismi (anima/corpo, mente/corpo, cervello/corpo). D’altra parte, l’insistenza sul corpo non deve far cadere, a sua volta, in riduzionismi che lo collochino al di sotto della sua preziosa complessità. Ed è proprio in questa complessità che emerge un aspetto centrale del corpo, ossia quello che nella tradizione di pensiero che va da E. Husserl a M. Merleau-Ponty prende il nome di «io-posso». Il corpo è un ‘posso’ che apre alle grandiose ‘possibilità’ delle società umane.
SOCIETÀ E PSICOTERAPIA
Giorgio Bonaccorso
1. Il corpo come ‘posso’. L’insistenza sul corpo non ha senso se non lo si prende per quello che è, ossia nella sua complessità. Ma sebbene questa affermazione appaia tanto ovvia, spesso non viene rispettata. La questione più importante, a mio avviso, è di calibrare il rapporto tra il corpo e quell’io che sembra sempre al di là del corpo1. L’io di quando diciamo «io vado a Firenze», è immaginato come qualcosa che si nasconde dietro il corpo e che si serve del corpo come un mezzo di trasporto accanto all’automobile, al treno, al bus o al taxi. La frase che riassume questo modo di vedere è quella pronunciata innumerevoli volte: «io ‘ho’ un corpo». L’aspetto interessante è che, a ben vedere, quell’io non è neppure la mente o l’anima, dato che si dice tranquillamente «io ‘ho’ una mente» oppure «io ‘ho’ un’anima». Se si sta al modo comune di esprimersi l’io non è neppure il cervello dato che si dice «io ‘ho’ un cervello». La contrapposizione è quindi tra l’io e tutto il resto, dove il resto può essere il corpo, ma anche l’anima, la mente o il cervello. Un motivo plausibile di questa contrapposizione può essere l’implicito desiderio di non cadere in un qualche riduzionismo dell’io così come viene esperito da ognuno di noi. Rimane, però, da chiedersi cosa sia questo io e come si possa evitare di intenderlo in modo così irriducibile da renderlo evanescente. Come abbinare
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Il mondo filosofico ha affrontato la questione del corpo elaborando un enorme ventaglio di concezioni, cf per es. B. Huisman, F. Ribes (1992), Les philosophes et le corps, Dunod, Paris.
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irriducibilità e concretezza? La risposta può stare nell’attenzione al corpo che assomma in sé la concretezza di qualcosa che può essere osservato e l’irriducibilità di ciò che osserva e che quindi si sottrae al semplice essere osservato. E dato che il corpo osserva non stando di fronte al mondo ma stando nel mondo e agendo sul mondo, la sua osservazione è un transitare operativo nel mondo, ossia è un ‘penso’ generato dal ‘posso’. E soprattutto, il corpo è un posso che ‘può’ anche su se stesso, ossia ri-flette su se stesso: è coscienza. Come ha ben sottolineato M. Merleau-Ponty, «originariamente la coscienza non è un “io penso che”, ma un “io posso”»2. La coscienza non prende avvio dalla rappresentazione della realtà ma dall’essere in relazione operativa con la realtà. La percezione è nell’azione, ossia è un modo di agire. Si tratta della teoria enativa, che può venire pienamente compresa solo se si tiene presente il coinvolgimento di tutto il corpo. La teoria enativa è di tipo olistico: la percezione, la conoscenza e la coscienza, sono rese possibili grazie al coinvolgimento di tutto il corpo3. Il vedere non è solo il percepire qualcosa dall’esterno ma anche il muoversi verso l’esterno componendo le immagini. In questa prospettiva, il vedere non è come una fotografia o un dipinto, ma come il toccare, dove la percezione è strettamente unita all’azione con la quale la mano prende qualcosa4. Un aspetto fondamentale è costituito dal fatto che noi percepiamo le cose, ossia la loro misura e forma, in stretta connessione con lo spazio. Questa connessione dipende dalla prospettiva da cui la guardiamo, per cui noi conosciamo le proprietà delle cose in prospettiva (perspectival properties), e quindi in dipendenza dal movimento che modifica la prospettiva5. La percezione, la rappresentazione, la conoscenza sono dinamiche cognitive che, come viene confermato e approfondito dalle neuroscienze, dipendono dall’azione ed entrano in circolo con essa6. Alla base è sempre il corpo come io-posso, dove il ‘posso’ non si identifica con un ‘io’ consapevole, ma è un io che si estende oltre la consapevolezza. A questo riguardo sono interessanti le indagini condotte da alcuni neuroscienziati sul rapporto tra corpo, cervello e coscienza, soprattutto quelle che coinvolgono la sfera emotiva. L’azione è un movimento in cui l’aspetto intenzionale è spesso legato alle emozioni: proprio in questa spinta emotiva dell’azione si elaborano le basi cognitive degli esseri viventi. L’emozione, quin-
Dato che il corpo osserva non stando di fronte al mondo ma stando nel mondo e agendo sul mondo, la sua osservazione è un transitare operativo nel mondo, ossia è un ‘penso’ generato dal ‘posso’. E soprattutto, il corpo è un posso che ‘può’ anche su se stesso, ossia riflette su se stesso: è coscienza
2 M. Merleau-Ponty (2003), Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 193. 3 Cfr. A. Noë (2004), Action in Perception, Massachusetts Institute of Technology, Cambridge (Massachusetts) – London, 25. 4 Cfr. ivi, 72-73. 5 Cfr. ivi, 79-86. 6 Cfr. C. Frith (2009), Inventare la mente. Come il cervello crea la nostra vita mentale, Raffaello Cortina, Milano, 165-167.
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L’emozione, quindi, costituisce un aspetto quanto mai rilevante del corpo come ‘posso’ che si traduce anche nel ‘so’. In una sintesi forse anche eccessiva, potremmo dire che il corpo è un ioposso che attraverso l’azione, caratterizzata da un’intenzionalità emotiva, elabora percorsi cognitivi
La dimensione intersoggettiva appare in tutta la sua rilevanza quando si tenta di capire le scelte volontarie e libere
di, costituisce un aspetto quanto mai rilevante del corpo come ‘posso’ che si traduce anche nel ‘so’. In una sintesi forse anche eccessiva, potremmo dire che il corpo è un io-posso che attraverso l’azione, caratterizzata da un’intenzionalità emotiva, elabora percorsi cognitivi7. Quando le capacità razionali raggiungono un alto livello cognitivo, non si dovrebbe mai sottovalutare il fatto che alla base c’è l’azione e l’emozione. Un altro aspetto da considerare è il rapporto intersoggettivo, che coincide con l’intercorporeo. Un aspetto decisivo, anzitutto, per la coscienza. Occorre tener presente, infatti, che l’effetto cognitivo dell’azione (e dell’emozione) non è sufficiente per la coscienza: non basta cioè l’azione compiuta ma ci vuole il riconoscimento della propria azione, ossia dell’azione come propria. Occorre che l’azione sia riconosciuta come opera di un Sé. Non sembra possibile, però, che ciò si verifichi senza l’altro, o meglio senza vedere l’azione dell’altro. Com’è stato osservato, lo stretto legame tra l’autoidentificazione e il riconoscimento delle proprie azioni non dipende solo dall’esecuzione di un movimento ma anche dal vederlo8. La coscienza affonda le sue radici nell’azione secondo il duplice versante del compiere l’azione e del veder compiere l’azione9. La dimensione intersoggettiva appare in tutta la sua rilevanza quando si tenta di capire le scelte volontarie e libere. L’intento di tanti studi è di localizzare la zona cerebrale che è alla base della libera volontà, chiedendo, per esempio, a un soggetto di alzare un dito quando viene toccato, e verificare così cosa accade nel sistema nervoso centrale. Dalle ricerche risulta l’aumento di attività della corteccia prefrontale. I soggetti sottoposti agli esperimenti non possono che «eseguire liberamente una risposta preselezionata. Che razza di libertà è mai questa»10. Anche quando si chiede loro di alzare il dito nel momento in cui sentono l’urgenza di farlo, «devono ridurre drasticamente la loro libera volontà. Hanno bisogno di dare istruzioni a se stessi comportandosi più o meno in questo modo: «Dovrò fare in modo che ci sia un intervallo ogni volta diverso, ma non troppo, tra il sollevamento di un dito e il successivo, in modo che lo sperimentatore non possa predire facilmente quanto solleverò nuovamente il dito». I soggetti, in realtà, non stanno facendo libere scelte sulle loro azioni; stanno giocan-
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7 Per la rilevanza della dimensione emotiva anche in ordine al cognitivo, si vedano gli ormai classici lavori di J. Panksepp, A. Damasio, J. LeDoux. Si vedano i numerosi interventi in J. Armony, P. Vuilleumier (2013), The Cambridge Handbook of Human Affective Neuroscience, Cambridge University Press, New York. 8 Cfr. M. Jeannerod (2006), Motor Cognition: What Actions Tell the Self, Oxford University Press, Oxford, 72-74. 9 Vi sono diversi esperimenti sulla rilevanza dell’imitazione e del riconoscimento dello scopo altrui, cfr. C. Frith, Inventare la mente, cit., 183-188. 10 Ivi, 236.
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do una complessa partita con lo sperimentatore»11. Ma allora da dove proviene la libertà: dalla corteccia prefrontale o dall’intreccio con un altro, ossia con lo sperimentatore? Dove risiede l’io che sceglie in piena coscienza e libertà? Nella corteccia prefrontale? Il primato accordato alla corteccia prefrontale viene dal fatto che si pensa a un individuo isolato, o se si vuole a un cervello isolato, trascurando che tutto avviene entro l’intreccio di più individui e più cervelli. «Il cervello umano è sintonizzato in maniera assai fine per le interazioni con gli altri. Concetti come volontà, responsabilità e significato emergono da queste interazioni»12. Interazioni che coinvolgono ovviamente tutto il corpo e in modo particolare le emozioni, per cui se si vuole individuare l’io non si può pensare a un omunculo nascosto in qualche area cerebrale: «Anziché una singola area che fa delle scelte, forse c’è una rete di aree che applicano dei vincoli per determinare la scelta finale. Tali vincoli provengono da più fonti: i nostri corpi (ci sono alcune azioni che è fisicamente impossibile eseguire); le nostre emozioni (ci sono azioni che potremmo rimpiangere). E soprattutto, ci sono vincoli che provengono dal mondo sociale»13. Il primo vincolo, il corpo, è anche il luogo complesso grazie al quale il cervello esiste e opera: soprattutto è il luogo delle emozioni come reazioni interne a ciò che avviene fuori (il corpo è l’interfaccia tra interno ed esterno), ed è il luogo del possibile incontro tra più individui e tra più cervelli. Si può allora ricorrere di nuovo a un’estrema sintesi e precisare che il corpo è un io-posso che attraverso l’azione, caratterizzata da un’intenzionalità emotiva, elabora percorsi cognitivi in un contesto intersoggettivo.
Il primo vincolo, il corpo, è anche il luogo complesso grazie al quale il cervello esiste e opera: soprattutto è il luogo delle emozioni come reazioni interne a ciò che avviene fuori (il corpo è l’interfaccia tra interno ed esterno), ed è il luogo del possibile incontro tra più individui e tra più cervelli. Si può allora ricorrere di nuovo a un’estrema sintesi e precisare che il corpo è un io-posso che attraverso l’azione, caratterizzata da un’intenzionalità emotiva, elabora percorsi cognitivi in un contesto intersoggettivo
2. Le possibilità del corpo. Il corpo come «posso» è sempre anche la «possibilità» del corpo. La dinamica tra ‘posso’ e ‘possibilità’ è proprio ciò che fa del corpo il luogo dell’evoluzione attraverso miriadi di specie e attraverso lo sviluppo degli individui di una specie. L’evoluzione gioca tra il corpo come ‘posso’ e il corpo come ‘possibilità’. Per quel che ne sappiamo l’epoca più emblematica della dinamica tra il ‘posso’ e la ‘possibilità’ è l’antropocene, ossia l’epoca geologica attuale, così chiamata per le trasformazioni realizzate dall’uomo14. Nell’uomo, il corpo come ‘posso’ si è esteso a possibilità inimmaginabili in altre specie: possibilità che, attraverso la scienza e la tecnica, hanno trasformato l’ambiente e lo stesso corpo. 11 Ivi, 236-237 12 Ivi, 237. 13 Ivi, 238. 14 L’homo sapiens, essendo comparso sulla terra almeno 200.000 anni fa, è tra il Pleistocene (iniziato oltre 2 milioni e mezzo di anni fa) e l’Olocene (iniziato poco più di 11.000 anni fa). Le sue possibilità inedite però si sono manifestate recentemente.
