07/2019
Istituto di Gestalt Therapy Kairos
07 psicopatologia ISSN 2039-5337
RIVISTA DI PSICOTERAPIA
PSICOLOGIA FORMAZIONE RICERCA
Istituto Gestalt Therapy hcc Kairos Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt
In un quarto di secolo di attività l’Istituto ha contribuito in modo significativo alla storia e allo sviluppo della Psicoterapia della Gestalt, formando un migliaio circa di psicoterapeuti e intrecciando, con numerosi Enti ed Organismi sia nazionali che internazionali, molteplici e proficui rapporti di collaborazione e affiliazione volti allo scambio scientifico e alla ricerca nell’ambito specifico della psicoterapia e delle relazioni di cura. Sin dalle origini, l’Istituto è stato in contatto con i fondatori della Psicoterapia della Gestalt allora viventi - Isadore From, Jim Simkin - e ha avuto cura di intraprendere scambi didattici e scientifici con gli esponenti
più illustri della seconda generazione di terapeuti della Gestalt - E. Polster, M. Polster, S.M. Nevis, Ed Nevis, R. Kitzler e altri - impegnandosi in progetti di ricerca internazionali sulla teoria e la clinica della Psicoterapia della Gestalt. L'istituto ha intessuto scambi didattici e scientifici con i più prestigiosi Istituti di Terapia della Gestalt italiani ed esteri e con le più accreditate associazioni di Gestalt Therapy nel mondo, con cui mantiene rapporti di collaborazione. Nel 2001 l’Istituto ha avviato una collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore per l’istituzione di Master di secondo livello, ad oggi 16 edizioni.
L’ISTITUTO ORGANIZZA ■ Master Universitari di primo e secondo livello in “Pastoral Counselling” e in “Psico-oncologia” in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Medicina e Chirurgia di Roma, cogestiti con l’Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy “Nino Trapani”, in Sicilia-Lazio-Veneto ■ Corsi di Educazione Continua in Medicina - ECM ■ Training internazionale in “Gestalt Family Therapy” ■ Scuola di Alta Formazione in “Pastoral Counselling” ■ Corsi di formazione per docenti accreditati dal MIUR, in collaborazione con il Centro Phronesis
AFFILIAZIONI EAGT (European Association for Gestalt Therapy), EAP (European Association for Psychotherapy), SIPG (Società Italiana di Psicoterapia della Gestalt), FISIG (Federazione Italiana Scuole e Istituti di Gestalt), CNSP (Coordinamento Nazionale Scuole Riconosciute), FIAP (Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia).
SEDI RICONOSCIUTE DAL MIUR Sicilia Ragusa Lazio Roma Veneto Venezia
DIREZIONE DELLA SCUOLA E COMITATO SCIENTIFICO Giovanni Salonia Responsabile Scientifico Valeria Conte Responsabile Didattico Erminio Gius Membro del Comitato Scientifico
D.M. 9.5.94, D.M. 7.12.01 e D.M. 24.10.08
WEB www.gestaltherapy.it BLOG www.gestaltherapy.it/blog/
Rivista annuale on line Gestalt Therapy Kairòs Rivista Di Psicoterapia Direttore Scientifico Giovanni Salonia Direttore Responsabile Concetta Bonini Caporedattore Laura Leggio Ufficio Legale Silvia Distefano Comitato scientifico Angela Ales Bello Vittoria Ardino Paola Argentino Eugenio Borgna Vincenzo Cappelletti Piero Cavaleri Valeria Conte Ken Evans ✝ 15 luglio 2015 Sean Gaffney Erminio Gius Bin Kimura Aluette Merenda Rosa Grazia Romano Antonio Sichera Christine Stevens Silvia Salcuni Membro del Comitato Scientifico dell’Istituto per il MIUR Comitato editoriale Giovanni Salonia Antonio Sichera Valeria Conte Aluette Merenda Rosa Grazia Romano
Indirizzo per la corrispondenza GESTALT THERAPY KAIROS Rivista di psicoterapia 97100 Ragusa Sicilia Italia Via Virgilio, n°10 Richieste Editoriali +39 0932 682109 Abbonamenti +39 0932 682109 Per maggiori informazioni redazione.gtk@gestaltherapy.it www.gestaltherapy.it
Editing Luisa Pacifico Sergio Russo Traduzioni Luisa Pacifico Ghery Maltese Correzione bozze Sergio Russo Fotografie Margot Errante Stampato da Gruppo Parentesi S.r.l. Progetto grafico ’AFTERSTUDIO Art director M’AS Marco Lentini Graphic designer P’AS Paolo Pluchino
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Abbreviazioni sezioni EDI editoriale IQN in questo numero RIC ricerca NAC nuove applicaizioni cliniche SPS società e psicoterapia DIS gtk dissemination APS arte e psicoterapia LET letture PUB pubblicazioni IT italiano
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Indice
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In questo numero..........................................................................................................pag. 11
INDICE
Editoriale..................................................................................................................................pag. 7
Ricerca.........................................................................................................................................pag. 17 L’educazione al ‘gusto’ come etica della felicità Dall’emergenza antropologica a itinerari di cambiamento: lo sguardo della Gestalt Therapy sulle relazioni sociali e intime nel contesto della società post-liquida Dialogo con Giovanni Salonia e Valeria Conte a cura di Antonio Sichera C’est oui ou c’est non? C’est oui ET non: la fonction-moi du self Jean-Marie Robine To be Taken to Heart: the ethical paradigm of gestalt therapy how to gain a self-determined ethical profile Bertram Müller Nuove applicazioni cliniche.............................................................................pag. 67 Il triangolo primario intercorporeo: il ruolo del padre nello sviluppo infantile Eleonora Savino Experiment: Lead the client by following him half a step behind Jan Roubal Società e psicoterapia...............................................................................................pag. 99 La violenza assistita nel triangolo primario: quando papà picchia mamma Sara Pretalli e Giusi Adamo GTK dissemination.......................................................................................................pag. 109 La Gestalt Therapy (e GTK) in Nepal Giovanni Turra Arte e psicoterapia........................................................................................................pag. 115 They left their home and hearth - Where East and West meet each other; about language, images, cultural differences and friendship Greet Cassiers Letture.........................................................................................................................................pag. 131 Pietro Andrea Cavaleri
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è un’urgenza di attualità in questo settimo numero di GTK. Vi si respira l’aria di una riflessione sulla psicoterapia che non può fare a meno di confrontarsi con le grandi questioni aperte che ci assillano e ci inquietano. A dare il tono al numero è il dialogo tra Giovanni Salonia, Valeria Conte e Antonio Sichera sulle possibili chiavi di lettura gestaltiche della condizione odierna, affacciata sulle frontiere dell’anti-umano e del post-umano, in cerca di una relazione possibile, di un ascolto del limite che l’altro è per ognuno di noi. Su questo spartito si innestano, dal punto di vista della teoria clinica, i contributi di Jean-Marie Robine e Jan Roubal: l’uno volto all’analisi puntuale della funzione-Io del Sé, decisiva per stabilire i confini della libertà e della decisione del soggetto in un campo/ mondo difficile come quello in cui ci troviamo a vivere; l’altro puntato sul possibile ‘restauro’ dell’«esperimento» in Gestalt Therapy, ovvero nel quadro di un approccio che privilegia ormai la dimensione esistenziale e dialogica rispetto a quella (tristemente famosa) delle tecniche terapeutiche. Ma non si tratta solo di teoria. I terapeuti di oggi devono far fronte a contesti e sollecitazioni inediti, che richiedono riflessioni accurate e competenza sensibile. In questa direzione si muovono i lavori di Eleonora Savino, che ci racconta il disagio della paternità in un mondo uscito da una millenaria separazione tra maschile e femminile, e di Giuseppina Adamo e Sara Pretalli, sulla violenza assistita come emergenza della condizione infantile, in un mondo che non preserva il bambino dal contatto con scene invasive e traumatiche. L’implicazione etica di questi temi viene portata alla luce dal saggio appassionato e acuto di Bertram Müller, che pone con forza il problema di una disposizione etica all’interno della prassi terapeutica, in un pianeta assillato da sfide epocali sul piano personale e collettivo. Come a dare sostanza e profilo narrativo a questa lunga circumnavigazione intorno al «che fare?» – vero nucleo di ogni etica –, il n. 7 di GTK offre uno spaccato coinvolgente e istruttivo sulla Gestalt Therapy in Nepal, portando alla luce la domanda cruciale su cosa possa significare fare terapia in una cultura altra, su quale confine si collochino dei gestaltisti occidentali chiamati a fare i conti con spazi inediti e fibrillanti di perdita e di incontro, di radicamento e di abbandono. Giovanni Turra e Greet Cassiers, l’uno sul piano del pensiero, l’altro dell’arte e della poesia, conferiscono alla rivista il tono di una apertura consapevole alla complessità dell’esserci in un mondo così uguale e così diverso, che solo il semplicismo e l’ignoranza di uomini pubblici e di intellettuali compia-
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centi può ridurre a slogan e a facili ricette. Come a dire che l’ascolto e il rispetto dell’umano rimangono l’unica via di una ricostruzione dello stare assieme, che non può fare a meno di nessuno e che a tutti deve dare parola e dignità. Ragusa, gennaio 2019
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Rivista di Psicoterapia tk (on-line e bilingue) Collana gtk, con l’editore Il pozzo di Giacobbe Collana diàpathos, con l’editore Cittadella
Psicopatologia e nuove prassi cliniche Teoria evolutiva e terapia familiare
titolo Devo sapere subito se sono vivo autori G. Salonia, V. Conte, P. Argentino pagine 296 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2013
titolo Danza delle sedie autore G. Salonia pagine 160 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2015
titolo La luna è fatta di formaggio a cura di G. Salonia pagine 176 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2014
titolo Come l’acqua… autori D. Iacono, G. Maltese pagine 96 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2012
titolo Incontri terapeutici a cura di A. Merenda pagine 152 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2014
titolo Edipo dopo Freud autori G. Salonia, A. Sichera pagine 96 GTK-books/01 anno di pubblicazione 2013
titolo Tra autore B. Kimura pagine 176 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2013
titolo For Oedipus a new Family Gestalt autori G. Salonia, A. Sichera, V. Conte pagine 135 GTK-books/02 anno di pubblicazione 2013
Antropologia titolo Sulla felicità autore G. Salonia pagine 184 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2011 titolo La grazia dell’audacia autore G. Salonia pagine 80 editore Il Pozzo di Giacobbe anno di pubblicazione 2012 titolo Comunicazione Interpersonale autori H. Franta, G. Salonia pagine 170 editore LAS anno di pubblicazione 1979 titolo La casa vissuta autore G. Giordano pagine 224 editore Giuffrè anno di pubblicazione 1997 titolo Ogni giorno merita una gestalt a cura di S. Antoci e A. Rusca pagine 156 editore Cittadella editrice anno di pubblicazione 2014
Rivista di Psicoterapia ITA/ENG
titolo i come invidia a cura di G. Salonia pagine 112 editore Cittadella editrice anno di pubblicazione 2015 titolo La vera storia di Peter Pan a cura di G. Salonia pagine 84 editore Cittadella editrice anno di pubblicazione 2016
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In questo numero
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IN QUESTO NUMERO
Antonio Sichera pag. 17 Antonio Sichera insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania ed è docente di Fenomenologia ed Ermeneutica nella Scuola di Specializzazione post-universitaria dell’Istituto di Gestalt Therapy Kairòs. Formatosi in Lessicografia e Semantica della lingua letteraria europea alla prestigiosa scuola catanese di Giuseppe Savoca, ha scritto saggi e monografie su Foscolo, Pasolini, Pavese, Pirandello, Montale, Quasimodo e su molti altri autori della contemporaneità letteraria, in un’ottica interdisciplinare ed ermeneutica. Si è occupato a più riprese di teoria della critica e dell’agire letterario, in rapporto con il sapere filosofico e teologico, fra Gadamer, Benjamin e Jossua. Sul versante clinico, è autore di diversi saggi sugli aspetti ermeneutici ed estetici della Gestalt Therapy. Ha tradotto dal greco (A Diogneto) e dal francese (diversi testi del Padre Jossua). Giovanni Salonia pag. 17 Psicologo, psicoterapeuta e teologo. Formato in Terapia Rogersiana (H. Franta), Terapia Familiare (M. Kirschenbaum – C. Gammer), Bodytherapy (G. Downing). Diplomato in Gestalt Therapy (E. e M. Polster, I. From, J. Zinker). Già docente di Psicologia Sociale presso l’Università LUMSA di Palermo e di Psicologia presso la Facoltà Teologica di Palermo. Docente invitato presso l’Istituto Telogico San Paolo di Catania. Docente incaricato presso l’Università Pontificia Antonianum (Roma). Insegna alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Già Visiting professor presso l’Università del Connecticut (USA). Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairòs (Venezia, Roma, Ragusa) e dei Master di II livello cogestiti con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Direttore del Consultorio Familiare Oasi Cana di Palermo. Didatta conosciuto a livello internazionale e professore invitato presso numerose università italiane ed estere. Già Full Member dell’Instituto di Gestalt Therapy di New York (NYGT). È stato Presidente della FISIG (Federazione Italiana Scuole di Gestalt). Ha scritto: Comunicazione Interpersonale (con H. Franta), Kairòs, Odòs, Sulla felicità e dintorni, Danza delle sedie e danza dei pronomi e, come coautore, Devo sapere subito se sono vivo e La luna è fatta di formaggio, I come invidia e La vera storia di Peter Pan, che trattano di tematiche sia antropologiche che cliniche.
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Ha inoltre scritto numerosi articoli pubblicati in riviste estere e nazionali e capitoli di testi scientifici italiani ed esteri. Ha fondato e diretto la rivista Quaderni di Gestalt (1985-2002). Ha fondato e dirige dal 2008 Gtk – Rivista Internazionale on line di Psicoterapia. Già co-direttore della collana Diàpathos della Cittadella Editrice, dirige la collana GTK del Pozzo di Giacobbe. Valeria Conte pag. 17 Psicologa, Dirigente presso il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASP provinciale di Ragusa; psicoterapeuta e Didatta Supervisore Ordinario riconosciuto dalla FISIG (Federazione Italiana Scuole ed Istituti di Gestalt). Membro del comitato scientifico e responsabile didattico e clinico dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairòs. Formata con i maggiori esponenti nazionali ed internazionali della Psicoterapia della Gestalt, ha ampliato la sua specifica formazione con training di specializzazione in Terapia Familiare e in Terapia Corporea. Ha approfondito il modello epistemologico della Gestalt Therapy nel lavoro con i pazienti psichiatrici, le coppie e le famiglie, i cui risultati sono stati pubblicati su riviste nazionali ed estere. Jean-Marie Robine pag. 31 Psicologo clinico dal 1967. Fondatore ed ex direttore dell’Institut Français de Gestalt-thérapie, co-fondatore ed ex presidente della European Association for Gestalt Therapy, full member del New York Institute for Gestalt Therapy, autore di otto libri sulla Gestalt Therapy, tra cui On the Occasion of an Other (edito da Gestalt Journal Press) e Social change begins with two (in inglese presso l’Istituto di Gestalt HCC Press). Redattore di Sé. Una polifonia di psicoterapeuti della Gestalt contemporanei, disponibile in molte lingue. Bertram Müller pag. 47 Bertram Müller lavora come psicoterapeuta della Gestalt in uno studio privato a Düsseldorf e come formatore e supervisore della Gestalt in diversi paesi europei. Ha titoli accademici in Filosofia, Teologia (1973) e Psicologia clinica / Psicoterapia (1981). Ha studiato dal 1973 Gestalt Therapy in Europa e negli Stati Uniti con Ischa Bloomberg, E. e M. Polster, Bob Martin e dal 1977 al 1982 con Isadore From. È stato Vice Presidente fondatore dell’Ass. tedesca della Gestalt Therapy (DVG), cofondatore dell’Istituto di Gestalttherapy (IFG) di Düsseldorf; Otto Founder (DORG) e membro fondatore della European League of the Arts (ELIA). È stato fondatore e direttore artistico (1979-2013) della Tanzhaus NRW (Dancehouse Northrhein / Westfalia). È stato onorato con il “Chevalier des Art et des Lettres” (1991) dal Ministro francese della Cultura: Jaques
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Lang, e con il German Dance Price / Deutsche Tanzpreis 2014. E ‘membro onorario del “Master in psicoterapia della Gestalt” (2016, Malta) . Ha pubblicato articoli su: Diagnosi in Gestalt; Metodologia della Gestalt; Educazione e coaching in Gestalt; contributi di O. Rank nella terapia della Gestalt; gli insegnamenti di I. Fromm.
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Eleonora Savino pag. 67 Psicologa e Psicoterapeuta. Laureata in Psicologia Clinica e di Comunità presso l’Università La Sapienza di Roma (2002), iscritta all’Ordine degli Psicologi del Lazio (2004) e abilitata all’attività di Psicoterapia. Già Cultrice della Materia presso la Cattedra di Fondamenti di Dinamica dei Gruppi presso l’Università La Sapienza di Roma. Specializzata in Psicoterapia della Gestalt, è docente presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairòs. Esperta in test di personalità. È presidente dell’Istituto Kàris – I.R.P.G. Istituto Romano di Psicoterapia della Gestalt. Specialista in Video Intervention Therapy, è Trainer di Training Autogeno. Specializzata in Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR), è socio dell’associazione per l’EMDR in Italia. Jan Roubal pag. 79 Psichiatra, psicoterapeuta della Gestalt, docente di Psicoterapia e di Psichiatria alla Masaryk University di Brno (Czech Republic). Trainer e supervisore internazionale, ha lavorato nelle strutture pubbliche di Salute Mentale e in Ospedale Psichiatrico, occupandosi principalmente di Disturbi dell’Umore e Disturbi Psicotici. È membro di EAP (European Association for Psychotherapy), EAGT (European Association for Gestalt Therapy), SPR (Society for Psychotherapy Research) ed è chair del Research Committee dell’EAGT. Sara Pretalli pag. 99 Psicologa clinica, psicoterapeuta formatasi presso l’Istituto di Gestalt-Therapy H.C.C Kairòs di Venezia. Ha conseguito un Master biennale in “Fenomenologia delle relazioni intime e della violenza modelli di intervento sui legami di coppia e genitoriali” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Attualmente vicepresidente della cooperativa Iside, dove da diversi anni è impegnata nella progettazione e realizzazione di azioni di contrasto alla violenza di genere e nell’educazione alle pari opportunità. Svolge attività terapeutica in modalità libero-professionale nell’ambito dell’età evolutiva e adulta presso il proprio studio privato con sede a Padova e Mestre-Venezia.
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Giuseppina Adamo pag. 99 Psicologa, psicoterapeuta della Gestalt. Lavora come dirigente psicologa presso il Servizio Età Evolutiva del Distretto Sanitario dell’AULSS 3 Serenissima, sede di Stra (VE). È didatta presso l’Istituto di Gestalt-Therapy hcc Kairòs, sede di Venezia-Mestre. Giovanni Turra pag. 109 Psicologo, psicoterapeuta, specializzato presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairòs di Venezia, il Centro Studi Terapia Gestalt di Milano e il Gestalt Centre di Londra. Insegna stabilmente negli Istituti di Gestalt a Cracovia, Vilnius e Kathmandu. È inoltre diplomato in flauto al Conservatorio Musicale “A. Pedrollo” di Vicenza. Formatosi all’ISSTIP di Londra, si occupa di psicologia della performance con gli artisti performativi. Greet Cassiers pag. 115 Nata in Belgio nel 1947, sposata con Ernst Knijff, terapeuta della Gestalt dal 1983 e trainer internazionale di Gestalt dal 1988 in Belgio, Paesi Bassi, Norvegia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Grecia, Georgia, Nepal. Membro da 20 anni dello staff presso il Gestalt Institute Multidimens di Belgio e Paesi Bassi (fino al 2013), co-fondatrice nel 2011 e membro dello staff del Gestalt Institute in Nepal (con Ernst Knijff e Frans Meulmeester). Co-autrice (con Ernst Knijff ) di Coaching Cards (Nl - Eng) & Relatiekaarten (Nl). Co-fondatrice e presidente della Fondazione JUST SOLIDARITY (per dare supporto finanziario a progetti di Gestalt in Nepal), Membro dell’EAGT (European Association for Psychotherapy) e dell’AAGT (Association for the Advancement of Gestalt Therapy). Si occupa principalmente di terapia di coppia (con Ernst Knijff ) e di argomenti esistenziali. www.greetcassiers.be
Pietro Andrea Cavaleri pag. 131 È laureato in psicologia e in filosofia. Psicoterapeuta a orientamento gestaltico, è didatta ordinario FISIG. È stato docente a contratto presso l’Università di Palermo e la LUMSA, attualmente insegna presso la Pontificia Facoltà di Scienze della Formazione “Auxilium” nella sede di Caltanissetta. Ha scritto alcune pubblicazioni sugli aspetti epistemologici della pratica psicoterapeutica e sul dialogo fra psicologia e fede.
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Margot Errante Margot Errante (nata nel 1976) è una fotografa italiana che ha vissuto e studiato in Cina per due decenni (1997-2017), assistendo all’ascesa del paese da società agricola a potenza industriale. Parla correntemente cinque lingue, tra cui il cinese standard e alcuni dialetti della Cina sud-occidentale. Combattuta sin da bambina tra arte e scienza, ha infine perseguito studi linguistici e si è poi specializzata in antropologia dell’Asia orientale. Nel 2004 si è trasferita per un anno in un villaggio indigeno nella giungla sino-birmana, dove ha condotto ricerche etnografiche sul popolo Wa, una minoranza etnica conosciuta in Asia come “cacciatori di teste”. I frutti fotografici del suo studio hanno segnato il suo debutto come fotografa professionista: nel 2005 ha tenuto in Italia la sua prima mostra personale per raccogliere fondi da devolvere all’economia del villaggio in cui ha vissuto, dopo di che è stata scelta come fotografa per una missione diplomatica sponsorizzata dal Ministero degli Affari Esteri italiano - un viaggio di tre mesi dall’Italia al Giappone in jeep per consegnare un messaggio di pace, con uno stop over in Corea del Nord che ha fatto vincere al team un premio per la pace. Errante ha poi lavorato per alcuni anni come fotoreporter freelance; ha prodotto un cortometraggio sulle Prime Nazioni canadesi e nel 2008 ha scritto e diretto un programma televisivo - Beijing Express - trasmesso da Class CNBC. Alcuni dei suoi lavori sono stati pubblicati su “Beijing Architecture & Design” (2008), e in seguito ha co-curato il padiglione di Hong Kong alla 12. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Si è trasferita ad Hong Kong, dove ha aperto il suo studio fotografico ed è diventata famosa per i suoi ritratti chiaroscuro. Ultimamente ha sviluppato un interesse per la performance art come mezzo per rendere i suoi soggetti attivi collaboratori e ha organizzato tre performance personali ad Hong Kong che sono state ben accolte dal pubblico. Nel 2018 ha incontrato la collezionista di kimono Prerna Chainani, con la quale ha elaborato Someone Else’s Silk, una performance artistica sull’empatia e la capacità di andare oltre il proprio Io. Con un percorso accademico che l’ha portata dall’Antropologia alle Neuroscienze, Errante è una ricercatrice che trova nella fotografia il mezzo ideale per osservare la mente umana e rappresentarne le sue manifestazioni. Attualmente vive tra il Lago di Como e Hong Kong, dove lavora su commissione oltre a sviluppare progetti personali. È rappresentata da gallerie e le sue opere sono esposte a livello internazionale in occasione di mostre e fiere d’arte.
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L’educazione al ‘gusto’ come etica della felicità Dall’emergenza antropologica a itinerari di cambiamento: lo sguardo della Gestalt Therapy sulle relazioni sociali e intime nel contesto della società post-liquida Dialogo con Giovanni Salonia e Valeria Conte a cura di Antonio Sichera
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Tra kronos e kairos, tra la città e la casa, qual è l’appello che viene alla Gestalt Therapy dal contesto attuale? come rispondervi, partendo dall’emergenza antropologica ma cogliendo al contempo le opportunità di sviluppo e di avanzamento che il contesto stesso ci offre, nella logica del now for next?
Antonio ella società che possiamo ormai definire post-liquida, lo psicoterapeuta è certamente titolare di un osservatorio privilegiato sulla realtà, e in particolare sulle trasformazioni della dimensione relazionale, tanto pubblica quanto privata. Lo dico nell’ottica della Gestalt Therapy, da sempre attenta al sociale, per cogliere i mutamenti riguardanti la personalità di base e i modelli relazionali, ma altrettanto renitente a qualunque forma di classificazione astratta del reale, in forza di un profondo e lucido rispetto dell’esperienza vitale, ben più grande di ogni schema. Direi così allora e vi farei partire da una domanda del tipo: Tra kronos e kairos, tra la città e la casa, qual è l’appello che viene alla Gestalt Therapy dal contesto attuale? come rispondervi, partendo dall’emergenza antropologica ma cogliendo al contempo le opportunità di sviluppo e di avanzamento che il contesto stesso ci offre, nella logica del now for next? Giovanni La premessa ci porta subito a ricordare l’intuizione di Lyotard sulla fine delle «grandi narrazioni»1, che segna il passaggio dalla modernità alla postmodernità e che diventa una prima e lucida diagnosi sulla condizione che ancor oggi viviamo: una condizione in cui siamo privi di un modello antropologico atemporale e aspaziale capace di soddisfare tutti, e in cui le piccole narrazioni avanzano talvolta la pretesa di trasformarsi in grandi. Partiamo come sempre dalla teoria del Modello Relazionale di Base, che ci aiuta a comprendere i nessi tra contesto culturale e dinamiche relazionali e come ogni società sviluppi un proprio modello di cosa significa vivere, stare in relazione, essere felici: senza ribadire il riferimento già più volte esaminato al 6 agosto del 19452, è tuttavia indubbio che proprio da quella data è emersa una nuova idea di convivenza, generando quella che tuttora resta una complessa coesistenza di modelli tra loro profondamente diversi, addirittura opposti. È come se noi vivessimo contemporaneamente molti 1 Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981. 2 Cfr. G. Salonia, Sulla Felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2011.
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secoli: se da un lato persiste ancora un modello patriarcale e monolitico, che quasi suggerisce la nostalgia di un’impostazione verticistica e della figura di un capo, dall’altro si sono ormai poste le premesse per un mondo nuovo in cui si sono aperte le porte della genuinità e della creatività. Ma è proprio in questa apertura − quando non ci sono più fedi che si legittimano da sole, quando non è indicato con chiarezza chi ha ragione e chi ha torto − che sorge anche l’angoscia della liquidità, quella che già Durkheim3 aveva previsto, ipotizzando che un eccessivo spazio per la soggettività avrebbe portato all’anomia e dall’anomia al suicidio: ebbene, se non siamo tipicamente in questa situazione, è comunque chiaramente diffusa l’angoscia di non sentirsi protetti da alcun codice antropologico, che spinge l’emergere di valori di sopravvivenza e spesso conduce molti a rincorrere il facile successo, l’apparenza, il potere sull’altro, come soluzioni che sembrano dare consistenza a frammenti di esistenza. È indubbio che nel modello di base attuale emerge come centrale la ‘relazione’: è da questo punto di vista che noi oggi guardiamo alla realtà degli uomini e alla loro possibilità di felicità. Ma essa suscita un’angoscia su cui influisce il fallimento proprio di quelle aggregazioni − nella polis e nell’oikos − che puntavano sulla relazione e che però non sono state capaci di generare una nuova storia (pensiamo al crollo dei partiti e della famiglia come istituzione). Abbiamo preso tra le mani il fuoco e ci siamo bruciati, potremmo dire, ma invece di ritentare è come se avessimo messo più che mai in pratica la preghiera di Perls: «Io sono io, tu sei tu… se ci incontreremo sarà bellissimo, altrimenti non ci sarà stato niente da fare»4. C’è dunque una soluzione per mettere insieme le nostre ‘piccole narrazioni’ senza bruciarci? Il grande problema antropologico su cui dobbiamo interrogarci riguarda più in generale quel che significa ‘essere umani’: si tratta di individuare un marcatore della condizione umana, non per ricreare su di esso un’altra grande narrazione, ma perché di esso abbiamo bisogno come individui e per il futuro, per lasciare ai nostri figli la possibilità di intravederlo. Diventa insomma necessario modificare la conclusione della preghiera di Perls: «Se non ci incontriamo… ci riproviamo». Valeria Se osserviamo con sguardo attento e rispettoso questo contesto, che è quello della postmodernità occidentale, e se lo facciamo senza spinte nostalgiche verso il passato, numerose risorse e potenzia-
È indubbio che nel modello di base attuale emerge come centrale la ‘relazione’: è da questo punto di vista che noi oggi guardiamo alla realtà degli uomini e alla loro possibilità di felicità. Ma essa suscita un’angoscia su cui influisce il fallimento proprio di quelle aggregazioni − nella polis e nell’oikos − che puntavano sulla relazione e che però non sono state capaci di generare una nuova storia
Abbiamo preso tra le mani il fuoco e ci siamo bruciati, potremmo dire, ma invece di ritentare è come se avessimo messo più che mai in pratica la preghiera di Perls
3 Cfr. E. Durkheim, Il suicidio. Studio di sociologia, Rizzoli, Milano 1987. 4 Cfr. F. Perls, La Terapia Gestaltica Parola per Parola, Astrolabio, Roma 1980.
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Se da una parte il primato della soggettività, dell’autoaffermazione e dell’esperienza, ci ha permesso di fare un salto qualitativo nei rapporti, dall’altra sono emerse nuove esigenze del vivere insieme e non sempre abbiamo gli strumenti per affrontarle, mentre la facilità di instaurare relazioni non ci ha dato, allo stesso tempo, la capacità per viverle
Mai come adesso abbiamo conosciuto il primato della relazione umana, mai come in questo contesto ne abbiamo potuto cogliere le opportunità. Eppure ecco che lo sfondo di angoscia che essa ci provoca ci porta a cercare scorciatoie, talvolta retrocedendo alle vecchie soluzioni
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lità si aprono proprio sulla modificata conclusione alla preghiera di Pers di cui parla Giovanni: «Ci riproviamo». Perché ciò sia possibile, abbiamo bisogno di guardare in modo nuovo alla relazionalità, intesa come esperienza di contatto tra le persone. Se assumiamo un atteggiamento aperto ad una nuova comprensione e osserviamo senza pregiudizi le relazioni intime e sociali, vediamo che una nuova sfida emerge da questa osservazione, ovvero l’importanza che viene ancora data alle relazioni intime: ognuno è capace di stare da solo, ma ha voglia di condividere un progetto di vita con l’altro. Questa possibilità si rivela oggi da una parte più facile, perché si è più capaci di intrattenere relazioni, dall’altra particolarmente impegnativa e complessa, quando si tratta di restare in una relazione. La relazionalità, insomma, ha opportunità di pienezza e di crescita non ancora del tutto sviluppate. E vediamo perché. Ognuno vuole essere felice e in effetti ciò è potenzialmente possibile. Se da una parte il primato della soggettività, dell’autoaffermazione e dell’esperienza, ci ha permesso di fare un salto qualitativo nei rapporti, dall’altra sono emerse nuove esigenze del vivere insieme e non sempre abbiamo gli strumenti per affrontarle, mentre la facilità di instaurare relazioni non ci ha dato, allo stesso tempo, la capacità per viverle. Spesso vediamo che si preferisce, anche nelle relazioni, ‘connettersi’ e ‘disconnettersi’ come si fa con la rete, in cui le relazioni virtuali sono più facili sia da instaurare e sia da concludere, spesso con un solo ‘click’, e in cui la distanza virtuale è in qualche modo meno coinvolgente e più gestibile. Di fatto quando abbiamo il coraggio di attraversare il virtuale e ci esponiamo alla bellezza e alla freschezza dello stare insieme, ci esponiamo anche ad un sentire più pieno e al necessario confronto con l’altro. Ma quando qualcosa comincia a non funzionare, spesso non comprendiamo il perché o non sappiamo come gestirlo: vissuti di confusione e ambivalenza ci assalgono, ci fanno percepire il fallimento e l’incapacità personale («Non riesco a stare bene con lui/lei») o ci fanno sentire inadeguati e impotenti («Cosa c’era in me che non andava?»).