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La dinamica tra ‘posso’ e ‘possibilità’ costituisce il ponte tra natura e cultura, tra biologico e antropologico. Il corpo come ‘posso’ è la condizione biologica di quelle possibilità umane che chiamiamo cultura; a sua volta il corpo come ‘possibilità’, ossia come cultura, retroagisce sulla condizione biologica. Questo percorso di azione e retroazione può essere definito come l’intelligenza della vita
La dinamica tra ‘posso’ e ‘possibilità’ costituisce il ponte tra natura e cultura, tra biologico e antropologico. Il corpo come ‘posso’ è la condizione biologica di quelle possibilità umane che chiamiamo cultura; a sua volta il corpo come ‘possibilità’, ossia come cultura, retroagisce sulla condizione biologica. Questo percorso di azione e retroazione può essere definito come l’intelligenza della vita, dove il corpo è il centro di convergenza tra il ‘posso’ e la ‘possibilità’, tra azione e retroazione, tra biologico e culturale. E ciò implica che l’intelligenza non sia solo il mentale, ma l’insieme del processo biologico-culturale che vede in campo azioni, emozioni, conoscenze e quell’esperienza così singolare che è la coscienza. In tempi recenti l’intelligenza ha subito una accelerazione a favore della retroazione, ossia delle capacità della cultura di operare sul biologico: soprattutto nella capacità di operare sul cervello naturale, o nella capacità di elaborare macchine intelligenti che supportano e amplificano il cervello naturale. Nel caso dell’intelligenza artificiale, la retroazione del culturale sul biologico si spinge verso un’altra frontiera, che sarebbe quella di sostituire il biologico, con conseguenze non trascurabili sul ruolo del corpo. Uno dei padri degli studi sull’intelligenza artificiale, M. Minsky, ha scritto: «Vogliamo spiegare l’intelligenza come una combinazione di cose più semplici»15. Ne deriva che a partire dalle cose semplici che costituiscono l’intelligenza biologica si possa costruire l’intelligenza artificiale, sia pure su differenti supporti fisici. Sebbene questo autore sottolinei l’enorme complessità dell’intelligenza16, rifiuta l’idea che il tutto (complesso) sia più della somma delle sue parti17. Ciò porta a un riduzionismo nella comprensione della coscienza e delle emozioni18 che finisce per sottovalutare il peso specifico di queste ultime anche in ordine alla coscienza e alla mente in genere. La conseguenza è che per la costruzione di un’intelligenza artificiale l’unico vero problema è di trasferire un programma mentale, un software, da un supporto a un altro, da un hardware a un altro, e più precisamente da un supporto fisico di tipo biologico a un sopporto fisico non biologico. Gli studi sull’intelligenza artificiale sono innumerevoli, ma qui si intende solo segnalare una prospettiva che finisce per sottolineare ciò che Minsky escludeva, ossia che il tutto è più della somma delle parti. Dato che l’intelligenza naturale e quella artificiale, pur in tempi molto diversi per lunghezza, sono caratterizzate dall’evoluzione biologica in cui si riscontra la capacità di programmare processi cognitivi, prendiamo le mosse dalla dinamica tra evoluzione e progetto: l’evoluzione è il fenomeno in cui il cambiamen-
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15 M. Minsky (1990), La società della mente, Adelphi, Milano, 34. 16 Cfr. ivi, 604. 17 Cfr. ivi, 42-45. 18 Cfr. ivi, 100, 315.
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to avviene secondo paradigmi selettivi (soprattutto la selezione naturale) che portano anche alle capacità cognitive ma che sono indipendenti dall’intervento di un’intelligenza; il progetto è il fenomeno in cui il cambiamento avviene secondo processi tecnologici messi in atto da un’intelligenza. E così abbiamo anzitutto Vita 1.0, corrispondente allo stadio biologico, dove tanto l’hardware quanto il software (il cervello e la mente) derivano dall’evoluzione e non da un progetto: durante l’evoluzione, il cervello è la condizione necessaria perché evolva anche la mente. Abbiamo, poi, Vita 2.0, corrispondente allo stadio culturale, dove l’hardware è frutto dell’evoluzione mentre il software è quasi integralmente progettato: grazie al cervello così com’è evoluto, ossia all’hardware, l’uomo può assimilare informazioni ed elaborare algoritmi che incrementano le sue capacità mentali, ossia può progettare il proprio software. Infine, abbiamo Vita 3.0, corrispondente allo stadio tecnologico, dove tanto l’hardware quanto il software sono progettati: l’uomo può intervenire tanto sul proprio cervello, anche grazie alla creazione di supporti fisici come il computer, quanto sulle proprie capacità mentali, ossia può progettare tanto il proprio hardware quanto il proprio software19. «In altre parole, Vita 3.0 è padrona del proprio destino, finalmente del tutto libera dai vincoli della sua evoluzione»20. Alla base sta la convinzione che l’intelligenza sia un sistema di informazioni capace «di realizzare fini complessi»21. Per comprendere meglio questa complessità dei fini, si può partire dalla distinzione tra il mondo fisico inorganico e quello organico. Le particelle elementari, di cui è composto l’universo, tendono alla dissipazione, mentre le componenti fondamentali della vita, ossia i geni, tendono alla replicazione, e quindi, almeno entro certi limiti, tendono a evitare la dissipazione22. Nel passaggio dal mondo inorganico al mondo organico si ha un cambiamento (parziale) dei fini. Quando, però, si giunge a livelli ancora più complessi, come quello del cervello umano, si nota un nuovo cambiamento, dato che l’essere umano si muove in ordine a fini come l’arte, la religione, la scienza, e può anche decidere di non procreare, ossia di sospendere la replicazione: «Il nostro cervello è molto più intelligente dei nostri geni e, ora che comprendiamo il fine dei nostri geni (la replicazione), lo troviamo molto banale e ci risulta facile ignorarlo»23. Il ruolo delle macchine rafforza questo nuovo orientamento dato che hanno il compito di favorire gli scopi umani24.
Il nostro cervello è molto più intelligente dei nostri geni e, ora che comprendiamo il fine dei nostri geni (la replicazione), lo troviamo molto banale e ci risulta facile ignorarlo
19 Cfr. M. Tegmark (2018), Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale, Raffaello Cortina, Milano, 44-50. 20 Ivi, 49. 21 Ivi, 61. 22 Cfr. ivi, 322. 23 Ivi, 325. 24 Cfr. ivi, 347.
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Giulio Tononi ricorre a questa concezione attraverso la teoria dell’informazione integrata secondo cui l’informazione è generata da un sistema oltre le sue parti
Lo spostamento dei fini nelle forme di intelligenza più avanzate implica quello che da tempo viene chiamata emergency, secondo cui i sistemi più complessi hanno caratteristiche che non si riscontrano nei sistemi più semplici di cui sono composti25. Il fenomeno forse più emergente è quello della coscienza che ha indubbiamente proprietà «al di là e al di sopra di quelle delle sue particelle»26. Il cervello è composto di particelle che compongono le molecole e quindi le cellule e i neuroni, ma né le particelle né le molecole né le cellule e neppure i neuroni sono coscienti. Solo la complessa organizzazione del cervello, e del cervello in un corpo, mostra la caratteristica della coscienza. La semplice somma di tutte le caratteristiche delle cellule non produce la coscienza perché questa implica una caratteristica aggiuntiva, con la conseguenza che il tutto è più della somma delle parti27. Giulio Tononi ricorre a questa concezione attraverso la teoria dell’informazione integrata secondo cui l’informazione è generata da un sistema oltre le sue parti28. Il simbolo dell’informazione integrata, per Tononi, può essere F (Phi), ossia il simbolo del rapporto aureo: il modo giusto per dividere qualcosa in parti. Il ricorso a F è dovuto a diversi motivi: a) F ricorda la Fenomenologia; b) la I di F rimanda all’idea di informazione; c) O, il cerchio, richiama l’integrazione29. La coscienza ha a che fare con l’informazione integrata perché implica «un sistema per il quale l’informazione generata dal tutto al di là delle sue parti raggiunge il massimo […]. Un complesso»30. Non si può parlare di coscienza senza riferirsi a un sistema abbinato all’idea di complesso: «un complesso è dove vive la coscienza»31. La comprensione della coscienza secondo i criteri della complessità e quindi come fenomeno emergente, è quanto mai interessante ma è comunque sempre inteso entro il quadro di riferimento che concepisce l’intelligenza come informazione. Ciò porta Tegmark a intendere l’emergenza come (relativa) indipendenza dell’intelligenza rispetto al suo supporto fisico. Di conseguenza anche la coscienza è indipendente dal suo supporto fisico32. Per la coscienza importa solo la struttura dell’elaborazione dell’informazione, non la struttura della materia che compie l’elaborazione. E qui torna la nozione di emergenza. Tegmark infatti
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25 Per il lungo dibattito sull’emergenza, soprattutto nel suo rapporto dialettico col riduzionismo, cfr. S. Chibbaro, L. Rondoni, A. Vulpini (2014), Reductionism, Emergence and Levels of Reality. The Importance of Being Borderline, Springer, Heidelberg. 26 M. Tegmark (2018), Vita 3.0, cit., 377. 27 Cfr. G. Tononi (2017), Phi. Un viaggio dal cervello all’anima, Codice, Torino, 140. 28 Cfr. ivi, 146. 29 Cfr. ivi, 147. 30 Ivi, 150. 31 Ib. 32 Cfr. M. Tegmark (2018), Vita 3.0, cit.., 381
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sostiene che «se la stessa elaborazione dell’informazione obbedisce a certi principi, può dar luogo al fenomeno emergente di livello superiore che chiamiamo coscienza»33. Ma come può avvenire questo fenomeno emergente di livello superiore? Su questo punto Tegmark ritiene che «il sistema cosciente debba essere integrato in un tutto unificato, come ha sostenuto Tononi, perché, se fosse costituito da due parti indipendenti, queste si sentirebbero come due entità coscienti separate»34. Tegmark sostiene che alla base della coscienza ci siano almeno quattro principi (di informazione, di dinamica, di indipendenza, di integrazione) e, sulla base del tutto irriducibile alle sue parti, sostiene che «i quattro principi insieme significano che un sistema è autonomo, ma le sue parti non lo sono»35. La teoria di Tononi, dell’informazione integrata, è stata molto criticata, ma mantiene un certo valore dato che tutte le altre teorie sulla coscienza sono decisamente vaghe. Uno degli aspetti più problematici è che Tononi crede sia possibile estendere la coscienza all’intelligenza artificiale, sempre a condizione che si mettano insieme tutti quegli elementi che fanno scattare il ‘di più’ di quel tutto che costituisce un sistema cosciente. Per far questo, secondo alcuni studiosi occorre configurare un computer in modo che sia il più possibile simile ai processi mentali dell’essere umano, o che comunque si confronti con le basi biologiche dell’intelligenza36. Naturalmente, come osservano altri studiosi, non si può progredire nell’ambito dell’intelligenza artificiale se si vuole semplicemente l’intelligenza naturale37. Ciò non toglie che occorre avere delle macchine che, come l’essere umano, siano capaci di apprendere. Il problema è che la capacità del cervello di apprendere viene dal suo inserimento in un corpo che gli fa da interfaccia con l’ambiente38, come pure dalle capacità emotive e sociali39, che l’essere umano ha sempre in virtù del corpo. Il ricorso al robot, come il corrispettivo del corpo biologico, lascia perplessi, dato che la relazione tra corpo, cervello e mente (e soprattutto coscienza) non è
La teoria di Tononi, dell’informazione integrata, è stata molto criticata, ma mantiene un certo valore dato che tutte le altre teorie sulla coscienza sono decisamente vaghe. Uno degli aspetti più problematici è che Tononi crede sia possibile estendere la coscienza all’intelligenza artificiale, sempre a condizione che si mettano insieme tutti quegli elementi che fanno scattare il ‘di più’ di quel tutto che costituisce un sistema cosciente
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Ivi, 382. Ivi, 383. Ib. Cfr. S. Hénin (2019), Al. Intelligenza artificiale tra incubo e sogno, Hoepli, Milano, 57. Un’ampia trattazione del rapporto tra intelligenza artificiale ed evoluzione biologica si ha in D. Floerano, C. Matiussi (2008), Bio-inspired artificial intelligence. Thories, Methods, and Technologies, The MIT Press, Cambridge – London. 37 Si veda la questione in J. Kaplan (2018), Intelligenza artificiale. Guida al futuro prossimo, Luiss University Press, Roma. 38 Su questo punto ha insistito già tempo fa Dreyfus in modo molto critico. Cfr. H.L. Dreyfus (1992), What Computers Still Can’t Do. A Critique of Artificial Intelligence, MIT Press, Cambridge (Massachusetts), 235-255. 39 Su questo punto insiste Fei-Fei Li: si veda M. Ford (2018), Architects of Intelligence: The Truth About AI from the People Building it, Packt Publishing, Birmingham, 147. Il testo è una serie di interviste con numerosi studiosi dell’intelligenza artificiale.
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Torna la questione dell’io che non si configura come mente o come software, ma come corpo che crea la mente e il software. L’io non è il programma (naturale o artificiale) ma il corpo. Il programma (mente o software) può essere indipendente dall’organo di supporto (cervello, hardware) ma non dal corpo inteso come unità originaria che rende possibile programma e supporto, e li integra a un livello di emergenza senza il quale è difficile l’esperienza che chiamiamo coscienza, ossia l’esperienza per la quale il ‘soggettivo’ è assolutamente ‘oggettivo’
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del tutto omologabile alla relazione nei robot tra hardware e software. Nel caso dell’intelligenza naturale è il corpo che si autorganizza in modo da avere un cervello e di farlo evolvere come mente e come coscienza, mentre nel caso dell’intelligenza artificiale si parte da un computer (hard e soft) precedente rispetto al robot. Questo deve far ripensare Vita 1.0, 2.0, 3.0, non solo entro l’orizzonte del binomio evoluzione-progetto e hardware-software, ma anche entro l’orizzonte del trinomio corpo-cervello-mente, dove il corpo è allo stesso tempo evoluzione e progetto. Torna la questione dell’io che non si configura come mente o come software, ma come corpo che crea la mente e il software. L’io non è il programma (naturale o artificiale) ma il corpo. Il programma (mente o software) può essere indipendente dall’organo di supporto (cervello, hardware) ma non dal corpo inteso come unità originaria che rende possibile programma e supporto, e li integra a un livello di emergenza senza il quale è difficile l’esperienza che chiamiamo coscienza, ossia l’esperienza per la quale il ‘soggettivo’ è assolutamente ‘oggettivo’. Perché questo è il problema della coscienza al di là dell’informazione, che nulla sia così oggettivo come il soggettivo. Il corpo è il soggettivo-oggettivo che fa la differenza indispensabile per la coscienza.