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Antonio Questo affresco della realtà attuale ci indica appunto la relazione come asse della vita sia sociale che individuale e di coppia: mai come adesso abbiamo conosciuto il primato della relazione umana, mai come in questo contesto ne abbiamo potuto cogliere le opportunità. Eppure ecco che lo sfondo di angoscia che essa ci provoca ci porta a cercare scorciatoie, talvolta retrocedendo alle vecchie soluzioni. Accade nel contesto politico, dove la fatica di rifondare nuove ed efficaci forme di mediazione ci spinge piuttosto a cercare nuovamente il vertice, ‘il capo’, o all’estremo opposto a
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sperimentare forme di democrazia diretta, totalmente disintermediata. E accade nella vita di coppia, dove da un lato accogliamo il grande fascino di un’avventura in cui ognuno può scommettersi pienamente − non perché c’è un’istituzione che lo decide ma perché c’è una ricerca di realizzazione che lo spinge −, dall’altro le crisi e i conflitti rendono chiaro un sostanziale analfabetismo affettivo, l’assenza di strumenti per gestire le emozioni. Allora potremmo dire che questa situazione del tutto nuova, che è la centralità della relazione a fronte dell’istituzione, ci chiama a trovare un nuovo linguaggio, una nuova modulazione dell’anima? Valeria La facilità di comunicare oggi è sicuramente più scontata, ma non abbiamo compreso che non bastaparlare o dialogare. L’emergere delle individualità ci ha aperto alla possibilità del confronto con l’altro che ha una individualità diversa dalla nostra, che ha vissuti, pensieri, parole e logiche diverse. La soluzione non è certo pensarci tutti uguali o annullare le differenze, peraltro necessarie per una crescita della soggettività, ma imparare un nuovo modo per dialogare. È necessario riscrivere una nuova grammatica della comunicazione, dove per capirsi e condividere si deve attraversare innanzitutto la capacità di ascoltare sé stessi e comprendere che il confronto con l’altro è necessario anche per una più piena comprensione di sé stessi: conosco profondamente me stesso nel divenire della relazione con l’altro. E perché ciò avvenga è importante rimanere dentro la relazione, continuare ad avere voglia di comunicare interessati al pensiero dell’altro, anche se non comprensibile nell’immediatezza. Molte volte parliamo senza che ci sia chiaro cosa le nostre parole vogliono dire all’altro, a quale bisogno personale o relazionale tendano, e se poi queste parole risultano per l’altro incomprensibili, illogiche, a volte confuse o ambivalenti, smettiamo di parlare, perdiamo interesse, accusiamo l’altro e ci limitiamo alla nostra percezione delle cose come l’unica verità. La competenza alla comunicazione – efficace, empatica − che in vari modi ci hanno insegnato nell’ultimo ventennio, nel tempo che viviamo non è la soluzione al problema: il problema non è solamente parlare bene o dire tutto, ma leggere il contenuto di ogni comunicazione in una cornice più ampia. Innanzitutto tenendo conto dell’ordine delle relazioni e degli affetti, come prima forma di orientamento tra le individualità, che per la Gestalt Therapy è l’emergere della funzione-Personalità − ‘Chi sono io’ nella relazione con l’altro si concretizza con ‘Chi sono io davanti a te’ – oltre alla consapevolezza dell’intenzionalità, che per la Gestalt Therapy
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Il problema non è solamente parlare bene o dire tutto, ma leggere il contenuto di ogni comunicazione in una cornice più ampia. Innanzitutto tenendo conto dell’ordine delle relazioni e degli affetti, come prima forma di orientamento tra le individualità
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Annullare le differenze, anziché farcene carico, ci rende più fragili e incapaci di affrontare la nuova sfida che la condizione umana ci richiede: vedere il volto dell’altro non come uno straniero o un nemico, ma come colui che ci permette di fare un’esperienza di uguaglianza, di condivisione, di reciproco sostegno in un rapporto di pari dignità
è l’emergere della funzione-Es – ‘Dicendo questo cosa voglio da te’ −, che in ogni comunicazione dà senso e direzione alle parole. L’intenzionalità relazionale precede la lettura di ciò che avviene e ne chiarifica i percorsi e le chiavi di lettura. Se vogliamo evitare confusioni, smarrimenti e sofferenze, non dobbiamo dimenticare la differenza − sia a livello sociale che familiare − tra le relazioni simmetriche-paritarie e le relazioni asimmetriche-non paritarie: una differenza che risiede innanzitutto nel concetto di responsabilità. Nelle relazioni asimmetriche la responsabilità non può essere reversibile: c’è qualcuno che ha una responsabilità -educativa, clinica, governativa di qualcun altro che per definizione non è paritario − figli, pazienti, cittadini − e questa non parità non riguarda un giudizio di valore o di sottomissione, è semplicemente una condizione. Nelle relazioni simmetriche – di coppia, di amicizia − la responsabilità, il rispetto e il prendersi cura sono invece reversibili e circolari. Oggi i rischi conseguenti all’emergere delle soggettività sono questi: da un lato la tendenza a far diventare paritari i rapporti non paritari, come se l’asimmetria rappresentasse una sconfitta, anziché una fonte di pienezza; dall’altro la difficoltà, nei rapporti paritari, di tollerare la diversità. Così assistiamo ad atteggiamenti di intolleranza, ad un’escalation di violenze e all’aumento delle relazioni conflittuali. Annullare le differenze, anziché farcene carico, ci rende più fragili e incapaci di affrontare la nuova sfida che la condizione umana ci richiede: vedere il volto dell’altro non come uno straniero o un nemico, ma come colui che ci permette di fare un’esperienza di uguaglianza, di condivisione, di reciproco sostegno in un rapporto di pari dignità. Nessuna legge ci obbliga a farlo, né per dovere né per istinto, ma questo rappresenta un’opportunità evolutiva di crescita personale e sociale, per costruire un futuro migliore.
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Giovanni A tal proposito, dobbiamo innanzitutto precisare che la relazione ha la necessità di quest’ordine, secondo la geniale intuizione di Agostino dell’Ordo Amoris5. Lo stesso Martin Buber, dopo tutte le critiche ricevute da Levinas, ammise di aver sbagliato a dire «in principio era la relazione»6, parola che si rivela troppo ampia e inconsistente se non viene precisata da una sfumatura: lui avrebbe preferito − affermò − usare non più il termine ‘relazione’ (Beziehung) ma al suo posto il termine ‘incontro’ (Begegnung). È ‘incontro’, infatti, che esprime la complessità: l’intreccio tra ‘in’ (andare verso l’altro) e ‘contro’. Non dimentichiamo che anche
5 Cfr. Agostino d’Ippona, De civitate Dei. 6 Cfr. M. Buber, Il principio dialogico, Comunità, Milano 1958.
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Gadamer sostenne che «il riconoscimento reciproco è sempre terreno di lotta»7. E a questo oggi noi gestaltisti aggiungiamo: lo è anche il riconoscimento di sé stessi (di sé stesso come un altro − «Soi-même comme un autre» −, come ci ricorda Ricoeur8). Il tipo di difficoltà della relazione che oggi abbiamo di fronte ci fa pensare alla scultorea affermazione di Heidegger, secondo cui l’uomo è troppo maturo per credere negli dei, ma è ancora troppo poco maturo per credere in un unico dio. Ed ecco che ancora Gadamer, compiendo un passo avanti, aggiunse che l’ultimo dio che potrà salvarci sarà il dialogo tra le religioni. Ecco, il dio per il quale non siamo ancora maturi è proprio la relazione. Non un dio inteso ancora una volta con un’accezione verticistica, ma come la nostra capacità di trovare nella cultura della relazione, nella dimensione della relazione, il nostro punto di forza, la vera rigenerazione della condizione umana nella postliquidità. Antonio Ma oggi quella che è ancora l’angoscia, l’immaturità per la relazione, ci spinge fino ai paradossi del ‘post umano’. Le loro frontiere, in tutte le direzioni, puntano a neutralizzare il segno più grande della relazione stessa: le emozioni. Eppure le neuroscienze ci dicono il contrario: che sono le emozioni a dirci cosa è la vita, che il corpo non si può mimare né sostituire. È come se finito il tempo dell’uomo religioso, in cui c’era un dio regolatore a garantirci un orizzonte, avessimo bisogno di sostituirlo con un’altra idea, pur di non spingerci a sperimentare che la soluzione non è fuori di noi, ma in noi stessi e accanto agli altri? Giovanni Dall’intelligenza artificiale alla disforia di genere, stiamo sperimentando le frontiere che abbattono i limiti dell’essere umano. Nel primo caso cerchiamo macchine che sostituiscano le relazioni, quasi che potessimo appunto dimenticare tutti i risultati delle neuroscienze sulla centralità delle emozioni: arriviamo addirittura al paradosso di un robot counsellor, con emozioni precodificate. Nel secondo, vediamo che la società postmoderna che − da Reich in poi − ha appena riscoperto la centralità del corpo come identità e relazione, ne avverte i limiti, che vuole negare o superare. Lo vediamo dall’espressione artistica, che sempre più lo scompagina, alla teoria gender, che arriva a considerare il corpo come una costruzione sociale da superare.
Il tipo di difficoltà della relazione che oggi abbiamo di fronte ci fa pensare alla scultorea affermazione di Heidegger, secondo cui l’uomo è troppo maturo per credere negli dei, ma è ancora troppo poco maturo per credere in un unico dio. Ed ecco che ancora Gadamer, compiendo un passo avanti, aggiunse che l’ultimo dio che potrà salvarci sarà il dialogo tra le religioni
Oggi quella che è ancora l’angoscia, l’immaturità per la relazione, ci spinge fino ai paradossi del ‘post umano’. Le loro frontiere, in tutte le direzioni, puntano a neutralizzare il segno più grande della relazione stessa: le emozioni
7 Cfr. H.G. Gadamer, Verità e Metodo, Bompiani, Milano 1983. 8 Cfr. P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993.
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Ecco la grande sfida della postmodernità: ogni uomo si autolegittima perché esiste, ma quando non si può applicare la parola ‘uomo’? È la lacuna di molte riflessioni di oggi: se l’esistenza precede l’essenza, esistono dei confini per definire l’esistenza umana? La dialettica ‘questo uomo’ e l’‘uomo’ ritorna da un’altra prospettiva: è possibile – e con quali perimetri – il passaggio dall’esistenza all’essenza?
Paradossalmente la pienezza dell’essere umano è racchiusa nel muoversi e ridefinirsi dentro i confini dei propri limiti, non nella loro negazione: il limite è l’essenza stessa della vita e della sua fine
Ecco quindi che ritorna la domanda: che cosa è umano? È illuminante in proposito uno degli aneddoti iniziali de Il Piccolo Principe, in cui il protagonista chiede al pilota di disegnargli una pecora. Il pilota fa molti tentativi di disegnare una pecora, ma tutti risultano inutili, poi disegna una scatola vuota e il piccolo principe è soddisfatto. Il senso è evidente: ogni pecora disegnata non è ‘la pecora’ ma ‘una pecora’. Nella scatola vuota qualsiasi pecora può esserci perché l’idea di pecora è dentro e fuori ogni pecora reale. Ecco la grande sfida della postmodernità: ogni uomo si autolegittima perché esiste, ma quando non si può applicare la parola ‘uomo’? È la lacuna di molte riflessioni di oggi: se l’esistenza precede l’essenza, esistono dei confini per definire l’esistenza umana? La dialettica ‘questo uomo’ e l’‘uomo’ ritorna da un’altra prospettiva: è possibile – e con quali perimetri – il passaggio dall’esistenza all’essenza?
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Valeria Oggi nutriamo l’illusione che tutto è possibile, quasi a dimenticarci che non siamo soli ma sempre e comunque immersi nell’ambiente e nella relazione, e pensiamo che questo sia un vero segno di evoluzione. Le risposte e i comportamenti che ne conseguono, però, sono involutivi. Ne è un esempio proprio la necessità, di fronte alle nostre difficoltà e incapacità, di ricorrere al post-umano come possibilità risolutiva. Ma paradossalmente la pienezza dell’essere umano è racchiusa nel muoversi e ridefinirsi dentro i confini dei propri limiti, non nella loro negazione: il limite è l’essenza stessa della vita e della sua fine. Questo aspetto è presente, con declinazioni diverse, anche nelle relazioni affettive intime: se ognuno si percepisce come capace di essere felice, rischierà di diventare infelice quando qualcuno o qualcosa si contrapporrà alla realizzazione dei suoi desideri. Immaginiamo cosa succede quando il desiderio e la realizzazione individuale si confrontano con i desideri di realizzazione dell’altro e risultano di segno diverso (ad esempio la fine di un sentimento o la volontà di separarsi): l’amore, una meravigliosa dipendenza quando è ricambiato, si trasforma in un tormento quando non lo è. Il rischio, in queste situazioni, è di andare verso derive individualistiche estreme. Solo il desiderio che si confronta con il limite − in questo caso con l’altro − si apre a prospettive di crescita e di pienezza. Antonio Tutte queste premesse che ci portano dritti al corpo, ci legano proprio al suo potere e contemporaneamente − appunto − al suo limite.
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Così come per la relazione, siamo di fronte a una nuova scoperta: fino a Freud, era una realtà innominabile, pericolosa; ora che ha guadagnato uno spazio proprio, che lo abbiamo scoperto e addirittura divinizzato, il modo in cui ci siamo rivolti al corpo è stato quello di negarne la consistenza reale e il limite. Facendo un parallelismo molto attuale, non accettiamo il limite del corpo così come non accettiamo quello del cosmo, che è la natura stessa, pensando di poterla manipolare dall’esterno. Come si può dunque riprendere la strada per tornare al corpo nel modo corretto, esplorandone il potere ed esprimendolo appieno? Valeria È vero che oggi la ricerca del nostro ‘potere’ spesso coincide con quel potere ‘fuori di noi’ che non sentiamo di avere anziché con l’essere noi stessi fino in fondo. E il vero potere non è prevaricare, vincere, cercare una forza più grande: è piuttosto sentirci capaci di cambiare le cose nella nostra vita, una possibilità che cerchiamo di riprenderci in modo fittizio attraverso altre vie. Tendiamo a delegare la ricerca della soluzione, dimenticandoci di ciò che possiamo fare noi, spesso attanagliati da una paura che ci rende incapaci. Questo è il paradosso del corpo: oggi abbiamo la sensazione che ci sia molta corporeità, ma non è affatto così. Il corpo non viene ascoltato − né comunicato − nella sua globalità: si ascolta ciò che emerge, ma non il corpo vissuto, quel corpo come concetto di anima incarnata che è il rendersi parzialmente visibile della soggettività, del Sé, diremmo in Gestalt Therapy. La corporeità coincide con la nostra identità: è a questo che non siamo stati educati. A livello clinico ed educativo questo comporta un cambiamento epistemologico importante, un interesse primario per la consapevolezza, che per la Gestalt Therapy è la valutazione intima dell’esperienza che viviamo nell’essere in relazione. In essa il disagio nasce e si esprime proprio come incapacità di avvertire e decodificare i segnali e i bisogni del corpo, oltre una frettolosa e superficiale valutazione del sentire: dire «ho fatto quello che sento» non basta se quello che sento è scollegato da «chi sono io che sento in questo momento, dove sono, cosa rappresento, chi ho davanti» e anzi rischia di alimentare pensieri di onnipotenza e impotenza. Quando sentiamo che le persone sanno quello che vogliono ma non riescono a farlo, il dubbio legittimo è che conoscano solo una parte del loro sentire. Anche i pensieri su sé stessi emergono dalle sensazioni del corpo e precisamente nell’interazione con altri corpi. Questo è il concetto di intercorporeità, che il nostro Istituto ha portato avanti dalla ricerca teorica di
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Questo è il paradosso del corpo: oggi abbiamo la sensazione che ci sia molta corporeità, ma non è affatto così. Il corpo non viene ascoltato − né comunicato − nella sua globalità: si ascolta ciò che emerge, ma non il corpo vissuto, quel corpo come concetto di anima incarnata che è il rendersi parzialmente visibile della soggettività, del Sé, diremmo in Gestalt Therapy
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Giovanni, che è la declinazione gestaltica del concetto di intersoggettività: nell’esterocezione del corpo bisogna includere non solo la propriocezione − sentire il proprio corpo −, ma anche la percezione del corpo − o dell’ambiente non umano − che ci sta vicino.
Il corpo è una delle più grandi scoperte della postmodernità, eppure, nel relazionarci ad esso, siamo ancora influenzati dai ‘cattivi maestri’
La domanda vera è dunque se l’uomo possa trovare la felicità fuori di sé, continuando nella ricerca del ‘tutto è possibile’, o piuttosto debba cercarla attraverso l’’io posso’, quel potere che ha dentro di sé
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Giovanni Sappiamo che il corpo, diversamente da ieri − prima del 6 agosto 1945, come dicevamo all’inizio −, non è più considerato solo uno strumento per andare in guerra o fare figli ma come spazio di soggettività ed espressione individuale. Il corpo è una delle più grandi scoperte della postmodernità, eppure, nel relazionarci ad esso, siamo ancora influenzati dai ‘cattivi maestri’, i seguaci di Freud e Lacan e, in un certo senso, anche certe mode culturali che nascono dagli slogan e si rivelano poi più resistenti di un dogma. Se pensiamo a Freud, il fatto di aver posto la condizione identitaria dell’uomo nel Super-Io, fuori dal corpo, ha creato un distacco tra il corpo e la realizzazione della persona (non per nulla, Il disagio della civiltà9): ma mentre lui teorizzava in sintonia con un mondo diverso dal nostro − verticistico, represso e repressivo − i suoi seguaci non si sono accorti che il mondo era cambiato e hanno continuato a riprodurre le sue teorie in modo così rigido da diventare eretico. E se guardiamo alle correnti psicoterapeutiche più conosciute oggi (dalla psicoanalisi alla terapia cognitivo-comportamentale), ci accorgiamo che entrambe negano la centralità dell’intercorporeità: il corpo del terapeuta e il corpo del paziente. Parlare di un Super-Io vuol dire dislocare lo spazio della realizzazione individuale, spingendo l’uomo ormai libero dal senso di colpa alla voglia di un potere al di fuori di lui; o dislocare l’uomo stesso nei suoi pensieri, ancora una volta in contrasto con le neuroscienze che affermano che i pensieri di identità e di relazione provengono dal corpo. Ambedue questi approcci cercano un capo o un protocollo: in tutti i casi la creatività soggettiva non ha gli spazi e i rischi del proprio esprimersi. La domanda vera è dunque se l’uomo possa trovare la felicità fuori di sé, continuando nella ricerca del ‘tutto è possibile’, o piuttosto debba cercarla attraverso l’’io posso’, quel potere che ha dentro di sé. Assumere il limite lo trasforma in potere e possibilità di autorealizzazione. Negare il limite rende violenti contro di sé, contro gli altri. Antonio La centralità della relazione, l’aspetto fondamentale delle emozioni, una lettura acuta della condizione del corpo: assumere questi punti di vista come strumenti per l’osservazione della 9 Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino 1971.
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realtà, vuol dire darne già un’interpretazione attraverso le categorie essenziali della Gestalt Therapy. Ed è da questo stesso punto di vista che possiamo delineare un orizzonte di prospettiva. Giovanni Avere queste visioni come background ci apre al «principio speranza», per citare Bloch10: queste categorie che usiamo per leggere la società post-liquida si aprono a un principio educativo che si coniuga – per dirla in questo caso con Jonas11 − con il «principio responsabilità» di fronte a noi e al futuro. Riguardo ai nostri temi, una prospettiva che certamente ci dà la Gestalt Therapy è che il superamento del limite avviene proprio collocandosi nel limite: centrandosi sul corpo, sulle relazioni, sulla temporalità. Categorie che ritroviamo già in uno dei più antichi codici culturali: la Bibbia. Nel peccato delle origini, origine di ogni infelicità, si dice che Adamo ed Eva mangiano la mela, ma già in questo racconto ci accorgiamo che c’è una prospettiva di speranza: ad Adamo ed Eva non viene infatti proibito di mangiare se hanno fame. L’infelicità, allora, nasce quando si perde il corpo e si sogna qualcosa che è fuori dal corpo, al di là del nostro limite, della fame che dovremmo sentire: mangiare senza fame è patologico, porta al rischio del delirio di onnipotenza, mentre sentire la fame ci fa cercare e ritrovare il cibo di cui abbiamo davvero bisogno. Nella nostra carne e nelle nostre relazioni si spianano le strade più feconde del nostro futuro. Rieccoci al punto: diventare abbastanza maturi per credere ad un unico dio, a quel dio che si chiama corpo e relazione (pensiamo al Dasein heideggeriano). Nella prospettiva della Gestalt Therapy il corpo e la relazione sono il vero marcatore dell’umano, il suo limite e la sua garanzia. La felicità non ce la daranno infatti le idee, la tecnica, un capo superegoico, un’idea realizzata, ma un corpo ascoltato e placato e un incontro nutriente. Valeria Se ridiamo centralità − cosa che è fondamentale per la Gestalt Therapy − al senso della responsabilità, ritorniamo alla funzionePersonalità del Sé, che dà un ordine al sentire e alla relazione: il corpo infatti non è mai solo funzione-Es, solo l’immediatezza del sentire, ma con essa operano la funzione-Io, la capacità di scegliere, e la funzione-Personalità. La teoria portata avanti dal nostro istituto, nell’ottica di un’interpretazione coerente del libro fondati-
L’infelicità, allora, nasce quando si perde il corpo e si sogna qualcosa che è fuori dal corpo, al di là del nostro limite, della fame che dovremmo sentire: mangiare senza fame è patologico, porta al rischio del delirio di onnipotenza, mentre sentire la fame ci fa cercare e ritrovare il cibo di cui abbiamo davvero bisogno. Nella nostra carne e nelle nostre relazioni si spianano le strade più feconde del nostro futuro
10 Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005 11 Cfr. H. Jonas, Il principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1990.
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La teoria portata avanti dal nostro istituto, nell’ottica di un’interpretazione coerente del libro fondativo della Gestalt, dimostra come le tre funzioni del Sé siano tutte e tre iscritte nel corpo e il corpo vissuto ne rappresenta l’insieme e il funzionamento adeguato
Quando riscopriamo la possibilità di ascoltarci fino in fondo e le parole sono davvero parole corporee, magicamente ne restiamo affascinati
L’idea gestaltica, sin dall’autentica scienza terapeutica, è di partire non dagli schemi ma dall’ascolto
vo della Gestalt, dimostra come le tre funzioni del Sé siano tutte e tre iscritte nel corpo e il corpo vissuto ne rappresenta l’insieme e il funzionamento adeguato. Purtroppo è una delle cose più difficili da trasferire, non solo a livello educativo, ma anche a livello clinico. Un esempio tipico è la reazione ai comportamenti dei bambini, che spesso vede gli adulti limitarsi a chiedere «Cosa significa? Cosa devo fare?»: se la domanda è posta in questi termini, vuol dire che l’adulto si sottrae alla relazione e non mette in campo il proprio vissuto di madre, padre o insegnante, che è comunque inscritto nel suo corpo e che a volte resta nello sfondo, alla ricerca di soluzioni esterne che non saranno mai del tutto risolutive. Quando riscopriamo la possibilità di ascoltarci fino in fondo e le parole sono davvero parole corporee, magicamente ne restiamo affascinati. Restare interessati, curiosi e aperti al mistero dell’altro, non chiusi in una logica di giusto/sbagliato, torto/ragione, ma chiedendosi «Cosa sto vivendo e cosa posso fare io?», ci riapre alla possibilità di essere produttori di benessere personale e relazionale e protagonisti del nostro e altrui futuro.
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Antonio Questo richiederebbe una rivoluzione copernicana, dal punto di vista delle scienze dell’ascolto. Come dicevamo all’inizio, siamo ancora alle prese con saperi troppo presuntuosi e con modi di organizzare concettualmente il mondo – secondo un’impostazione ancora una volta freudiana e lacaniana – che richiede che qualcuno dall’esterno ci dia categorie sul mondo. Invece l’idea gestaltica, sin dall’autentica scienza terapeutica, è di partire non dagli schemi ma dall’ascolto: quella che nell’ambito della terapia abbiamo chiamato autoregolazione della relazione, dimostra che è dalla possibilità di un ascolto autentico di noi stessi e del mondo che possiamo trovare anche le vie del cambiamento? Valeria Sicuramente, tirando le somme, possiamo dire che la piena libertà di espressione delle differenze necessita della capacità di coniugare amore e potere attraverso potenzialità e risorse ancora non del tutto sviluppate. Ritornando, come abbiamo detto, al concetto di potere, vediamo che quello personale di ogni essere umano è espressione di maturità e di responsabilità e non può essere confuso con il potere sull’altro: il potere personale non entra in gioco come lotta per la supremazia, ma come capacità di essere sé stessi fino in fondo di fronte all’altro. Perché questo avvenga, spesso è necessario attraversare il confronto e a volte anche il conflitto, sapendo che si tratta di un passaggio necessario − specie nelle relazioni intime e nei rapporti di coppia −, che rappresenta una fase evolutiva
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in un cammino di crescita che permette alla coppia di ridefinirsi. Non affrontare il rischio del confronto, interrompendo prematuramente il conflitto per evitare la sofferenza, non produce esistenze felici ma scisse o desensibilizzate. Attraversare il conflitto significa invece avere fiducia nella relazione e permettere di esprimersi alle sue due spinte: il bisogno di appartenere e quello di individuarsi. E allora non c’è dubbio che se guardiamo dentro il caos attuale potremmo disorientarci, ma se guardiamo da dove viene e verso dove va, quale nuova forma sta prendendo, ecco che acquista un significato: una complessità che ci sembra senza direzione, in effetti sta cercando un’evoluzione, in una forma nuova e positiva. Una forma che penso si possa definire globalizzazione, nel senso più bello del termine: possiamo infatti essere tutti diversi e questa diversità può dialogare, si può confrontare in una dimensione in cui ognuno ha valore e si possono esprimere una creatività nuova e una pienezza più grande. Giovanni Possiamo esprimere questa opportunità in diversi modi. Innanzitutto: ripensiamo l’etica in termini di felicità vissuta. L’etica è ciò che permette al mio corpo in relazione di sentirsi integro e pieno: ‘fitness and fullness’12, ovvero essere al posto giusto nel modo giusto (sentirsi fit) ed esprimere le proprie potenzialità (la sensazione di pienezza, full). Inoltre, è necessario transitare dalla prospettiva del cogito ergo sum a quella realistica che ci hanno donato le psicoterapie e le neuroscienze: cogito ergo sumus. Educhiamoci, cioè, alla matrice relazionale del pensiero: se pensiamo quel che pensiamo è perché siamo immersi nelle relazioni. Il pensiero nasce nella relazione, ha bisogno di creare relazione per essere un pensiero umano, altrimenti diventa un pensiero folle. Ed educhiamoci allo sfondo, cioè alle certezze implicite che come un fiume carsico scorrono nel nostro corpo e nella storia che viviamo e creiamo. Per ritrovare questa sensibilità e questa attenzione al nostro centro e al cuore dell’altro dobbiamo ritrovare il ‘gusto’: il gusto come nuova e intrigante indagine del mondo personale e relazionale. Parlerei, per dirla con Agamben, di «educazione al gusto»13. Questi sono i criteri che possono davvero condurci ad individuare i marcatori di umanità che cerchiamo e che, se abbiamo fiducia nella nostra condizione, potranno darci quei sentieri di pienezza che da soli e insieme cerchiamo, perché scritti nell’intimo più profondo dei nostri corpi.
Possiamo infatti essere tutti diversi e questa diversità può dialogare, si può confrontare in una dimensione in cui ognuno ha valore e si possono esprimere una creatività nuova e una pienezza più grande
È necessario transitare dalla prospettiva del cogito ergo sum a quella realistica che ci hanno donato le psicoterapie e le neuroscienze: cogito ergo sumus. Educhiamoci, cioè, alla matrice relazionale del pensiero: se pensiamo quel che pensiamo è perché siamo immersi nelle relazioni
Per ritrovare questa sensibilità e questa attenzione al nostro centro e al cuore dell’altro dobbiamo ritrovare il ‘gusto’: il gusto come nuova e intrigante indagine del mondo personale e relazionale
12 Cfr. G. Salonia, La Gestalt Therapy e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano 2008. 13 Cfr. G. Agamben, Gusto, Quodlibet, Macerata 2015.
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Psicopatologia e nuove prassi cliniche
Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di Psicopatologia Gestaltica Autori: Giovanni Salonia, Valeria Conte, Paola Argentino Come comprendere la follia propria ed altrui? Dove cercare il motivo originario dell’umano smarrirsi? La Gestalt Therapy propone quale cifra ermeneutica di ogni esistere, nella pienezza e nello smarrimento, l’intenzionalità di contatto, ovvero l’insopprimibile bisogno di raggiungere e di sentirsi raggiunti dall’altro. I fallimenti di questa intenzionalità – inscritta e vibrante nei vissuti corporei relazionali – generano il disagio psichico nelle sue varie forme. Su questo Grundkonzept si costruisce e articola la Psicopatologia della Gestalt Therapy nei suoi vari capitoli: eziologia, diagnosi, terapia. Grazie ad una lunga esperienza di clinica, di formazione e di ricerca, gli Autori di Devo sapere subito se sono vivo presentano alcune forme di disagio psichico, coniugando, in un genere letterario immediato e toccante, la lettura del disturbo e l’intervento relazionale. Ne viene fuori un nuovo modo di guardare alla sofferenza psichica e di curarla, ma anche una diversa epistemologia della scienza e dell’esperienza terapeutica. ISBN: 978-88-6124-432-0 Pagine: 292
La Luna è fatta di Formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio borderline G. Salonia (ed.) Se un paziente dice al terapeuta: «la luna è fatta di formaggio», e il terapeuta risponde: «la luna e il formaggio sono gialli entrambi», stiamo ascoltando le parole di una rivoluzione ermeneutica e clinica. A darle inizio è stato, molti anni fa, uno dei più acuti terapeuti della Gestalt, Isadore From, quando intuì come i pazienti che usano un linguaggio borderline – perché il linguaggio è la dimora del contatto – non attendano dal terapeuta una definizione, un’interpretazione o, peggio ancora, una correzione della loro esperienza, bensì solo una rispettosa, illuminante ‘traduzione’. Tradurre vuol dire riconoscere e accogliere la diversità e la dignità dell’altro. L’intuizione di allora, approfondita a livello teorico e sperimentata in lunghi anni di pratica, è diventata un preciso, innovativo modello di cura – la traduzione gestaltica del linguaggio borderline – che viene presentato a livello di paradigmi e di verbatim. Nel serrato, concreto e critico dialogo con gli altri approcci (da Gabbard a Kernberg, dall’empatia alla mentalizzazione), emerge la novitas del modello elaborato dall’Istituto di Gestalt Therapy GTK. Il ‘giallo’ di From che connette luna e formaggio connette anche terapeuta e paziente nella loro umile e ostinata ricerca di verità nel e del contatto. ISBN: 978-88-6124-495-5 Pagine: 176
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Incontri terapeutici a quattro zampe. Gestalt Therapy e prospettiva di zooantropologia clinica Aluette Merenda (ed.) Il volume si propone di delineare il valore terapeutico degli animali d’affezione nei diversi contesti di cura, tracciandone risvolti psicoeducativi e finalità terapeutiche. Il focus si orienta verso ambiti di studio e questioni metodologiche che abbracciano l’approccio zooantropologico e la medicina veterinaria, la zooantropologia clinica e la psichiatria, l’educazione cinofila nelle famiglie attuali – con particolare riferimento ai principi della psicologia canina e alla Gestalt Animal Assisted Psycho-therapy (GAAP) –, coinvolgendo il cane, l’asino ed il cavallo come figure mediatrici della competenza emotiva dell’adulto e del bambino. La zooantropologia clinica viene pertanto a delinearsi quale sfondo di riferimento per ogni percorso teorico e clinico mirato a dare centralità all’incontro con l’altro nella sua radice che è l’intercorporeità, il sentire animale. Il volume è rivolto agli operatori dei vari ambiti disciplinari, agli studenti delle lauree triennali e specialistiche delle Scuole delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale, di Medicina veterinaria e Medicina e Chirurgia, nonché ad ogni terapeuta e ad ogni persona capace di comprendere la condizione umana.
Tra. Per una fenomenologia dell’incontro Autore: Bin Kimura Viviamo ogni giorno trasportati dall’onda inarrestabile del quotidiano. Eppure il nostro organismo è costantemente in contatto con un fondamento della vita che ci supera e ci sostiene, mentre appare al contempo strutturalmente aperto al mondo in cui accade per noi e per tutti il gioco dell’esistenza. In Gestalt Therapy il principio vitale che regge e armonizza le dinamiche dell’esserci si chiama Sé, l’istanza che esprime il nostro essere collocati al confine dell’esperienza, lì dove siamo protesi verso l’altro e incontriamo l’ambiente che ci sollecita e ci nutre. Da questo punto di vista, Tra di Bin Kimura, uno dei più noti e influenti psichiatri giapponesi, può a buon diritto essere considerato come un vero e proprio trattato di fenomenologia gestaltica, dove, con un linguaggio rigoroso e concettualmente controllato, si racconta la manifestazione del Sé nella concretezza del contatto intersoggettivo e intrapersonale. ISBN: 978-88-6124-300-2 Pagine: 160
ISBN: 978-88-6124-545-7 Pagine: 152
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C’est oui ou c’est non? C’est oui et non: la fonction-moi du self
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Jean-Marie Robine
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Ecco intanto una delle specificità della teoria gestaltica: diversamente da altri approcci psicoterapeutici come la psicoanalisi o l’analisi transazionale che, per la scelta stessa del loro vocabolario topico, rischiano di considerare l’Es, l’Io, il Super-Io come entità a sé stanti, la GT aggiunge a questi concetti il termine di ‘funzione’, per non correre il rischio di sostantivarli
soler une des fonctions du self pour la mettre sous la loupe, c’est procéder à ce que Goodman appelait une abstraction1 puisqu’aucune d’elles ne saurait être séparée des autres fonctions qui sont également des moments spécifiques dans le cours de l’expérience. Je ne sais si les théoriciens ou les praticiens de la musique ont pu envisager d’écrire un traité sur la note ‘Fa’. Je peux difficilement imaginer qu’il soit possible d’en décrire les caractéristiques sans mettre cette note en relation aux autres notes de la phrase musicale qui va lui donner sa place et son sens. C’est là l’une des spécificités de la théorie de la gestalt-thérapie: à la différence d’autres approches psychothérapeutiques comme les psychanalyses ou l’analyse transactionnelle qui, par le choix même de leur vocabulaire topique, risquent d’induire des représentations en formes d’entités (LE moi, LE ça, LE surmoi; LE parent, L’enfant, L’adulte…), la gestalt-thérapie insiste pour adjoindre à ces concepts le terme de fonction, afin de ne pas prendre le risque de substantifier. On peut certes déplorer que nos fondateurs se soient servi de concepts qui appartiennent à d’autres approches comme le ça et le moi, ou ego, d’autant plus qu’ils leur ont attribué des définitions sensiblement différentes, mais proposer de les remplacer par d’autres concepts après plus de 65 ans d’existence et d’usage poserait sans doute plus de problèmes qu’il n’en résoudrait. Donc avant d’abstraire, pour les besoins de cette étude, la fonction-ego (ou-moi) de la globalité du fonctionnement du self, il semble nécessaire de considérer le contexte, c’est-à-dire ‘self’ tel qu’il est théorisé par la gestalt-thérapie. Self en ses fonctions Longtemps utilisé uniquement comme préfixe ou suffixe, ce n’est qu’au cours du siècle dernier que certains philosophes et hommes de lettres – de langue anglaise, bien entendu – se sont intéressés à ce petit mot qui venait introduire de la réflexivité là où il était associé, et ils lui ont ainsi donné progressivement son indépendance jusqu’à le substantiver en lui attribuant des articles: le self, un self… Si on considère l’un des usages originels, par exemple en tant que préfixe comme dans self-control ou self-service, on pourrait 1
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Perls et Goodman définissent longuement l’abstraction au chapitre 3, §11.
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déplier ce mot et remarquer que self-service est l’équivalent en (mauvais) anglais de I serve me, ou en (mauvais) français de ‘Je sers moi’. Self est donc le concept qui permet de condenser Je et Moi. Qui sont tous deux présents dans cette opération. ‘Je’ a la particularité d’exiger un verbe après lui, ‘Je’ annonce une action. Ainsi, Je est éphémère car s’il n’y a pas d’action annoncée, pas de verbe, il n’y a pas de Je: il n’y a que Moi! Moi, c’est la sédimentation de tous ces actes dont ‘Je’ a été précédemment l’agent; ‘moi’ est inscrit dans la durée, dans une relative stabilité et permanence. Et pour qu’on puisse parler de présence et de déploiement du self, il est nécessaire que Je et Moi se trouvent en quelque sorte associés, réunis par l’action engagée par le ‘je’, par le contact. Et c’est cette action, ce contact initié par ‘Je’ qui fait émerger le self, et c’est l’extinction de ce contact qui permet au self de se rétrécir en se réduisant au ‘moi’ qui assimile l’expérience qui vient de se vivre. Et en même temps, ce self émergent de la situation est aussi l’artiste qui donne forme à cette action-contact. C’est ce qui a fait que Perls et Goodman ont attribué trois caractéristiques fondamentales au self: spontané, engagé dans la situation et de voix moyenne (c’est-à-dire agent/actif [Je] et bénéficiaire/passif [moi], comme la grammaire du grec ancien se plaisait à conjuguer certains verbes pour faire la différence d’avec le simple actif, ou le simplement passif). Pour déplier le self et lui permettre d’œuvrer dans le contact et l’adaptation créatrice, Perls et Goodman suggèrent d’aborder ce processus au travers de trois fonctions spécifiques. Ces fonctions sont aussi des lunettes qui permettent de le percevoir; et ce sont également des moments particuliers dans le déroulement de l’expérience. ‘La fonction-ça’ représente «l’arrière-plan donné qui se dissout en possibilités, y compris les excitations organiques, les situations inachevées du passé qui deviennent conscientes, l’environnement vaguement perçu, et les sentiments rudimentaires qui lient l’organisme et l’environnement»2. À la différence de la psychanalyse qui théorisait le ça comme «le réservoir de la libido» ou «le réservoir des pulsions»3 et le situait «au plus profond de l’homme» reprenant ainsi les termes de Groddeck4, fondateur du concept, la gestalt-thérapie parle non plus de ça mais de fonction-ça du self. Ainsi, même si ‘ça’ conti-
La GT non parla di es, ma di funzione-Es del Sé. Così, anche se ‘es’ continua ad indicare bisogni, desideri, appetiti, pulsioni, spinte, ecc. la sua sorgente non si origina da una qualche falda freatica all’interno del corpo ma si situa nella situazione. L’es diventa l’”es della situazione” (sono io a sottolinearlo) creato cioè da e attraverso la situazione, beninteso per essere appreso ed esperito dal corpo vissuto
2 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1994) (ed. or. 1951), Gestalt Therapy, Excitement and Growth in the Human Personality, Gestalt Journal Press, X, 5, 378. 3 S. Freud (1923), The Ego and the Id in On Metapsychology, Penguin Freud Library 11, p. 369n, 1991. 4 G. Groddeck (1923), Das Buch vom Es: psychoanalytische Briefe an eine Freundin. (Trad. angl. The book of the it.)
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La ‘funzione personalità’ è “la figura creata che il sé diventa e assimila nell’organismo, collegandola ai risultati dello sviluppo anteriore”
Bertram Muller introduce inoltre una differenza per noi preziosa: “Diversamente dalla nozione di ‘personalità’ nel senso di archivio di valori etici e custode dell’identità personale, la nozione di ‘funzione-Personalità’ denota un aspetto specifico del Sé in azione al confine di contatto nella situazione in corso: chi sono io in questo momento preciso, chi voglio diventare e chi voglio essere in questa situazione reale”
nue de désigner les besoins, désirs, appétits, pulsions, poussées etc., sa source n’a pas pour origine une quelconque nappe phréatique à l’intérieur du corps mais se situe dans la situation. Le ça devient «ça de la situation»5 (c’est moi qui souligne), c’est-à-dire produit de et par la situation, bien entendu pour être appréhendé et expériencié par le corps vécu. Ce moment-ça de l’expérience est implicite, préverbal, éphémère, chaotique et informel, mais il est aussi «élan vital»6 et il prendra forme graduellement grâce aux autres fonctions du self. La ‘fonction-personnalité’ est «la figure créée que le self devient et assimile dans l’organisme, en la réunissant aux résultats du développement antérieur»7. C’est «le système des attitudes présumées dans les relations interpersonnelles; c’est l’hypothèse de ce que l’on est et qui sert de base à partir de laquelle on expliquerait son propre comportement si l’explication nous en était demandée. En une étude fine du texte fondateur qui, en particulier, remarque que personnalité est parfois écrit avec une majuscule, d’autres fois avec une minuscule et que cela correspond à des significations différentes, André Jacques8 met en évidence deux autres acceptions du terme ‘personnalité’ au sein même du texte fondateur: ce que la personne est devenue suite à son histoire personnelle (sens le plus courant de ce terme), et également ce que la personne dit d’elle-même, et qui est, dans certaines théories, est souvent confondu avec le self alors que ce n’en est que la «copie verbale»9. Bertram Müller introduit en outre une différenciation qui nous sera précieuse: «A la différence de la notion de ‘personnalité’ en tant qu’archive et ensemble assimilé de valeurs éthiques et que gardienne de l’identité personnelle, la notion de ‘fonction-personnalité’ dénote un aspect spécifique du self en action à la frontière-contact. Sa fonction consiste à informer les autres aspects du self (fonction-ça et fonction-personnalité) à la frontière-contact dans la situation en cours: qui suis-je en ce moment précis, qui veux-je devenir et qui veux-je être dans cette situation réelle»10. Ces deux fonctions peuvent être perturbées mais ne disparaissent jamais de l’expérience. Sommairement résumé, la fonction-ça, d’après les fondateurs, est surtout perturbée dans la
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5 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1994) (ed. or. 1951), Gestalt Therapy, Excitement and Growth in the Human Personality, Gestalt Journal Press, XII, §3. 6 Ivi, introduction, en français dans le texte. 7 Ivi, X, 5, 378. 8 A. Jacques (1999), Le soi, fond et figures de la gestalt-thérapie, Bordeaux, L’exprimerie, 92 sq. 9 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1994) (ed. or. 1951), Gestalt Therapy, Excitement and Growth in the Human Personality, Gestalt Journal Press, X, 5, 378. 10 B. Müller (2016), Ethical Paradigm of Gestalt Therapy - How does one acquire a self-determined ethical profile? in «Gestalt Today», Vol. 1, 33.
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psychose. Dans les pathologies névrotiques ou les troubles de la personnalité, c’est souvent la conscience de la fonction-ça qui sera altérée. La fonction-personnalité sera perturbée dans les pathologies névrotiques ou les troubles de la personnalité soit sous la forme d’une représentation de soi et de son expérience propre qui est éloignée de la réalité, soit sous la forme d’une mobilisation, dans le moment de la situation, de dimensions de la personnalité qui ne sont pas appropriées à la situation. Ces deux catégories de perturbations auront pour conséquence et pour modalité d’apparaître en une perte de la fonction-ego, et c’est donc la fonction-ego ou -moi qu’il nous faut examiner en détail dans la suite logique de ce que nous avons abordé jusqu’ici. La fonction-ego du self La façon dont la gestalt-thérapie théorise l’ego – ou moi – se révèle extrêmement différente des conceptions proposées par la majorité des autres approches, tant psychologiques que philosophiques. Cette fonction est totalement liée à la fonction-ça et à la fonction-personnalité: comme une sorte d’interface, dirions-nous en faisant usage d’un concept qui n’existait pas à l’époque des fondateurs, la fonction-ego est un des stades majeurs de l’ajustement créateur. En effet, à partir des vagues excitations organiques et des sentiments rudimentaires émergents de la situation (fonction-ça), à partir aussi des connaissances de soi et du monde acquises grâce aux expériences antérieures (fonction-personnalité), la fonction-ego va donner forme au contacter en cours, procéder à «l’identification à – et à l’aliénation progressives – des possibilités, la limitation ou l’accroissement du contact en cours, y compris le comportement moteur, l’agression, l’orientation et la manipulation»11. Ces concepts d’identification et aliénation sont sans doute très colorés par les usages langagiers de l’époque et auraient besoin d’être remis au goût du jour: identification signifie ici l’action de reconnaître une personne ou chose comme étant telle ou telle, de pouvoir préciser ce qu’elle est, dans quelle catégorie elle peut entrer. En termes gestaltistes, on pourrait ajouter que l’identification permet la mise en figure alors que l’aliénation écarte, renvoie dans l’arrière-plan, rend étranger. De manière simplifiée, la fonction-moi représente la capacité de choix et peut être évoquée en termes de «oui» et de «non», en n’oubliant pas que dire ‘oui’ à quelque chose ou quelqu’un implique de simultanément dire ‘non’ à autre chose (d’où une partie du titre de cet article: «C’est oui ET non»).
La teoria proposta dalla GT relativamente all’io è molto diversa da quelle proposte dalla maggioranza degli altri approcci psicologici e filosofici. La funzione-Io è totalmente legata alla funzione-Es e alla funzione-Personalità: come una sorta di interfaccia…
La funzione-Io procede “all’identificazione – e all’alienazione progressive – delle possibilità, alla limitazione o all’accrescimento del contatto in corso, ivi compreso il comportamento motorio, l’aggressività, l’orientamento e la manipolazione”
11 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1994) (ed. or. 1951), Gestalt Therapy, Excitement and Growth in the Human Personality, Gestalt Journal Press, X, §5.
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In maniera semplificata la funzione-Io rappresenta la capacità di scelta in termini di “sì” e “no”, non dimenticando che dire “sì” a qualcosa o a qualcuno implica simultaneamente dire di “no” ad altro (da qui una parte del titolo di quest’articolo: “È sì E no”)
J’insiste ici en une petite parenthèse clinique sur la nécessité de la capacité à identifier et aliéner de façon concomitante. Certains patients en effet, lorsqu’ils font un choix, se refusent à écarter les autres possibilités, tel ce patient qui, lorsqu’il choisissait une compagne ou une partenaire sexuelle, continuait à fantasmer toutes celles qu’il aimerait conquérir. D’autres patients savent ce qu’ils écartent mais ne peuvent nommer un quelconque choix, y compris lorsqu’ils sont interrogés, par exemple, à propos de leur ressenti: «Je ne suis pas triste, pas en colère non plus, ce n’est pas de la peur, ce n’est pas vraiment inconfortable… voilà!». Il est à remarquer que le terme «ego» a été choisi par le traducteur de Freud en anglais là où Freud, qui écrivait en allemand, utilisait Ich12. La traduction de Ich la plus courante serait plus volontiers je que moi, mais moi pourrait aussi en être la traduction correcte lorsque moi est sujet et non objet (par ex.: «ceux qui ont une mauvaise vue, comme moi», ou lorsque la phrase présente une ellipse, c’est-à-dire qu’une partie de phrase est omise parce qu’elle répéterait l’action, comme par exemple dans: «Tu cours plus vite que moi» au lieu de: «Tu cours plus vite que je ne cours». Ainsi, en revenant sur ce que j’évoquais au début de cet article, lorsqu’à titre d’exemple je décomposais le self de ‘self-service’ en Je et Moi (Je sers Moi), la fonction-ego théorisée par la gestalt-thérapie s’avère désigner le Je et non le Moi, le Moi pouvant être regardé comme relativement proche de ce que nous appelons la personnalité. Il pourrait donc être plus pertinent de l’appeler fonction-je que fonction-moi ou -ego13. Ces considérations sémantiques viennent, à mes yeux, confirmer l’intuition cruciale de Perls et Goodman mise à jour par Isadore From selon laquelle la fonction-moi est une fonction éphémère, mise en œuvre lorsque le sujet est placé en situation de formation de formes, et donc de choix. C’est aussi par la mise en œuvre de la fonction-moi que se manifesteront les dimensions ça et personnalité et que la fonction-moi concrétisera leur orientation et donc son choix – ou ce qui ressemblera à un choix. La critique
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12 Ich, dans la Standard Edition, a parfois été aussi traduit par self. « [Ich] peut désigner le self de la personne dans sa totalité (y compris peut-être son corps) en ce qu’elle se distingue d’une autre personne, ou il peut dénoter une partie spécifique du psychisme caractérisée par des attributs et par des fonctions particulières. » (Cf. M.-T. Melo Carvalho (1991), De l’ego psychology à la self psychology: l’origine et les avatars de la notion de self dans la psychanalyse américaine in Psychanalyse à l’université, PUF, Paris, Tome 16, n°64). Rappelons que self reçoit, dans le glossaire des termes et concepts psychanalytiques édité par l’Association Américaine de Psychanalyse, une définition très différente de la définition proposée par Perls et Goodman: «Self: la personne totale d’une individu dans la réalité, y compris son corps et son organisation psychique; la personne propre telle qu’elle se différencie des autres personnes et des objets en dehors d’elle-même» (cité par Melo Carvalho B. in Moore, B. Fine (1968), Glossary of Psychoanalytic terms and concepts, American Psychoanalytic Association, New York, ibid.) 13 Choix qui a été fait dans certaines langues comme l’espagnol ou le russe.
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de certains psychanalystes à l’égard de la gestalt-thérapie, soi-disant trop centrée sur le moi en sa superficialité adaptatrice, se fonde sans doute trop sur leur propre définition du Moi, voire se limite à répéter les anathèmes qu’ils lançaient avaient lancées contre Hartmann et les tenants de l’Ego psychology. Pourrait-on même oser dire que l’approche gestaltiste concrétise pleinement l’aphorisme de Freud (1932), peut-être en profitant de son ambiguïté: «Wo Es war, soll Ich werden» («Là où était du ça, du moi doit advenir»). Le moi, maître en sa demeure? Lorsqu’on porte un regard critique sur la description des fonctions du self, on peut avoir l’impression que le contact organisme-environnement est entièrement sous le contrôle de l’organisme d’où partiraient toutes les initiatives et toutes les responsabilités. Lorsqu’on fait le choix de se positionner dans le cadre d’un paradigme individualiste, cette conception ne fait pas difficulté14. Mais si c’est au paradigme de champ que nous souhaitons nous référer, nous manquerons de cohérence à placer self ou moi au comme centre du monde. Certes, opérer le passage radical – au plein sens du terme qui réfère au concept de racine – de la perspective individualiste à la perspective de champ nous impose de revisiter nombre de nos concepts, voire d’en emprunter à d’autres disciplines pour pouvoir étayer notre approche. C’est pourquoi, à partir des années 2000 et en diverses occasions, j’ai suggéré l’emploi du concept d’affordance. Cette contribution, certes insuffisante pour résoudre pleinement cette difficulté épistémologique, cherchait à établir un peu plus d’équilibre entre les initiatives de l’individu et les invites de l’environnement. Ce concept a été introduit par Gibson, «Les affordances de l’environnement sont ce qui s’offre à l’animal, ce qui se procure ou fournit, que ce soit bon ou non. On peut trouver le verbe to afford dans un dictionnaire, mais pas le nom ‘affordance’. Je l’ai fabriqué. Ce que je veux désigner par là c’est quelque chose qui se réfère à la fois à l’environnement et à l’animal d’une façon telle qu’aucun terme existant ne le faisait. Cela implique la complémentarité de l’animal et de l’environnement»15 (C’est moi qui traduis). Les affordances sont donc des possibilités d’action offertes par l’environnement mais elles sont nécessairement mises en rela-
Certamente operare il passaggio radicale – nel senso proprio del termine, che fa riferimento al concetto di radice – dalla prospettiva individualista alla prospettiva del campo ci impone di rivisitare numerosi concetti […] È per questo che, a partire dagli anni 2000 e in varie occasioni, ho suggerito l’uso del concetto di affordance. Questo contributo, certamente insufficiente per risolvere pienamente questa difficoltà epistemologica, ha cercato di stabilire un pò più di equilibrio tra l’iniziativa dell’individuo e le suggestioni del campo. Questo concetto è stato introdotto da Gibson
14 Cette conception s’est d’ailleurs trouvée amplifiée et popularisée lorsque ce que les fondateurs avaient élaboré en termes de séquence de l’ajustement créateur ou de construction-destruction des gestalts est devenu cycle de satisfactions des besoins ou autres formulations similaires et egocentriques. 15 J. J. Gibson (1979), The Ecological Approach to Visual Perception, Houghton Mifflin, Routledge, Taylor & Francis Group LCC, Boston. Trad. Franç (2014), Approche écologique de la perception visuelle, Ed. Dehors, 127.
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“Ciò che voglio indicare con questo nome è qualcosa che si riferisce sia all’ambiente che all’animale […] ed implica la complementarietà dell’animale e dell’ambiente” (Gibson) Le affordances dunque costituiscono delle possibilità d’azione offerte dall’ambiente, ma sono necessariamente messe in relazione con il soggetto che può utilizzarle. […] Il traduttore dell’edizione francese dell’opera di Gibson ha scelto di tradurre affordance con ‘invito’
tion avec le sujet susceptible de les utiliser. L’anse d’une tasse à café suggère la possibilité de prendre la tasse mais n’oblige en rien cette manière de prendre, encore moins de boire un café. L’affordance désigne la façon dont l’environnement peut être perçu en fonction des moyens dont nous disposons pour y parvenir. Le traducteur de l’édition française de l’ouvrage de Gibson a choisi de traduire ‘affordance’ par ‘invite’, ce qui respecte le type de relation engagé avec l’environnement mais le concept d’affordance semble désormais suffisamment répandu dans différents domaines pour pouvoir être conservé tel quel. Ce concept me semble en outre converger et enrichir celui de «ça de la situation» qui situait dans la situation, c’est-à-dire dans le contact organisme-environnement, l’origine du désir – au sens large du terme – et non dans le seul besoin de l’organisme. La fonction-moi du self certes procède aux identifications et aliénations à partir des émergences de la fonction-ça et de leur amorce de mise en forme par la fonction-personnalité, mais elle a en même temps à composer avec les affordances. Ceci, à mes yeux, est d’une importance capitale lorsque le contact avec le monde n’est pas un contact de consommation du monde mais un contact écologique, ce qui s’avère incontournable lorsque le monde n’est pas seulement ‘environnement’ mais se précise sous la forme d’un Autre avec qui je vais devoir composer, construire à partir de ce qu’il afford et qui n’est pas toujours, tant s’en faut, ce que je suis en train de chercher!
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Perte des fonctions-moi Molte modalità possono impedire un pieno funzionamento dell’io. E poiché la funzione-Io è una funzione emergente quando è necessario procedere alle identificazionialienazioni, un sistema di abitudini può sostituirsi alle scelte vere e proprie.
Pensé de la façon dont Perls et Goodman le proposent, le fonctionnement du self en mode ego ne requiert pas de développements théoriques complexes pour être compris. Par contre, de multiples modalités peuvent venir entraver un plein fonctionnement-ego. Et puisque la fonction-moi est une fonction émergente lorsqu’il est nécessaire de procéder à des identifications-aliénations, un système d’habitudes peut venir se substituer aux choix véritables. C’est «l’évitement de l’excitation spontanée et la limitation des excitations. C’est la persistance d’attitudes sensorielles et motrices alors que la situation ne les justifie pas ou quand n’existe aucune situation-contact»16. C’est alors que nous parlerons de pertes de la fonction-moi auxquelles Perls et Goodman consacreront les deux derniers chapitres de leur ouvrage fondateur. Ces pertes de la fonction-ego seront ainsi amenées à occuper une place déterminante dans l’élaboration, esquissée par
16 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1994) (ed. or. 1951), Gestalt Therapy, Excitement and Growth in the Human Personality, Gestalt Journal Press, X, §2.
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ces auteurs et amplement développée par plusieurs générations de successeurs, d’une psychopathologie spécifique. Talleyrand, un célèbre et fin diplomate français du XVIII° siècle aurait dit: «Il n’y a qu’une façon de dire oui, c’est ‘oui’, toutes les autres veulent dire non». Avec les pertes de la fonction-ego, des apparences de choix peuvent venir se substituer et, lorsque thérapeute et patient prennent le temps de déplier ce qui sous-tend ces pseudo-choix, on peut mettre à jour différentes perturbations de la fonction-personnalité ou des dysfonctionnements de la fonction-ça. Ainsi, et Isadore From insistait sur ce point dans son enseignement17, lorsque dans une situation donnée l’ego est perdu, absent, momentanément suspendu pourrait-on dire, c’est l’indice d’une perturbation de l’une ou l’autre des autres fonctions. Réciproquement, lorsqu’une expérience est vécue et organisée en une perte de la fonction-ego, cette expérience s’enregistrera sous forme d’une perturbation de la fonction ça ou personnalité. C’est pourquoi nous évoquions plus haut une différence importante entre la fonction-ego et les deux autres fonctions du self: fonction-ça et fonction-personnalité peuvent être perturbées mais, qu’elles soient perturbées ou non, elle seront toujours présentes et actives dans l’expérience, alors que la fonction-moi peut être temporairement perdue. Toujours selon Isadore From, probablement le plus érudit des commentateurs du livre fondateur, il n’y aurait pas de demi-mesure: ou l’ego est présent ou il ne l’est pas puisque, toujours selon lui, ou il y a contact ou il n’y a pas contact; il n’y a pas de bon ou mauvais contact. Dans les deux chapitres intitulés «Les pertes de la fonction-ego» sont abordées certaines modalités et, au fil des années, certaines d’entre elles en sont venues à occuper la place d’honneur dans un nombre important d’écoles de gestalt-thérapie. Dans le premier de ces deux chapitres (XIV), seront exposés le refoulement, la sublimation et la formation réactionnelle, modalités très souvent omises dans l’enseignement et dans la littérature gestaltiste ultérieure. Dans le chapitre suivant, ce seront la confluence, l’introjection, la projection, la rétroflexion et l’égotisme qui seront décrits et qui, eux par contre, auront souvent une place de choix dans la théorisation et dans la pratique de certains gestalt-thérapeutes. Depuis des décennies, un débat s’éternise à propos du statut de ces modalités et donc de la manière de les nommer: tour à tour – ou parallèlement – elles ont été nommées résistances ou manœuvres de résistance, mécanismes de défense, interruptions du contact, modalités de contact, pertes de fonction-ego ou moi. Une majorité de ces conceptions, qu’elles soient explicites ou implicites, se fondaient sur le caractère dysfonctionnel et donc
Funzione-Es e funzione-Personalità possono essere turbate, ma saranno comunque sempre presenti e attive nell’esperienza, allorché la funzioneIo può essere temporaneamente perduta. Secondo Isadore From, il più erudito dei commentatori del libro fondativo, non ci sarebbero mezze misure: o l’io è presente o non lo è, poiché, sempre secondo lui, o c’è contatto o non c’è contatto; non esiste un buon o cattivo contatto
17 Séminaires et entretiens personnels, 1981-1994.
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Si pone la domanda: un concetto, una parola possono significare al contempo un processo sano e un processo non sano? Per me dire’proiezione’, ad esempio, non vuol dire ‘non sano’, ma indica semplicemente una modalità di esperienza del contatto col mondo
Proiezione, retroflessione, ecc. non rappresentano in quanto tali una perdita della funzione-Io – e dunque concernenti la patologia - poiché possono determinarsi con un pieno funzionamento dell’io. Allorché si è in presenza di una possibile proiezione, introiezione o altro, nel tempo stesso in cui ci sia una perdita della funzione-Io e poiché c’è questa perdita, è l’esperienza di contatto in corso ad essere eventualmente patologica
pathologique de ces modalités. Un des objectifs du travail thérapeutique consistait donc à permettre au patient, schématiquement parlant, de sortir de la confluence, de se débarrasser de ses introjects, de se réapproprier ses projections et ainsi de suite. Toutefois, maints gestalt-thérapeutes considéraient aussi que l’usage de certaines de ces modalités pouvait parfois s’avérer sain s’il remplissait deux conditions: qu’il soit conscient et choisi. Alors la question se pose: est-ce qu’un concept, un mot, peut signifier en lui-même processus sain aussi bien que non sain? Pour moi, dire ‘projection’, par exemple, ne veut pas dire ‘non sain’ mais indique simplement une modalité d’expérience du contact avec le monde. Bien entendu, il y aurait beaucoup à dire sur la décision de considérer que «ceci» est une projection alors que «cela» ne l’est pas, et certains d’entre nous s’y sont employés18 mais ceci est une autre question. Je préfère donc ne pas adopter la lecture du chapitre XV de Perls et Goodman proposée par From et qui le conduisait à chercher «quelle est la perte de fonction-ego à l’œuvre dans ce moment de la séquence de contact?» pour diagnostiquer projection ou introjection, argumenté par le fait que Perls et Goodman décrivent amplement ces modalités (introjection, projection etc.) dans un chapitre intitulé «Perte des fonctions-moi». On peut en effet aussi bien comprendre que projection, rétroflexion etc. ne sont pas, en tant que telles, des pertes de la fonction-ego – et donc relèveraient de la pathologie – puisqu’elles peuvent se produire avec un plein fonctionnement du moi. Et choisir de comprendre que lorsqu’on est en présence d’une possible projection, introjection ou autre en même temps qu’il y aurait perte de la fonction-moi et parce qu’il y a cette perte, c’est l’expérience de contact en cours qui est éventuellement pathologique. D’ailleurs, ces chapitres ont pour titre «Loss of ego-functions», ‘Loss’ au singulier, alors que From parlait toujours ‘des pertes’ de la fonction-ego, ce pluriel désignant pour lui les cinq modalités exposées dans ce chapitre. L’expression ‘interruption du contact’ manifeste une certaine ambiguïté liée à la définition implicite que chacun peut avoir du contact. Un être humain est toujours en contact avec quelque chose ou quelqu’un, ne serait-ce qu’avec l’air qu’il respire ou le sol sur lequel il repose. Le contact peut se déplacer, même très rapidement, d’une figure à une autre (une sorte de variation noémati-
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18 J. M. Robine (1984), Usages et mésusages de la projection, in Société Française de Gestalt (Ed.), La Gestalt en tant que psychothérapie, Actes des journées d’études de Bordeaux; L. Jacobs (2011), Critiquing projection: supporting dialogue in a post-Cartesian world in Bar-Joseph T., (Ed. 2011), Gestalt Therapy: Advances in Theory and Practice, Taylor & Francis group, Routledge.