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Il corpo è anzitutto un «posso», ossia la capacità di agire sull’ambiente naturale, sull’ambiente sociale e su se stesso. Grazie a questa capacità di agire il corpo percepisce il mondo e si orienta nel mondo, con la conseguenza che conosce la realtà da cui è circondato e riconosce la propria condizione rispetto alla realtà che lo circonda. L’intelligenza è questa capacità del corpo, e lo è fino alla frontiere della coscienza. Infatti, il corpo, in quanto «posso», conosce e si riconosce, ossia è il luogo in cui emerge la coscienza. Ma proprio perché la coscienza nasce dal corpo come «posso», è subito anche coscienza delle proprie possibilità. Da «posso», il corpo diventa «possibilità» come appare in tutto ciò che chiamiamo cultura. Se nell’evoluzione biologica il corpo si realizza come «posso», nella cultura il corpo si realizza come «possibilità» fino ai confini recentemente raggiungi dalla scienza e dalla tecnica. Sotto questo profilo il corpo è l’ancoraggio tanto dell’intelligenza naturale (legata al «posso») quanto dell’intelligenza artificiale (legata alla «possibilità»).
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Pubblicazioni
Antropologia
GIOVANNI SALONIA SVLFRORJR H SVLFRWHUDSHXWD 2)0 &DS 'LUHWWRUH 6FLHQWLĂ´FR GHOOD 6FXROD GL 6SHFLDOL]]D]LRQH LQ 3VLFRWHUDSLD GHOOD *HVWDOW Ă&#x201D; +&& .DLU²V 5DJXVD 5RPD 9HQH]LD H GHOOD ULYLVWD LQWHUQD]LRQDOH RQ OLQH GL SVLFRWHUDSLD l*7.{ 'RFHQWH GHOOD 3RQWLĂ´FLD 8QLYHUVLW $QWRQLDQXP H GHOOD 6FXROD GL 6SHFLDOL]]D]LRQH LQ 3VLFKLDWULD SUHVVR OĂ&#x2014;8QLYHUVLW &DWWROLFD GHO 6DFUR &XRUH GL 5RPD
Nel libro testi di D. Iacono e G. Maltese, G. Salonia, A. Sichera.
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invidia è la piÚ triste e universale delle passioni: un tarlo che ci insidia e ci costringe a guardare di sbieco (in-videre) fuori di noi, un desiderio persistente di ciò che non abbiamo avuto o di cui la vita, crediamo, ci abbia privato. PerchÊ non ho, ovvero non sono, come lui, come lei, come te? PerchÊ tanti di quelli che conosco sono stati piÚ fortunati di me? I come invidia prende avvio dalle interpretazioni fondamentali della passione triste e con gli strumenti della Gestalt Therapy offre una prospettiva nuova al desiderio di unicità e di contatto che ci abita sin da bambini. E da cui tutto comincia.
G. Salonia (ed.)
Peter Pan ¨ XQR GHL WHVWL SLš LQFRPSUHVL H PLVWLĂ´FDWL GHOOD OHWWHUDWXUD SHU OĂ&#x2014;LQIDQ]LD 3UHVHQWDWD FRPH OD VWRULD GL XQ EDPELQR FKH QRQ YXROH FUHVFHUH HVVD ULYHOD LQ UHDOW OD WHQGHQ]D GLIIXVD DG HWLFKHWWDUH LO FRPSRUWDPHQWR GHL EDPELQL H D FUHDUH WHRULH VDOYD DGXOWL LO FRPSOHVVR GL (GLSR GL 7HOHPDFR GL 3HWHU 3DQ 0D FKL ¨ 3HWHU" %DVWD DSULUH LO OLEUR SHU VFRSULUOR l6H YRL R LR R :HQG\ IRVVLPR VWDWL O DYUHPPR YLVWR FKH 3HWHU 3DQ DVVRPLJOLDYD SURSULR DO EDFLR GHOOD VLJQRUD 'DUOLQJ{ ,O YROWR GL 3HWHU ¨ TXHOOR GHO EDFLR FKH PDPPD 'DUOLQJ WUDWWLHQH DOOĂ&#x2014;DQJROR GHOOD VXD ERFFD LO EDFLR FKH QRQ UDJJLXQJH :HQG\ LO VXR GHVLGHULR LO VXR FRUSR ,O EDFLR FKH VRWWR OH VSHFLH GHO ERWWRQH GL 3HWHU GL OÂŹ D SRFR OH VDOYHU OD YLWD 7DOH ¨ OR VIRQGR HUPHQHXWLFR GD FXL HPHUJH LQ TXHVWR OLEUR LO SXQWR GL YLVWD JHVWDOWLFR VX 3HWHU &RQ UHJLVWUL GLYHUVL GDOOD WHRULD FOLQLFD DOOD SVLFRWHUDSLD LQIDQWLOH GDOOD FULWLFD VHPDQWLFD DO SHQVLHUR HGXFDWLYR
Giovanni Salonia (ed.)
i come invidia
Giovanni Salonia, psicologo e psicoterapeuta, insegna allâ&#x20AC;&#x2122;UniversitĂ Pontificia Antonianum di Roma. Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dellâ&#x20AC;&#x2122;Istituto di Gestalt Therapy HCC Kairòs, didatta a livello internazionale, ha pubblicato recentemente Sulla felicitĂ e dintorni e OdĂłs. La via della vita e, come coautore, Devo sapere subito se sono vivo e La luna è fatta di formaggio, che trattano tematiche antropologiche e cliniche. Ha fondato e diretto la rivista ÂŤQuaderni di GestaltÂť e dal 2008 è direttore scientifico di ÂŤGTK Rivista on line di PsicoterapiaÂť. Per Cittadella Editrice dirige, con Rosella De Leonibus, la collana DiĂ pathos. Nel volume, contributi di Valentina Chinnici, Giovanni Salonia, Dada Iacono, Ghery Maltese.
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Alfabeti per le emozioni
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9 788830 814288
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La vera storia di Peter Pan. Un bacio salva la vita A cura di: Giovanni Salonia Peter Pan è uno dei testi piĂš incompresi e mistificati della letteratura per lâ&#x20AC;&#x2122;infanzia. Presentata come la storia di un bambino che non vuole crescere, essa rivela in realtĂ la tendenza diffusa ad etichettare il comportamento dei bambini e a creare teorie salva-adulti: il complesso di Edipo, di Telemaco, di Peter Pan. Ma chi è Peter? Basta aprire il libro per scoprirlo: ÂŤSe voi, o io, o Wendy fossimo stati lĂ , avremmo visto che Peter Pan assomigliava proprio al bacio della signora DarlingÂť. Il volto di Peter è quello del bacio che mamma Darling trattiene allâ&#x20AC;&#x2122;angolo della sua bocca: il bacio che non raggiunge Wendy, il suo desiderio, il suo corpo. Il bacio che sotto le specie del bottone di Peter di lĂŹ a poco le salverĂ la vita. Tale è lo sfondo ermeneutico da cui emerge in questo libro il punto di vista gestaltico su Peter. Con registri diversi: dalla teoria clinica alla psicoterapia infantile, dalla critica semantica al pensiero educativo. ISBN: 978-88-3081-502-5 Pagine: 84
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I come Invidia. A cura di: Giovanni Salonia Lâ&#x20AC;&#x2122;invidia è la piĂš triste e universale delle passioni: un tarlo che ci insidia e ci costringe a guardare di sbieco (in-videre) fuori di noi, un desiderio persistente di ciò che non abbiamo avuto o di cui la vita, crediamo, ci abbia privato. PerchĂŠ non ho, ovvero non sono, come lui, come lei, come te? PerchĂŠ tanti di quelli che conosco sono stati piĂš fortunati di me? I come invidia prende avvio dalle interpretazioni fondamentali della passione triste e con gli strumenti della Gestalt Therapy offre una prospettiva nuova al desiderio di unicitĂ e di contatto che ci abita sin da bambini. E da cui tutto comincia. ISBN: 978-88-3081-428-8 Pagine: 112
Ogni giorno merita una Gestalt. A cura di: Stefania Antoci, Alessandro Rusca Il volume rappresenta il primo diario gestaltico curato dallâ&#x20AC;&#x2122;Istituto Gestalt Therapy hcc Kairos. Lâ&#x20AC;&#x2122;istituto, al suo quarto decennio di attivitĂ , opera nellâ&#x20AC;&#x2122;ambito della formazione e della ricerca in psicoterapia della Gestalt a livello nazionale e internazionale. Propone una sorta di â&#x20AC;&#x153;quarta anima della Gestaltâ&#x20AC;? che apre nuove prospettive sullâ&#x20AC;&#x2122;antropologia e sulla clinica del vivere insieme e della crescita, sviluppando contributi innovativi sia a livello ermeneutico che clinico. Tra gli ultimi si annoverano lâ&#x20AC;&#x2122;elaborazione di una teoria sui modelli relazionali di base e la psicopatologia, un modello di teoria evolutiva e un modello di Gestalt Therapy con le coppie e le famiglie (teoria del SĂŠ e dellâ&#x20AC;&#x2122;intercorporeitĂ ). ISBN: 978-88-3081-392-2 Pagine: 156
Tour Eiffel, Paris - 2006
An Experiential Exploration: The Fertile Void and Creative Indifference EAGT Gestalt Conference 2019 19-22 september, 2019 – Budapest, Hungary
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L Tema della conferenza è stato l’Esplorazione sperimentale del vuoto fertile e dell’indifferenza creativa, ossia la capacità di rimanere in uno stato di non conoscenza confidando nel flusso creativo nelle esperienze dell’esser-ci con, nella convinzione che l’energia creativa possa albergare nel vuoto fertile soggettivo e che la stessa possa emergere spontaneamente, coerentemente con l’emergere delle “figure”: il vuoto fertile come campo indifferenziato da cui emerge il tutto
a EAGT (European Association for Gestalt Therapy) Conference di Budapest che si è tenuta dal 19 al 22 settembre 2019 ha visto coinvolti più di 700 partecipanti provenienti da oltre 50 paesi del mondo, offrendo agli stessi circa 160 workshop teorico-clinici ed esperienziali, oltre alle plenarie frontali presentate da alcuni tra i più autorevoli rappresentanti della Gestalt Therapy mondiale.
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Gaspare Orlando
Tema della conferenza è stato l’Esplorazione sperimentale del vuoto fertile e dell’indifferenza creativa, ossia la capacità di rimanere in uno stato di non conoscenza confidando nel flusso creativo nelle esperienze dell’esser-ci con1, nella convinzione che l’energia creativa possa albergare nel vuoto fertile soggettivo e che la stessa possa emergere spontaneamente, coerentemente con l’emergere delle “figure”: il vuoto fertile come campo indifferenziato da cui emerge il tutto. L’analisi delle figure emergenti sembra prendere forma da una sorta di danza tra le polarità. La maggior parte dei contributi della conferenza, in particolar modo le plenarie allargate, ha attraversato (sebbene in alcuni casi trasversalmente) il tema del vuoto fertile e della indifferenza creativa – a partire dalle differenti prospettive – teorica, clinica, metodologica ed esistenziale – e a seconda del focus d’osservazione. «A Budapest miriamo a co-creare con voi – si leggeva nella presentazione stessa della conferenza – uno spazio fertile in cui tutti possiamo connetterci, condividere ed esplorare noi stessi e gli altri e trovare nuove possibilità nel flusso delle nostre energie creative e nell’emergere di nuove comprensioni». Il triennale appuntamento che da sempre ha lo scopo di riunire i gestaltisti di tutto il mondo, giunto ora alla 13ª edizione, ha avuto inizio con l’apertura dei lavori da parte dell’attuale presidente delle EAGT, Beatrix Wimmer, che insieme al presidente dell’HUG Judit Stefany Tòth ha dato il benvenuto a tutti i partecipanti ed introdotto il tema della conferenza. Durante la presentazione, Beatrix Wimmer ha incoraggiato la possibilità di potersi confrontare a partire dalle diverse prospettive 1 Cfr. G. Salonia (2013b), Disagio psichico e risorse relazionali, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 55-67
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teoriche, dentro la matrice dell’appartenenza gestaltica, allo scopo di arricchire reciprocamente le nostre conoscenze in uno scambio critico e costruttivo, attraverso gli aspetti teorico-clinici, metodologici, socio-politici ed esistenziali. Proprio a questo scopo ci sembra utile riportare sinteticamente tre contributi presentati durante le conferenze plenarie a tema. Nancy Amendt-Lyon How can a void be fertile? Implications of Friedlaender’s theory of Creative Indifference for the contemporary practice of Gestalt therapy Nella sua relazione, N. Amendt si pone e pone la domanda su come possa il vuoto essere fertile. Ripercorrendo le implicazioni teoriche di Solomo Friedlaender sull’indifferenza creativa e come queste abbiano influenzato il pensiero del primo Perls, la relatrice pone l’accento su come l’evoluzione di tale riflessione ancor oggi arricchisca la psicoterapia della Gestalt, sia sul piano teorico che su quello clinico. Secondo la relatrice il “non sapere” è un prerequisito essenziale, una sorta di atteggiamento che consente di esplorare ogni situazione terapeutica, incoraggiando a sperimentare e sperimentarsi nella situazione clinica creando la possibilità di riorganizzare un campo (relazionale) disfunzionale: se riusciamo nella situazione terapeutica a rinunciare a ciò che ci è familiare, permettiamo l’emergere di infinite possibilità, a partire da quel «punto zero» o «modalità media» che permette alle polarità di esprimersi in maniera integrata e creativa. Sperimentare il vuoto fertile o la fase di pre-differenziazione risulta essere di fondamentale importanza per i processi creativi e di cambiamento nella terapia.