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que, pour détourner un terme husserlien) comme il peut changer de modalité, passer d’un contact visuel à un contact émotionnel par exemple (ce serait une variation noétique). Ce ne serait donc pas «le» contact qui serait interrompu, mais dans certains cas «un certain» contact, dans d’autres l’objet du contact, ou encore la modalité de contact qui se verrait remplacée par une autre. Pour donner un nom catégoriel à ces modalités, j’avais proposé en 1997 le terme de ‘flexions’ rencontré dans la traduction française de Le rêve et l’existence de Binswanger19. Ce terme, emprunté à la linguistique, regroupe la façon dont sont conjugués ou déclinés les mots (verbes ou noms). Il ne présente donc aucune connotation péjorative ou dysfonctionnelle: il désigne seulement des dérivations, des variations liées au contexte. Il me semble que ce concept permet d’aborder ces phénomènes de frontière-contact comme des variations et non des symptômes ou des mécanismes. Il permet de ne pas se focaliser sur ces phénomènes mais de les déplier en tant que portes d’accès à l’expérience.
L’espressione ‘interruzione di contatto’ manifesta una certa ambiguità legata alla definizione implicita che ognuno può avere del contatto. Un essere umano è sempre in contatto con qualcosa o qualcuno
Non sarebbe dunque il contatto ad essere interrotto, ma in certi casi un ‘certo’ contatto, in altri l’oggetto del contatto, o ancora la modalità di contatto, sostituita da un’altra
La temporalité de l’ego Puisque l’ego, tel qu’il me semble compris par la gestaltthérapie, s’apparente plus au Je qu’au Moi, sa fonction d’agent ne s’exerce que de manière temporaire. Rappelons simplement que Perls et Goodman qualifient l’ego de «l’un des stades majeurs de l’ajustement créateur»20, donc une structure et une fonction temporaire. Il est un certain nombre d’activités humaines pour lesquelles la mobilisation de systèmes d’habitudes, de routines, s’avère suffisante et efficace. Il est un certain nombre de contacts humains pour lesquels le mode Je-Tu n’est pas requis et, comme le remarque Martin Buber lui-même21, le mode Je-Cela est nécessaire et peut être pleinement adapté à la situation. En outre, comme nous l’avons évoqué, le mode-moi du self peut être parfois momentanément perdu, suspendu, et parfois chroniquement remplacé par une modalité dysfonctionnelle fixée. Mais Perls et Goodman ont aussi mis en évidence comment le fonctionnement en mode-ego peut se déployer au cours de la séquence de construction-déconstruction de la gestalt, et comment les différentes flexions – ou ce qu’ils appelaient ‘interruptions du contact’ – peuvent intervenir à des moments spécifiques du processus, en fonction des difficultés précises rencontrées par le self à tel ou tel moment de la situation.
19 L. Binswanger (1954), Le rêve et l’existence, Desclée de Brouwer, Belgique. 20 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1994) (ed. or. 1951), Gestalt Therapy, Excitement and Growth in the Human Personality, Gestalt Journal Press, X, §5. 21 M. Buber (1969) (ed. or. anglaise „Ich und du“ 1923), Je et Tu, Paris, Aubier.
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Se la postura abituale di un paziente è costituita da alcuni di questi aspetti: torace rientrato e respirazione trattenuta, testa incassata nelle spalle tese e rialzate, muscoli delle braccia tesi, pugni serrati, mascelle contratte, si può ipotizzare che questo paziente stia retroflettendo? Sembrerebbe più pertinente pensare che le retroflessioni originarie si siano cronicizzate […] si potrebbe dire che siamo in presenza di una confluenza con un atto di retroflessione. Questa distinzione mi sembra importante perché dimostra che il lavoro che faranno terapeuta e paziente riguarda l’uscita dalla confluenza e non la retroflessione
C’est ainsi qu’ils situent les cinq célèbres flexions (confluence, introjection, projection, rétroflexion, égotisme) à des moments très précis de la séquence. Cette conception temporelle théoricoclinique a été l’objet de nombreuses critiques dans la communauté, la plus fréquente consistant à considérer que ces modalités peuvent, en fait, intervenir à n’importe quel moment du processus. Il me semble que cette critique révèle surtout des différences de compréhension et de définition de ces concepts d’une part et, d’autre part, la confusion fréquente entre un processus (par exemple l’introjection) et un des résultats possibles de ce processus (dans ce cas l’introject). Perls et Goodman avaient proposé des concepts équivalents pour la projection (le projet) et pour la rétroflexion (le rétroflect)22. Par exemple, si la posture habituelle d’un patient est constituée de certains de ces aspects: poitrine rentrée et respiration retenue, la tête est rentrée dans les épaules qui sont tendues et relevées, les muscles des bras sont crispés, les poings serrés, et les mâchoires contractée, peut-on prétendre que ce patient est en train de rétrofléchir? Il paraît plus pertinent de penser que les rétroflexions originelles se sont chronicisées et sont ainsi devenues rétroflects et, si on adopte la proposition de PHG23, on pourrait dire que nous sommes en présence d’une confluence avec un rétroflect. Cette distinction me paraît d’importance parce qu’elle montre bien que le travail que thérapeute et patient ont à mener concerne la sortie de confluence et non pas la rétroflexion. De la même façon, lorsqu’un introject se manifeste, il peut se manifester en tant que, par exemple, contenu d’une projection; si le gestalt-thérapeute prétend centrer ses modalités de travail sur le processus, sur la façon dont les patients font ce qu’ils font, c’est donc sur la modalité projective qu’il conviendra dans ce cas de diriger son attention. Et, en tant que processus, ce n’est pas à n’importe quel moment de la séquence de contact que la projection peut intervenir: c’est bien lorsque ce sera le moment où la nécessité de ‘percevoir’ sera en figure, de percevoir le monde tel qu’il est et, par la proprioception, de sentir mon contact avec lui grâce à l’émotion. L’anxiété de sentir mon émotion pourra être évitée grâce à la projection qui me permet de l’attribuer à autrui ou au monde, l’anxiété de percevoir mon environnement tel qu’il est se trouve évitée grâce à la projection de certaines de mes anciennes expériences du monde… Chacune des flexions décrites par Perls et Goodman, lorsque le déploiement du self en mode ego est interrompu par l’angoisse,
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22 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1994) (ed. or. 1951), Gestalt Therapy, Excitement and Growth in the Human Personality, Gestalt Journal Press, XV, §9. 23 Ib.
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vont intervenir à des moments spécifiques en mettant en jeu des caractéristiques qui mettent en évidence, a contrario, à quoi le self doit s’atteler lorsque le processus se déroule de façon si spontanée qu’on peut ne pas en être conscient. Ainsi l’absence d’introjection met en évidence que l’ego doit pouvoir faire s’unir pleinement au ça, c’est-à-dire que le désir soit intégré et assumé et non délégué. L’absence de projection révèle que la fonction-ego a aussi pour tâche d’orienter le champ et la mise en contact à partir de la proprioception et de la perception. L’absence de rétroflexion met en évidence qu’une des tâches du moi est de savoir contacter le nonmoi, de surmonter l’angoisse de l’altérité et la résistance à l’agressivité (au sens perlsien). L’absence d’égotisme révèle que le moi aura su s’effacer, relâcher l’excès de délibéré nécessaire jusqu’alors pour finaliser le contact. Toutes ces étapes – et sans doute quelques autres encore – auraient pu passer inaperçues lorsqu’on se limite à attribuer à la fonction-moi la seule tâche de l’identification-aliénation. Conclusion Blankenburg (cité par Tatossian), dans le contexte de ses travaux en psychiatrie phénoménologique, avait proposé comme définition du pathologique: «Le fait, ou plutôt l’expérience que le sujet ‘ne peut pas ne pas’ présenter tel comportement ou éprouver tel vécu». Cette magnifique définition, avec sa double négation, fonde ainsi, selon les termes de Tatossian24, un autre psychiatre phénoménologue qui le citait volontiers: «La pathologie psychique dans une psychopathologie de la liberté». Pour le gestalt-thérapeute, c’est précisément la tâche de la fonction-je qui se trouve ici concernée car c’est par cette dernière que se feront des choix dans lequel le self pourra être totalement engagé et qui, en même temps, permettront l’émergence du self, en rupture de routines, de stéreotypies et autres systèmes d’habitudes auxquelles la personne –consciemment ou non – ne peut pas échapper.
Per il terapeuta della Gestalt è esattamente […] attraverso la funzione-Io che si faranno delle scelte in cui il sé potrà essere totalmente coinvolto e che nello stesso tempo permetteranno l’emergere del Sé, rompendo le routines, le stereotipie ed altri sistemi di abitudini che l’individuo – più o meno consapevolmente – non può evitare
24 A. Tatossian (1986), Pratique psychiatrique et phénoménologie, in Fedida, P. (Ed.), Phénoménologie, Psychiatrie, Psychanalyse, Echo Centurion, Paris.
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Abstract FR
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Dans cette étude, l’auteur rassemble un certain nombre d’idées concernant la fonction partielle du self appelée Ego ou Moi. Il montre comment il aurait probablement été plus appropriée de la nommer fonction-je puisque, dans la logique théorique ouverte par Perls et Goodman, prolongée par Isadore From, l’ego n’est pas une entité stable comme elle peut l’être dans la majorité des autres approches mais un moment – éphémère – dans le processus de contact et de construction de la figure. La fonction-moi manifeste par excellence l’interface entre l’organisme et l’environnement et, à ce titre, est emblématique du changement de paradigme introduit par les fondateurs de la gestalt-thérapie.
Il presente studio illustra una serie di idee raccolte dall’autore sulla funzione parziale del Sè chiamata “Ego” o “Io”, dimostrando come la denominazione “funzione-Io” sarebbe risultata verosimilmente più appropriata, poiché nella logica teorica inaugurata da Perls e Goodman e approfondita da Isadore From, l’ego non è un’entità stabile come può esserlo nella maggior parte degli altri approcci, bensì un momento – effimero – nel processo di contatto e di formazione della figura. La funzione-Io rappresenta per eccellenza l’interfaccia tra l’organismo e l’ambiente e, in tal senso, si rivela emblematica del cambiamento di paradigma introdotto dai fondatori della terapia della Gestalt.
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Pubblicazioni IT
Teoria evolutiva e terapia familiare
Danza delle sedie e danza dei pronomi. La Gestalt Therapy con le coppie e le famiglie Autore: Giovanni Salonia
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Editoriale
Editorial
In questo numero
In this issue
Si esce dalla lettura di Come l’acqua... con delle sensazioni forti, come quando si viene fuori da uno di quei fiumi rigeneratori presenti in ogni cammino di iniziazione. Il corpo che vibra e le gocce che giocano sulla pelle narrano dell’acqua che scorre, della dolcezza del fluire ritrovato, della forza che proviene dagli argini, dell’impeto come energia che attraversa gli ostacoli. Leggendo si impara tanto su come, nella teoria e nella prassi della Gestalt Therapy, si lavora (o meglio: si entra in contatto) con i bambini. E non solo con loro. E non solo nel setting terapeutico o educativo. Perché i bambini ci aiutano a crescere. E forse, per far crescere la «nostra statura prossima» (quella di cui parla mirabilmente Mario Luzi), abbiamo bisogno di raggiungere ogni bambino ferito nel suo dolore, nella sua disperazione, e di coinvolgerlo (e coinvolgerci) nella danza relazionale che dentro il suo corpo vibra e preme per fluire. Come l’acqua...
La famiglia postmoderna porta avanti un progetto inedito e ambizioso: essere il luogo della piena realizzazione di ognuno e di tutti. Dentro tale intenzionalità accadono difficoltà e conflitti che spesso sembrano contraddire questo progetto. Coniugare, infatti, maternità e paternità, maschile e femminile, sessualità e vita quotidiana, sogni e tradimenti, piccoli e grandi, centralità e periferia, primogeniti e secondogeniti è fatica spesso impossibile. La Gestalt Therapy, assumendo come principi ispiratori e clinici la centralità del soggetto in relazione, il corpo vissuto, il qui-e-adesso del contatto, offre chiavi di lettura e di intervento che facilitano nella famiglia la ripresa della danza relazionale, dove diventa musica il ritmo di ogni membro della famiglia. Categorie come intercorporeità, funzione-Personalità, grammatica della relazione, diventano nella presentazione dell’autore strumenti terapeutici preziosi per ridare alla famiglia il sogno di una pienezza del singolo e di tutti.
Edipo dopo Freud. Dalla legge del padre alla legge della relazione Giovanni Salonia
Oedipus after Freud. From the law of the father to the law of relationship Giovanni Salonia
Il trivio della condizione umana: tra verità e relazione, tra diade e triade E se invece gli dei non esistessero? Il triangolo primario: nell’Atene di Sofocle, nella Vienna di Freud, nella postmodernità Dal disagio del figlio al disagio del triangolo primario Dal trivio una nuova ermeneutica per la co-genitorialià Bibliografia
From Freudian fracture to Gestaltic continuity: the epistemological gap of Gestalt Therapy Antonio Sichera
ISBN: 978-88-6124-384-2 Pagine: 96
ISBN 978-88-6124-388-0 Pagine: 160
Come l’acqua. Per un’esperienza gestaltica con i bambini tra rabbia e paura Autori: Dada Iacono, Ghery Maltese
PUB
Dalla frattura freudiana alla continuità gestaltica: lo scarto epistemologico di Gestalt Therapy Antonio Sichera
Letter to a young Gestalt therapist. Gestalt therapy approach to family therapy Giovanni Salonia The refund grandson Co-therapy carried out by V. Conte and G. Salonia Giusy’s failed degree Therapy conducted by G. Salonia
L’inconscio e il suo oltrepassamento in una prospettiva storico-culturale La prima mossa: l’ermeneutica relazionale dell’inconscio La seconda mossa: lo scioglimento estetico Conclusioni rapide Edipo Re Sofocle traduzione di Guido Paduano
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To be taken to heart: The ethical paradigm of gestalt therapy How to gain a self-determined ethical profile
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Bertram Müller «Die gemeinsame Klärung der Werte des Klienten ist ein höchst wichtiger therapeutischer Faktor C»1. Da un’osservazione più accurata della condizione etica della nostra società e del nostro pianeta c’è da essere estremamente preoccupati: lo sfruttamento delle risorse naturali, la corruzione a tutti i livelli sociali, l’avidità delle banche e dei sistemi finanziari internazionali, le campagne politiche ingannevoli…
Ma osserviamo allo stesso modo la crescente mancanza dell’agire etico nella nostra vita sociale e privata!
Nel suo “Appello al mondo” il Dalai Lama scrive: si può vivere senza la religione, ma non senza valori instrinseci come l’amore e l’amicizia. Il Dalai Lama vede in una “consapevolezza” innata dell’uomo la chiave dell’etica
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ei einer genaueren Betrachtung des ethischen Zustands unserer Gesellschaft und unseres Planeten muss man äußerst beunruhigt sein: Unmoral, wo man nur hinschaut: Die Ausbeutung der natürlichen Ressourcen – viele von ihnen werden bald für immer verloren sein! Die Korruption auf allen gesellschaftlichen Ebenen, in allen Ländern! Die Gier internationaler Banken und Finanzsysteme, durch deren Handelsbedingungen Hunderttausende von Menschen weltweit jährlich getötet werden! Oder die politischen Kampagnen, die mit Lügen gespickt lediglich auf kurzfristigen Gewinn von Wahlkämpfen ausgerichtet sind! Aber betrachten wir doch genauso den zunehmenden Mangel an ethischem Handeln in unserem sozialen und privaten Leben! Was kann man einem Klienten entgegnen, der sagt: «Es tut mir so leid. Ich habe mich von meiner schwangeren Frau getrennt, weil ich mich in eine andere Frau verliebt habe»? Wo sind Würde, Anstand‚ Religio geblieben? Im ‘Appell an die Welt’ schreibt Dalai Lama: Man kann ohne Religion leben, aber nicht ohne innere Werte wie Liebe und Freundschaft2. Dalai Lama sieht den Schlüssel zum Ethischen in einer dem Menschen angeborenen ‘Bewusstheit’. Doch was ist mit dieser genetischen Disposition, der Grundlage zur Entwicklung des ethischen Profils des Menschen, geschehen? In den 1950-er Jahren waren die Gründer der Gestalttherapie bereits auf diesem Weg, als sie auf der Basis des Awareness Continuum neue postmoralische Konzepte des ethischen Denkens und Handelns entwickelten. Wie kann diese menschliche Fähigkeit zur Bewusstheit so veredelt werden, dass diese als Grundlage für die Entwicklung eines selbstbestimmten ethisch reflektierten Lebensstils dienen kann, der sowohl gut für einen selbst als auch für andere ist? Unsere moderne, extrem individualistische westliche Kultur hat uns offenbar
1
C. Bühler (1975), Die Rolle der Werte in der Entwicklung der Persönlichkeit und in der Psychotherapie, Klett, Stuttgart. 2 Vgl. F. Alt (2015), Der Appell des Dalai Lama an die Welt. Ethik ist wichtiger als Religion, Benevento, Salzburg, 7.
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von dem ethischen Gespür, das eine solche Balance zwischen mir und meiner Welt da draußen herstellen kann, zu stark entfremdet. Ich vermute zwar, dass manche unserer Freestyle-Formen der täglichen Selbstperformanz, des schönen Scheins und des Lügens eine Art kreativer Anpassung sind. Aber: Wo ist die rote Linie von diesem täglichen Cocktail von Wahrheiten und Lügen, deren Überschreitung unsere eigene Integrität, das Vertrauen unserer Freunde und das Funktionieren unserer gesellschaftlichen Mechanismen gefährdet? Was können Gestalttherapeuten dazu beitragen, einen Weg heraus aus dieser ethischen Misere unseres sozialen und beruflichen Lebens zu finden, jenseits biographisch fixierter und fremdbestimmter Werte und Glaubenssysteme? Haben wir wirkungsvollere Antworten auf die Fragen von Kant: Wie kann das Individuum aus sich selbst heraus im Austausch mit seiner Umwelt ethisch bestimmen und entsprechend handeln?
Negli anni ‘50 i fondatori della terapia della Gestalt lavoravano proprio in questa direzione quando hanno sviluppato nuovi concetti dell’agire e del pensare etico sulla base del continuum della consapevolezza
II. Grundlegende Paradigmen einer ethischen Konzeption der Gestalttherapie 1. Selbstakzeptanz, Agape, das Ich und das Du Ich begrenze mich auf einige wenige grundlegende Erfahrungen und spezifische psychischen Strukturen, die den Menschen im besonderem Maße dazu befähigen, eine individuelle Rahmung zu entwickeln, die für ein differenziertes, flexibles und zugleich zuverlässiges ethisches Profil unabdingbar ist. Die dafür grundlegendste Voraussetzung ist die Erfahrung, akzeptiert zu werden als die Person, die ich bin. Hierauf aufbauend können dann eine individuelle Identität sowie ein individuelles (intrinsisches) ethisches Profil entwickelt werden. Ohne Selbstakzeptanz ist die Akzeptanz von anderen schwer möglich. Eine auf Zwischenmenschlichkeit bezogene Dimension wie die Ethik kann nicht primär auf biologischen, triebhaften Faktoren begründet werden (vgl. Freud; Reich), sondern nur in einem in gleichem Maße starken psycho-kulturellen und in einem interpersonell begründeten Prinzip. Selbstakzeptanz und Selbstwertgefühl entwickeln sich psychologisch durch die gespiegelten Reaktionen anderer Menschen3. Natürlich muss sich die Erfahrung, akzeptiert zu sein, schrittweise zu einem generalisierten Selbstbild entwickeln, in einer inneren und selbstreflexiven ethischen Haltung symbolisiert und auf der neurologischen Ebene im Langzeitgedächtnis (Persönlichkeit-Netzwerk des Selbst) gespeichert werden.
Una dimensione riferita all’interpersonalità come l’etica non può essere fondata primariamente su fattori biologici, istintivi (si vedano Freud, Reich), ma solo su un forte principio psico-culturale e interpersonale. L’accettazione di sé e l’autostima si sviluppano psicologicamente attraverso le reazioni riflesse di altre persone
3 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1951), Gestalt Therapy: Excitement and Growth in the Human Personality, Julian Press, New York, Kap. X, 8.
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Diese grundlegende Erfahrung und ein festes Vertrauen darauf, akzeptiert und ein wertvoller Mensch im Rahmen des ihn umgebenden Weltbilds zu sein, führt zu einem für ethisches Handeln grundlegenden positiven Selbstwertgefühl, um zu sich sagen zu können: «Ich bin ok!» Das Forscherteam um Sheldon Solomon hat nachgewiesen, dass «Selbstachtung bzw. ein wertvoller Mensch und ein wertvoller Teil einer sinnerfüllten Welt zu sein»4, die entscheidende Grundlage für ein konstruktives ethisches Denken und Handeln ist. Es mag Sie als postmodernen Leser überraschen, dass dieses grundlegende ethische Konzept zur Erlangung einer individuellen Selbstakzeptanz historisch niemand anderem als einem unserer christlichen Vorfahren zu verdanken ist: Dem Paulus von Tarsus, der mit seiner kulturprägenden Damaskus-Erfahrung von sich selbst erzählt, sich über Nacht von einem auf Gesetze pochenden Saulus zu dem Liebe predigenden Paulus verwandelt zu haben. Ein guter Mensch zu werden und zu sein, bedeutet nach Paulus schlicht zu akzeptieren, von Gott geliebt zu sein. Das ist allerdings aus psychologischer Sicht ein nicht ganz einfaches projektiv-introjektives Manöver: Denn die Vorstellung und das Vertrauen darauf, dass ich als Person o.k. bin, benötigt zur Stabilisierung eine Verankerung in einem Absoluten, einem abstrakten ‘Du’, um zum unumstößlichen Faktum meines Selbstwertgefühls zu werden. Dies macht deutlich, auf welchen grundlegenden psychologisch-projektiven Mechanismen unsere ethische Konzeption begründet ist. Die besondere Botschaft des Neuen Testaments liegt in einer grundlegend neuen Idee zum Aufbau einer inneren und andauernden Gewissheit, die darin besteht, als derjenige, der man ist, gerechtfertigt zu sein, und zwar ohne Bezug zu einer Autorität auf Erden, sondern allein durch eine auf das einzelne Individuum bezogene absolute Liebe (hier in der abstrahierten Idee eines mich liebenden Gottes).5
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Das Ich und das Du: Rank und Buber «Es gilt an die Stelle der Gottheit die Gemeinschaft zu setzen» 6.
Besonders Ranks umfassende anthropologische und psychologische Forschung zu diesem grundlegenden Thema eröffnet, neben
4 S. Solomon, J. Greenberg (2015), The Worm at the Core, Random House, NY, 65 f. 5 Für Rank bedeutet Glaube eine funktionelle kreative Projektion, eine Illusion, ist jedoch nicht zwingend (entgegen Freuds Auffassung) ein neurotischer Mechanismus. Wir projizieren Teile von dem, dessen wir uns noch nicht bewusst sind, so dass wir in der Lage sind, dieses vor uns zu sehen, zu schätzen und schließlich als ein Teil von uns anzunehmen (vgl. Rank, und auch Perls’ Konzeption der Traumarbeit: Identifiziere dich mit jedem deiner in deinem Traum projizierten Teile). 6 E. Durkheim (1922), Education et Sociologie, Paris.
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den weithin bekannten Thesen von Buber, weitere psychologische Einsichten in die Bedeutung von Spiritualität und Illusionen, besonders für den nach Individualität strebenden Menschen unserer Zeit, sowie für die Entwicklung dessen individuellen ethischen Profils. Gleichzeitig mit Bubers «Ich und Du»7 schreibt Rank in «Trauma der Geburt»8, dem Werk, welches dessen Trennung von Freud führt, folgendes: «In menschlichen Beziehungen, insbesondere in der Liebe als der Erfahrung des Einsseins gibt es keinen dazwischenliegenden Raum, keine zwei, denn beide sind eins (...). Ich bin zur selben Zeit Ich und Du, Du bist gleichzeitig Du und ich»9. «Liebe löst Egoismus auf sie vereint das Selbst im anderen und entdeckt es bereichert im eigenen Ego wieder»10. Rank schlägt vor, dass diese psychologische Dynamik dieser Einheitserfahrung (vgl. Haltung im ‘mittleren Modus’) letztlich in vorgeburtlichen Bedingungen begründet ist, in denen das Kind nicht nur mit der Mutter, sondern darüber hinaus auch mit der Welt und Natur insgesamt eng verbunden gewesen ist, wenn auch nicht in einer selbstbewussten Weise. Eine für die Bildung eines individuellen ethischen Profils grundlegende Erfahrung ist, «dass das Echo auf diese originale Erfahrung im Verlauf und zum Zweck der Selbstentwicklung, nunmehr bewusst wiederaufgenommen wird»11. «Der Drang des Individuums, diese verlorene Einheit wiederherzustellen, ist ein entscheidenderer Faktor bei der nunmehr bewusst vollzogenen Entwicklung humaner kultureller Werte»12. Aber dieses fundamentale Reziprozität der Selbstakzeptanz durch die bewusst erlebte Liebe als Grundlage der Bezogenheit zur Welt, einem Du, hat für viele Menschen, wie wir aus unserer therapeutischen Praxis wissen, einen schwer zu überwindenden Haken: Man muss sich einem anderen hingeben, anvertrauen, seinen individuellen Willen vorübergehend erweichen lassen können. Für Viele ist es deshalb nicht leicht, dieses Geschenk der bedingungslosen Liebe und Akzeptanz anzunehmen. In religiöser und säkularer Erziehung scheint oft vergessen zu werden, dass dieses Angebot der bedingungslosen Liebe auch die Möglichkeit des Widerstands gegen diese geschenkte Liebe beinhalten muss, insbesondere um der Selbstwerdung willen, die sich primär in Abgrenzung und Auseinandersetzung des werdenden Individuums mit dem Willen des anderen bildet, erstmalig in dem Begriff ‘Agape’13 repräsentiert. Die spezifische Eigenschaft
Contemporaneo a “l’Io e il Tu” di Buber, Rank scrive il “Trauma della nascita”.
Rank sostiene che la dinamica psicologica dell’esperienza dell’unità in fondo si basa su condizioni prenatali, nelle quali il bambino era strettamente legato non solo alla madre, ma anche al mondo e alla natura tutta, anche se non in maniera consapevole
La specifica qualità dell’Agape comprende in particolare l’accettazione del “no” come condizione importante per lo sviluppo e l’espressione della volontà individuale. In particolare, un rapporto terapeutico non deve configurarsi come un rapporto alto/basso ma più come un rapporto soggetto-oggetto
7 M. Buber (1923), Ich und Du, Labert Schneider, Heidelberg. 8 O. Rank (1996) (ed. or. 1924), Trauma of the birth, in R. Kramer (ed.), A Psychology of Differences, Princeton University, Princeton. 9 Ebd, 176 f. 10 Ebd, 48 f. 11 Vgl. O. Rank (1932a), Art and Artist, Knopf, NY, 376. 12 Id., Trauma of the birth, cit., 51. 13 Vgl. Lukas, 23, 43.
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Con la reintroduzione del concetto dell’agape nella discussione psicologica degli anni ‘30, Rank - nello stesso periodo di Buber - e a seguire, tra gli altri, Perls, hanno aperto le porte a una nuova comprensione della dimensione etica dell’uomo
von ‘Agape’ beinhaltet insbesondere die Akzeptanz des ‘Nein’ als wichtige Voraussetzung zur Entfaltung und zum Ausdruck des individuellen Willens. Besonders eine therapeutische Beziehung muss anders als eine Top-/Down- und mehr als eine Subjekt-Objekt Beziehung sein. Es geht um eine spezifisch dialogische Beziehung, basierend auf der realen Erfahrung von Akzeptanz des individuellen Willens und der Identität durch den Anderen. Für Rank kann das ethische Selbstverständnis einer Person nur als und in einer Ich-Du-co-kreativen-Beziehung erfahren, verstanden und ggf. verändert werden14. Mit der Wiedereinführung des Agape-Konzeptes in die psychologische Diskussion der 1930-er Jahre öffneten Rank zur gleichen Zeit wie Buber und nachfolgend Perls u.a. die Türen zu einem neuen Verständnis der ethischen Dimension des Menschen, der sich als selbstschöpferisches dialogfähiges, ethisches Wesen von biologischen oder sozialen Bestimmungen loslösen kann, und in der Lage ist, seine eigene Art des Seins, verbunden mit anderen zu gestalten und selbst zu rechtfertigen. Es war Rank der anders wie Freud betonte, dass die Suche des Menschen nach Spiritualität und Illusionen in der Regel keine neurotischen Symptome sind, sondern fundamental sind für die Entwicklung einer individuellen selbstverantwortlichen Persönlichkeit wie auch die Schaffung von Kunst, jenseits einer Abhängigkeit von kollektiven Systemen und Autoritäten der Moral. Von den spirituellen Tiefen der Selbstakzeptanz und Liebe als Grundlage zur Entwicklung der ethischen Persönlichkeit, leite ich über zu den beiden großen Mitspielern und Antagonisten allen ethischen Denkens und Handelns: ‘Bewusstsein’ und ‘Wille’. Unsere Ethik und ganze Legislative basieren auf dem Prinzip: Ohne den bewussten Willen, der in der Lage ist, auf die inneren Bedürfnisse und die äußere Realität bewusst kontrollierend einzuwirken, gibt es keine individuelle Verantwortung!
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2. Ethik, Bewusstheit, Bewusstsein, der individuelle Wille und Gefühle «Das kleine Wort ‘ich will’, ist mächtig, spricht´s einer still und leis, die Sterne reißt‘s vom Himmel, das kleine Wort ‘ich will’» J. W. von Goethe
Welche Bedeutung hat der Begriff ‘Wille’, der den Menschen dazu befähigt, sein individuelles selbstbestimmtes ethisches Profil zu entwickeln und Verantwortung für sein individuelles Handeln 14 O. Rank, Trauma of the birth, cit., 231.
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zu übernehmen, in der Gestalttherapie? In der Theorie ‘Gestalttherapie’15 wird der Begriff ‘Wille’ kaum, allerdings häufig in gestalttherapeutischer Praxis verwendet, wenn wir dem Klienten z.B. Fragen stellen wie: «Was wollen Sie als nächstes?» Perls u.a. bevorzugen in ‘Gestalttherapie’16 den Begriff ‘Willensanstrengung’17, die innerhalb des Prozesses der kreativen Anpassung den dynamischen Ausgleich von Spannungen an der Kontaktgrenze zwischen dem Innen und Außen bezeichnet. «Sind die Spannungen auf beiden Seiten der Grenze schwer auszugleichen gewesen, hat es daher viel Planung und Anpassung gegeben, und ist endlich die Entspannung da, dann ergibt sich die wunderbare Erfahrung ästhetisch-erotischer Versunkenheit (...), die Schönheit des Augenblicks entsteht, weil die Willensanstrengung nachlässt und in eine harmonische Interaktion überfließt»18. Auf der theoretischen Ebene wird von Perls u.a. der Begriff ‘Ich-Funktion’ anstelle des traditionellen Begriffs ‘Willen’ eingeführt. Der Begriff ‘Ich-Funktion’ der den gesamten Kontext der menschlichen Steuerungsfähigkeit einzubeziehen beabsichtigt, kann als strukturelles und begriffliches Äquivalent zum Rank‘schen Verständnis des kreativ bewusst steuernden Willens gesehen werden19. Denn die Ich-Funktion bedeutet bei Perls/ Goodman, wie der Wille bei Rank, eine Steuerungsfunktion innerhalb des Zusammenwirkens von Organismus und Umwelt. In Ranks nachfreudianischen Schriften nimmt der Wille eine Schlüsselposition ein; er definiert diesen als «eine autonom organisierende Kraft im Individuum, die keinen besonderen biologischen Impuls oder sozialen Trieb repräsentiert, aber den kreativen Ausdruck der ganzen Persönlichkeit konstituiert» und sogar in der Lage, gegen biologische Triebe zu opponieren und damit eine entscheidende Kraft zu ethischem Handeln ist (vgl. Rank). Ohne einen individuellen, steuernden Willen gäbe es weder Verantwortung noch Ethik. Nach Rank ist «die dynamische Macht des Willens zwar in seiner Verwurzelung im Instinktiven begründet, jedoch durch die menschliche Fähigkeit zur Selbstbewusstsein emporgehoben in die Sphäre des Ichs und damit eine gezähmt-kontrollierten Kraft (...), die frei innerhalb der individuellen Persönlichkeit sich als Kreativität manifestiert»20. Damit ist für Rank der Verlust der individuellen Willens- und Steuerungskraft der Grund aller psychischer und ethischen Misere, ähnlich zu der
Nella teoria della terapia della Gestalt il concetto di “volontà” viene utilizzato raramente, anche se questo avviene frequentemente nella pratica terapeutica gestaltica, ad esempio quando poniamo al paziente domande come: “Quale vuole che sia il prossimo passo?”
Senza una volontà individuale, guidata, non ci sarebbero né responsabilità né etica
15 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, Gestalt Therapy, cit. 16 Ebd. 17 Vgl. S. Blankertz (2012), Gestalttherapie Essentials, Hammer Verlag, Köln, 22. 18 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, Gestalt Therapy, cit., 261. 19 Vgl. B. Müller (2004), Das Konzept des Willens bei Otto Rank und Der Wille in der Gestalttherapie, in H. Petzold, I. Sieper (eds.), Der Wille in der Psychotherapie, Vandenhoek, Göttingen. 20 O. Rank (1929), Wahrheit und Wirklichkeit, Deuticke, Leipzig/Wien, 15.
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Auffassung der Gestalttherapie, bei der der Verlust der Ich-Funktion als Ausgangspunkt für alle psychischen Dysfunktionen gesehen wird21.
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Zur Entwicklung des autonomen Willens als Grundlage ethischer Selbstbestimmung Rank descrive paradigmaticamente lo sviluppo psicogenetico della volontà individuale in stretta connessione con l’aumento genetico culturale della consapevolezza dell’uomo e inoltre con la liberazione dalle norme comandate attraverso gli istinti
Wie entwickelte sich dieser kreative individuelle menschliche Wille, diese entscheidende Ja-/Nein-Funktion und damit die Fähigkeit, individuelle ethische Werte zu erschaffen und selbstverantwortlich situationsangemessene Entscheidungen zu treffen? Rank beschreibt paradigmatisch die psycho-genetische Entwicklung des individuellen Willens in engem Zusammenhang mit der Kultur genetisch bedingten Zunahme des Bewusstseins des Menschen und darüber hinaus der Befreiung von der zwanghaften Bestimmung durch die Instinkte22. «Solange der instinkthafte Wille nur ein Kommentator der äußeren und inneren Reize gewesen ist, war der Mensch ganz Eins mit sich wie im Paradies in Harmonie mit der Natur»23 – sozusagen im dauerhaften Zustand des mittleren Modus. Die schrittweise Zunahme der Bewusstheit der Gattung Human Animal, die ursprünglich nur ein Begleitaspekt des instinktiven Wollens war, emanzipiert sich zu einem selbstbewussten Willen und damit zu einer eigenständigen psychischen Kraft24. Dadurch wurde es erstmals möglich, die verschiedenen instinktiven und spontanen menschlichen Intentionen nicht nur zu unterstützen, sondern erstmals sogar zu hemmen, was ein grundlegender Mechanismus für ethisches Handeln ist. Dies befähigt das menschliche Wesen dazu zu sagen: Das will ich, das will ich nicht und ermöglicht selbstbewusst, ja kreativ zu sein. Zunächst aber in ‘negativer’ Weise: Nein, das will ich nicht – als «Verleugnung des instinktiv Notwendigen». Wie Sie vielleicht aus eigener Erfahrung mit kleinen Kindern auf dem Weg ihrer Entwicklung zu Individuen wissen, sagen diese zuerst ‘Nein’. Perls et. al. überträgt diese verschiedenen Aspekte des intuitiven Wollens, des bewussten Willens und des mehr und weniger absichtsvollen Handelns in einen Prozess des Herstellens von Kontakt und der Wieder-Auflösung des Ichs und Selbstbewusstseins25. Ethisches Bewusstsein zu erlagen bedeutet sowohl für Rank als auch für die Gestalttherapie: Der Klient wird dabei unter21 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1951), Gestalt Therapy, cit., Kap. X. 22 Vgl. O. Rank (1930), Gestaltung und Ausdruck der Persönlichkeit, Deuticke, Leipzig/Wien, und auch Id., Seelenglaube und Psychologie, Deuticke, Leipzig/ Wien. 23 Vgl. Id., Seelenglaube und Psychologie, cit., 31 f. 24 Vgl. ebd. 25 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1951), Gestalt Therapy, cit Kap. XI.
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stützt, sich und vor allem seiner selbst bewusst zu werden. Er wird Schritt für Schritt dazu ermutigt, seine eigenen Gefühle, Emotionen und Intentionen zu äußern. Eine weitere damit eng verbundene entscheidende Frage lautet: Wie entwickelte sich eigentlich durch Erfahrung, insbesondere des Fühlens, diese spezifisch menschliche Fähigkeit, ethisch bewerten und urteilen zu können? Der entscheidende Schritt zur ethischen Selbstbestimmung vollzog sich der psychogenetischen Analyse Ranks zufolge, als das menschliche Lebewesen damit begann, seine besondere Fähigkeit zur Bewusstheit auch nach innen, auf sein Selbst zu richten. Dadurch begann der seiner selbst bewusste gewordene Mensch, sich selbst zu entdecken und begreifen (Wer bin ich?) und seine eigene innere Realität zu bestimmen (Wer möchte ich sein?). Diese menschliche Fähigkeit, sein Bewusstsein auch auf sich selbst nach innen zu richten, hat einen aktiven und einen passiven Effekt26. Der aktive Effekt dieser Wendung nach innen wird als Bewusstheit des eigenen Körpers, der Gefühle und der mentalen Aktivitäten erlebt; in der Gestalttherapie wird dieser aktive Effekt besonders intensiv im aktuellen Prozess an der Kontaktgrenze beachtet: Was fühlst du jetzt, was brauchst du als nächstes (= Es-Funktion)? Der mehr verborgene, aber ebenso wichtige passive Effekt dieser Wendung des Selbstbewusstseins nach innen, wirkt in der Schaffung innerer ethischer und ästhetischer Normen. Dabei werden durch neurologische Prozesse sowohl angeborene Neigungen als auch reflektierte und assimilierte Erfahrungen zu einem mehr oder weniger konstanten individuell bejahten, ethischen Persönlichkeitsprofil als ‘Verantwortungsstruktur des Selbst’27 synchronisiert, das auch auf aktuelle ethische Herausforderungen an der Kontaktgrenze im ‘Hier und Jetzt’ angemessen zu reagieren und sein Handeln zu rechtfertigen vermag. Ohne jeweils im aktuellen Handlungsvollzug einen Bezug zu diesen inneren selbst entwickelten ethischen Werte herzustellen (gespeichert im ‘Persönlichkeits-Archiv’) ist kein individuell bestimmtes ethisches Handeln möglich.
Questa capacità umana di dirigere la propria consapevolezza anche verso sé stessi e verso l’interno, ha un effetto attivo e passivo. L’effetto attivo viene vissuto come consapevolezza del proprio corpo, dei sentimenti e delle attività mentali. L’effetto passivo opera nella creazione di norme interne etiche ed estetiche
3. Ethik und Ästhetik, das Hier und Jetzt und Veränderung «Seinem eigenen Charakter Stil zu geben, ist eine große und seltene Kunst» F. Nietzsche 1954
Mit tiefstem philosophischem, psychologischem und spirituellem Verständnis haben die Begründer der Gestalttherapie den
26 Vgl. O. Rank, Gestaltung und Ausdruck der Persönlichkeit, cit., 41 ff. 27 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, Gestalt Therapy, cit, Kap. X.
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Meno si riconoscono le norme estrinseche, collettivamente accettate, più si avverte il bisogno di norme etiche autocreate e soprattutto di una ideologia etica convincente per la giustificazione dei propri criteri etici
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Fokus auf das ‘Hier und Jetzt’ ins Zentrum ihrer therapeutischen Konzeption einer heilsamen Veränderung gestellt. Wie bereits oben angedeutet, war es auch hier Paulus von Tarsus, der als erster eine psychologisch nachhaltige Lösung für eine Selbstgestaltung der eigenen individuellen Identität aus sich selbst heraus im Hier und Jetzt entworfen hat. Seine fundamental neue Vorstellung ist in seiner bereits erwähnten Damaskus-Erfahrung symbolisiert. Sie bedeutet: Über ein besseres Leben und deine neue Identität kannst Du selbst entscheiden und zwar jetzt. Klammere Dich nicht an die Vergangenheit, warte nicht auf die rettende Zukunft, und warte nicht auf eine Rechtfertigung, bis du im Himmel bist – und nicht, bis 100 Stunden Psychotherapie beendet sind! Das Wort ‘Jetzt’ im Sinn von Paulus bedeutet eine Einladung zur Selbstermächtigung zu bestimmen, wer man sein will und zwar jetzt! Er geht damit über die rein zeitliche Bedeutung des Begriffs ‘Jetzt’ hinaus. Mit dieser neuen Deutung der besonderen Gestaltungsmacht des ‘Hier und Jetzt’ legitimiert Paulus erstmalig auch die selbst initiierte Veränderung der eigenen Persönlichkeit als eine Herausforderung im Sinne der Selbstverantwortung für sich selbst im Jetzt. Dies ist zugleich eine neue Konzeption zur Überwindung der existentiell bedingten Todesfurcht, religiös gesprochen eine neue Art der Auferstehung vom Tod zum Leben. Paulus’ Idee war ein grundlegend neues Konzept einer selbst bewirkten Neugeburt und eigenen Selbstnachfolge des Individuums im Hier und Jetzt, anstelle der biologischen, von der Natur ausschließlich vorgesehenen Nachfolge und möglichen Verewigung durch Reproduktion. Diese neue Idee eröffnet die Möglichkeit und das von Perls u.a. angesprochene Verständnis einer selbstbewirkten Transformation zu einem ethisch besseren Leben und einer selbst gestalteten Persönlichkeit durch eine zweite Geburt auf psychologischer Ebene – nicht im Jenseits, sondern im Hier und Jetzt, ganz im Sinne von Perls: «To suffer ones death and to be reborn is not easy». Dies ist damals wie heute ein bedeutender psychogenetischer Schritt weg von einer biologischen bzw. sozialen Bestimmung hin zu einer selbstbestimmten Transformation der individuellen Persönlichkeit. Doch die neu gewonnene Möglichkeit zur Selbstgestaltung hat einen großen Haken, der ein Grund für den Mangel vieler Menschen an einem autonomen wie sozial verträglichen ethischen Profil in unserer individualisierten Zeit sein könnte: Je weniger man extrinsische, kollektiv akzeptierte Normen übernimmt, desto mehr benötigt man selbstgeschaffene ethische Maßstäbe und vor allem eine ethisch überzeugende Ideologie zur Rechtfertigung der eigenen ethischen Wertmaßstäbe. Sich diese Werte selbst zu erschaffen, ist nicht leicht und geht nicht ad hoc, denn dies erfordert sowohl unmittelbar selbst erlebte, erlittene und reflektierte Erfahrungen in ethisch herausfor-
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dernden Situationen als auch philosophische (Grund-)Kenntnisse zur ethischen Selbstrechtfertigung eigener Handlungen. Die kreative individuelle Persönlichkeit mit der Fähigkeit zur Selbstprogrammierung des eigenen ethischen Navigationssystem strebt allerdings, gemäß der Organismus-Feld orientierten Gestalttherapie nicht nur nach persönlichem Fortkommen und Überleben, sondern erfährt sich selbst auch als Teil eines größeren sozialen Kontextes, ethisch verbunden mit anderen. Die oben ausgeführten Aspekte legen es nahe, nicht nur die individuellen ethischen Werte der Beteiligten innerhalb einer Therapie offen anzusprechen, sondern insbesondere die im therapeutischen Kontext entstehenden neuen Werte innerhalb des zwischenmenschlichen therapeutischen Prozesses hervorzuheben. Ethik und Ästhetik Innerhalb des Kontexts von Ethik kann die Ästhetik insofern als ein wichtiger, korrigierender Aspekt der Ethik gesehen werden, insofern sie einen wichtigen nichtfunktionalen Aspekt des ethischen Denkens und Verhaltens hervorhebt. Der Begriff ‘Ästhetik’ wird bemerkenswert oft in Zusammenhang mit Gestalt therapeutischer Praxis verwendet28. Erinnert sei auch an Lore Perls, die betonte: «Gestalt ist eigentlich ein philosophisch-ästhetischer Begriff (...). Ich würde eine Trennung zwischen Therapie und Kunst gar nicht machen»29. Was sagt die Verwendung des Begriffs Ethik im Kontext von Psychotherapie über dieselbe aus? Der Begriff ‘Ästhetik’ ist ursprünglich keineswegs nur mit Maßstäben zur Bewertung von Kunst, sondern ebenfalls mit der Frage nach einem guten und richtigen Lebensstil verbunden30. Ästhetik ist damit ein Teilaspekt der Ethik, da sich sowohl die Ästhetik als auch die Ethik auf spezifische Bedingungen eines guten Lebensstils beziehen – nicht in moralischem Sinne, sondern bezogen auf die individuell bevorzugte Lebensgestaltung, die heute als Hauptanliegen Vieler (All what counts is: you better make a good performance) gegenüber einer ethisch reflektierten sozialen Mitverantwortung oft zu sehr im Vordergrund steht. Der griechische Begriff αἴσθησις – aísthēsis bedeutet ‘Theorie der Wahrnehmung’ – eine Wahrnehmung, die unsere Sinne durchläuft und sowohl eine affektive als auch imaginative Aufmerksamkeit beinhaltet31; diese impliziert eine bestimmte menschliche Haltung in Bezug auf die Realität, die sowohl in einer gewissen Art
Nel contesto dell’etica, l’estetica può essere vista come un aspetto importante e correttivo dell’etica stessa, nella misura in cui essa mette in rilievo un importante aspetto non funzionale del pensiero e dell’agire etico
28 Vgl. G. Francesetti, M. Gecele, J. Roubal (2013), Gestalt Therapy in Clinical Practice. From Psychopathology to the Aesthetics of Contact, Franco Angeli, Milano. 29 A. Doubrawa, E. Doubrawa (2005), Der Weg zur Gestalttherapie; Laura Perls im Gespräch, Hammer, Köln, 174. 30 Vgl. M. Seel (1996), Ethisch – ästhetische Studien, Suhrkamp, Frankfurt, 50. 31 Ebd, 14.
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von Wahrnehmung eines Objektes als auch in einem besonderen Prozess des Wahrnehmens besteht. Die Besonderheiten einer ästhetisch wie der ethisch orientierten Wahrnehmung ist: Beide sind prozessorientiert und selbstreferenziell. Ästhetik bezieht sich auf das sinnliche und mentale Begreifen dieser prozessorientierten Wahrnehmung und bezeichnet eine Aufmerksamkeit, die nicht durch einen bestimmten Zweck, sondern durch die wahrnehmende Erfahrung an sich motiviert ist. Deshalb lässt sie sich in der Regel auf eine spezifische Zeitform der Wahrnehmung ein: den Modus ‘des Verweilens’32. Dieser Modus schließt weder die Vergangenheit noch die Zukunft aus – es ist ein Verweilen in der Wahrnehmung, die in besonderer Aufmerksamkeit auf den zeitlichen Prozess der Interaktion des Subjekts mit dem Objekt in der Kunst oder dem Subjekt in der mitmenschlichen Begegnung steht. Besonders in diesem Zustand werden wir uns sowohl unserer eigenen körperlich-physischen Position als auch speziellen Qualitäten innerhalb spezifischer Orte und Personen bewusst. Deswegen ist die Einbeziehung aller persönlichen Empfindungsmöglichkeiten sehr wichtig für diesen ästhetischen Prozess, auch als Grundlage ethischer Entscheidungsprozesse. Mit den Worten von Perls et al: Die «hellwache Wahrnehmung und ihr freies, scheinbar zielloses Spiel lassen die Energie spontan fließen und zu zauberhaften Erfindungen gelangen»33. Die besondere ästhetische Qualität des Awareness Continuums des Gestaltkonzeptes kann mit Recht als ein zentraler Schlüssel zu einem autopoetischen Prozess der Integration ästhetischer und ethischer Dimensionen mit einer hochpotenten therapeutischen Wirkung gesehen werden. Dies geschieht besonders in dem Moment, wenn der Klient seine Vergangenheit loslassen kann, und sein absichtsvoller kontrollierender Wille schließlich in der Phase des vollen Kontaktes verblasst, dann ist das spontane, kreative Selbst an der Kontaktgrenze im Hier und Jetzt in der Lage, seiner integrativen Kraft zur vollen Entfaltung zu bringen. «Natur heilt»34 besonders durch die ethisch-ästhetische selbstformende Qualität der Wahrnehmung im mittleren Modus.
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Der Einfluss Nietzsches auf das Verständnis der Gestalttherapie von der selbstschöpferischen Persönlichkeit Die besondere ethisch/ästhetische Dimension der Gestalttherapie ist durch die philosophischen und psychologischen Schrif32 Ebd, 50. 33 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, Gestalt Therapy, cit., Kap. II, 8. 34 P. Goodman (1977), Nature Heals: The Psychological Essays of Paul Goodman, Free Life Edition, New York.
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ten Nietzsches geprägt, die besonderen Einfluss auf die Kulturund Kunstszene der 1920-er Jahre in Berlin hatten, in der Fritz Perls aktiv war35. Die hellenistisch-ästhetische Perspektive in der Interpretation durch Nietzsche repräsentiert ein neues Verständnis der Welt, in dem das Leben vergleichbar mit der Erschaffung eines Kunstwerks gedeutet wird – und zwar als Erfindung einer neuen und bis dahin nichtexistierenden Realität36. In seinem Werk «Also sprach Zarathustra» drückt Nietzsche seine Vorstellung des Lebens als ästhetischer Prozess aus, indem er das Leben als «ein sich selbst gebärendes Kunstwerk»37 beschreibt. Dabei ist der kreative individuelle Wille sowohl die Voraussetzung für jeglichen künstlerisch-ästhetischen Selbstentwurf des Lebens als auch für den Menschen insgesamt, besonders für seine individuelle Persönlichkeitsentwicklung und Wertorientierung. Nietzsches Anliegen besteht darin, die Überhand nehmende Rationalisierung des Lebens zurück zu drängen und stattdessen mehr den menschlichen Grundbedürfnissen und Möglichkeiten nach authentischer Gestaltung des eigenen Lebens zu folgen. Sein Verständnis von richtiger Lebensführung ist an einer selbstbewusst vollzogenen Neuorientierung der Entwicklung eigener ethischer und ästhetischer Werte aus der unmittelbaren Gegenwart mit Blick auf die Zukunft orientiert, anstelle an den Werten der Vergangenheit, ein Perspektive, die Rank und später Perls u.a. in den Kontext ihre therapeutischen Konzepte entsprechend übertragen haben. Eine andere, aber ebenfalls grundlegende Position der Gestalttherapie ist mit Nietzsches Philosophie verbunden: Ästhetik ist der Realität immanent. In diesem Sinne benötigt der Mensch nicht länger irgendeine transzendentale Wahrheit, «er erkennt, indem er dichtet, und er dichtet, indem er erkennt»38. Man könnte meinen, der folgende Satz stammt direkt von Perls oder Goodman: «Wir aber wollen die Dichter unseres Lebens sein, im Kleinsten und Alltäglichsten zuerst»39. Dazu Perls u.a.: «Der Mensch erfindet und macht sich selbst»40.
La prospettiva estetico-ellenistica nell’interpretazione di Nietzsche rappresenta una nuova comprensione del mondo, in cui la vita viene interpretata come paragonabile alla creazione di un’opera d’arte – e anche come invenzione di una nuova e fino ad allora inesistente realtà
35 Friedlaender, der Perls nicht nur philosophisch beeinflusste, war einer der bedeutendsten Nietzsche-Interpreten und -Biographen, ebenso wie auch Buber der seine erste Veröffentlichung über «Nietzsche und die Lebenswerte” (vgl. M. Buber (1900), Nietzsche und die Lebenswerte, Berlin) schrieb, vgl. S. Friedlaender (1911), Friedrich Nietzsche. Eine intellektuelle Biographie, GJ, Göschen, Leipzig. 36 Vgl. F. Nietzsche (1967), Kritische Gesamtausgabe Werke (=KGW), Colli, G./Motinari, München, Berlin, New York, V/1:43. 37 Vgl. B. Bocian (2007), Fritz Perls in Berlin 1893-1933. Expressionismus – Psychoanalyse – Judentum, Peter Hammer, Köln; E. Rosenfeld (2005), in A. Doubrawa - E. Doubrawa (eds), Der Weg zur Gestalttherapie, cit. 38 G. Colli, M. Montinari (1967), Nietzsche. Werke. Kritische Gesamtausgabe, De Gruyter, München, Berlin, New York, Kap. 3.4, 24. 39 Ebd, Kap. V/ 2, 2018 40 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, Gestalt Therapy, cit., Kap. 1.10.
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Nelle opere di Nietzsche l’estetica non è direttamente intesa come un fattore di regolazione etica, ma una stimolazione della vita. Essa è più un elemento che crea un confine proprio, dionisiaco, e che si basa su un processo aperto del divenire
Die Aufgabe, unser eigenes Leben und unsere Persönlichkeit zu formen, ist nach Nietzsche vergleichbar mit dem Verhältnis des Künstlers zu seinem Werk. Wir sind dazu verdammt, Künstler zu sein, und zwar einer, der kreiert durch und an sich selbst. Nietzsche und Perls sind sich darin einig, dass diese Selbsterschaffung und Selbsterziehung des Individuums nur dann als ästhetisch und ethisch bezeichnet werden können, wenn diese sich selbst von der dominierenden Moral befreit hat41. Daher folgt die intendierte Selbsterschaffung auch keiner Instanz von außen, sondern einzig dem freien Willen des Individuums, das aus der Gegebenheiten seiner gegenwärtigen Erfahrung «sich selbst seine Maßstäbe gibt»42. In Nietzsches Schriften ist die Ästhetik nicht unmittelbar ein ethisches Regulativ, sondern eine Lebensstimulation. Sie ist eher dionysisch, eigene Grenzen freisetzend und auf einen offenen Prozess des Werdens vertrauend. Perls war Nietzsche in diesem ausdrucksvollen dionysisch-ästhetischen Stil nahe43. Doch diese Position, häufig als der Gestalt-Stil bezeichnet (a glittering show of technique44), und als egoistisch, unverantwortlich kritisiert, wurde entschieden korrigiert durch Laura Perls, Goodman, From, Yontef und viele andere, die betonen, dass die ästhetische und ethische Dimension für die Gestalttherapie zuerst Autonomie und Selbstverantwortung bedeutet, allerdings im Kontakt und in ethisch reflektierter Beziehung zu seiner Umwelt. Aber was geschieht, wenn jemand in seiner gewohnten Komfortzone feststeckt und damit auf einem niedrigeren Level von Glück und sozial-ethischer Verpflichtung? Wie können wir unsere Klienten dabei unterstützen, Aspekte ihrer reduzierten Identität und ihrer Lebensumstände zu verändern und als eine gereifte und mutige Persönlichkeit mehr Risiken einzugehen?
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5. Ethik, Angst und das Eingehen von Risiken «Feiglinge sterben viele Male vor ihrem Tod, der Tapfere schmeckt den Tod nie außer einmal». Shakespeare (Julius Caesar)
Ein erfülltes und ethisch würdiges Leben basiert auf der Akzeptanz der unumgänglichen Risiken des Lebens und damit der Bereitschaft, gegebenenfalls mutig zu handeln. Risiken einzugehen, ist ein entscheidender Teil der Conditio Humana.
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G. Colli, M. Montinari, Nietzsche, cit., Kap. 3.3, 265. F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, Gestalt Therapy, cit., Kap. 2.1. Vgl. F. Perls (1969), In and Out the garbage pail, Real People Press, CA. Vgl. G. Yontef (1993), Awareness, dialogue and process: essays on Gestalt Therapy, Gestalt Journal Publications, Highland, 103.
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Ethische Handlungen erfordern mitunter erheblichen Mut, wenn es darum geht, für adäquate Lebensumstände zu kämpfen, sich gegen Unrecht zu wehren oder Menschen zu helfen, die schutzbedürftig sind, oder «die rote Linie zu ziehen, jenseits derer man sich weigert, weiter zu kooperieren»45. Viele Menschen tendieren dazu, jedes Risiko des Lebens weit möglichst auszuschließen und sind bemüht, innerhalb ihres sicheren Umfeldes zu bleiben. Sie versuchen unter allen Umständen mit allen Mitteln zu vermeiden, den Preis des Lebens, dem eigene Tod, zu bezahlen46. Doch das menschliche Leben und die Entwicklung der individuellen Persönlichkeit vollziehen sich zwischen emotionaler Bindung und dem Streben nach Unabhängigkeit, von der ersten Trennung bei der Geburt und der daraus folgenden seelischen Bindung, bis zur letzten Trennung durch den Tod. Dieser dynamische und ethisch herausfordernde Prozess des Sich-Verbindens und -Lösens setzt sich während des gesamten menschlichen Lebens fort, was eine Kontrolle der damit verbundenen Angst ebenso wie immer erneut mutiges Engagement erfordert. Nach Rank kann man diese daraus sich ergebenden existenziell Grundängste, im Moment konkreter Handlungsschritte entweder als Lebensangst oder im Moment der Hingabe und Auflösung des bewussten Ichs als Todesangst verstehen (ebd.). Beide Ängste sind weitgehend durch unbewusste Hemmungen der einen oder anderen Richtung an der Kontaktgrenze eines mutigen, vitalen Lebens im Hier und Jetzt begründet. Doch ein solches, von Ängsten getriebenes Leben und Streben nach bloßer Selbsterhaltung bedeutet ein gefährliches Stillstehen wie ‘auf einem sich bewegenden Seil’47. Fritz Perls toppt sogar Nietzsches berühmten Seil-Metapher durch seinen programmatischen Satz: «To suffer ones death and to be reborn is not easy»48, insofern sowohl das Aufgeben eines rigiden Lebensstils, (neurotic layer) als auch das daraus folgende Herauswagen aus der ‘Sackgasse’ in ein ethisches an der Zukunft orientiertes Leben unvermeidbar das Eingehen von Risiken erfordert. Die daraus folgende Möglichkeit, sich nach Überwindung des ‘Impass’ selbst neu zu erschaffen (wiedergeboren werden, s.o.), ist sogar noch riskanter, da diese bedeutet, sich selbst einer erhöhten sensiblen Wahrnehmung zu öffnen, mehr Authentizität zu riskieren und auch mehr Selbst- und Fremdverantwortung zu übernehmen. Es bedeutet dann vor allem auch, mit offenen Augen, sich selbst dem äußeren Wahnsinn der Welt und ihrer Mise-
Una vita piena ed eticamente dignitosa si basa sull’accettazione dei rischi indispensabili della vita stessa e quindi anche sulla disponibilità ad agire, eventualmente, in maniera coraggiosa. Correre rischi è una parte decisiva della Conditio Humana
45 P. Goodman, Nature Heals, cit., 81. 46 O. Rank (1936) (ed. or. 1929a), Beyond Psychoanalysis and its Importance for Psychoanalytic Therapy, in R. Kramer, A Psychology of Differences, cit., 119 ff. 47 Vgl. G. Colli, M. Montinari, Nietzsche, cit., Kap. 6.1, 10. 48 F. Perls, In and Out the garbage pail, cit., 37.