Il “non sapere” è un prerequisito essenziale, una sorta di atteggiamento che consente di esplorare ogni situazione terapeutica, incoraggiando a sperimentare e sperimentarsi nella situazione clinica creando la possibilità di riorganizzare un campo (relazionale) disfunzionale
Robert W. Resnick The Fertile Void – Gestalt in Action Il prof. Resnick comincia la sua relazione partendo da quando, ancora giovane, rimase affascinato dal concetto di vuoto fertile inteso nelle sue molteplici accezioni: spazio, tempo, conoscenza, energia. Stare con il non sapere in questo “vuoto fertile” confidando che qualche cosa, in maniera più o meno creativa, accadrà. Il relatore, a partire dal concetto di vuoto fertile, attraversa e disquisisce sulle polarità, sull’ascolto e sul bisogno del silenzio e del riposo quali requisiti essenziali per sentire l’energia che attraversa ognuno di noi. Ogni vuoto è fertile in quanto precursore di qualcosa di nuovo e sconosciuto che nel qui e ora emerge e diventa figura che attrae e spaventa. Il prof. Resnick poi si sofferma sul tema che ha interessato negli ultimi anni la Psicoanalisi contemporanea e la stessa Psicoterapia della Gestalt, ossia la relazione. In realtà il professore afferma che
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Biologia, teoria dei campi, fenomenologia ed esistenzialismo incarnano la co-creazione dell’esperienza consapevole, a cui il terapeuta si lascia andare per consentire, a partire dal vuoto fertile, che emerga la novità nella relazione tra lui stesso e il paziente
Evitare quindi, sia come persone che come terapeuti, il rischio di polarizzare l’attenzione e quindi di incorrere, attraverso la ricerca spasmodica di soluzioni, di perdere quell’atteggiamento neutrale che si colloca sempre e comunque in una posizione media
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probabilmente è stato trascurato da molti quello che è stato uno dei punti più importanti identificati da Perls ovvero il rapporto tra organismo e ambiente. In una parola: l’ecologia, ramo della biologia che studia il rapporto degli organismi tra loro e il loro ambiente fisico (o contesto). Biologia, teoria dei campi, fenomenologia ed esistenzialismo incarnano la co-creazione dell’esperienza consapevole, a cui il terapeuta si lascia andare per consentire, a partire dal vuoto fertile, che emerga la novità nella relazione tra lui stesso e il paziente. Onorare il “non sapere” del vuoto fertile consente la scoperta di nuove organizzazioni di significato e comprensione, fornendo una nuova consapevolezza di ciò che è possibile dissolvere a livello di interruzioni e/o aggiustamenti creativi obsoleti, per poter andare verso una più sana autoregolazione tra la persona e il suo ambiente.
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Lynne Jacobs Friedlaender: The polarity principle and the “revolution of egoism” L’autrice parla nella sua relazione del principio delle polarità come «rivoluzione dell’egoismo». Secondo la relatrice il presupposto metodologico applicato al pensiero di Friedlaender riguarda il principio di polarità e la modalità attraverso cui l’individuo può orientarsi adeguatamente nel mondo cognitivamente ed emotivamente. Le polarità come possibilità discriminante per riconoscere le differenze, quindi l’altro. Rimanere indifferenti di fronte agli opposti diventerebbe presupposto imprescindibile per creare il vuoto fertile. Evitare quindi, sia come persone che come terapeuti, il rischio di polarizzare l’attenzione e quindi di incorrere, attraverso la ricerca spasmodica di soluzioni, di perdere quell’atteggiamento neutrale che si colloca sempre e comunque in una posizione media. Da un punto di vista esistenziale la relatrice afferma che raggiungere tale atteggiamento neutrale che non si aggrappa agli opposti e/o agli estremi, in cui si evitano i giudizi e pregiudizi, permetterebbe di connettersi ai livelli più profondi di noi stessi, della coscienza e della vita. Tutto ciò è stato definito da Friedlaender come una «revolution of egoism». Da un punto di vista socio-politico si possono leggere e riconoscere le questioni poste in essere come risultato di convinzioni e intenzioni appartenenti a tutti e che attraversano i tempi (passato, presente e “futuro possibile”). Come a dire, il pensiero disfunzionale si polarizza negli opposti, mentre la riconciliazione sta nel mezzo: noi diremmo “nella relazione”.
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Ai lavori dell’EAGT a Budapest la community Gtk2 ha partecipato con i contributi dei nostri Direttori, Giovanni Salonia e Valeria Conte, insieme a Giovanni Turra, Rosaria Lisi e me. Ecco nel dettaglio i workshop dell’Istituto Gtk all’EAGT Conference 2019: •
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il 20 Settembre c’è stata la lecture di Gaspare Orlando: PANIC ATTACKS. Base relational model (MRB), Life Cycle and Clinic in Gtk; il 21 settembre alle 11:30 la lecture di Rosaria Lisi: When the void becomes a longing for confluence. Hysteria and Gestalt Therapy; il 21 settembre alle 15:30 il workshop di Giovanni Salonia e Valeria Conte: The dance of the chairs and the dance of the pronouns. The Theory of Self and Family Therapy in Gestalt Therapy.
La mia presentazione, PANIC ATTACKS. Base Relational Model (MRB), Life Cycle and Clinic in Gtk è il primo dei tre interventi dell’Istituto. L’intervento ha voluto sottolineare la novità del Modello Gtk nella diagnosi e nella terapia con gli attacchi di panico, differenziandolo dalla terapia con soggetti che manifestano crisi di panico. Durante il workshop sono stati descritti lo studio, la ricerca e la clinica sugli attacchi di panico con una lettura fenomenologica e processuale fedele all’orientamento teorico-clinico della GT (Istituto Gtk. Gli Attacchi di Panico possono essere considerati una drammatica richiesta di relazione per ricostruire quell’appartenenza costitutiva di ogni identità integra e piena. A tal proposito, nel contributo sono stati affrontati i temi riguardanti la fenomenologia dell’Attacco di Panico nella società postmoderna e il significato del sintomo relativamente al Ciclo Vitale del paziente con riferimento all’attuale contesto e al MRB. Inoltre, è stato descritto lo studio e la ricerca clinica, ponendo l’attenzione sia sull’aspetto diagnostico degli attacchi di panico (interruzione di contatto e dell’esperienza corporeo-relazionale nello stile relazionale retroflessivo3) sia su quello terapeutico, tenendo conto della teoria del ciclo di contatto4, della teoria evolutiva e della teoria del Sé5.
Gli Attacchi di Panico possono essere considerati una drammatica richiesta di relazione per ricostruire quell’appartenenza costitutiva di ogni identità integra e piena
2 Lo Staff didattico e clinico dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos, Scuola di Specializzazione in psicoterapia della Gestalt; sedi riconosciute: Ragusa, Roma e Venezia. Direttori: Giovanni Salonia e Valeria Conte. 3 Cfr. V. Conte (2013), La modalità relazionale narcisistica nella postmodernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 4, 17-38. 4 Cfr. G. Salonia (1989), Tempi e modi del contatto, in «Quaderni di Gestalt», V, 8/9, 55-64. 5 Cfr. Id. (2012), Teoria del Sé e società liquida. Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 3, 33-62.
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Infine è stato dato rilievo alla diagnosi differenziale tra l’attacco di panico e la crisi di panico6, dal momento che proprio quest’aspetto determina lo specifico intervento clinico e terapeutico. Con una cospicua partecipazione di pubblico c’è stata anche una feconda e curiosa interazione con il relatore, al quale hanno rivolto interessanti domande e lasciato feedback positivi.
La prospettiva gestaltica, che pone il focus sui vissuti (e non sui sintomi) del paziente, permette di diagnosticare la patologia anche quando si nasconde simulando altre patologie psichiche, e di conseguenza di impostare il percorso terapeutico più idoneo
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Il 21 è stata la volta di Rosaria Lisi che ha tenuto la sua lecture sul tema When the void becomes a longing for confluence. Hysteria and Gestalt Therapy7, contributo che ha messo in luce la metodologia di ricerca del modello Gtk nell’ambito della psicodiagnosi e della terapia gestaltica di questa particolare psicopatologia. Nel suo intervento, Rosaria ha analizzato alcune delle motivazioni dell’apparente scomparsa della patologia e, ripercorrendo le novità della teoria freudiana dell’isteria (e la rilettura delle teorie femministe), è approdata ad una rilettura fenomenologico-relazionale della sintomatologia isterica. La prospettiva gestaltica, che pone il focus sui vissuti (e non sui sintomi) del paziente, permette di diagnosticare la patologia anche quando si nasconde simulando altre patologie psichiche, e di conseguenza di impostare il percorso terapeutico più idoneo. Durante la lecture si è tenuto un interessante dibattito sui punti di contatto e le differenze tra ermeneutica psicoanalitica e lettura gestaltica dei sintomi, notevolmente apprezzata dai numerosi partecipanti. Le presentazioni del nostro Istituto Gtk all’EAGT Conference 2019 a Budapest si sono concluse il 21 pomeriggio con il workshop condotto dai direttori Giovanni Salonia e Valeria Conte The dance of the chairs and the dance of the pronouns8. The Theory of Self and Family Therapy in Gestalt Therapy. I partecipanti hanno seguito con coinvolgimento e in particolare si sono dimostrati molto interessati alla nuova prospettiva della funzione-Personalità del Sé nel modello di Terapia Familiare elaborato dell’Istituto Gtk (che è possibile approfondire nel libro Danza delle sedie e danza dei pronomi). Terapia Gestaltica Familiare). La famiglia postmoderna porta avanti un progetto inedito e ambizioso: essere il luogo della piena realizzazione di ognuno e di tutti. Dentro tale intenzionalità si hanno difficoltà e conflitti che spesso sembrano contraddire questo progetto. Coniugare, infatti, 6 Cfr. Id. (2013c), L’anxiety come interruzione nella Gestalt Therapy, in G. Salonia, V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, cit., 33-53. 7 R. Lisi (2019), Isteria e Gestalt Therapy. Quando tutto è pertinente, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani. 8 Cfr. G. Salonia (2017), Danza delle sedie e danza dei pronomi. Terapia Gestaltica Familiare, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani.
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maternità e paternità, maschile e femminile, sessualità e vita quotidiana, sogni e tradimenti, piccoli e grandi, centralità e periferia, primogeniti e secondogeniti è fatica spesso impossibile. La GT, assumendo come principi ispiratori e clinici la centralità del soggetto in relazione, il corpo vissuto9, il qui-e-adesso del contatto, offre chiavi di lettura e di intervento che facilitano nella famiglia la ripresa della danza relazionale, dove diventa musica il ritmo di ogni membro della famiglia. Categorie come intercorporeità, funzionePersonalità, grammatica della relazione diventano nella presentazione strumenti terapeutici preziosi per ridare alla famiglia il sogno di una pienezza del singolo e di tutti. Il numerosissimo pubblico intervenuto in sala, con domande specifiche ed interessate, ha dato la possibilità ai nostri direttori di rispondere e approfondire le varie tematiche con precisione e rigore teorico e/o clinico. Brevi considerazioni conclusive Laddove «si tratta di riscoprire l’interiorità come spazio soggettivo di ascolto e di assimilazione delle esperienze di contatto, il ‘vuoto fertile’ come genuino grembo della creatività, è necessario: in ciò sta il criterio valutativo della consapevolezza di sé»10. A Budapest l’esperienza della community Gtk è stata positiva e arricchente sotto vari aspetti. Innanzitutto il confronto con i colleghi dei vari paesi, con i quali abbiamo potuto scambiare opinioni teoriche e cliniche in merito alle nostre e alle loro presentazioni. In particolare, relativamente al tema della conferenza, sembra essere stato molto apprezzato il lavoro che l’Istituto ha portato avanti negli ultimi anni rispetto alla teoria del Sé ed in particolare alla rilettura della funzione-Personalità del Sé, soprattutto per le ricadute in ambito clinico che tale innovazione ha apportato sia nella terapia individuale che familiare. Inoltre, molto apprezzata dai partecipanti è stata la ricerca in ambito clinico durante tutte e tre le presentazioni, come dimostrato dalle diverse domande, curiosità e interventi pregni di interesse. Ottimi i feedback finali, con l’auspicio e la speranza che i ponti di Budapest abbiano potuto rappresentare ponti che connettono e permettono alle differenze di incontrarsi e di sperimentare nell’intimità soggettiva del vuoto fertile e creativo che abita il corpo di ogni persona in relazione, come risorsa unica ed inequivocabile e che rappresenta quelle potenzialità insite in ognuno di noi di esprimersi con spontaneità e creatività (possibilmente) responsabile.
La GT, assumendo come principi ispiratori e clinici la centralità del soggetto in relazione, il corpo vissuto, il qui-eadesso del contatto, offre chiavi di lettura e di intervento che facilitano nella famiglia la ripresa della danza relazionale, dove diventa musica il ritmo di ogni membro della famiglia. Categorie come intercorporeità, funzione-Personalità, grammatica della relazione diventano nella presentazione strumenti terapeutici preziosi per ridare alla famiglia il sogno di una pienezza del singolo e di tutti
9 Cfr. Id. (2008), La Psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano, 55-71. 10 Id. (2012), Teoria del sé e società liquida. Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 3, 33-62, 59.