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[Secondo Abraham Maslow] “gli uomini temono le loro capacità più alte allo stesso modo di quelle più limitate”
I fondatori e gli autori della terapia della Gestalt davano al meccanismo di difesa dal rifiuto di questa paura fondamentalmente umana una definizione tutta loro nell’ambito della teoria del Sè: “egotismo”. “L’egotismo nevrotico è un tipo di convolgimento con una consapevolezza intenzionale e il tentativo di evitare l’imprevedibile e il sorprendente. Il paziente non fa quello che potrebbe
ren auszusetzen, besonders aber seiner eigenen Verletzlich- und Vergänglichkeit, diesmal aber ohne (neurotisch) schützendes Schild oder einem moralischen Charakterpanzer49. Das kann sehr schmerzhaft sein! Vielen scheint deshalb «eine Realität erträglich zu finden, an die sie sich mit einem gewissen Maß an Zufriedenheit anpassen können. Der Glückspegel ist aber zu niedrig, er ist schandbar niedrig, man schämt sich unserer Menschheit, es ist eine trostlose Illusion»50. Der ‘Vater’ der humanistischen Psychologie, Abraham Maslow, rang mit der Frage, wieso Menschen sich so konsequent von einem mutigen Handeln fernhalten. Seine Antwort überrascht: «Menschen fürchten ihre höchsten Fähigkeiten wie auch ihre geringsten»51. Sie haben eine doppelt begründete Angst vor ihrer eigenen Großartigkeit, ihren heroischen Taten als Manifestationen ihres selbst zu verantwortenden individuellen Willens und andererseits davor, die Kontrolle zu verlieren – das paralysiert viele Menschen. Die Begründer und Autoren der Gestalttherapie gaben dem Schutzmechanismus zur Abwehr dieser grundlegenden menschlichen Angst vor einem selbst zu verantwortenden Handlungsschritt innerhalb ihrer Theorie des Selbst einen eigenen Begriff: ‘Egotismus’. «Neurotischer Egotismus ist eine Art Verstrickung mit einem absichtsvollen Gewahrsein und dem Versuch, das Unvorhersehbare und Überraschende zu vermeiden. Der Patient tut nicht, was er doch tun könnte (...) und bringt nicht zu Ende, was er begonnen hat»52. Praktizierende Gestalttherapeuten kennen diesen Egotismus ihrer Klienten sehr gut: Wenn diese längst in der Lage zu sein scheinen, in Kontakt und in der Gegenwart zu sein, aber dennoch wie gelähmt sind, den letzten Schritt zu einer souveränen Veränderung dessen zu riskieren, was in ihrem täglichen Leben unbefriedigend ist. Diesen Klienten mangelt es an Mut zu diesem letzten Schritt in eine ungewisse Zukunft, den jedoch jeder Klient in der Therapie wie im Leben selbst tun muss. Nach Rank ist der weit verbreitete Verlust von Mut durch die doppelte existentielle Herausforderung des Menschen hervorgerufen. Der Mensch ist dazu verdammt, in besonderer Weise mutig zu sein: Auf der einen Seite hat der Mensch die Möglichkeit außergewöhnliche Leistungen zu vollbringen, die über ihn selbst und sein sterbliches Leben hinausgehen. Auf der anderen Seite ist er gefordert, sich selbst als Human Animal mit seiner ganzen Verletzlichkeit und Sterblichkeit anzunehmen. Ein mutiger Held
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49 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, Gestalt Therapy, cit., Kap. II, 12. 50 Id. 51 Übersetzt nach A. Maslow (1967), Neurosis as a failure of personal growth, Humanitas, NY, 163 ff. 52 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, Gestalt Therapy, cit., Kap. XV, 8.
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sein, gefeiert werden und über das vergängliche Leben hinaus im Gedächtnis der Menschen bleiben zu wollen, ist eine genuin menschlich. Dieses Motiv ist in der psychischen Konstitution des Menschen seit dem Moment fest verankert, seit er seiner eigenen Sterblichkeit bewusst wurde. Das daraus folgende Motiv, die damit verbundene Todesfurcht zu überwinden, wurde in allen Kulturen durch einen haltgebenden Glauben gelöst, sowohl real (z.B. wie bei den Ägyptern) oder symbolisch (in einem Himmel oder in der Erinnerung des Kollektivs) ewig zu leben. Dieses Motiv zur Überwindung der Furcht vor dem Tod ist unter Umständen stärker als der biologisch verankerte Lebensinstinkt, und zugleich auch ein Hauptmotiv von Kultur und Kunstschaffen53. Es ist vor allem eine entscheidende, mehr oder weniger bewusste Kraft für ethisches und ästhetisches Handeln – sei es in einem kirchlich-sozialen (Betreuung andere Menschen in Spekulation auf Gottes Lohn), einem politischen (für das Vaterland sterben) oder einem künstlerischen Kontext (Kreieren von ewigen Werken) – um durch diese besonderen Leistungen im kollektiven Gedächtnis fest verankert zu bleiben. Dies gelingt besonders dann, wenn die entsprechenden Handlungen ethisch motiviert, durch persönlichen Mut ausgeführt oder durch eine kollektive, verankerte ideologische Überzeugung getragen sind. Nach Becker ist ethisch gerechtfertigtes Heldentum die andere Seite der Todesangst54, ein Ausdruck des Instinktes zur (ewigen) Selbsterhaltung. Obgleich es für unser ethisches Gefühl in keiner Weise akzeptabel erscheint, ist die treibende Kraft, als islamistischer Selbstmordattentäter zu handeln, in dem ethischen Motiv begründet, ein besseres Leben für sich und andere zu erreichen (auf jeden Fall im Himmel). Es ist traurig zu erkennen, dass diese mutigen, jungen Menschen offensichtlich keine andere Möglichkeit zur Selbstrechtfertigung ihres Lebens sehen, als unschuldige Menschen in solch brutaler Weise zu töten! Auch angesichts dieser für uns unbegreiflichen Art menschlichen Verhaltens in unserer Zeit ist es entscheidend zu fragen, wie Menschen besser darin unterstützt werden können, einen ethisch wertvollen Beitrag im Rahmen ihrer individuellen Werte und kulturellen Weltbilder zur Stabilisierung ihres Selbstwertgefühls zu leisten. Unsere gegenwärtige Kultur hält durchaus Wege bereit, um sich als Held zu erleben. Auf alltäglicher Ebene scheint z.Z. hoch im Kurs zu sein: So viele Follower wie möglich zu haben, mit einem Schnäppchen nach Hause zu kommen, einen Fußballstar getroffen zu haben (damit an seiner Unsterblichkeit teilzuhaben), oder sich für Natur im Rahmen von Greenpeace zu engagieren.
Secondo Becker, l’eroismo giustificato eticamente è l’altra faccia della paura della morte, un’espressione dell’istinto alla sopravvivenza (eterna)
53 O. Rank, Art and Artist, cit., 39. 54 E. Becker (1973), The Denial of Death, The Free Press, NY, 33.
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Nicht alle davon sind ethisch besonders wertvoll oder zur Sicherung der individuellen Unsterblichkeit geeignet, aber sicher darin motiviert. Eine wichtige Grundorientierung der Gestalttherapie besteht darin, dieses menschliche Grundbedürfnis nach Selbstrespekt und Wertschätzung bewusst anzusprechen durch die Unterstützung positiver Erfahrungen und Handlungen des Klienten – und nicht durch eine Hervorhebung ihrer Fehler, Krankheiten oder Symptome. From sagt: «We look to heaven (the potentials) not to hell of our client» (mdl. zum Autor). Wir ermutigen unsere Klienten z.B. darin, ihren Stolz über ihre Kinder oder ihre alltäglich mutigen Taten im Beruf oder ehrenamtlichen Engagement bewusst zu machen und offen auszudrücken. Eine ebenso grundlegende wie praktische Antwort der Begründer der Gestalttherapie kann helfen, diese doppelte existentielle, ethische Herausforderung der ‘Conditio Humana’ zu meistern. Einerseits durch Unterstützung des Awareness Continuum und damit einer Neubelebung der animalisch sinnlichen, aber auch der natürlich gegebenen Vergänglichkeit der Existenz, andererseits durch die Hervorhebung des individuellen Willens und der Kreativität des Klienten als wichtiger und selbst-transzendierender Aspekt des Menschseins. Es ist dieser doppelte Fokus einerseits auf den Prozess der Bewusstwerdung des Sinnlichen, andererseits auf die kreativ transzendente Seite des Menschseins, der den Menschen mit sich selbst, mit der Welt und Natur verbindet, was das ethisch wertvolle Gefühl der Dankbarkeit in sehr besondere Weise hervorruft. Die co-therapeutische Erforschung und Ausbalancierung dieser zwei Pole der menschlichen Existenz sind ein entscheidender Schlüssel des therapeutischen Ansatzes und Erfolges der Gestalttherapie. Dies macht deutlich, dass die Gestalttherapie in besonderer Weise die Integration der tiefen und ursprünglichen Konflikte des Menschseins im Blick hat. Dieser Beitrag zur Förderung der selbstbestimmten Entwicklung eines ethischen Profils innerhalb des Rahmens der Gestalttherapie konnte nur einige Aspekte zu diesem komplexen Thema der Entwicklung des ethischen Profils mit Hilfe der Gestalttherapie ansprechen; er will vor allem als Einladung an den Leser verstanden sein, an diesem unerlässlich gewordenen Projekt der Entwicklung von schlüssigen Konzepten zur Verbesserung ethischen Denkens und Handelns in unser ethisch deprivierten Gesellschaft engagiert mitzuwirken.
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Der Artikel geht der Frage nach, wie ein ethisch selbstbestimmtes Leben in einer postmoralischen und postmodernen Gesellschaft möglich ist. Es wird erörtert, wie entsprechend den Grundparadigmen der Gestalttherapie ein nicht normativ bestimmtes ethisches Bewusstsein aus individuell gemachter Erfahrung entwickelt und durch das Individuum ethisch selbstgerechtfertigt werden kann. Durch Rückbezüge vor allem auf Perls, Goodman, Rank, Nietzsche und die paulinische Theologie entwickelt der Autor seinen Vorschlag einer Ethik der Gestalttherapie in drei Themenkreisen: Die grundlegende Erfahrung von Akzeptanz (Agape), die Förderung des selbstschöpferischen Willens (Ich-Funktion) als Voraussetzung zur Bildung eines selbstbestimmten und verantwortungsvollen ethischen Profils, sowie die Fähigkeit des Verweilens im ‚Hier und Jetzt‘ und damit der Verankerung des Ethischen in der gegenwärtigen Realität. Darüber hinaus wird die besondere Verbindung der Ästhetik mit einer individuellen Ethik und damit die besondere Bedeutung der ästhetischen Formkraft des Awareness Continuum für die ethische Selbstentwicklung des Menschen hervorgehoben.
L’articolo esamina la questione di come una vita eticamente autodeterminata sia possibile in una società post-morale e postmoderna. Viene affrontato l’argomento di come, secondo i paradigmi di base della Terapia della Gestalt, una coscienza etica non-normativa può essere sviluppata da un’esperienza individuale ed eticamente auto-giustificata dall’individuo. Facendo riferimento soprattutto a Perls, Goodman, Rank, Nietzsche e alla teologia paolina, l’autore sviluppa la sua proposta di un’etica della Terapia della Gestalt in tre aree tematiche: l’esperienza fondamentale dell’accettazione (Agape), il sostegno della volontà auto-creativa (funzione dell’Io) come prerequisito per la formazione di un profilo etico autodeterminante e responsabile, e la capacità di soffermarsi sul ‘qui e ora’, con il conseguente ancoraggio dell’etico nella realtà attuale. Inoltre, si sottolinea la speciale connessione tra estetica ed etica individuale, e quindi il particolare significato del potere formativo estetico dell’Awareness Continuum per l’autosviluppo etico dell’uomo.
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mirror no.3
Il triangolo primario intercorporeo: il ruolo del padre nello sviluppo infantile
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V Negli ultimi decenni, il padre, per entrare in contatto col mondo dei figli, ha assunto il ruolo di ‘mammo’ provando cioè a imitare il modello materno senza riuscire a trovare una propria identità
La mancanza di differenziazione nelle coppie, dunque l’impossibilità di poter esprimere la propria funzione genitoriale nel momento delle separazioni, può generare crisi di identità nell’uomo che possono esplodere in conflittualità anche brutali
iviamo in un’epoca caratterizzata da confini ‘liquidi’1 all’interno della quale emerge la centralità del soggetto nel rapporto individuo-ambiente2. Nell’odierna società cosmopolita, i ruoli tra uomini e donne tendono alla parità e i legami dei nuclei familiari sono influenzati dalle contaminazioni culturali intercontinentali ed interreligiose e quindi sottoposti ad una continua evoluzione. Partendo da questo sfondo sociale, oggi si parla di ‘padre-coinvolto’ o ‘padre relazionale’3 che cerca un rapporto diretto col proprio bambino fin dalla gravidanza della compagna. Negli ultimi decenni, il padre, per entrare in contatto col mondo dei figli, ha assunto il ruolo di ‘mammo’ provando cioè a imitare il modello materno senza riuscire a trovare una propria identità. Oggi si può distinguere l’essere padre, riferito a un mutamento di status, dal sentirsi padre, che rinvia ad una percezione di sé più collegata alle proprie emozioni. Ma, anche se più presente, la figura del padre è ancora ritenuta secondaria rispetto alla madre, sia a lavello normativo che nella cura dei figli. Per Stern4, il nuovo padre tende ad una materializzazione che lo vede come un sostituto materno, fallito e inadeguato. Il ruolo del padre è reso ancora più complesso nel caso di separazioni, all’interno delle famiglie allargate o composte da genitori dello stesso sesso. La mancanza di differenziazione nelle coppie, dunque l’impossibilità di poter esprimere la propria funzione genitoriale nel momento delle separazioni, può generare crisi di identità nell’uomo che possono esplodere in conflittualità anche brutali. Il padre oggi risponde alla società e può essere giudicato dai figli (novità storica), che non lo rispettano se non ha ricevuto un riconoscimento anche dalla comunità. Nella società moderna, lontana dal rispetto dei simboli e dei riti, la paternità ha lasciato spazio a una più attuale figura complementare del padre naturale, il ‘papi’ (nome con cui le ragazze, le ‘papi-girls’, si rivolgono al loro seduttore), un uomo di potere e di successo che incarna per intero gli stereotipi dei modelli culturali della società di massa. La relazione tra ‘papi’ e ‘papi-girls’
NUOVE APPLICAIZONI CLINICHE
Eleonora Savino
1 Cfr. Z. Bauman (2006), Vita liquida, Laterza, Roma. 2 G. Salonia (2017), Danza delle sedie e danza dei pronomi. Terapia gestaltica familiare, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 13. 3 Cfr. P. Castellani, N.G. De Toma (1989), Padri e Padri. Intervista a V. Cigoli, C. Pontalti e A.M. Nicolò, in «Terapia Familiare Notizie», 10/11, 7-18. Cit. in G. Badolato (1993), Identità paterna e relazione di coppia: trasformazione dei ruoli genitoriali, Giuffrè, Milano. 4 D.N. Stern (1995) (ed. or. 1994), La costellazione materna, Bollati Boringhieri, Torino.
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si basa su uno scambio tacito di reciproci interessi che si traducono, per la ragazza, in scambio di favori sessuali. Questa fittizia “adozione” esibisce un vuoto esistenziale di angosciante solitudine e senile depressione, evidenziando che ciò che resta del padre nell’epoca del suo dissolvimento, come afferma Recalcati5, sia solo una versione cinico-materialistica del godimento, mettendo in scena la parodia di Eros che gioca l’ultima partita con Thanatos. Lo studio della paternità, di come l’uomo affronta la gravidanza, la nascita e la crescita psicofisica del figlio e il futuro ruolo che si troverà ad assumere sono affrontati da non molto tempo. Tutte le ricerche, prima del geniale lavoro svolto da Fivaz-Depeursinge e da Corboz-Warnery6, erano incentrate sullo studio della famiglia analizzata a partire però dalle diadi e dalle relazioni ‘faccia a faccia’ tra madre e bambino e, in misura minore, tra padre e bambino. Con la teoria proposta dalle due autrici si è aperto un nuovo filone di ricerche che pone le basi per un modello che delinea lo sviluppo della triangolazione, già a partire dai primi mesi di vita. La competenza triangolare del bambino è la capacità d’interagire con i due genitori nello stesso tempo e nelle configurazioni di bambino-padre, bambino-madre e bambino-padre-madre insieme. Le autrici hanno individuato quattro tipi di alleanze familiari: cooperative e in tensione (‘sufficientemente buone’), collusive e disturbate (conflittuali)7. Una recente ricerca dell’Università di Oxford8 ha preso in esame famiglie che vivono nel sud-ovest dell’Inghilterra. Ai genitori di 10.440 bambini è stato chiesto di compilare il Strengths and Difficulties Questionnaire (SDQ) per capire se i figli fossero equilibrati. I bambini sono stati esaminati dai primi mesi di vita e a 6.328 di loro sono state fatte interviste fino agli 11 anni di età. Ciò che è emerso da questa ricerca longitudinale è che i padri che si sentivano sicuri nel rapporto coi figli e realizzati nel ruolo genitoriale avevano figli più equilibrati. Questi ragazzi hanno il 28% in meno di probabilità di avere problemi comportamentali nella pre-adolescenza. Il padre ha un ruolo importante nello sviluppo emotivo della prole: il suo coinvolgimento nell’accudimento dei figli e nella condivisione con la madre della gestione dell’ambiente familiare fa sì che oltre alle capacità cognitive si sviluppino in loro quelle di empatia e di autocontrollo e diminuiscano sia l’impatto di problemi come la de-
La competenza triangolare del bambino è la capacità d’interagire con i due genitori nello stesso tempo e nelle configurazioni di bambino-padre, bambino-madre e bambino-padremadre insieme
5 Cfr. M. Recalcati (2011), Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano. 6 Cfr. E. Fivaz-Depeursinge, A. Corboz-Warnery (2000), Il triangolo primario, Raffaello Cortina, Milano. 7 Cfr. ivi, 50. 8 Cfr. C. Opondo et alii (2016), Father involvement in early child-rearing and behavioural outcomes in their pre-adolescent children: evidence from the ALSPAC UK birth cohort, volume 6 (11). http//dx.doi.org/10.1136/bmjopen-2016-012034.
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Per gli autori della sopracitata ricerca, la connessione e la risposta emotiva rendono il padre determinante nello sviluppo dei figli
La GT vede nello sviluppo infantile l’organizzazione e la maturazione della capacità di entrare in contatto in modo sano con l’ambiente
pressione materna sia gli stereotipi legati al genere. Per gli autori della sopracitata ricerca, la connessione e la risposta emotiva rendono il padre determinante nello sviluppo dei figli. Molti ricercatori concordano nell’affermare che i figli di padri che hanno fornito loro cure adeguate posseggono un maggiore sviluppo cognitivo rispetto a figli di padri meno coinvolti nel processo di accudimento. Un bambino, le cui figure parentali sono entrambe presenti e offrono differenti stimoli ed opportunità, è probabile che impari ad interagire in modo più adeguato con persone che possiedono diversi stili comportamentali e a sviluppare meglio le sue capacità relazionali. Il ruolo psicologico del padre è di fornire protezione, infondere fiducia e sicurezza, saper contenere ed esercitare un ruolo normativo e strutturante. Egli è indispensabile per consentire lo svincolo adolescenziale attraverso il porre e garantire le regole. «Il padre potrebbe avere una ‘funzione di protezione’ rispetto alla qualità del legame di attaccamento del bambino con la sua figura di attaccamento principale. Una interpretazione del ruolo del padre, questa, che lo vede, secondo un modello che potremmo definire ‘compensativo’, come fattore che interrompe la traiettoria del rischio costituito da un eventuale stile caregiving da parte della madre distorto o carente»9. In questa prospettiva, ciascuna diade relazionale può essere influenzata e influenzare l’altra e inoltre le caratteristiche di ciascun partner condizionano anche le relazioni in cui non è direttamente coinvolto. Nell’ambito della Gestalt Therapy c’è un rinnovato interesse per la psicologia dell’età evolutiva, utile anche per comprendere meglio la psicopatologia. La prima intuizione di Laura e Fritz Perls10, riguardante la nascita dei denti e l’aggressione dentale, insita nella masticazione, viste come caratteristiche positive per lo sviluppo in quanto permettono di sgretolare il cibo per poterlo poi assimilare, è stata ampliata dai recenti lavori di Salonia e di Righetti. La GT vede nello sviluppo infantile l’organizzazione e la maturazione della capacità di entrare in contatto in modo sano con l’ambiente. Il contatto è un evento specifico nel quale O. e A. si incontrano e ciò avviene in un luogo ben preciso chiamato ‘confine di contatto’. Gli assunti fondamentali su cui si basa la teoria evolutiva in GT sono i seguenti: − la teoria evolutiva è una teoria del Sé; − i modelli relazionali che si evolvono sono schemi dell’‘esser-citra’ e tengono in considerazione i vissuti relazionali, esperienziali e corporei tra il bambino e i caregivers;
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9 G. Attili (2001), Il padre come contesto di attaccamento nello sviluppo del bambino, in M. Andolfi (a cura di), Il padre ritrovato, Franco Angeli, Milano, 41-57, 48. 10 Cfr. F. Perls (1995) (ed. or. 1942), L’io, la fame, l’aggressività, Franco Angeli, Milano.
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− come prima modalità di contatto si ha la confluenza primaria in cui madre e bambino vivono l’esperienza di una presenza costante l’uno dell’altro; − la teoria evolutiva è da intendersi come l’evolversi di una relazione attraverso modalità di contatto sempre più integrate che portano al contatto pieno; − se il caregiver non offre un sostegno adeguato, il bambino può restare bloccato in una fase e non arriverà ad avere un’adeguata competenza al contatto pieno. Salonia è il primo autore, in GT, ad aver proposto una mappa evolutiva dello sviluppo del bambino da 0 a 3 anni11. Egli ritiene che la crescita avvenga attraverso l’evolversi di modalità relazionali (confluenza primaria, introiezione, proiezione, retroflessione e contatto pieno). Queste modalità di contatto, nel contesto dello sviluppo infantile, vanno viste come fasi di un cammino evolutivo di maturazione e di preparazione al contatto: acquistano una loro sequenzialità, una loro funzione e un’intrinseca positività. Salonia propone un nuovo paradigma teorico che, superando la concezione edipica classica di freudiana memoria e quella lacaniana in cui è il terzo, il padre, a mettere ordine negli affetti, sposta l’interesse all’‘autoregolazione della relazione’ della coppia genitoriale. «Stare dentro la relazione significa che nella natura della relazione triangolare (genitori-figli) è inscritto che il figlio pervenga alla propria identità e integrità ricevendo il sostegno del legame dell’appartenenza (codice materno) e di quello della differenziazione (codice paterno)»12. È l’assenza del rapporto tra madre e padre che rende perverso il rapporto genitoriale col figlio. Salonia13 rielabora in termini gestaltici il concetto di intercorporeità14. In questa nuova visione, il corpo diventa figura chiara che permette di leggere e spiegare il caleidoscopio di relazioni interpersonali attraverso la lente dell’intercorporeità, intesa come tracorporeità, cioè la relazione che avviene tra i corpi. La lettura dei processi relazionali da intrapsichica diviene intercorporea. «Questa prospettiva offre un’integrazione ‘incarnata’ tra la teoria del Sé e quella del ciclo di contatto, il corpo produce i pensieri di identità e di relazione. L’interazione corporea rappresenta la matrice di sviluppo, di contatto e di stili relazionali a partire dalle relazioni pri-
Salonia è il primo autore, in GT, ad aver proposto una mappa evolutiva dello sviluppo del bambino da 0 a 3 anni
«Stare dentro la relazione significa che nella natura della relazione triangolare (genitorifigli) è inscritto che il figlio pervenga alla propria identità e integrità ricevendo il sostegno del legame dell’appartenenza (codice materno) e di quello della differenziazione (codice paterno)». È l’assenza del rapporto tra madre e padre che rende perverso il rapporto genitoriale col figlio. Salonia rielabora in termini gestaltici il concetto di intercorporeità. In questa nuova visione, il corpo diventa figura chiara che permette di leggere e spiegare il caleidoscopio di relazioni interpersonali attraverso la lente dell’intercorporeità, intesa come tracorporeità, cioè la relazione che avviene tra i corpi. La lettura dei processi relazionali da intrapsichica diviene intercorporea
11 Cfr. G. Salonia (1989b), Tempi e modi di contatto, in «Quaderni di Gestalt», V, 8/9, 55-64. 12 Id. (2005), Il lungo viaggio di Edipo: dalla legge del padre alla verità della relazione, in P. Argentino (ed.), Tragedie greche e psicopatologia, Medicalink publishers, Siracusa, 43. 13 Cfr. Id. (2008), La Psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano, 51-71. 14 Cfr. M. Merleau-Ponty (1979), Il corpo vissuto, Il Saggiatore, Milano.
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«Appartenenze sicure e individualità piene dei figli vengono sempre e comunque cocostruite dalla coppia genitoriale; i vissuti che intercorrono tra i genitori, infatti, non solo determinano la qualità della relazione ma influenzano anche la crescita dei figli»
Riportiamo brevemente un nostro lavoro svolto nel 2007 in cui, avvalendoci dell’uso del video, abbiamo ripreso delle interazioni di una coppia genitoriale con il loro primo bambino di quattro mesi in tre momenti di vita familiare
marie originarie, quando il linguaggio è in fase di strutturazione. Il bambino, attraverso esperienze specifiche (quali l’essere toccato, il toccare, l’essere riconosciuto nelle esperienze corporee) sviluppa un senso intimo delle varie parti del corpo (e del corpo nel suo insieme) differente e non sovrapponibile con le parti (e il corpo) reali. Questa propriocezione del corpo forma lo ‘schema corporeo implicito’, che, visibile nel corpo reale, è connesso con lo stile respiratorio. L’interruzione di un processo corporeo relazionale (andare verso l’altro) si traduce in un cortocircuito della respirazione»15. Utilizzando questa teoria anche nell’ambito della GTF possiamo dire che la famiglia e il corpo sono le due matrici dell’identità. La visione gestaltica focalizza l’interesse sui ‘vissuti corporei relazionali dei coniugi’16 e sulla cogenitorialità come occasione di crescita reciproca. La funzione evolutiva è quella di far fronte al caos generato dal terzo. «Appartenenze sicure e individualità piene dei figli vengono sempre e comunque co-costruite dalla coppia genitoriale; i vissuti che intercorrono tra i genitori, infatti, non solo determinano la qualità della relazione ma influenzano anche la crescita dei figli»17. La teoria evolutiva proposta da Righetti18 ha evidenziato come si possa parlare di un Sé precoce già a partire dal periodo prenatale. L’autore, riconoscendo al feto capacità e competenze nell’elaborare in modo creativo gli stimoli provenienti dall’esterno e dare delle risposte elaborate in uscita, gli riconosce una sua propria identità biologica, psicologica, emotiva e una capacità di entrare in contatto già a partire dalla 20esima settimana di gestazione. Secondo tale ottica, il periodo della gestazione è un primo pezzo dell’esperienza umana fondamentale per lo sviluppo fisico, biologico e per la nascita e lo sviluppo dell’esperienza, del Sé. Righetti quindi utilizza tale chiave di lettura per analizzare lo sviluppo infantile da 0 a 3 anni perché ritiene che i primi 3 anni di vita siano i più significativi e basilari per lo sviluppo successivo. Riportiamo brevemente un nostro lavoro svolto nel 200719 in cui, avvalendoci dell’uso del video, abbiamo ripreso delle interazioni di una coppia genitoriale con il loro primo bambino di quattro mesi in tre momenti di vita familiare. Per la lettura del video abbiamo utilizzato la griglia della tecnica V.I.T. di Downing20, in quanto
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15 E. Savino, Intercorporeità, in Glossario FISIG, in press. 16 Cfr. A. Merenda (ed.) (2017), Genitori con. Modelli di coparenting attuali e corpi familiari in Gestalt Therapy, Cittadella, Assisi, 116. 17 Ivi, 144. 18 Cfr. P.L. Righetti (2007), Ogni bambino merita un romanzo, Carocci Faber, Roma. 19 Cfr. E. Savino (2011), Fenomenologia di un’interazione: la confluenza primaria triadica e il ruolo del padre nello sviluppo infantile. Principi di psicoterapia della Gestalt in video, Tesi di specializzazione. 20 Cfr. G. Downing (2010), La video microanalisi nella terapia della coppia madrebambino, in «Ricerca Psicoanalitica», 1, XXI, 9-18.
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riteniamo che i fattori che questa prende in esame siano comuni ai principi di lettura fenomenologica della GT. Dall’analisi dei video possiamo trarre alcune considerazioni: − il bambino da noi ripreso si trova in quella che Righetti chiama fase dei contatti precoci che va da 0 a 6 mesi, durante la quale ha una certa autonomia che lo porta a contattare l’ambiente attraverso le sensazioni corporee; − questa famiglia sembra essere competente nell’alternarsi nel linguaggio, dandosi i turni e non sovrapponendosi gli uni agli altri. Questa modalità di relazionarsi offre chiarezza al bambino e dà le basi per il rispetto reciproco; − i genitori sono competenti nel sostenere l’esplorazione e la curiosità del figlio, elementi importanti per aiutare il bambino a differenziarsi e diventare autonomo. Il padre, in particolare, sembra dare un giusto sostegno all’azione del figlio. Presupponiamo che questo tipo di modalità sia alla base di quella possibilità di contatto di cui parla Righetti e che si esplica tra i 6 e i 9 mesi: il gioco. In genere questa attività coinvolge soprattutto il padre. Il gioco è considerato la forma più pura di comunicazione affettiva volontaria all’interno del triangolo primario madre/ padre/bambino e quindi una delle più ‘interessanti’ forme di contatto A./bambino e A./genitori; − il padre, quando il bambino cerca di mettere i calzini in bocca per ‘assaggiarli’, gli offre un buon sostegno oltre che per l’esplorazione dell’ambiente anche per quella capacità di aggressione dentaria che si amplierà nei mesi successivi; − i genitori nel rivolgersi al figlio usano il plurale “noi”. Questo tipo di linguaggio ci rimanda a quella che Salonia chiama fase della confluenza primaria, in cui non c’è differenziazione tra O. e A., esiste solo un Noi e, in questa fase dello sviluppo infantile, essa è fondamentale per fornire il contenimento e permettere «ai vissuti del bambino di ancorarsi, senza smarrirsi in un amalgama caotico, confuso e inconsapevole»21; − la madre usa il linguaggio descrittivo: dà al bambino la possibilità di non sentirsi invaso dai gesti del genitore e così gli spiega ciò che sta facendo o farà sul suo corpo; − rispetto alle interazioni duali, in cui il bambino è solo col padre e si dimena col corpo, notiamo che, in presenza anche della madre, il piccolo si placa. Il tono della voce è più calmo, i movimenti corporei e il respiro diminuiscono e sembra seguire più attentamente ciò che sta succedendo attorno. Il modo in cui il padre, nei primi secondi del video, tiene in braccio il bambino è
21 G. Salonia (1989a), Dal noi all’Io-Tu: contributo per una teoria evolutiva del contatto, in «Quaderni di Gestalt», V, 8/9, 45-53, 49.
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Ciò che emerge dall’analisi dei video è l’importanza del triangolo primario, il fatto che sullo sfondo ci sia il ‘corpo’ del terzo, il padre, che sostiene l’esplorazione e rende possibile la scoperta di nuove forme di contatti
poco contenitivo, lo sostiene con le mani in una sorta di equilibrio instabile che spesso vede il corpo del figlio sbilanciarsi. Il bambino, non sentendosi contenuto fisicamente, si dimena. Anche la parola è corpo in quanto viene dal corpo e infatti, in questi momenti iniziali dell’interazione, i movimenti rapidi e repentini del bambino sono accompagnati da suoi forti vocalizzi. Inoltre, manca il contatto visivo faccia a faccia che è molto importante per lo sviluppo sia perché offre il contenimento e garantisce il rispecchiamento, sia perché è alla base dello sviluppo sociale e cognitivo. Quando il bambino è sostenuto da un genitore alle spalle, mentre l’altro di fronte gli offre un contatto visivo, ha la possibilità di esplorare l’ambiente. L’importanza del triangolo è data dal fatto che sullo sfondo c’è il terzo, il genitore che sostiene l’esplorazione e aiuta il bambino a scoprire nuove forme di interazioni; − notiamo anche, in linea coi principi dell’intercorporeità, che il corpo del padre (la sua postura, i suoi movimenti, il ritmo del suo respiro) è più rassicurato quando è in presenza del corpo della moglie e quindi il suo corpo è più rassicurante anche per il bambino; − attraverso l’analisi dell’interazione faccia a faccia del bambino col padre, abbiamo potuto osservare che non solo il genitore è attivo nello scambio visivo ma anche il bambino compie le interazioni dando ad esse un inizio e una fine. Attraverso gli scambi intercorporei possiamo vedere il ruolo attivo del bambino e osservare come i due partner in interazione sintonizzino le loro espressioni facciali, a conferma che, come sottolineato dalla ricerca dei neuroni mirror22, nel corso del nostro sviluppo cognitivo, impariamo a comprendere il comportamento altrui attribuendo stati mentali. La buona intenzionalità di contatto la possiamo vedere nella capacità della mamma di sostenere il figlio nello stare col padre che fa un buon gioco di rispecchiamento. È attraverso lo sguardo, la voce, il respiro e il contatto con le mani che padre e figlio arrivano ad incontrarsi con tutti i ‘sensi’.