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Pubblicazioni
Rivista di Psicoterapia (ITA/ENG)
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Ricerca L’angoscia dell’agire tra eccitazione e trasgressione La Gestalt Therapy con gli stili relazionali fobico-ossessivo -compulsivi Giovanni Salonia
Ricerca La Gestalt Therapy e i pazienti gravi Valeria Conte
Ricerca La funzione-Personalità nel testo Gestalt Therapy Antonio Sichera
L’errore di Perls Intuizioni e fraintendimenti del postfreudismo gestaltico Intervista a Giovanni Salonia a cura di Piero A. Cavaleri
Teoria del sé e società liquida Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy Giovanni Salonia
Editoriale In questo numero Ricerca La modalità relazionale narcisistica nella post modernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy Valeria Conte Oltre L’Edipo, un fratello per Narciso Paola Aparo Nuove applicazioni cliniche Il vissuto dell’adolescente prende corpo nella relazione. Risultati di una ricerca Stefania Antoci e Rosaria Lisi Adolescenza: generazione e degenerazione di una Festa Federico Battaglini Affrontare il dolore con un bagaglio di leggerezza Anna Cò e Annalisa Marinoni L’esperienza triadica in Gestalt Therapy Enrica Ficili e Gabriella Gionfriddo Coparenting nelle nuove figure familiari:orizzonti teorici e percorsi di osservazione in Gestalt Therapy Daniela Lipari e Aluette Merenda La vergogna nella coppia: un appello all’intimità Daniele Marini Il cancro al seno: per ridefinire ricordi, progetti e aspettative Il sostegno specifico nelle relazioni di coppia Valeria Nigro e Alessandra Pitino Il video racconto. Un’arte di gruppo Giovanna Silvestri La mafia e la plebe. La psicoterapia e la violenza rimossa della politica in Sicilia Dario Vicari Arte e psicoterapia Incesto Dada Iacono Lettura A. Merenda, A. Sichera
Il paziente borderline: una ostinata e sofferta richiesta di chiarezza Intervista a Valeria Conte a cura di Rosa Grazia Romano Arte e psicoterapia Ricordo di Alda Merini Paola Argentino Prendimi l’anima Giuliana Gambuzza Nuove applicazioni cliniche Gestalt Therapy e Onoterapia: nuove applicazioni della pet therapy Silvia Zuddas e Francesco Padoan Letture Nello Dell’Agli, Aluette Merenda, Fabio Presti, Assunta Tolentino
Arte e psicoterapia Il corpo ritrovato Scritture e immagini da una terapia Non so scriverlo... Eva Aster Nuove applicazioni cliniche Narciso: il riflesso senza acqua Il mito secondo Bill Viola, riflessioni sull’esperienza narcisistica Giovanna Silvestri Letture Bruno Callieri, Michela Gecele, Aluette Merenda
Arte e psicoterapia Borderline Border-line Annalisa Iaculo Rileggendo ‘Il corpo ritrovato’ Intervista a Maurizio Stupiggia a cura di Elisa Amenta Nuove applicazioni cliniche La Gestalt Therapy e la cura del disturbo post-traumatico da stress Un’ipotesi di intervento in gruppo con i sopravvissuti del genocidio cambogiano Vinanda Var Società e psicoterapia Il volo di Bauman a Siracusa Intervista a Zygmunt Bauman a cura di Orazio Mezzio Letture P. Cavalieri, L. Marchiori, F. Pecorari
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La scrittura e il corpo: uno sguardo gestaltico
Che un atteggiamento ermeneutico ispirato alla Gestalt Therapy, mettendo al centro il tema dei corpi viventi nella loro reciproca relazione, viene per alcuni versi a disvelare componenti inedite della scrittura, legate intimamente alla storia culturale dell’Occidente
Solo l’entrata in campo di una prospettiva di per sé alternativa – quella giudaico-cristiana – fondata sulla morte e risurrezione del corpo storico di un uomo concreto, quell’uomo in carne ed ossa che è Gesù di Nazareth, sembra mettere in crisi il disagio greco
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n approccio gestaltico alla questione estetica comporta una rilettura radicale dei grandi testi della tradizione occidentale. Si tratta infatti di uno sguardo diverso, che punta ad elementi spesso collocati fuori dalla comune percezione critica. Come a dire che un atteggiamento ermeneutico ispirato alla Gestalt Therapy, mettendo al centro il tema dei corpi viventi nella loro reciproca relazione, viene per alcuni versi a disvelare componenti inedite della scrittura, legate intimamente alla storia culturale dell’Occidente. Avvicinarsi ad Omero, ad esempio, da questo punto di vista, conduce a dare senso alla mancanza, nei grandi poemi fondativi della grecità, di una rappresentazione integrale del corpo (seppur oggi tale assunto venga messo in discussione dalla critica americana) e a far cominciare da lì il disagio greco con il corpo in quanto tale, disagio che Platone tematizzerà e Aristotele attenuerà ma non smentirà, stante il primato indiscusso del nous nella sua teoresi. Potremmo dire che presso i Greci è la tragedia ad incaricarsi di mettere in scena le contraddizioni profonde del nostro essere corpi in relazione nel mondo, sin dall’Oresteia di Eschilo, che tematizza la necessità di un contenimento politico parallelo e conseguente ad un contenimento della potenziale energia distruttiva dei corpi lasciati a sé stessi. Come se Eschilo dicesse che l’interazione tra i corpi priva di sovraregolazione porta al rischio inevitabile della violenza e dell’annientamento reciproco. Solo l’entrata in campo di una prospettiva di per sé alternativa – quella giudaico-cristiana – fondata sulla morte e risurrezione del corpo storico di un uomo concreto, quell’uomo in carne ed ossa che è Gesù di Nazareth, sembra mettere in crisi il disagio greco. Molte polemiche dei primi secoli nella letteratura patristica sono appunto centrate su questo nodo, da Giustino a Origene. I cristiani sono accusati, da un autore come Celso, di essere philosomatoi, amanti del corpo, e dunque di perseguire una strada falsa, non potendosi basare sul corpo nulla che sia sensato e duraturo. La progressiva integrazione dell’eredità greco-latina nella cultura medievale a dominante giudaico-cristiana comporterà un progressivo slittamento verso un’antropologia tesa a mettere in primo piano il rilievo dell’anima e il suo primato nella vita umana. Ma il primo millennio non potrà non risentire, in alcune su manifestazioni letterarie di lungo corso, come la letteratura esameronale, della forza di una visione dell’uomo in quanto corpo. E non potrebbe essere altrimenti se la gnosi, nelle sue variegate manifestazioni e nelle sue espressioni interne all’esperienza cri-
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stiana, era stata combattuta da autori come Ireneo proprio per la sua svalutazione del mundiale corpus di Gesù. Ma non possiamo qui dedicarci ad una ricostruzione storica puntuale. Ci basta rilevare come sin dal Cinquecento – già nel grande teatro elisabettiano e shakespeariano in particolare – la difficoltà a fare i conti con il corpo diventi centrale. Senza questa visione problematica, tesa all’attenuazione e alla messa fuori gioco del corpo, non si capisce un testo come l’Amleto, posto alle sorgenti del moderno. Si potrebbe dire che l’esperienza letteraria moderna e contemporanea, dal punto di vista gestaltico, sia l’esperienza di un lungo oblio del corpo vivente accaduta all’interno di un percorso dove poeti e romanzieri straordinari hanno cercato, a volte loro malgrado, di rivendicare i diritti di un contatto pieno e integrale del sé con il mondo. Si potrebbe pensare paradigmaticamente alla distanza che separa Baudelaire da Mallarmé, ma c’è, nella storia della lirica italiana a tutti nota, un testo come il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia1 di Leopardi che lavora e si fonda su questa contraddizione: il primato di una astratta razionalità da un lato e il palpitare del corpo vivente dall’altro. Letto in profondità, infatti, il Canto del pastore della steppa dei Kirghisi si gioca tutto su questa alternativa stringente. Per il Leopardi del nostro testo la vita, guardata con gli occhi nudi della ratio, è un’avventura senza senso, quella di un uomo abbandonato da Dio, che leva la propria voce verso il cielo, inutilmente («Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai, silenziosa luna?»), e si rende conto di essere nient’altro che un fenomeno della natura, privo di scopo, condannato a correre in maniera inesausta verso la morte, un abisso oscuro che inghiotte ogni esistenza, spesa in una serie di affanni e di noie inconcludenti. Ma la nostra vita non è solo un fatto, un oggetto che si possa considerare e guardare dal di fuori, con freddezza e lucidità razionali, di quella ragione inquisitrice e disperata dei moderni, Prima di essere pensata, la vita si sente. La vita di cui parliamo è insomma anche la nostra vita, che ci tocca e ci colma della sua potenza vitale e relazionale quasi al di là di noi. Da qui il miracolo di una trasfigurazione lirica, eppur interamente fedele alla finitezza, dell’esistenza prima descritta nel Canto secondo i tratti di una fenomenologia impietosa del comune destino. Si pensi intanto alla descrizione amorosa del compito paterno e materno («Poi che crescendo viene / l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre / con atti e con parole / studiasi fargli core, / e consolarlo dell’umano stato: / altro ufficio più grato / non si fa da parenti alla lor prole»), dove di fronte al dolore della nascita si pone come un argine amoroso il sostegno familiare, l’holding di un in-
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Si potrebbe dire che l’esperienza letteraria moderna e contemporanea, dal punto di vista gestaltico, sia l’esperienza di un lungo oblio del corpo vivente accaduta all’interno di un percorso dove poeti e romanzieri straordinari hanno cercato, a volte loro malgrado, di rivendicare i diritti di un contatto pieno e integrale del sé con il mondo
C’è, nella storia della lirica italiana a tutti nota, un testo come il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi che lavora e si fonda su questa contraddizione: il primato di una astratta razionalità da un lato e il palpitare del corpo vivente dall’altro
Riportiamo in calce il testo leopardiano, affinché il lettore possa meglio individuare le citazioni e attraverso esse cogliere il senso del poema.
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la morte non coincide semplicemente con un abisso orrendo. Dal delicato, intimo osservatorio del corpo vivente, essa appare ora come un «supremo scolorar del sembiante». Morire è un «perir dalla terra», raffigurato come il «venir meno / ad ogni usata, amante compagnia», un lasciare la vita intesa nella sua costitutiva componente relazionale, nel suo essere spazio sereno e consueto di un farsi compagnia intessuto d’amore
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coraggiamento, di un ‘far cuore’ per proiettare il figlio nella vita (che è poi il senso profondo di ogni autentica avventura genitoriale). Ma non solo. Il «viver terreno» non è più solo l’affannoso affrettarsi verso la fossa ma, colto dall’interno del Leib, si muta in un «patir», un «sospirar», un’effusione dolorosa dell’anima. E la morte non coincide semplicemente con un abisso orrendo. Dal delicato, intimo osservatorio del corpo vivente, essa appare ora come un «supremo scolorar del sembiante». Morire è un «perir dalla terra», raffigurato come il «venir meno / ad ogni usata, amante compagnia», un lasciare la vita intesa nella sua costitutiva componente relazionale, nel suo essere spazio sereno e consueto di un farsi compagnia intessuto d’amore. Lo stesso vale per la natura, per l’avvicendamento inesausto delle stagioni, dove vengono in primo piano il «dolce amore» e il sorriso della primavera, «l’ardore» dell’estate e la potenza oscuramente generativa del ghiaccio invernale. Il passaggio dalla fenomenologia dell’esteriorità sensibile alla fenomenologia del corpo vivente provoca uno sguardo sull’universo centrato sull’esperienza soggettiva del tempo e dello spazio, vissuti dal pastore come un «infinito andar», un’«aria infinita», un «infinito seren». È un vocabolario dell’infinito che non smentisce in alcun modo la ferita dell’assenza. Come a dire che il pastore non vive una contraddizione patente, ma pone semplicemente, dinanzi al dio silenzioso e inconcepibile, la domanda generata dall’incomprensibile, del tutto inafferrabile e aperto a possibilità ignote – seppur per lui inattingibili – di fronte alla fragilità, all’insensatezza apparente dell’esistere. Immerso in una patente Zwischenheit fra il gelo della ratio solitaria e l’excitatio cordis di fronte ad ogni apparizione dell’altro, del suo sguardo, della sua presenza (perché è l’altro il segreto di ogni sguardo cordiale del Canto), posto in un luogo dove non si danno alternative ma solo coesistenze, il pastore dei Kirghisi testimonia, dal nostro punto di vista, tutta la potenza del realismo gestaltico. Quello di Perls e Goodman in Gestalt Therapy: il mondo non è un paradiso senza ostacoli o dolori, ma nemmeno un inferno inabitabile. Il nostro mondo umano è, in definitiva, uno spazio di possibilità reali, un orizzonte di opportunità: non un oggetto dinanzi a noi o sopra di noi, ma bensì l’ambiente vitale di un cambiamento possibile, giocato sull’ascolto e sull’incontro del corpo vivente ‘con’ e ‘tra’ altri corpi viventi. Un’esperienza aperta, mai dimentica della fragilità che il corpo simbolicamente rappresenta, ma anche fiera sino in fondo dell’energia di contatto, trasformativa del reale, che dai nostri corpi si sprigiona e ci connette.
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Canto notturno di un pastore errante dell’Asia Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita la vita del pastore. Sorge in sul primo albore move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe; poi stanco si riposa in su la sera: altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, al vento, alla tempesta, e quando avvampa l’ora, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e più e più s’affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch’arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu vòlto: abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale è la vita mortale. Nasce l’uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre con atti e con parole
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studiasi fargli core, e consolarlo dell’umano stato: altro ufficio più grato non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, perché da noi si dura? Intatta luna, tale è lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, e forse del mio dir poco ti cale. Pur tu, solinga, eterna peregrina, che sì pensosa sei, tu forse intendi questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia; che sia questo morir, questo supremo scolorar del sembiante, e perir della terra, e venir meno ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi il perché delle cose, e vedi il frutto del mattin, della sera, del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore rida la primavera, a chi giovi l’ardore, e che procacci il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, che son celate al semplice pastore. Spesso quand’io ti miro star così muta in sul deserto piano, che, in suo giro lontano, al ciel confina; ovver con la mia greggia seguirmi viaggiando a mano a mano; e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: – A che tante facelle? che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono? – Così meco ragiono: e della stanza smisurata e superba, e dell’innumerabile famiglia; poi di tanto adoprar, di tanti moti d’ogni celeste, ogni terrena cosa, girando senza posa,
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per tornar sempre là donde son mosse; uso alcuno, alcun frutto indovinar non so. Ma tu per certo, giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, che dell’esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors’altri; a me la vita è male.
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O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno quasi libera vai; ch’ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, tu se’ queta e contenta; e gran parte dell’anno senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, e un fastidio m’ingombra la mente; ed uno spron quasi mi punge sì che, sedendo, più che mai son lunge da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, e non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, o greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: – Dimmi: perché giacendo a bell’agio, ozioso, s’appaga ogni animale; me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? – Forse s’avess’io l’ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale.
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Studio PCL moviekalihorse - 2014
La DanzaMovimento Terapia (DMT) incontra la Gestalt Therapy
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Il protagonista è il linguaggio del corpo, che è il linguaggio dell’anima, il linguaggio delle emozioni. Più di qualsiasi parola ‘parla’ delle nostre emozioni un gesto, uno sguardo, un fremito, un rossore
Stefania Antoci o avuto il piacere di conoscere Carmen Di Bella durante il percorso della mia formazione per Didatti ed è stato un incontro davvero eccezionale: un completamento per lo psicoterapeuta della Gestalt è poter ‘giungere al corpo’ e attraverso l’esperienza del corpo ciò diventa possibile. Infatti secondo la prospettiva della Gestalt, che integra olisticamente il corpo con la mente, l’Organismo umano è una totalità dinamica in relazione1: ‹‹il corpo è il luogo in cui è scritta tutta la nostra storia, in ogni sua piega è conservata la memoria di ogni esperienza vissuta. A partire da quello che evoca il nostro ombelico, che ci ricorda che non ci siamo fatti da soli, ma che siamo dentro una storia, ci rendiamo conto che il corpo “racconta” le nostre esperienze2››. È per me entusiasmante intervistare Carmen Di Bella, di cui apprezzo proprio la possibilità di restituire al corpo la bellezza e l’autenticità che gli appartengono. Partirei con il chiedere come nasce il lavoro che da anni porta avanti con passione e dedizione.
ARTE E PSICOTERAPIA
Stefania Antoci intervista Carmen Di Bella
Carmen Di Bella Desidero fare una piccola premessa. Dopo qualche anno di lavoro con la DanzaMovimento Terapia nei gruppi, ho avuto la fortuna di ‘contattare’ la Gestalt Therapy prima come paziente, poi come allieva, seguendone il corso di formazione. Questo incontro è stato il kairòs per eccellenza della mia vita, personale e professionale. Sentivo che la mia formazione di danzaterapeuta aveva delle lacune, la sentivo mancante dal punto di vista metodologico ed epistemologico. L’incontro con la GT e i suoi maestri è stato determinante ed ho sentito di essere approdata nel luogo nutritivo per eccellenza, nel quale poter trovare la completezza che cercavo. Ritornando alla tua domanda, nel mio lavoro il protagonista è il linguaggio del corpo, che è il linguaggio dell’anima, il linguaggio delle emozioni. Più di qualsiasi parola ‘parla’ delle nostre emozioni un gesto, uno sguardo, un fremito, un rossore. Mi piace presentare il mio modello di lavoro cominciando dalla ‘visione del setting’. Il setting ‘corporeo’ richiede una costruzione rigorosa (ed in 1
Cfr. G. Salonia (2008), La psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano, 55-72. 2 Id., (2011), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 20.
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questo mi è stata maestra, più di chiunque altro, Laura Sheleen, psicoterapeuta, danzaterapeuta junghiana, ma molto influenzata dalla teoria e psicoterapia gestaltica perché ha vissuto nello stesso appartamento con Perls e la moglie negli anni ’50, a New York, appartamento che per decenni fu luogo di studio e di ricerca con i grandi psicoterapeuti dell’epoca. Stefania Antoci Dai seminari quello che mi ha colpito è il rigore nella strutturazione del setting. Ci sono dei criteri a cui occorre attenersi per svolgere al meglio l’attività di gruppo? Carmen Di Bella Esatto. Mi attengo sempre a criteri specifici qualunque sia lo spazio a disposizione e la tipologia di utenti dei miei stage. Il primo criterio riguarda la disposizione spaziale del gruppo, in particolare lo spazio deve essere delimitato da confini precisi: invito il gruppo a formare un cerchio, il più possibile regolare, il cerchio come simbolo di ‘appartenenza’, uguaglianza e sacralità. Nella costruzione del cerchio è importante mantenere una doppia equidistanza, una rispetto ai componenti del gruppo, l’altra rispetto alla distanza con il centro del cerchio (punto totemico). In seguito cerco di individuare la direzione del nord, che sarà occupato dal conduttore del gruppo, che resta il punto di riferimento e la guida, quella del sud, di fronte al conduttore, che sarà occupato dal tutor o dal collaboratore. Il secondo criterio riguarda i ‘rituali’ di apertura e chiusura della sezione di lavoro. I rituali di apertura corrispondono al Pre-contatto (che all’inizio del mio percorso di formatrice chiamavo ‘riscaldamento psico/fisico’) e sono rappresentati da gesti semplici, lenti, graduali, ripetuti e carichi di simbologia (terra, cielo, sole, respiro), che conferiscono alla fase iniziale dell’incontro un’importanza quasi sacrale. I rituali di apertura hanno un duplice scopo: il primo è quello di allontanare mentalmente e fisicamente i partecipanti dalle sollecitudini della vita quotidiana e dai pensieri disturbanti, favorendo il rilassamento mentale, muscolare e la consapevolezza respiratoria. La consapevolezza respiratoria, in particolar modo, agevolata da lavori con il suono della voce e il respiro profondo, favorisce l’apertura del canale corporeo più emozionale. Le varie parti del corpo (capo, spalle, busto, bacino, braccia, gambe) saranno contemporaneamente sensibilizzate con crescente energia. Il secondo scopo è quello di ‘fondare’ le tracce dell’appartenenza al gruppo. Questa iniziale gestualità, ripetuta ad ogni incontro, oltre che rassicurante e contenitiva, diventa un momento di riconoscimento personale e collettivo. Ho imparato, in anni di lavoro corporeo, a non sottrarre mai questo momento iniziale, soprattutto lavorando con soggetti
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Invito il gruppo a formare un cerchio, il più possibile regolare, il cerchio come simbolo di ‘appartenenza’, uguaglianza e sacralità. Nella costruzione del cerchio è importante mantenere una doppia equidistanza, una rispetto ai componenti del gruppo, l’altra rispetto alla distanza con il centro del cerchio (punto totemico)
La consapevolezza respiratoria, in particolar modo, agevolata da lavori con il suono della voce e il respiro profondo, favorisce l’apertura del canale corporeo più emozionale
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È importante poter e saper chiudere la gestalt, solo così sapremo che l’esperienza è stata sana, nutritiva, e questo ci permetterà di aprirci a nuove esperienze
portatori di sofferenze psicologiche come attacchi di panico, FOC, disturbi borderline e disturbi d’ansia anche lievi. Altrettanta importanza hanno i rituali di chiusura ed i momenti di verbalizzazione e di saluto (goodbye) che ci permettono di prepararci a lasciare il gruppo e a tornare alla vita esterna. Il saluto di separazione ci permette di ri-conoscere l’altro e l’importanza che ha avuto per noi durante l’esperienza appena conclusa ed accettarne la separazione. È importante poter e saper chiudere la gestalt, solo così sapremo che l’esperienza è stata sana, nutritiva, e questo ci permetterà di aprirci a nuove esperienze.
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Stefania Antoci In questa tua esaustiva risposta colgo, tra gli altri, un concetto fondamentale per la Gestalt Therapy e cioè il respiro. Come ricorda Giovanni Salonia, la respirazione rappresenta il cuore della corporeità, e come sottolinea Goodman «bisogna partire dal respiro», definito come «la strada che ci permette di compiere quel lungo viaggio che ci conduce al punto da noi più lontano e più vicino: il nostro corpo e la nostra storia. Il respiro è quel flusso sotterraneo di consapevolezza che in ogni momento ci tiene aggiornati su noi stessi e sul nostro coinvolgimento con l’esistenza e con il mondo»3. Quanto nella tua attività è importante e come lo custodisci e lo salvaguardi nel rapporto con il paziente? Carmen Di Bella Direi fondamentale. Seguo costantemente il respiro dei ‘danzatori/pazienti’ e lo considero un importante parametro di lettura. Il primo autore in cui ho riscontrato l’attenzione al respiro è Reich. Come un precursore di quello che, in maniera del tutto innovativa, faranno i terapeuti della Gestalt, Reich si dedica allo studio ed alla rieducazione della respirazione. Egli si accorge che nei momenti di maggior tensione il paziente manifesta attacchi di ansia dovuti ad un blocco respiratorio nella fase inspiratoria. La psicoterapia della Gestalt, vicina alla scoperta reichiana, sottolinea l’importanza che il terapeuta deve prestare al processo respiratorio del paziente, per utilizzare ciò che emerge ai fini diagnostici e terapeutici4. Uno dei primi obiettivi del terapeuta gestaltista sarà quello di fare acquisire al paziente consapevolezza del blocco respiratorio ed accompagnarlo nella fluidità del respiro, fase in cui grande importanza sarà data alla fase espiratoria. Una intuizione geniale, a parer mio, dei gestaltisti pionieri è stata quella di non formulare una ‘visione topografica’ delle emo-
3 Ib. 4 V. Coleman (1988), Stress management technique: managing people for healthy profit, Mercury, London.
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zioni, come aveva fatto Reich, ma capire che ogni emozione può emergere in qualsiasi parte del corpo, differentemente da un individuo all’altro. Cosicché una emozione come la rabbia può esprimersi in qualsiasi parte del corpo5. Nell’esperienza di DMT l’individuo danza la sua rabbia, il suo lutto o la sua gioia con modalità, tensione, fluidità corporea che lo diversificano dagli altri. Il danzaterapeuta deve saper cogliere questa differenza, questa modalità soggettiva di esprimersi: solo così potrà coglierne il vissuto, l’esperienza bloccata ed il messaggio sotteso. Sperimentare con i gesti danzati e le posture le proprie sensazioni ed emozioni permette al paziente di poter rendere visibile anche ciò che le anima6. Coadiuvato dal terapeuta, il paziente può rendersi consapevole di quei messaggi corporei che possono segnalargli una ‘interruzione nel rapporto con l’ambiente’: deve poter toccare, osservare, ascoltare, annusare per sperimentare e capire cosa interrompe il suo contatto pieno con il mondo circostante. Il modello gestaltico si avvale di tecniche in cui parola, gesto, movimento e respiro favoriscono la spontaneità e la creatività spesso frustrate nel paziente. Non potevo che cogliere appieno, nel mio lavoro di DMTerapeuta, questa visione gestaltica. Stefania Antoci Quando spieghi agli allievi il tuo modo di lavorare ricordo che utilizzi alcune parole chiave che tu stessa definisci delle vere e proprie metafore di vita. La prima è l’analisi del movimento. In che cosa consiste? Carmen Di Bella Laban, grande coreografo e ballerino ungherese, è il più autorevole studioso di lettura e interpretazione di un ‘corpo in movimento’ secondo dei parametri evidenti ed oggettivi. Il suo metodo applicativo è chiamato Labanalisi. Nell’ultimo ventennio mi sono dedicata allo studio e all’applicazione di questo meraviglioso e complesso concetto, trasponendolo nel setting terapeutico, con i miei allievi o con i pazienti, integrandolo e sovrapponendolo, dove ho potuto, ai concetti gestaltici. L’assunto di base dell’analisi di movimento di Laban è che ogni gesto ha bisogno, per essere espresso, di una energia ‘meccanica’ che viene, a sua volta, messa in moto da una forza interna, una energia ‘emotiva’ (vedi il riferimento gestaltico a sensazione, orientamento, direzionalità etc.). Questa forza interna viene proiettata nello ‘spazio’, con un
Nell’esperienza di DMT l’individuo danza la sua rabbia, il suo lutto o la sua gioia con modalità, tensione, fluidità corporea che lo diversificano dagli altri. Il danzaterapeuta deve saper cogliere questa differenza, questa modalità soggettiva di esprimersi: solo così potrà coglierne il vissuto, l’esperienza bloccata ed il messaggio sotteso
Ogni gesto ha bisogno, per essere espresso, di una energia ‘meccanica’ che viene, a sua volta, messa in moto da una forza interna, una energia ‘emotiva’ (vedi il riferimento gestaltico a sensazione, orientamento, direzionalità etc.). Questa forza interna viene proiettata nello ‘spazio’, con un certo ‘peso’, con un certo ‘ritmo’ e una certa ‘fluidità’
5 Cfr. F. Perls, R.F. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma. 6 P.L. Bernstein (1975), Theoretical Approaches in DanceMovement Therapy, Vol. I, Kendall/Hunt, Dubuque.
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Attraverso l’analisi del movimento avremo molte notizie sull’individuo, lontana da qualsiasi connotazione critica, positiva o negativa, per conoscere il suo stile, la sua ‘qualità’, il suo modo di muoversi, che è sintesi di tutte le sue esperienze di vita
certo ‘peso’, con un certo ‘ritmo’ e una certa ‘fluidità’. Un esperto danzaterapeuta potrà, così, conoscere e comprendere aspetti della personalità del paziente, la sua ‘attitudine verso il mondo’. Questo canale prioritario di conoscenza avvantaggerà il percorso terapeutico. Possiamo riportare le sue intuizioni alla gestualità della vita quotidiana e traducendo questo in Gestalt Therapy ci indica il movimento energetico che c’è in ciascuno prima di qualunque azione, quando intercettiamo l’istante in cui sentiamo un desiderio, un bisogno, un impulso o decisione che ci orienta e spinge verso. Ogni azione va letta sulla base di alcuni parametri, che in Labanalisi si definiscono EFFORT: Il TEMPO/RITMO (quando): quanto tempo ci metto per compiere l’azione? ci dice molto sull’aspetto intuitivo della persona nel senso del kairòs, sulla capacità di cogliere il ritmo ed il momento adeguati per quell’azione; Lo SPAZIO (dove): in quale direzione va la nostra azione? Quanto spazio occupiamo per svolgerla? Svela l’idea dell’approccio verso la vita, la modalità relazionale, l’affettività; Il PESO (quanto): quanta tensione muscolare il mio corpo attiva per fare questo movimento? ci dice molto dell’aspetto ‘fisico’ della persona. Più armonico ed elastico sono, più riesco a dosare la mia tensione muscolare; Il FLUSSO (come): con quale fluidità svolgo questa azione? Se l’energia, il respiro, il gesto, l’intenzionalità sono fluidi o interrotti. Ci mette in contatto con la reazione emozionale della persona. In questo modo, attraverso l’analisi del movimento avremo molte notizie sull’individuo, lontana da qualsiasi connotazione critica, positiva o negativa, per conoscere il suo stile, la sua ‘qualità’, il suo modo di muoversi, che è sintesi di tutte le sue esperienze di vita.