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In conclusione e in accordo con quanto sostenuto da Salonia, crediamo che non si possa parlare di una competenza paterna senza far riferimento alla coppia genitoriale. Ciò che emerge dall’analisi dei video è l’importanza del triangolo primario, il fatto che sullo sfondo ci sia il ‘corpo’ del terzo, il padre, che sostiene l’esplorazione e rende possibile la scoperta di nuove forme di contatti. Il campo specifico del padre è quello di promuovere la differenziazione, è il ‘terzo’ della relazione. Insieme al padre nasce la capacità di pro-
22 Cfr. M. Iacoboni (2008), I neuroni a specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri, Bollati Boringhieri, Torino.
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getto mentale che è quella dello sviluppo dei propri potenziali. La differenziazione è l’iniziazione del figlio nella società complessa di oggi. La funzione del padre moderno è dunque quella di promuovere le specificità del figlio. Da quanto analizzato fino ad ora si può dedurre che la psicologia dello sviluppo infantile è una disciplina in continua evoluzione e che, nel quadro della GT, partendo da un prosperoso sfondo teorico, c’è bisogno di costruire nuove figure concettuali di riferimento. Crediamo che l’integrazione con tecniche video possa offrire un contributo allo sviluppo delle teorie evolutive e dare ulteriore sostegno e conferma agli assunti teorici già presenti nella teoria evolutiva gestaltica.
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Abstract IT
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Il presente articolo approfondisce lo studio dello sviluppo infantile all’interno del paradigma teorico della Psicoterapia della Gestalt, con la consapevolezza che l’arricchimento di tale conoscenza consente una migliore comprensione del mondo della psicopatologia e offre un prezioso contributo nella pratica terapeutica. Il lavoro analizza in particolare le modalità di contatto intercorporee che si verificano nelle relazioni tra madre, padre e bambino, ponendo specifica attenzione al ruolo del padre nello sviluppo infantile e alla relazione della coppia genitoriale vista come regolatrice delle interazioni madre-figlio e padre-figlio. La ricerca metodologica e, dunque, l’osservazione del terzo nei processi d’interazione ampliano il campo relazionale e aprono a nuovi orizzonti lo studio dello sviluppo infantile. In questa triade, lo specifico compito del padre è quello di promuovere la differenziazione e la capacità di progetto mentale che si collocano, per il bambino, alla base dello sviluppo dei propri potenziali. Nell’articolo, inoltre, viene dedicato uno spazio al lavoro di video-intervento-terapia condotto secondo i principi fenomenologici della Psicoterapia della Gestalt; in esso sono state esplorate le modalità di contatto che avvengono nelle interazioni tra una coppia genitoriale e il loro primo bambino di quattro mesi, in momenti di vita familiare
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Pubblicazioni IT
Antropologia
Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo Autore: Giovanni Salonia La felicità passa, ma a volte ritorna. È questo il messaggio in codice che viene dalla lettura di questo libro. Come a dire che non dobbiamo deflettere, che non è mail il caso di deporre la speranza. Anche nella condizione più difficile si può farle spazio, affinché la tanto attesa ritorni. ISBN: 978-88-6124-182-4 Pagine: 184
La Grazia dell’audacia. Per una lettura gestaltica dell’Antigone Autore: Giovanni Salonia Il volume è ispirato da un personaggio che è icona della forza gestaltica della relazione e della capacità di portare avanti fino in fondo ciò che il cuore detta: Antigone, protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle. Sono le riflessioni di Giovanni Salonia a guidarci nei sentieri del cuore e delle vicende di questa fanciulla che, con grazia ed intensità tutta femminile, sa proclamare ad una società che si è smarrita nella insensatezza ed aridità di una logica autoreferenziale, quell’ordine degli affetti che – solo – può restituire via e vita. «Solo perché lei sacrifica i suoi affetti più cari non scomparirà nella città il diritto degli affetti». Al saggio di Salonia fanno da cornice una prefazione di Antonio Sichera che introduce ad un lettura gestaltica dell’eroina sofoclea ed una traduzione inedita ed integrale del testo greco, preceduta a sua volta da una breve pagina di delucidazione sui criteri ed i riferimenti che hanno guidato l’opera di traduzione. ISBN: 978-88-6124-365-1 Pagine: 80
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prelude
Jan Roubal
Un intervento psicoterapeutico può essere visto come definito dall’atteggiamento del terapeuta, un atteggiamento che viene adottato dal terapeuta prima che l’intervento appaia effettivamente come un fenomeno osservabile
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Introduction psychotherapy intervention can be seen as defined by the therapist´s attitude, an attitude which is adopted by the therapist before the intervention actually appears as an observable phenomenon. When I meet a colleague or a friend and ask him «How are you?», it is not a therapeutic intervention. It is not because the setting of our meeting is not a therapeutic one and also because my attitude is not a therapeutic one. My mind-body-set does not provide a background for what I am saying as a therapeutic intervention. I may not be interested at all in how the other is. I may be interested in it, but I am not open to really listening to his experience. Nor am I ready to offer myself to be transformed by sharing his experience and to open a space for an existential meeting. On the contrary, when I ask my client «How are you?», it is a therapeutic intervention. Before I pronounce the words, I first set a ground in my mind-body-set for such a question and this makes the question an intervention. There are ‘different kinds of interventions’. We can see the differences as dependant on different mind-body-sets of the therapist. The above-mentioned one of openness to an existential meeting provides a ground for a dialogical intervention made within an existential-dialogical approach, an approach that has presented a mainstream during the last decades in Gestalt therapy. This mainstream can be considered as a necessary pendulum reaction to the risk of the over-use of techniques. During the sixties and seventies of the last century, when Gestalt therapy was becoming popularised and codified, the original creative expression of Fritz Perls’ momentary insight (e.g. empty chair, two chairs, top dog/under dog) became applied rigidly as techniques. Fritz Perls was later criticized for his contribution to this distortion of the Gestalt approach1.
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NUOVE APPLICAIZONI CLINICHE
Experiment: lead the client by following him half a step behind
Cf. J. Melnick (1980), The Use of Therapist Imposed Structure in Gestalt Therapy, in «The Gestalt Journal», 2, 4-20; G. M. Yontef (1993), Awareness, dialogue and process, The Gestalt Journal Press, New York; L. Greenberg, P. Brownel (1997), Validating Gestalt. Gestalt!, 1/1, http://www.g-gej.org/1-1/greenberg. html; M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon (2003), Introduction, in M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon, Springer (eds.), Creative License: The Art of Gestalt Therapy, Wien and New York, 1-4; E. Bowman, E.C. Nevis (2005), The History and Development of Gestalt Therapy, in A. L. Woldt, S.M. Toman (eds.), Gestalt Therapy. History, Theory, and Practice, Sage Publications, Thousand Oaks, 3-20.
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However, the pendulum may have swung too far. The dialogical approach becomes honoured and the experimental approach is sometimes shrugged off by saying that everything is an experiment. Such an approach would disable the opportunity to systematically explore and develop experiment as a specific intervention within the Gestalt approach. Developing procedural guidelines in the sense of flexible, adjustable manuals, seems to be a growingedge challenge for Gestalt therapy2. This text presents an attempt to introduce the conditions necessary on the therapist´s side for an effective use of an experiment. Specifically, the text will offer inspiration on how to ‘set a therapist´s mind-body’ to an ‘experimental mode’ before actually offering an experiment to the client. Different ways, such as grounding in the here-and-now, active suggesting, openness to discoveries, courage for creativity and strategic leadership will be introduced.3 Moreover, the use of an experiment will also be described from the perspective of my current understanding of field theory as a way of perceiving the total situation4, currently more specifically defined as the concept of a situation in Gestalt therapy theory5. Such a theoretical stance presumes that there is something new that appears in a meeting of people that transcends the persons involved. The whole of the situation is more than the sum of the people who meet each other. Moreover, the situation is ever changing from one moment to the next. This constant change, the flow of the situation, follows its own dynamics and the involved people are transformed by it, they are functions of the situation. In our case, the therapist´s momentary creative inspiration for an experiment can be seen as functions of the situation dynamics. In this sense, how an experiment can be seen as offered by the situation will be introduced.
Questo testo presenta un tentativo di introdurre le condizioni necessarie dal lato del terapeuta per un uso efficace di un esperimento. Nello specifico, il testo offrirà ispirazione su come “impostare il corpo e la mente di un terapeuta” su una “modalità sperimentale” prima di offrire effettivamente un esperimento al cliente
Una tale posizione teorica presuppone che ci sia qualcosa di nuovo che emerge in un incontro di persone, che trascende le persone coinvolte. La situazione complessiva è più della somma delle persone che si incontrano
2 J. Roubal (2018a, in press), An Experimental Approach: Follow by leading, in P. Brownwell (ed.) Handbook for Theory, Research, and Practice in Gestalt Therapy, 2nd edition, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne. 3 Ibid: this text is based on a shortened and amended version of my chapter “An Experimental Approach: Follow by leading”. 4 Cf. K. Lewin (1952), Field Theory in Social Science, Tavistock, London. 5 Cf. among others M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon (2003), Introduction, in M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon, Springer (eds.) Creative License: The Art of Gestalt Therapy, Wien and New York, 1-4; J. Roubal, M. Gecele, G. Francesetti (2013), Gestalt Therapy Approach to Diagnosis in G. Francesetti, M. Gecele, J. Roubal (eds.), Gestalt Therapy in Clinical Practice. From Psychopathology to the Aesthetics of Contact, Franco Angeli, Milano, 79-106; G. Francesetti (2015), From individual symptoms to psychopathological fields. Towards a field perspective on clinical human suffering, in «British Gestalt Journal», 24, 1, 5-19; J. Roubal (2018b, in press), Surrender to hope: The therapist in the depressed situation, in G. Francesetti, T. Griffero (eds.), Neither Inside Nor Outside. Psychopathology and Atmospheres, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne.
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È questo equilibrio delicato e creativo che caratterizza l’approccio della terapia della Gestalt. Un equilibrio tra l’incontro dialogico di due esseri umani unici e lo stile più attivo, orientato al compito e al rischio attraverso il quale il terapeuta influenza il processo in maniera più diretta
Il contributo unico dell’approccio gestaltico risiede nella flessibilità del terapeuta nell’uso differenziato sia delle polarità dialogiche che di quelle orientate al compito, nel continuo movimento creativo tra di loro a seconda del qui e ora nella relazione terapeutica
Experiment as an integral part of the Gestalt therapist´s work Gestalt therapy builds upon Martin Buber’s6 synthetic thesis of dialogical existence and uses Buber’s principles of the dialogical relationship within therapy7. At the same time, Gestalt therapy works with more directive, task-oriented and risk-taking interventions, when the therapist offers the client a particular, more or less structured task and leaves the outcome open. It is this delicate, creative balance that is characteristic of the Gestalt therapy approach. A balance between the dialogical meeting of two unique human beings and the more active, task-oriented and risk-taking style through which the therapist influences the process more directly. Such an approach can even help to transcend the historical/theoretical dichotomy between relational and behavioural approaches8. Although Gestalt therapy has developed this approach in a specific way, generally it is not alone in adopting it. Currently, an entire group of experiential therapies are being characterized this way9. The ‘dialogic and experimental dimensions’ can be seen as polarities in the Gestalt approach. At a certain moment, one polarity can be more in the foreground and the other more in the background, in the next moment they can change their positions within the ongoing process of the therapeutic relationship. The unique contribution of the Gestalt approach lies in the therapist´s flexibility in the differentiated use of both the dialogical and the task-oriented polarities, in the continuous creative movement between them depending on the situation here and now in the therapeutic relationship. Both the polarities are always present in the Gestalt therapy approach creating a lively tension between ‘is-ness and doing’10, between the Eastern focus on awareness of being in the here and now and the Western emphasis on action and doing11. Joseph Zinker12 speaks about stretching the self-concept during the individual development. When the one polarity is accepted and honoured it also enables the exploration and full devel-
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6 M. Buber (1958), I and Thou, Charles Scribner’s Sons, New York. 7 Cf. G. M. Yontef (1993), Awareness, dialogue and process, The Gestalt Journal Press, New York; L. Jacobs (1995), Dialogue in Gestalt theory and therapy, in R. Hycner, L. Jacobs (eds.), The healing relationship in Gestalt therapy, Gestalt Journal Press, Highland, NY, 51-84. 8 G. Yontef, F. Schulz (2016), Dialogue and experiment, in «British Gestalt Journal», 25, 1, 9-21. 9 R. Elliott, L.S. Greenberg, G. Lietaer (2004), Research on Experiential Psychotherapies, in M. J. Lambert (ed.), Bergin and Garfield´s Handbook of Psychotherapy and Behavior Change, John Wiley and sons, New York, 493-540. 10 L. Greenberg, P. Brownel (1997), Validating Gestalt. Gestalt!, 1/1, http://www.ggej.org/1-1/greenberg.html. 11 J. Melnick, S. M. Nevis, N. Shub (2005), Gestalt Therapy Methodology, in A.L. Woldt, S.M. Toman (eds.), Gestalt Therapy. History, Theory, and Practice, Sage Publications, Thousand Oaks, 101-115. 12 J. Zinker (1977), Creative Process in Gestalt Therapy, Vintage Books, New York.
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opment of the other polarity. We can expand this concept to the development of Gestalt therapy as a whole. The dialogical and experimental approaches do not rule each other out, on the contrary, they strengthen each other. The use of experiments can even be seen as a specific Gestalt therapy competency for working with the psychotherapy relationship, when the therapist is able to support the intentionality of contact by custom-tailored and creative experiments13. An honest interest in the client as a unique human being, combined with the building of authentic contact with them, creates the necessary foundation for using experiments that direct the therapeutic process towards the client´s new, fresh experience. Such an experience offers yet another opportunity for a genuine personal encounter within the therapeutic relationship, because it appears in the presence of the therapist and is co-created by both the client and the therapist. The client can feel that they are accepted and so learns to accept themselves with the new, often surprising experience that was discovered through the experiment. This text is dedicated to the experiment and so it intentionally focuses on one polarity. However, it needs to be read with the awareness that the dialogical dimension is an ever-present component of the Gestalt therapeutic approach too, although at the time of using an experiment it withdraws into the background. The ‘experimental dimension’ lies in the very foundations of Gestalt therapy. According to Laura Perls14, Gestalt therapists may include a tremendous variety of therapeutic interventions in their work, as long as these are existential-phenomenological, experiential and experimental. Miriam Polster15 perceives awareness, contact, and experiment as the three fundamental therapeutic instruments of the Gestalt therapy approach. Malcolm Parlett16 describes five creative abilities: responding, inter-relating, self-recognising, embodying and experimenting. Melnick17 considers the concept of experiment as an essential ingredient of both creativity and the Ge-
L’uso di esperimenti può anche essere visto come una competenza specifica della terapia della Gestalt per lavorare con la relazione psicoterapica, quando il terapeuta è in grado di supportare l’intenzionalità del contatto tramite esperimenti personalizzati e su misura. Un sincero interesse per il paziente come un essere umano unico, unito alla costruzione di un autentico contatto, crea le basi necessarie per l’utilizzo di esperimenti che indirizzano il processo terapeutico verso una sua nuova e fresca esperienza
13 I. Vidakovic, J. Zeleskov-Djoric, J. Roubal, D.v. Baalen, G. Francesetti, B. Wimmer (2015), Professional Competencies and Quality Standards: Specific Competencies of Gestalt Therapists, retrieved from http://www.eagt.org/pcqs/PC&QS%20 -%20competencies.pdf. 14 N. Amendt-Lyon (2003a), Toward a Gestalt Therapeutic Concept for Promoting Creative Process in M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon (eds.), Creative License. The Art of Gestalt Therapy, Springer-Verlag, Wien, New York, 5-20. 15 M. Polster (2005), Gestalt terapie: Vyvoj a vyuziti [Gestalt Therapy: Development and Application] in J. Zeig (ed.), Umeni psychoterapie [Evolution of Psychotherapy], Portal, Praha, 516-532. 16 M. Parlett (2003), Creative Abilities and the Art of Living Well, in M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon (eds.), Creative License: The Art of Gestalt Therapy, Springer, Wien and New York, 51-62. 17 J. Melnick (2001), Editorial. Gestalt Review as Experiment, in «Gestalt Review», 5,4, 221-224.
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La dimensione sperimentale generale della terapia della Gestalt, con la sua curiosità sistematica e la sua apertura alle risposte uniche di ciascun paziente in ogni momento, è parte dell’approccio fenomenologico e quindi ne costituisce una delle risorse di base
Metaforicamente, l’esperimento può essere visto come un avventuroso viaggio comune, sia per il paziente che per il terapeuta, iniziando nel qui e ora della situazione, continuando attraverso un’indifferenza creativa e mirando a una scoperta non pianificata
stalt therapy method. Also, Robine18 finds the concept of experiment at the heart of the Gestalt therapy method. Amendt-Lyon19 sees the search for novelty using creativity, especially artistic methods, as fundamental to the Gestalt approach. Many others could be quoted. The general experimental dimension of Gestalt therapy with its systematic curiosity and openness to the unique responses of each client in each moment is part of the phenomenological approach20 and so it constitutes one of the basic resources in Gestalt therapy. However, the general experimental dimension of a Gestalt approach needs to be distinguished from the experimental methodological approach21. If we were to stay with the general experimental attitude, assuming that every psychotherapist´s intervention is in a way experimental, we would miss the chance to develop the methodology of ‘experiment as a specific intervention’. By identifying clearly the intentions, indications, procedure and also the risks and limits of experiment22 we create a basis for a systematic use and research-based evaluation of this specific aspect of Gestalt therapy. An experiment in Gestalt therapy is an active intervention that furthers the collaborative exploration of a client´s experience23. It is a systematically and appropriately used intervention that can offer a chance to unblock rigid processes and enhance the client’s sense of choice24. Experiment is integrated in the whole of the psychotherapy process and can effectively be used only when based on a safe, supportive and trustful therapeutic relationship. The basic procedure when using experiment is exploring and learning through doing, and the basic starting point when creating an experiment is to be process-oriented. Metaphorically, experiment can be seen as an adventurous common journey for both the client and the therapist, starting in the here and now situation, continuing through a creative indifference and aiming towards an unplanned discovery.
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18 J.-M. Robine (2013), Anxiety Within the Situation: Disturbances of Gestalt Construction, in G. Francesetti, M. Gecele, J. Roubal (eds.), Gestalt Therapy in Clinical Practice: From Psychopathology to the Aesthetics of Contact, Istituto di Gestalt HCC Italy, Siracusa, 470–487. 19 N. Amendt-Lyon (2001a), Art and Creativity in Gestalt Therapy, in «Gestalt Review», 5, 4, 225-248. 20 Cf. P. Joyce, C. Sills (2006), Skills in Gestalt Counselling & Psychotherapy, Sage, London; G. Yontef, F. Schulz (2016), Dialogue and experiment, in «British Gestalt Journal», 25, 1, 9-21. 21 J. Melnick (1980), The Use of Therapist Imposed Structure in Gestalt Therapy, in «The Gestalt Journal», 2, 4-20. 22 J. Roubal (2018a, in press 2nd edition), An Experimental Approach: Follow by leading, in P. Brownwell (ed.) Handbook for Theory, Research, and Practice in Gestalt Therapy, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne. 23 G. Yontef, F. Schulz (2016), Dialogue and experiment, in «British Gestalt Journal», 25, 1, 9-21. 24 P. Joyce, C. Sills (2006), Skills in Gestalt Counselling & Psychotherapy, Sage, London.
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Gestalt therapy is still regarded by other psychotherapeutic approaches as being primarily based on the use of techniques. This misunderstanding occurs when creatively discovered experiments are mistaken for behaviour modification procedures. The process of creating experiments within the field of a therapeutic relationship may be difficult for therapists from other psychotherapeutic approaches to understand. They may view the work of a Gestalt therapist through the lens of the medical model, where a technique is prescribed to cure a symptom. However, they also point to an important point for us, Gestalt therapists, since the danger of an experiment being ‘frozen into a technique’25 is always present in our work, if the experiment is seen as a cure in itself26. It is essential that our approach differentiate between routine and creative style, between technique and experiment27. Distinguishing between ‘technique and experiment’ is necessary in elaborating the specific methodology of experiment. Technique is an exercise prepared in advance that therapists can employ if they want to induce a particular state, or to direct the client to a particular aim. For example, a relaxation exercise at the beginning of a group therapeutic session aiming to physically relax the clients and focus them on the present experience. However, experiment is a ‘creative adventure’ when the therapist suggests to the client, «Do this, to see what you experience», and not «Do this in order to change»28. Experiment is not applied as a healing procedure for the client. Although there are general intentions such as raising awareness and activating unused resources, the concrete content of such new awareness and the specific kinds of activated resources remain unknown and can only be discovered during the process of the experiment. Our basic attitude is to embrace uncertainty and to be unendingly curious29. The fundamental ability of the therapist when using an experiment is to abandon efforts to bring the experiment to a particular, desired outcome, because the experiment essentially aims at process goals30 that cannot be planned. The therapist allows what emerges between client and therapist to guide the therapy process31. Gestalt therapists´ creativity is not embedded in the client,
Il nostro atteggiamento di base è abbracciare l’incertezza e essere infinitamente curiosi
25 J. Melnick (1980), The Use of Therapist Imposed Structure in Gestalt Therapy, in «The Gestalt Journal», 2, 4-20. 26 C. Stevens (2004), Playing in the sand, in «British Gestalt Journal», 13, 19-23. 27 N. Amendt-Lyon (2001b), “No Risk, No Fun!” A Reply to Commentaries, in «Gestalt Review», 5,4, 272-275. 28 L. Greenberg, P. Brownel (1997), Validating Gestalt. Gestalt!, 1/1, http://www.ggej.org/1-1/greenberg.html 29 J. Melnick (1980), The Use of Therapist Imposed Structure in Gestalt Therapy, in «The Gestalt Journal», 2, 4-20. 30 P. Joyce, C. Sills (2006), Skills in Gestalt Counselling & Psychotherapy, Sage, London. 31 G. Yontef, F. Schulz (2016), Dialogue and experiment, in «British Gestalt Journal», 25, 1, 9-21.
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Quando sia il terapeuta che il paziente fanno un passo coraggioso come tentativo di espandere la consapevolezza e le possibilità di contatto, di portare qualcosa di nuovo, di focalizzarsi su qualcosa che li attrae entrambi e crea qualcosa che li trascende, questo passo è chiamato un esperimento
Lo sviluppo graduale dell’esperimento è flessibile e non è controllato né dal cliente né dal terapeuta
Un esperimento perde la sua qualità esistenziale essenziale quando viene estratto e isolato dall’intero processo psicoterapeutico
or the therapist, rather it presents a novel, daring, courageous, and intuitive process, it is a field phenomenon32. When both the therapist and the client together make a courageous step as an attempt to expand contact possibilities and awareness, to actively bring something novel, to focus on something that attracts them both and creates something that transcends them, this step is called an experiment33. Here yet another substantial feature that differentiates experiment from technique appears. Technique is usually prepared by the therapist in advance, whereas an experiment is co-created by both the therapist and the client in the here-and-now situation. Although the therapist actively structures the therapy process and offers the client a particular task, the gradual development of the experiment is flexible and is not controlled by either the client or the therapist34. An experiment is born out of the process of the therapeutic relationship35 when the mutual relationship becomes a laboratory in which experiment forms organically. A creative experiment emerges from the therapist´s contact with the client and is not selected from a set of standardized interventions, known to produce a standard reaction36, techniques however can be used as an inspiration for experiment. A therapist can store for themselves a pool of useful techniques, such as externalizing inner dialogue through two chairs, repeating a deflecting sentence again with “I” in the beginning, or many others. When the therapist is not applying a pre-prepared technique to solve a problem, but stays open in the here-and-now therapy situation with the client and the idea of a technique arrives as an inspiration, a ‘frozen’ technique can be ‘warmed up’ again into a creative experiment. An experiment is a natural part of the work of the Gestalt therapist and so it´s a natural part of the co-created flow of a dialogical meeting of the client and the therapist. An experiment loses its essential existential quality when it is extracted and isolated from the whole of the psychotherapy process. However, if we want to use experiment competently and to make use of its whole potential, we need to explore it as a specific intervention with its procedures, benefits and limits. To cultivate our use of experiment, we need to
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32 N. Amendt-Lyon (2001a), Art and Creativity in Gestalt Therapy, in «Gestalt Review», 5, 4, 225-248. 33 M. Spagnuolo Lobb (2017), From losses of ego functions to the dance steps between psychotherapist and client. Phenomenology and aesthetics of contact in the psychotherapeutic field, in «British Gestalt Journal», 26,1, 28-37. 34 J. Mackewn (1999), Developing Gestalt Counselling. Sage, London. 35 N. Amendt-Lyon (2003a), Toward a Gestalt Therapeutic Concept for Promoting Creative Process, in M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon, Springer (eds.) Creative License: The Art of Gestalt Therapy, Springer-Verlag, Wien, New York, 5-20. 36 P. Philippson (2001), Self in Relation, The Gestalt Journal Press, Highland, NY.
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become aware of delicate details when using it, of the steps in creating it, of the appropriate and inappropriate conditions for using it. We cannot rely only on an intuitive creative work, we need to make explicit the skills needed for the use of an experiment. And then, when meeting the client, we need to rely on our therapeutic competence to forget all this theory and use our intuitive insights and creative freedom to enjoy the adventure of the experiment together with the client. This text is presented as an attempt to ‘rehabilitate’ experiment as a specific intervention in Gestalt therapy and an integral part of Gestalt therapy approach. It is based on an existing wide literature base focusing on the creative aspects of Gestalt therapy in general and on potentials, limits, and general rules for the use of experiment in particular37. This text complements the existing literature and focuses on one aspect of the methodology of experiment: how the therapist prepares the ground for an experiment in her own mind. Establishing the therapist´s mind-body-set for an experiment We can start by clarifying how and when an experiment can be useful for a client. What are our ‘intentions for using an experiment’ in the therapy process? As therapists, we are in a paradoxical situation. On the one hand, we do not push an experiment towards a pre-conceived outcome, on the other hand, we do not use an experiment just incidentally but with our aware intention. We do not direct the experiment towards a particular content indicating what the client should discover, but we aim the experiment at
Questo testo è presentato come un tentativo di “riabilitare” l’esperimento come intervento specifico nella terapia della Gestalt e parte integrante dell’approccio alla terapia della Gestalt
In quanto terapeuta, ci si trova in una situazione paradossale. Da una parte, non si vuole spingere un esperimento verso un risultato predefinito, dall’altra, non si usa un esperimento accidentalmente ma con un’intenzione consapevole
37 Cf. among others, J. Zinker (1977), Creative Process in Gestalt Therapy, Vintage Books, New York; J. Melnick (1980), The Use of Therapist Imposed Structure in Gestalt Therapy, in «The Gestalt Journal», 2, 4-20; J. Mackewn (1999), Developing Gestalt Counselling. Sage, London; P. Philippson (2001), Self in Relation, The Gestalt Journal Press, Highland, NY; N. Amendt-Lyon (2001a), Art and Creativity in Gestalt Therapy, Gestalt Review, 5, 4, 225-248; N. Amendt-Lyon (2003a), Toward a Gestalt Therapeutic Concept for Promoting Creative Process, in M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon (eds.), Creative License. The Art of Gestalt Therapy, Springer-Verlag, Wien, New York, 5-20; N. Amendt-Lyon (2003b), Memorable Moments in the Therapeutic Relationship, in M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon (eds.), Creative License. The Art of Gestalt Therapy, Springer-Verlag, Wien, New York, 211-226; J. Melnick, S. M. Nevis, N. Shub (2005), Gestalt Therapy Methodology, in A.L. Woldt, S.M. Toman (eds.), Gestalt Therapy. History, Theory, and Practice, Sage Publications, Thousand Oaks, 101-115; P. Joyce, C. Sills (2006), Skills in Gestalt Counselling & Psychotherapy, Sage, London; R. Frank (2003), Embodying Creativity, Developing Experience: The Therapy Process and Its Developmental Foundation, in M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon (eds.). Creative License. The Art of Gestalt Therapy. Springer-Verlag, Wien, New York, 181-200; J. Roubal (2009), Experiment: A Creative Phenomenon of the Field, in «Gestalt Review», 13,3, 263-276; G. Yontef, F. Schulz (2016), Dialogue and experiment, in «British Gestalt Journal», 25, 1, 9-21; J. Roubal (2018a, in press), An Experimental Approach: Follow by leading, in P. Brownwell (ed. 2nd ed.) Handbook for Theory, Research, and Practice in Gestalt Therapy, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne.
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Utilizzando un esperimento, il terapeuta accelera il processo di sensibilizzazione e consente al paziente di acquisire una nuova consapevolezza in modo olistico, includendo non solo i pensieri ma anche i sentimenti e le esperienze incarnate
Semplicemente aumentando la consapevolezza dei modi in cui le abitudini del paziente lo stanno imprigionando, con il supporto e la sicurezza della relazione terapeutica, si apre già una situazione stimolante per la scoperta di nuove direzioni
Attraverso un esperimento, il paziente incontra anche un’opportunità per entrare in contatto con le proprie potenzialità trascurate e iniziare a capire come usarle. Questa seconda intenzione dell’esperimento è quella di creare un luogo sicuro in cui il paziente possa accettare la propria ansia uscendo dal familiare e rischiando di “agire in modo diverso”. Quando si usa un esperimento, il messaggio implicito dal terapeuta al paziente è: «Prova qualcosa di nuovo, quando ne hai il supporto»
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process goals discovering new ways that can be revealed through the experiment. Experiment in Gestalt therapy is a therapeutic intervention where the therapist actively transforms the therapeutic situation. Experiment is used in the service of a general intention in the Gestalt therapy approach to ‘raise awareness’ and broaden the client´s freedom of choice. Using an experiment, the therapist accelerates the process of raising awareness and enables the client to gain a new awareness in a holistic way, which includes not only their thoughts but also their feelings and embodied experiences. Each person’s unique way of contacting is regulated by a combination of habit/implicit awareness and focal awareness38. The habitual ways become actualized in the present therapy situation. By the use of an experiment they become more distinct and both their values and their limitations stand out more clearly for the client. Gestalt therapy focuses on the immediacy of experience, which is brought into awareness to challenge pre-existing patterns39 using experiments to support this process. Simply raising awareness of the ways client´s habits are imprisoning them, together with the support and the safety of the therapeutic relationship, already opens a challenging situation for discovering new ways. A choice then opens for the client to step out of their fixed patterns through which they perceive and relate to themselves and their surroundings. By raising awareness through a holistically felt experience, an experiment creates a chance to step out of these fixed patterns and to enhance the client’s sense of choice. Raising awareness is not the only intention of using experiments. Through an experiment the client also encounters an opportunity to get in touch with their neglected potentials and to start learning how to use them. This second intention of experiment is to create a safe place where the client can accept their anxiety around moving out of the familiar and risk ‘acting differently’40. When using experiment, the implicit message from the therapist to the client is: «Try something new, when you have the support for it»41. Experiment in Gestalt therapy can be seen as an integration of phenomenology and behaviourism42 that uses experiential learning in the here-and-now therapy situation for a behavioural change. The change will not happen on the level of an explicit
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38 G. M. Yontef (1993), Awareness, dialogue and proces, The Gestalt Journal Press, New York. 39 Id. 40 P. Philippson (2001), Self in Relation, The Gestalt Journal Press, Highland, NY. 41 L. Greenberg, P. Brownel (1997), Validating Gestalt. Gestalt!, 1/1, http://www.ggej.org/1-1/greenberg.html 42 J. Zinker (1977), Creative Process in Gestalt Therapy, Vintage Books, New York.