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Stefania Antoci Un altro tema importante è il grounding. Puoi spiegarci di cosa si tratta e cosa ci dice della persona? Carmen Di Bella Il grounding ha una duplice valenza, una strettamente fisica, l’altra simbolica, metaforica. È il nostro modo di ancorarci al terreno e sostenerci in posizione eretta, è come comunichiamo ma è anche il modo in cui ci ‘sosteniamo’ psicologicamente ed emotivamente nell’attraversamento della vita, dei progetti di vita, delle difficoltà che incontriamo. In questo ci fa da supporto lo sguardo, una sorta di grounding proiettato nello spazio, che ci àncora all’obiettivo da raggiungere e costituisce un sostegno ambientale in più per il progetto verso il futuro, per la nostra intenzionalità. Guardare in avanti, verso la meta e verso l’altro invece che guar-
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dare per terra, diventa un sostegno ed un orientamento. Il sostegno che cerchiamo nell’altro e nell’ambiente accresce e stabilizza il grounding originale, ossia quel radicamento familiare che nel corso della vita possiamo nutrire, modulare, renderlo più stabile se occorre, o più flessibile se troppo rigido. Stefania Antoci Un altro concetto chiave è la kinesfera. Puoi spiegare il significato di questa parola chiave nel tuo lavoro? Carmen Di Bella Con il concetto di kinesfera in DMT si intende lo spazio pericorporeo, la cui ampiezza va dallo spazio vicinissimo, quasi ad un soffio dalla pelle, al massimo permesso dall’estensione estrema degli arti verso fuori. Dal punto di vista psicologico la kinesfera rappresenta lo «spazio vitale» di cui parla Lewin, personale, intimo, che appartiene esclusivamente a se stessi, che delimita e definisce i confini tra il ‘me’ e il ‘non me’. Nella ‘danza delle kinesfere’, esercizio che propongo spesso, il danzatore, con le braccia morbidamente aperte, gira su se stesso, alternando la direzione destra e sinistra (per evitare i capogiri) e contemporaneamente dovrà ‘vedere e sapere intuire’ dove sono gli altri danzatori, quale spazio stanno occupando, se vicini o lontani e tutti, responsabilmente, dovranno evitare di ‘invadere’ la kinesfera altrui. Nella danza delle kinesfere molta importanza viene data all’osservazione del grounding in movimento di ciascun individuo. La modalità in cui l’individuo poggia i piedi sul pavimento ci dice molto sulla sua stabilità o la sua insicurezza, la forza o la debolezza. L’osservazione darà al terapeuta delle informazioni importanti sul soggetto rispetto al suo ‘radicamento’, alla fiducia o meno verso l’ambiente, alla sua capacità di autosostegno, al suo ‘attraversare’ il mondo etc. Stefania Antoci Nell’attenta descrizione che ci hai regalato emerge lo sfondo teorico ed ermeneutico della Gestalt Therapy, che sembra sposarsi in modo sintonico con la DM terapia. Ci racconti come è avvenuto questo incontro? Carmen Di Bella Grazie Stefania, mi dai l’opportunità di approfondire il perché e il come sono arrivata all’integrazione con la Gestalt. La prospettiva unificante dell’essere umano, presentata come ‘arte di vivere’, la sua visione olistica della persona come organismo in relazione con l’ambiente, il valore dell’esperienza nel ‘qui e ora’ della relazione fanno della Gestalt, a mio avviso, il ‘partner’ ideale della DMT, l’approccio più efficace ed autentico per garantire quell’esperienza
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Il sostegno che cerchiamo nell’altro e nell’ambiente accresce e stabilizza il grounding originale, ossia quel radicamento familiare che nel corso della vita possiamo nutrire, modulare, renderlo più stabile se occorre, o più flessibile se troppo rigido
La prospettiva unificante dell’essere umano, presentata come ‘arte di vivere’, la sua visione olistica della persona come organismo in relazione con l’ambiente, il valore dell’esperienza nel ‘qui e ora’ della relazione fanno della Gestalt, a mio avviso, il ‘partner’ ideale della DMT, l’approccio più efficace ed autentico per garantire quell’esperienza globale che vede il corpo ‘parlare’ e la parola ‘incarnarsi’
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globale che vede il corpo ‘parlare’ e la parola ‘incarnarsi’. Nel mio personale incontro con la GT, trovavo in totale sinergia con la mia esperienza il concetto, esposto dai terapeuti gestaltisti, della ‘relazione’ come di una danza, in cui le persone coinvolte sono equamente responsabili. Termini e concetti, inoltre, come consapevolezza, contatto, armonia, adattamento creativo, relazione, polarità, funzione senso-motoria, respirazione, esperimento, tempo, ritmo, campo, li sentivo così simili a quelli della danza da considerare come insostituibile, per il mio lavoro di danzaterapeuta, questo approccio terapeutico. Questi concetti comuni mi hanno spinta a concretizzare un nuovo modo di fare DMT e costruire il metodo integrato di Gestalt Therapy/DMT che porto nei miei seminari di formazione ed esperienziali.
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Stefania Antoci Qual è il concetto gestaltico che secondo te esprime meglio la DanzaMovimento Terapia? Carmen Di Bella Certamente il contatto e il suo ciclo. La danza è per eccellenza ‘contatto’, contatto fisico ed emozionale, dove tutto ciò che proviene dal corpo e va al corpo, la musica, la scenografia, i compagni che danzano, gli occhi che si guardano, i corpi che si sfiorano, le emozioni che tutto questo provoca nell’individuo e nel gruppo, si sviluppa in modo sintonico seguendo le fasi del ciclo di contatto. E il percorso che propongo nei miei laboratori segue linearmente il Ciclo del Contatto Gestaltico. Come accennavo all’inizio, il momento iniziale rappresenta il Pre-contatto, quella fase in cui ogni individuo, sebbene già inserito nel ‘campo’ del gruppo, avrà dei momenti tutti suoi, quasi di estraneazione rispetto agli altri, per entrare nell’esperienza gruppale vera e propria attraverso dei passaggi che lo preparano dolcemente all’esperienza sempre più intima con l’altro, rappresentati dal ‘rituale d’apertura’, dalla danza delle kinesfere e dall’elaborazione spazio-temporale. Durante la fase centrale, quella del Contatto, si dispiega la relazione vera e propria, si realizza cioè l’incontro vero e proprio con l’altro, fatto di contatto non più casuale, ma volontario, in cui i corpi possono sfiorarsi, gli occhi si ‘agganciano’ e comunicano. I lavori vengono proposti a coppie, poi si evolvono in triadi, infine in piccoli gruppi, talvolta si arriva a coinvolgere il gruppo intero. Questa è la fase in cui viene elaborata, più che nelle altre, l’immagine corporea. Altri temi da elaborare in questa fase sono: la ‘dinamica degli opposti’ (così chiamo, nei miei laboratori, le polarità), gli ‘attraversamenti spaziali’, su diversi piani, sagittali e verticali, la ‘canalizzazione dell’aggressività’, nella cui elaborazione propongo esercizi di grande tensione muscolare. Utilizzo ‘rituali guerrieri’,
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con gesti e suoni che esprimono fermezza, assertività ma, al contempo, accettazione delle regole e rispetto per gli altri. Finalmente si giunge al Contatto Pieno, fase clou dell’esperienza, la parte più emblematica, creativa, di notevole valore fenomenologico e simbolico. È la fase dell’improvvisazione in cui nulla è preparato o strutturato ma i danzatori saranno liberi di interpretare come desiderano la ‘consegna’ del Tema Emozionale (prima di conoscere la GT chiamavo questa fase ‘improvvisazione su tema’) in programma per quella seduta. Mi piace chiamarla la fase della ‘danza del sé’. Infatti nell’improvvisazione tutte le funzioni del Sé sono attivate, la funzione-Es nei suoi aspetti biologici e corporei, la funzione-Io con la capacità di scelta di movimento, di immagini, di ricordi, ed infine la funzione-Personalità, che sintetizza tutte le esperienze e gli apprendimenti conquistati dalla persona: tutte le funzioni saranno integrate per creare la ‘sua danza’. È il momento in cui l’immaginario può emergere, favorito, anzi indotto, dalla musica che è accuratamente scelta dal terapeuta a seconda del tema di quello specifico incontro. È, spesso, anche il momento dell’intimità con l’altro. Il tema dell’improvvisazione è strettamente legato alle elaborazioni psicomotorie delle fasi precedenti, così che l’individuo possa esplorare ed ‘osare’, nel qui ed ora della danza, oltre la guida e le indicazioni che il conduttore gli ha offerto nelle fasi pregresse: è come affrontare il mondo da soli, dopo essere stati sostenuti, guidati, consigliati. Questa fase è vissuta dal gruppo non solo come momento creativo ed espressivo, ma, anche, fortemente liberatorio. Ultima tappa della sessione di lavoro è il post-Contatto, la fase dell’assimilazione, nella quale il gruppo si rimette in cerchio per ricreare la ‘sacralità’ dei momenti più corali e solenni, con la ‘verbalizzazione’ e il ‘rituale’ di conclusione. Viene favorito, così, il completamento di tutta l’esperienza, la sua ‘chiusura’ in termini gestaltici e in alcuni passaggi si realizza un’esperienza cognitiva, che va ad aggiungersi, per integrarla, all’esperienza emozionale vissuta nei lavori precedenti.
Mi piace chiamarla la fase della ‘danza del sé’. Infatti nell’improvvisazione tutte le funzioni del Sé sono attivate, la funzione-Es nei suoi aspetti biologici e corporei, la funzioneIo con la capacità di scelta di movimento, di immagini, di ricordi, ed infine la funzione-Personalità, che sintetizza tutte le esperienze e gli apprendimenti conquistati dalla persona: tutte le funzioni saranno integrate per creare la ‘sua danza’
Stefania Antoci Il nostro viaggio dentro il tuo affascinante modello di lavoro è giunto al termine: grazie Carmen per il prezioso contributo che ci hai dato, per aver partecipato all’intervista con cura e passione, integrando in una danza armonica la grande esperienza professionale e lo sfondo teorico.
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Commento a cura di Carmen Ventura
R Questo connubio tra la danza e la psicoterapia offre la possibilità di contattare il corpo nella sua spontaneità oltre che nella sua funzionalità: il ritmo ed il movimento favoriscono il libero fluire dell’energia, coadiuvato dalla respirazione, agevolando la sintonizzazione con il proprio sentire, che, nell’ottica gestaltica, è fonte sorgiva di consapevolezze
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ipercorrendo la descrizione dell’affascinante lavoro di Carmen Di Bella, trovo molto interessante questo intreccio armonico tra la Danza Movimento Terapia ed il modello gestaltico del quale sembra cogliere i punti emblematici, soprattutto quelli inerenti al lavoro sul corpo che la Gestalt Therapy, negli ultimi anni, ha approfondito e perfezionato, elaborando un modello di intervento psicoterapeutico raffinato ed efficace. Questo connubio tra la danza e la psicoterapia offre la possibilità di contattare il corpo nella sua spontaneità oltre che nella sua funzionalità: il ritmo ed il movimento favoriscono il libero fluire dell’energia, coadiuvato dalla respirazione, agevolando la sintonizzazione con il proprio sentire, che, nell’ottica gestaltica, è fonte sorgiva di consapevolezze. Come si legge dall’intervista, la GT considera il corpo come il luogo dell’identità, dov’è scritta la storia di ciascuno in ogni suo segmento, dov’è depositata la verità più profonda del nostro essere, traghettando così da una visione del corpo pensato come ‘un oggetto che si possiede’ alla dimensione del ‘corpo vissuto ed abitato pienamente’. La GT, in linea con i cambiamenti culturali in atto, ha sviluppato un approccio alla ‘persona’ rispettoso della totalità che la contraddistingue, in cui mente e corpo dialogano in maniera continua, ricomponendo così lo split mente/corpo ormai obsoleto, per inscriversi in un contesto socio-culturale che guarda ai bisogni del paziente ormai mutati. Consapevole del fatto che l’uomo non è semplicemente un essere-nel-mondo, ma anche un essere-congli-altri, vira verso panorami relazionali e guarda all’Organismo Umano in continua interazione con il suo Ambiente elaborando la teoria del contatto che, insieme alla teoria del Sé, costituiscono l’anima pulsante del modello. L’incontro con l’Altro, che si estrinseca nel contatto, favorisce la possibilità di una crescita sana e nutriente, contrassegnata non solo dai cambiamenti propri del corpo, ma soprattutto dai vissuti relazionali che avvengono tra i corpi e che cambiano nelle varie fasi dello sviluppo; di contro il mancato o disfunzionale contatto non contribuisce ad uno sviluppo sano ed equilibrato. La rilettura della teoria evolutiva1, che Salonia ha brillantemente coniugato con la dimensione Intercorporea2, evidenzia l’impor1
Cfr. G. Salonia (2013), Gestalt Therapy and developmental theories, in G. Francesetti, M. Gecele, J. Roubal (eds.), Gestalt Therapy in Clinical Practice. From Psychopathology to the Aesthetics of Contact, Franco Angeli, Milano, 235-250. 2 L’intercorporeità è intesa come tra-corporeità, cioè la relazione che avviene tra i corpi. Questa prospettiva offre un’integrazione ‘incarnata’ tra la teoria del Sé e quella del ciclo di contatto.
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tanza dei vissuti corporeo-relazionali, offrendo così nuove chiavi di lettura sia nell’ambito dello sviluppo sano dell’individuo sia nello studio e nella cura del disagio psichico. In quest’ottica, la sofferenza non è di natura intrapsichica derivante pertanto da impulsi inconsci o da blocchi muscolari, ma un disturbo della competenza relazionale. La storia del paziente ci narra, dunque, di ciò che è mancato, di un bisogno non appagato, di un gesto atteso, di una parola non detta, di un’emozione non espressa perché non ha trovato accoglienza o sostegno nei corpi genitoriali nel momento in cui è emersa o nel momento in cui l’O si apprestava a compiere un movimento verso l’A (next step), bloccando così la spontaneità della sua espressione o, a livelli più gravi, della sua percezione. Il bambino sviluppa il senso intimo del proprio corpo attraverso esperienze specifiche di contatto e vicinanza corporea con le figure genitoriali, favorendo la percezione delle varie parti e determinando la formazione dello schema corporeo implicito3. L’esperienza della nostra corporeità equivale al nostro modo di abitare il mondo: le sensazioni tattili, termiche, viscerali e propriocettive ci forniscono quell’esperienza immediata dell’esistenza di unitarietà corporea e contribuiscono alla percezione dello schema corporeo che nella patologia, in modi diversi, risulta compromessa. Poiché tutti i vissuti hanno una matrice corporea e relazionale, il disagio è visibile nel corpo, che attraverso la postura narra la storia relazionale del soggetto. Nella prospettiva intercorporea, la postura equivale al modo in cui il corpo ha appreso a stare con l’altro corpo, cioè al modo in cui i corpi interagiscono, includendo lo sfondo delle sensazioni prodotte dallo stare insieme. Quando la relazione intercorporea è disfunzionale, il corpo si adatta assumendo una postura antalgica per evitare di sentire il dolore. Quest’adattamento diventa un habitus che designa il modo in cui normalmente il soggetto reagisce ed è legato alle interruzioni di contatto4. La postura antalgica conferma una modalità relazionale che non è nutriente e che influenza in modo determinante la qualità delle relazioni interpersonali. Essa non è consapevole fino a quando un evento doloroso, ciò che Goodman chiama «emergenza», «novità»,5 rimette in discussione l’intero schema corporeo. Il corpo attraverso il sintomo cerca in modo creativo di lanciare la sua richiesta di aiuto.
L’esperienza della nostra corporeità equivale al nostro modo di abitare il mondo: le sensazioni tattili, termiche, viscerali e propriocettive ci forniscono quell’esperienza immediata dell’esistenza di unitarietà corporea e contribuiscono alla percezione dello schema corporeo che nella patologia, in modi diversi, risulta compromessa
3 Cfr. Corpo-parola-corpo. L’itinerario terapeutico della Gestalt Therapy, infra. 4 Cfr. G. Salonia, Meeting Nazionale Il Now for next della postura antalgica, Roma, 28-29-30 giugno 2013. 5 Cfr. F. Perls, R. F. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma.
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Se, con un colpo d’ala, guardiamo al lavoro della danzaterapia, possiamo osservare come anche qui il paziente, attraverso il gesto e le posture, può sperimentare ed esprimere emozioni e sensazioni inedite, lasciando emergere in figura la storia dei contatti che sta sullo sfondo, diventando così consapevole di ciò che interrompe la sua interazione con l’A. perché, come evidenzia la GT, il corpo oltre ad essere biografia vissuta è anche la possibilità inesplorata
Le tensioni muscolari oltre a rappresentare il modo in cui il soggetto reagisce a relazioni difficili, concorrono a configurare la postura che, è influenzata da ciò che è mancato nella propria storia6 e pertanto può essere destrutturata e ristrutturata solo nell’ambito di una relazione significativa quale quella psicoterapeutica. Compito del terapeuta è ripristinare la spontaneità organismica che si è bloccata e favorire la possibilità di riprendere il percorso che è stato interrotto. Nell’approccio gestaltico il terapeuta è egli stesso strumento di cura, consapevole dei propri vissuti corporeo-relazionali e, che con sagace intuizione, utilizza al momento propizio nell’ambito della seduta, favorendo nel paziente la consapevolizzazione dei suoi vissuti in un gioco di figura/sfondo. Il corpo del terapeuta diventa così corpo complementare che permette al paziente di sperimentare nel qui e ora dell’incontro terapeutico una esperienza nuova che favorisce l’emergere di sensazioni ed emozioni mai provate. Il corpo complementare, nella storia del paziente, è quel corpo ‘speculare’ che nell’intercorporeità non ha accolto il cambiamento, interrompendo così il fluire tra corpi, rendendo ‘logica’ tale postura. Attraverso il corpo complementare il terapeuta comprende il motivo per cui è nata la postura antalgica e quale corpo nella storia del paziente è mancato. Sperimentare nuove posture consente di sentire emozioni nuove ed apre la strada al cambiamento che diventa possibile solo se parte dal corpo, frutto dell’assimilazione inconsapevole dell’esperienza, che andrà a ristrutturare lo schema corporeo7. Se, con un colpo d’ala, guardiamo al lavoro della danzaterapia, possiamo osservare come anche qui il paziente, attraverso il gesto e le posture, può sperimentare ed esprimere emozioni e sensazioni inedite, lasciando emergere in figura la storia dei contatti che sta sullo sfondo, diventando così consapevole di ciò che interrompe la sua interazione con l’A. perché, come evidenzia la GT, il corpo oltre ad essere biografia vissuta è anche la possibilità inesplorata.
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6 Per la psicofisiologia, l’atteggiamento posturale non è soltanto legato ad una meccanica biologica, cioè la tensione dei muscoli per mantenere una posizione, ma esprime il modo caratteristico con cui una persona assume quella posizione, per cui c’è qualcosa di ogni persona che è stabile nel tempo, cioè il modo in cui si organizzano le tensioni tra di loro e che è il prodotto della propria storia. Cfr. V. Ruggieri, Meeting Nazionale Il Now for next della postura antalgica, Roma, 28-29-30 giugno 2013. 7 Goodman afferma che l’apprendimento digerito viene assimilato e può essere impiegato in maniera simile alla propria muscolatura. Perché possa favorire la crescita è necessario che l’esperienza del contatto pieno venga assimilata in maniera inconsapevole e soprattutto corporea ristrutturando lo schema corporeo in termini di integrità e pienezza, aggiornando la funzione Personalità, la quale diventa memoria corporea dell’A, cioè dell’Altro che l’O ha incontrato con pienezza, diventa biografia vissuta. Cfr. G. Salonia, Teoria del Sé è e società liquida. Riscrivere la funzione Personalità del Sé in Gestalt Therapy, in «GTK Rivista di Psicoterapia» 3, 33-62.
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Cambiamento vuol dire trovare un orientamento nell’angoscia, cioè continuare a respirare quando il respiro tende a chiudersi. Perls afferma che il rischio e la paura si incontrano nel respiro, la via maestra che ci conduce dal ‘corpo che ho’ al ‘corpo che sono’ (corpo vissuto)8. Un corpo abitato pienamente è vitalizzato dal respiro che ne percorre ogni parte, favorendo la sua percezione e donando un senso di armonia ed una luminosa sensualità. Il terapeuta, in contatto con il proprio sentire, osserva cosa accade nell’intercorporeità, cioè cosa succede nel suo corpo e in quello del paziente quando sono nella traità corporea dell’incontro terapeutico. Il terapeuta individua l’interruzione della sequenza processuale del contatto, che genera sintomi, cioè parole e azioni ‘instead of’, per fornire il sostegno adeguato al corpo disorientato, sostenendo il libero fluire della respirazione che condurrà al compimento dell’intenzionalità relazionale. Non si tratta più di sciogliere semplicemente blocchi muscolari o far emergere emozioni trattenute, ma accompagnare il paziente affinché possa riprendere il percorso di crescita interrotto ed apprendere la valutazione organismica corporea attraverso l’integrazione del ‘corpo che ho’ con il ‘corpo vissuto’ e il ‘corpo con cui sono in relazione’. Ed ecco che il corpo si svela nella sua genuinità rivelandoci quei ‘segreti’ che per secoli hanno affascinato ed incuriosito filosofi e letterati. Non ci sono misteri da scoprire, ma corpi da ‘sentire’. Si tratta di essere aperti all’ascolto dell’Altro che nell’incontro ci svela la sua verità raccontandoci la sua storia, che è unica ed irripetibile, lasciandoci affascinare dal suo racconto e guidare dal suo corpo. Riuscire a relazionarsi nel rispetto dei tempi e dei modi di ciascuno favorirà il fluire del legame, come in una danza, in cui l’altro mi conosce e possa riconoscersi, offrendo un grembo accogliente e un terreno fertile dove la diversità possa germogliare, donando speranza e ridando dignità alla persona sofferente.
Ed ecco che il corpo si svela nella sua genuinità rivelandoci quei ‘segreti’ che per secoli hanno affascinato ed incuriosito filosofi e letterati. Non ci sono misteri da scoprire, ma corpi da ‘sentire’
8 Cfr. G. Salonia, La Psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, II corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano.
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Book Review: How the Body Shapes the Mind
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LETTURE
Aluette Merenda How the Body Shapes the Mind SHAUN GALLAGHER Oxford, England: Oxford University Press, 2005 294 pages, ISBN: 0199271941
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he book, partly based on a series of articles published in the last ten years, is aimed at the understanding of the theory of body, throughout the Embodied Cognition (EC) paradigm and discovering its importance in the way how the body shapes our mind (and what really shapes it). Starting from his investigations as philosopher, Shaun Gallagher summarizes significant experimental results coming from a wide variety of domains: neuropsychology (e.g. aplasic phantom limbs and schizophrenia), neuroscience (e.g. mirror neurons), developmental psychology (e.g. neonate imitation) and social psychology (e.g. communicative gestures). Specifically, he uses these results to develop a theory of embodied cognition and a connection with the Physical Grounding Hypothesis (PGH), regard the influence of the physical on the mind. In particular, the PGH affirms that the contents and operation of the mind are grounded in physical properties and embodied experience. And, in this context, the variety of properties implicated in any explanation of cognition are really important. In addition of EC, then, PGH says that cognition supervenes not just on brain facts but on many different aspects of embodiment (such as: material, functional, relational, dynamic), underlining its connection with the environment1. Identifying these various facts and their specific cognitive impact, is one of the most important research projects in EC, that Gallagher’s book makes its largest contribution2. The book is structured into two parts. In the first part, Gallagher emphasizes the need to distinguish between two kinds of systems for the body, that have been often confused in the literature: the body image and the body schema. More particularly, one may notice the diversity of body notions he refers to when talking about embodiment, which goes further
Cfr. S. Gallagher (2005), How the Body Shapes the Mind, Oxford University Press, Oxford, England. 2 Cfr. F. De Vignemont (2006), Review of How the Body Shapes the Mind, in «Psyche», XII, 1, 1/7. 1
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than his distinction between the body schema and the body image. According to Gallagher, there are at least four implicit core notions of the body that he uses to describe how the body shapes the mind: (1) the organic body; (2) the spatial body, (3) the body schema and (4) the affective body3. In the second part, throughout a wide range of data, he shows the influence of these body systems on the way we perceive the world and other people. Specifically, in order to clarify the distinction between the two body systems, Gallagher affirms: “a body image consists of a system of perceptions, attitudes, and beliefs pertaining to one’s own body. In contrast, a body schema is a system of sensory-motor capacities that function without awareness or the necessity of perceptual monitoring”4. According to the Author, this distinction finds empirical ground in a double dissociation in neurology. For example, patients with personal neglect do not attend to the left part of their body, as they shave or make up only the right side of their face. This would result from a disruption of their perceptual body image. On the contrary, deafferented patients, who receive no tactile or proprioceptive information below the neck, are unable to move if they do not observe carefully what they are doing. Their body schema is severely impaired, replaced by a reflexive body image. Moreover, Gallagher assumes that once one knows how the body schema shapes perception then one will know how it shapes the whole of cognition, as perception is the fundamental basis of cognition And, in particular, he focuses mainly on three domains: self-consciousness, intersubjectivity and language5. In conclusion, the book represents an interesting work for an interdisciplinary audience, based on a peculiar analysis of the current literature in neuroscience, psychology and neuropsychology regard the theory of body6. Althought it not presents an analytical framework, Gallagher’s new findings are clear and precise, using a disciplinary vocabulary. He addresses his conclusions on several contemporary questions about the role of the body in cognition, that will drive research forward for some time7. His investigations represent both a sign of, and contributor to, the maturation of EC as a research field, point to the same transition from revolutionary to normal science8. 3 Cfr. S. Gallagher (2005), How the Body Shapes the Mind, cit. 4 Ivi, 24. 5 Id. (2007), How the body shake the mind, in «Philosophical Psychol-
ogy», XX, 1, 127-142, 127.
6 Cfr. F. De Vignemont (2006), Review of How the Body Shapes the
Mind, cit.
7 Cfr. S. Gallagher (2005), How the Body Shapes the Mind, cit. 8 Id. (2007), How the body shake the mind, cit., 142.
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References
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Damasio A.R.
(1994), Descartes’ Error: Emotion, Reason and the Human Brain, G.P. Putnam, NewYork.
De Vignemont F.
(2006), Review of How the Body Shapes the Mind, in «Psyche», XII, 1, 1/7.
Gallagher S.
(2007), How the body shake the mind, in «Philosophical Psychology», XX, 1, 127142.
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