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memory when only content is discussed in therapy43. The therapist focuses on the actually present experience because the repeated pattern can be changed only when it is activated in the implicit, procedural memory. Thanks to the support of the therapist, the client can dare to step out of their fixed behaviour. Through experiment, their own creativity is vitalized and becomes a resource for trying out new ways. Besides raising awareness and acting differently than usual, the experiment also offers the client a direct experience of being capable of making the change themselves, from their own resources. Clients are not subjects of change, they are ‘active agents’44 who, thanks to therapy, mobilize their agency, their own ability to act differently than usual, their capacity to find their own way. In their research on how therapists conceptualize agency within the process of change, Williams and Levitt45 described several principles across orientations designed to guide the therapist’s moment-by-moment decision making process for enhancing the client’s agency. One of them, ‘challenging and confronting to enhance awareness, reflection, and agency’, when applied to Gestalt therapy, identifies how experiment contributes to the process of change. Through the experience ‘I can make the change’ the client is encouraged and more self-supported. Their sense of ‘my life is in my hands’ is increased, their agency is enhanced through the challenging work in an experiment. As already mentioned above, in the whole Gestalt of the psychotherapy process the dialogical and experimental attitudes complement each other like two hands working together. In the dialogical approach, the process of change is based on the transformation of ‘selfing’46 through safe and accepting contact with the therapist, through being together without aiming47. At the moment when the experiment is suggested, the dialogical dimension of the meeting moves to the background. Instead, the experimental, task-oriented and risk-taking dimension comes to the foreground. The ‘task of the therapist’ also changes. For the limited time of the experiment they take more responsibility for directing the therapy process by actively structuring the present situation.
I pazienti non subiscono il cambiamento, sono “agenti attivi” che grazie alla terapia mobilitano il loro agire, la loro capacità di comportarsi in modo diverso dal solito e di trovare la propria strada
43 F. M. Staemmler (2002), Here and now, critical analysis, in «British Gestalt Journal», 11, 1, 21–32. 44 A. C. Bohart (2000), The Client Is the Most Important Common Factor: Clients’ Self-Healing Capacities and Psychotherapy, in «Journal of Psychotherapy Integration», 10, 127, https://doi.org/10.1023/A:1009444132104 45 D. C. Williams, H. M. Levitt (2007), Principles for facilitating agency in psychotherapy, in «Psychotherapy Research», 17, 1, 66-82. 46 M. Parlett (2005), Contemporary gestalt therapy: Field theory, in A.L. Woldt, S.M. Toman (eds.), Gestalt Therapy. History, Theory, and Practice, Sage Publications, Thousand Oaks. 47 G. M. Yontef (1993), Awareness, dialogue and process, The Gestalt Journal Press, New York.
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La terapia della Gestalt usa la naturale spinta umana alla realizzazione per costruirvi sopra uno dei suoi principi fondamentali. Invita attivamente i pazienti ad adottare l’atteggiamento sperimentale nei confronti della vita per provare nuovi comportamenti e imparare da ciò che accade
Prima di offrire effettivamente un esperimento al paziente, il terapeuta si concentra prima su se stesso e si prepara mettendosi in una “modalità sperimentale”, che manterrà per tutta la durata di un esperimento
The (ever present) asymmetry of the roles of therapist and client becomes more visible for the moment. The risk-taking component is of course present in every therapy meeting, but in Gestalt therapy it is stressed with specific intentions at certain moments in the therapy process. The challenging and exciting task for the Gestalt therapist is to use such changes in attitude with awareness and for the benefit of the client. In their daily lives, people again and again find themselves in situations that invite or even push them to try something new and unexplored, to try stepping into a process that is unpredictable and cannot be planned in advance. The risky step they need to make in such situations seems necessary for their growth, sometimes even for their survival. They need to «step outside of one’s self» to discover a clear and fresh perspective48. Gestalt therapy offers a support in this natural process of growth necessary for the instantly evolving, creatively adjusting contact with the environment. Moreover, Gestalt therapy uses the natural human urge for actualization on which to build one of its basic tenets. It actively invites clients to adopt the experimental attitude towards life to try out new behaviours and learn from what happens49. For that, an experiment as a specific intervention in Gestalt therapy is used as a challenge, is actively introduced by the therapist and is embedded in the safe and supportive therapeutic relationship. Experiment is born out of the process of the therapeutic relationship50 and is not controlled by either the client or the therapist51. The mutual relationship becomes a laboratory in which experiment forms organically. This way the creativity used for an experiment is a relational process52. It is important that the therapist consciously prepares their mind-body for such an approach. It gives them a clear vision of their tasks and strategies for introducing an experiment. This then provides the safety and stability necessary to the psychotherapy relationship as a ground for the challenging experience discovered through experiment. Before actually offering an experiment to the client, the therapist focuses first on themselves and prepares by setting their mind-body to an ‘experimental mode’, which they will keep for the duration of an experiment. It is similar to driving a car. Before
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48 Id. 49 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1951), Gestalt Therapy, Excitement and Growth in the Human Personality, Gestalt Journal Press, Highland, NY. 50 N. Amendt-Lyon (2003a), Toward a Gestalt Therapeutic Concept for Promoting Creative Process, in M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon (eds.), Creative License. The Art of Gestalt Therapy, Springer-Verlag, Wien, New York, 5-20. 51 J. Mackewn (1999), Developing Gestalt Counselling, Sage, London. 52 J. C. Zinker (2003), Beauty and Creativity in Human Relationships, in M. Spagnuolo Lobb, N. Amendt-Lyon (eds.), Creative License. The Art of Gestalt Therapy, Springer-Verlag, Wien, New York, 141-152.
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actually starting to drive the driver prepares themselves for this new activity, first with full consciousness, later as an automatic habit. For a beginning therapist, it is useful to make the change to an experimental mind-set deliberately and consciously. Later, it becomes an automatic switch. For creating, developing and concluding an experiment, the therapist temporarily and consciously switches to an attitude which differs from the dialogical one in some distinctive points. Making this change in attitude and thereby bringing the experimental polarity into the foreground with full awareness enables the therapist to stay well grounded. When the therapist knows what they are doing this brings clarity and safety for the client as well. A safe and clearly understood therapy situation with a wellestablished working alliance provides the necessary ground for creative, intuitive and often quite ‘crazy’ work in an experiment. Grounding in the here-and-now. In using an experiment, the therapist intends to explore what has already been present in the therapy situation. They do not bring their own agenda to change the situation, do not try to persuade the client. They stay grounded in the awareness of what is happening here-and-now in the therapy. From this starting point, they search for creative ways to ‘outline’ the figure that is just arising. Experiment is used to bring new awareness and new meaning to the phenomena, which are in some way, often implicitly, already present in the therapy situation. Active suggesting. Experiment is a kind of therapist-imposed structure53 in the flow of a therapist-client dialogue. The therapist consciously takes a leading position towards the client by actively suggesting a specific task, encouraging the client to ‘try out’, and ‘discover‘. The task is often offered as optional and collaborative («Would you like that we explore this a bit more?»). However, the therapist uses their professional authority to structure and direct the situation to some extent. The therapist actively and with awareness switches their role from a companion to a guide. Openness to discoveries. The therapist moderates the process of experiment as an open-ended adventure. They are facilitating it to be unpredictable even to himself 54. They need to resign their ambition to direct the process towards a particular, desired result. Together with the client, they set out on a common adventurous expedition into an unknown territory. The process of an experiment can take surprising turns when the therapist maintains a non-judgmental attitude55 and follows the development of an ex-
In questo senso, un esperimento, di fatto, non può andare storto, non può essere valutato come successo o insuccesso, perché il terapeuta elabora l’esperimento in collaborazione con il paziente ed esplora fenomenologicamente ciò a cui porta
53 J. Melnick (1980), The Use of Therapist Imposed Structure in Gestalt Therapy, in «The Gestalt Journal», 2, 4-20. 54 P. Philippson (2001), Self in Relation, The Gestalt Journal Press, Highland, NY. 55 P. Joyce, C. Sills (2006), Skills in Gestalt Counselling & Psychotherapy, Sage, London.
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Il terapeuta può darsi il permesso di utilizzare qualsiasi intervento creativo che soddisfi le seguenti condizioni: che punti a migliorare la consapevolezza, che sorga sia dal dialogo che dal lavoro fenomenologico e che rimanga all’interno dei confini etici
periment with curiosity. In this sense, an experiment in fact cannot go wrong, cannot be evaluated as successful or unsuccessful, because the therapist collaboratively elaborates the experiment with the client and phenomenologically explores what it brings. Courage for creativity. The therapist becomes an artist creatively using what is available at a present moment in contact with the client, ‘a material’ that grows from their encounter. Often the paradoxical theory of change guides the therapist to interact with the client56. A creative idea comes in an intuitive way and the therapist often labels it for themselves as non-sense, strange, or crazy. At this point the therapist puts aside their preconceptions and introjects. The therapist can give themselves permission to use any creative intervention which meets the following conditions: it aims to enhance awareness, it arises from both dialogue and phenomenological work, and it remains within the ethical boundaries57. This way the therapist is modelling courage for the client. If the client is encouraged to risk a step out of their safe, comfortable zone, the therapist can support them by modelling it by doing it themselves. Strategic leadership. The process of creating and developing an experiment is a relational interaction in which the client takes an active part. The therapist suggests tasks and leads the process during an experiment, but this leadership is of a paradoxical nature, a humble one, the least visible possible. The therapist is sensitive to the resources, risks and needs of the situation, always ready to give space to the naturally maybe even surprisingly evolving process. They continuously monitor that they are pacing together through the adventurous journey of the experiment. The leadership includes a strategic thinking about the overall timing. The therapist suggests an experiment when there is enough time to develop and integrate it. Generally, it is not recommended to suggest an experiment when there is less than 1015 minutes left before the end of the session, because it is not clear in advance how intense the experiment might be and how much time it might need for safe integration. At certain points, the therapist turns their attention from the process of experiment to the client as a partner working with them on a common task. The therapist uses the moments when the client´s experiencing becomes naturally less intense and the client can temporarily step out of the flow of experiment. Together they assess how the experiment is going and what are the capacities for possible next steps and then they plan what such steps
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56 G. Yontef, F. Schulz (2016), Dialogue and experiment, in «British Gestalt Journal», 25, 1, 9-21. 57 G. M. Yontef (1993), Awareness, dialogue and proces, The Gestalt Journal Press, New York.
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might be. The therapist needs to be ready to grade down or finish the experiment if the client does not have enough support for a next step. The new discovery needs to be small enough for the client so they can integrate it. Double availability Thanks to an experiment, the client experiences themselves in a new, exciting, but often also fearful and shameful way. This kind of experience evolves while in the accepting and supportive presence of the other, thus opening a new way of being in the world for the client. Experimenting opens new possibilities and the safe relationship enables the client to try them out. A very new way of existing can be born for the first time in the presence of the therapist. Co-creating and witnessing together how this new way starts to blossom, creates a touching human closeness. The use of experiments contributes thus to creating a ground for an existential ‘I-Thou’ encounter between the client and the therapist. The therapist accepts the uniqueness of the client´s creative adjustment in the context of their life story. The creative adjustment presents a starting point for developing an experiment. At the same time, the therapist invites the unused potential of the client and challenges it. There is an existential tension in the client between the polarity ‘I want to change myself, because I am not satisfied with the way I live’ and the other polarity ‘I do not want to change myself, because the way I live is the only one I know’. The therapist is able to stand this tension, they do not identify themselves with any of the two polarities. They simply stay available and, by introducing the experiment, they express both their respect for the unique life experience of the client and their trust in the client´s ability to find new, more satisfying ways of living. Experiment enhances both the opportunity for keeping the above mentioned existential tension and for developing the existential ‘non-dual awareness’58. The existential offer of the experiment is: «Accept your experience»59, which counts for both the client and the therapist who find themselves together in the therapy situation. Recently I saw a mother with a five-year-old son in the street. They were holding each other’s hands, being on their way home. I overheard the young man speaking about his big love from kindergarten. He was explaining something with great passion and the mother was listening to him attentively. I was touched and, with a professional interest, I was also observing what the mother was doing. She was listening to her son with her whole body,
La sperimentazione apre nuove possibilità e la relazione sicura consente al paziente di provarle. Un modo del tutto nuovo di esistere può nascere per la prima volta alla presenza del terapeuta
L’adattamento creativo rappresenta un punto di partenza per lo sviluppo di un esperimento. Allo stesso tempo, il terapeuta stimola il potenziale inutilizzato del paziente e lo sfida
L’offerta esistenziale dell’esperimento è: «Accetta la tua esperienza», che conta sia per il paziente che per il terapeuta, ritrovandosi insieme nella situazione terapeutica
58 J. M. G. Williams (2010), Mindfulness and psychological process, in «Emotion», 10, 1, 1–7. 59 L. Greenberg, P. Brownel (1997), Validating Gestalt. Gestalt!, 1/1, http://www.ggej.org/1-1/greenberg.html.
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bending down to him, fully attuned, and present. She was answering him, encouraging him with questions, mirroring non-verbally his emotion. However, I also realized that she was doing something else at the same time, fulfilling another task in parallel. She was monitoring the cars in the street and, when it was safe, she prompted her son to cross the street. She greeted someone briefly from a distance. She was observing the signs on the passing trams and waited for the right one. This picture provides a metaphor (with all the limits the use of metaphor brings) that illustrates the mind-body work of the therapist during the experiment. Their mind is fulfilling two different kinds of tasks at the same time; they are available to the client in two parallel ways. Through embodied inclusion they find themselves experiencing how it is to live life the way the client does. At the same time, the therapist is grounded in themselves and in the broader context of the therapy situation. This allows them to explore what intention the experiment can have at that moment, how to arrange a fitting timing and grading of the experiment, or when it is the right time to bring the experiment to a close. Such a ‘double availability’ is probably always present in the work of a psychotherapist. However, it is useful that the therapist be especially attentive to it when using an experiment so as to avoid the risk of applying a technique with the purpose of changing the client. Lead by following, a Tao principle of a servant leadership, can well be applied to the dialogical work of a psychotherapist, who follows the issues the client brings and attunes to the client in a genuine and unique dialogue thereby leading the client to new relational experiences. When using experiment, the therapist temporarily decides to change this approach and takes a lead in an explicit way. At the same time, however, they follow the intentionality of the present situation in creating a task. They suggest the task to the client and follow the process adjusting the level of challenge to the client´s capacities and balancing it with support. They let their leading suggestion be led by the situation with the client here and now. The therapist ‘follows by leading’. The therapist follows the client just half a step behind her to see the direction in which her step is led by the intentionality of the situation. And, before the step is actually made, the therapist suggests an experiment which leads the client into exploring the movement of that direction, exploring it together in a just-enough challenging adventure.
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Experiment as a function of the situation The experiment can be seen as situational, which means it is controlled neither by the therapist nor by the client. It is the intentionality of the situation that drives the dynamics of the experi-
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ment and the therapist is sometimes supporting it and sometimes simply trying not to get in the way. Trusting the process, which naturally evolves during the experiment, includes also experiencing the existential anxiety connected with the disturbing awareness that we ourselves are part of the flow of the situation, we are a function of it. This existential anxiety is a natural part of using experiment, it is experienced by both the client and the therapist, and the specific therapeutic skill when using experiment is not to calm the anxiety, rather to transform it into excitement. The therapist supports the process of Gestalt formation to allow the blocked excitement producing the anxiety to become active excitement60, to restore the creative risk-taking potentiality of the situation. A healthy situation follows a natural flow enabling the relational needs of the participants in the situation to be met. The process of the situation offers a chance for each of the participants to be seen by the other, to express themselves towards the other, to receive the response from the other, and to experience the energy generated in the mutually alive contact. The situation is grounded in the here-and-now and it naturally aims to the next moment. The relational needs of the participants give power to the flow, they channel it and give it a direction, which enables the situation to move naturally and smoothly to the next here-and-now. Therapists can find themselves led by the flow of the situation itself, trusting in the current of life61. An experiment can be then seen as offered to them by the situation. When they support it, the potentiality of the situation for the creative risk-taking and vivid flow is released. The anxiety is transformed into an excitement that is felt as an embodied experience by both the client and the therapist, and supports the here-and-now further development of the experiment. The transformation from anxiety to excitement happens first in the therapist’s mind-body-set, which establishes an essential support for welcoming an experiment offered by the situation.
Fidarsi del processo, che naturalmente si evolve durante l’esperimento, include anche sperimentare l’ansia esistenziale connessa con la consapevolezza inquietante che noi stessi siamo parte del flusso della situazione, ne siamo una funzione
L’abilità terapeutica specifica, quando si utilizza l’esperimento, non è quella di calmare l’ansia, piuttosto di trasformarla in eccitazione
60 J.M. Robine (2013), Anxiety Within the Situation: Disturbances of Gestalt Construction, in G. Francesetti, M. Gecele, J. Roubal (eds.), Gestalt Therapy in Clinical Practice: From Psychopathology to the Aesthetics of Contact, Istituto di Gestalt HCC Italy, Siracusa, 470–487. 61 G. M. Yontef (1993), Awareness, dialogue and proces, The Gestalt Journal Press, New York.
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This article presents an experiment both as a specific kind of intervention and as an integral part of the Gestalt therapist´s work. Experiment is described as an adventurous common journey for both the client and the therapist, starting in the here-and-now situation, continuing through a creative indifference and aiming towards an unplanned discovery. The text presents and attempt to introduce the conditions necessary on the therapist´s side for an effective use of an experiment. Specifically, the text will offer inspiration on how to set a therapist´s mind-body to an “experimental mode” before actually offering an experiment to the client. Different ways of grounding in the here-and-now, active suggesting, openness to discoveries, courage for creativity, and strategic leadership will be introduced. The use of an experiment will also be described from the perspective of field theory. The transformation from anxiety to excitement, essential for an experiment, is then seen as happening first in the therapist’s mind-body-set thus enabling a necessary support for welcoming an experiment offered by the situation.
Il presente articolo presenta un esperimento sia come specifico tipo di intervento sia come parte integrante del lavoro del terapeuta della Gestalt. L’esperimento è descritto come un avventuroso viaggio comune per il cliente e per il terapeuta, a partire dalla situazione del qui e ora, proseguendo attraverso un’indifferenza creativa e puntando a una scoperta non pianificata. Il testo espone e cerca di introdurre le condizioni necessarie per il terapeuta, affinché l’esperimento sia efficace. In particolare, offre ispirazione su come impostare la mente-corpo di un terapeuta in “modalità sperimentale”, prima di proporre effettivamente un esperimento al cliente. Saranno introdotti diversi modi di radicamento nel qui e ora, suggerimenti attivi, disponibilità alle scoperte, coraggio per la creatività e leadership strategica. L’uso di un esperimento sarà descritto anche dal punto di vista della teoria dei campi. La trasformazione da ansia a eccitazione, essenziale per un esperimento, viene poi vista come un avvenimento prima nel corpo-mente del terapeuta, consentendo così un supporto necessario per accogliere un esperimento offerto dalla situazione.
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La violenza assistita nel triangolo primario: quando papà picchia mamma
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SOCIETÀ E PSICOTERAPIA
Sara Pretalli e Giuseppina Adamo “Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante... Bisogna sempre spiegargliele le cose ai grandi. A. de Saint Exupéry, Il piccolo principe Cosa vuoi diventare da grande Thomas? Felice. Voglio diventare felice Guus Kuijer, Il libro di tutte le cose
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a violenza assistita1 ha atteso a lungo prima di essere vista e considerata come forma di maltrattamento al pari di tutte le altre. Oggi ritroviamo questo stesso processo nel lento riconoscimento delle singole storie. Possiamo affermare, infatti, che i bambini e le bambine vittime di questa tipologia di violenza rimangono a lungo invisibili senza che nessuno si accorga di ciò che stanno subendo. Questo perché le persone che più di tutte dovrebbero prendersene cura sono impegnate ‘altrove’, spesso inconsapevoli di causare una sofferenza anche non agendo direttamente contro di loro una violenza. In questo lavoro l’attenzione è rivolta esclusivamente alla violenza assistita di genere cioè alle violenze e ai maltrattamenti di cui i/le bambini/e sono testimoni, dentro le mura domestiche e non solo, perpetrati contro le loro mamme per mano dei loro papà. Una conferma di quanto il fenomeno sia recente in Italia la si trova anche nella mancanza di dati statistici (si ricorda che la violenza assistita non si configura in uno specifico reato ma è ritenuta una aggravante), sebbene negli ultimi anni siano state condotte diverse indagini campionarie a livello nazionale2, dove è possibile
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«Per violenza assistita intrafamiliare si intende l’esperire da parte del bambino/a qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Il bambino può fare esperienza direttamente quando essa avviene nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il minore è a conoscenza della violenza), e/o percependone gli effetti. Si include l’assistere a violenze di minori su altri minori e/o su altri membri della famiglia e ad abbandoni e maltrattamenti ai danni di animali domestici», CISMAI (1999). 2 La Ricerca Istat anno 2014 La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia mostra in maniera molto preoccupante l’aumento di violenze domestiche a cui i figli sono esposti: la quota è salita al 65,2% rispetto al 60,3% del 2006. In particolare hanno assistito alla violenza raramente nel 16,2% dei casi di violenza, a volte nel 26,7%, spesso nel 22,2%, in crescita rispetto al 2006 (rispettivamente 16,3%, 20,5% e 21,4%). Nel 25% dei casi, inoltre, i figli sono stati coinvolti
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riscontrare l’ampia diffusione del fenomeno. Nonostante ciò il rilevamento di queste situazioni risulta ancora difficile ed il mancato intervento non è da sottovalutare: molti, troppi, i bambini rimasti orfani di madre o uccisi insieme a lei dal loro stesso padre3. La violenza assistita ha come caratteristica intrinseca quella di collocarsi sullo ‘sfondo’ di una violenza più grande, i cui protagonisti sono piccole/i testimoni che si trovano nella situazione paradossale di sapere che la loro sopravvivenza dipende dalle cure dei propri genitori e nello stesso tempo sentono forte l’urgenza di proteggere la loro mamma. Riferisce Giacomo in un colloquio con la psicologa: «Non volevo andare a scuola perché avevo paura che quando io non c’ero i miei genitori si uccidessero». La violenza assistita può essere trattata alla pari di un segreto familiare, in quanto essa agisce come se lo fosse, un segreto condiviso tra tutti i componenti della famiglia e taciuto a chiunque altro viva al di fuori di essa. All’inizio, almeno per i primi anni di vita del/della bambino/a, le dinamiche familiari intrise di violenza appaiono ai suoi occhi come normali in quanto rappresentano una quotidianità. Alcuni/e bambini/e provano a svelare il segreto in maniera maldestra, rivolgendosi a persone non sufficientemente adeguate o pronte ad accogliere la loro richiesta di aiuto. A casa di Mirko sono arrivati gli amici di mamma e papà, lui corre loro incontro dicendo: «Il papà ha fatto male alla mamma». Nessuno gli risponde e da quel momento Mirko non ne parla più. Altri/e compiono veri e propri gesti nel tentativo di prestare soccorso alle loro mamme: «Enrico fermava tutti i vigili e i carabinieri che incontravamo per strada così gli chiedeva di aiutarci». Infine, possono confidarsi con insegnanti, compagni di scuola, amichetti, ma nel momento in cui le loro parole non verranno accolte, comprese o credute, i/le bambini/e si sentiranno confusi, feriti, impauriti, arrabbiati, etc., potranno divenire ancora più inaccessibili o apparire incomprensibili. Allo stesso modo la variabile tempo può determinare effetti diversificati: si tratta, in genere, di esperienze continuative che avvengono in specifiche fasi evolutive dello sviluppo dei bambini. Un bambino che all’età di due anni perde la mamma perché uccisa dal marito, avrà una esperienza diversa da quella di un bambino di otto anni che al lutto potrebbe aggiungere anche un senso di colpa per non essere riuscito a proteggerla. Con la crescita i bambini sviluppano un maggior senso di responsabilità.
All’inizio, almeno per i primi anni di vita del/ della bambino/a, le dinamiche familiari intrise di violenza appaiono ai suoi occhi come normali in quanto rappresentano una quotidianità
nella violenza, (15,9% nel 2006), in particolare il 10,8% ne è stato vittima raramente (6,7% nel 2006), l’8,3% qualche volta (5% nel 2006) e il 4,5% spesso (4,2% nel 2006). 3 Sono millecinquecento gli orfani di femminicidio dal 2000 al 2013, secondo la stima del Dipartimento di Psicologia della Seconda Università degli Studi di Napoli all’interno del progetto europeo Switch-off (Who, where, what. Supporting children orphans from feminicide in Europe). Sito www.switch-off.eu.
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I giochi dei bambini e delle bambine che hanno assistito a violenze in famiglia possono assumere, infatti, in una fase iniziale, un ritmo ripetitivo
Con il gioco raccontano, narrano e sperimentano, nel qui ed ora della seduta di terapia, i vissuti non espressi e le azioni mancate. Uno dei principali scopi della terapia diventa allora quello di fornire al bambino, attraverso la relazione terapeutica, la possibilità di ripristinare la spontaneità del suo percorso di crescita (bloccato dall’esposizione alla violenza), favorendo una nuova integrazione delle parti di sé
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Altro aspetto da tener presente in questi casi è che, come esistono diverse forme di violenza domestica, esistono anche diverse sfaccettature di violenza assistita (psicologica, fisica, economica, sessuale) con risvolti e conseguenze psicologiche molto diverse. Per avviare il lavoro terapeutico è necessario partire da un’ovvietà: i bambini e le bambine funzionano in modo diverso dagli adulti, comunicano le loro emozioni soprattutto attraverso il corpo ed il gioco; quest’ultimo rappresenta senza alcun dubbio il canale diretto per conoscere il loro mondo più intimo. I giochi dei bambini e delle bambine che hanno assistito a violenze in famiglia possono assumere, infatti, in una fase iniziale, un ritmo ripetitivo: Gabriel ha otto anni quando affronta il percorso di terapia, per molte sedute sceglie di fare il gioco delle bolle di sapone e rivela la sua esperienza relazionale: «Ti uccido bolla, muori, ti uccido», poi chiede alla terapeuta di salvare le bolle. Tra i primi giochi scelti da Desirée, dieci anni, ci sono le bambole con le quali mette in scena una sequenza ridondante di situazioni caratterizzate da temi adulti e violenti, come ad esempio dare da bere la birra alle bambole, fare sesso, darsi le botte, andare in ospedale per partorire o per ricevere cure. Attraverso i loro giochi Gabriel e Desirée ci parlano delle loro diverse esperienze di violenza assistita. Gabriel ha assistito a violenze fisiche molto efferate, lui stesso è stato coinvolto in un grave incidente; Desirée è nata in seguito ad un abuso sessuale ed è cresciuta assistendo a questo tipo di violenze fino al giorno in cui in piena notte la madre è scappata con le tre figlie. I loro giochi si sono sviluppati attraverso comportamenti ripetitivi, fissità e rigidità. Ciò può essere letto come una loro difficoltà, come quella di molti altri bambini che hanno avuto esperienze simili, di comprendere, dare significato e chiudere l’esperienza vissuta. Con il gioco raccontano, narrano e sperimentano, nel qui ed ora della seduta di terapia, i vissuti non espressi e le azioni mancate. Uno dei principali scopi della terapia diventa allora quello di fornire al bambino, attraverso la relazione terapeutica, la possibilità di ripristinare la spontaneità del suo percorso di crescita (bloccato dall’esposizione alla violenza), favorendo una nuova integrazione delle parti di sé. Nel corso della terapia con Gabriel il gioco delle bolle di sapone procede nella ripetizione, poi si apre allo scambio dei ruoli, che fa emergere la figura del gioco, traducibile in: uccidere-salvare-guarire. Gabriel approda alla possibilità di sperimentare il ruolo del ‘salvatore’ e poi ‘guaritore delle bolle ferite’, infine attraverso un altro gioco può abbandonare il controllo (anche a livello corporeo), lasciarsi cadere sul pavimento, aprirsi all’esperienza di essere lui stesso ‘vittima’ e permettere che la terapeuta si prenda cura di lui, in modo accogliente e non confusivo, risvegliandolo dalla sua ‘morte’.
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Desirée con il trascorrere delle sedute di terapia inizia a portare alcuni giocattoli da casa. Si tratta di piccoli bambolotti con i quali prova ad inventare giochi inverosimili, sembra impacciata e goffa nell’esprimere il suo bisogno di giocare e di essere piccola, è quasi imbarazzata da questo nuovo ruolo. Con il tempo ed il sostegno della terapeuta, Desirée è arrivata a giocare seduta sulla piccola sedia e ‘vestire’ gli abiti di una bambina della sua età. È pronta per aprirsi a nuovi racconti: la scuola, le amichette, il fidanzatino, etc. I temi di vita che abbiamo sviluppato con i/le bambini/e all’interno del loro percorso psicoterapeutico sono stati molteplici, ogni terapia ha presentato aspetti unici e assolutamente individuali come unica è la storia familiare che ciascuno di loro ha vissuto. Tuttavia, alcuni di questi temi si sono imposti come sfondo di tutte le storie di violenza assistita, come a voler tracciare il fil rouge tra tutti/e i/le bambini/bambine vittime di questo tipo di violenza. Paura/Sicurezza Benché siano passati quasi dieci anni, Aurora racconta con estrema lucidità i momenti di paura vissuti quando aveva quattro anni e il papà picchiava con regolarità la mamma, anche avvalendosi di attrezzi da giardinaggio, avendo attenzione però di allontanare il fratello, forse proprio perché maschio o perché più grande; invece lei era sempre lì, presente in mezzo a loro e drammaticamente invisibile ai loro occhi, malgrado provasse ad urlare, a far qualcosa perché il padre smettesse. Ricorda i minimi dettagli di quando la mamma è fuggita da casa con lei e suo fratello in braccio e ha comprato loro una pizza da mangiare in macchina, «per farci stare meno male». Ricorda la paura provata quando il padre cercava di abbattere la porta della casa dove avevano trovato rifugio. Questa paura è entrata così radicalmente dentro il corpo di Aurora che non potrà certo passare solo con il trascorrere del tempo, né potranno esserle di aiuto le rassicurazioni sul fatto che ora non ha più nulla da temere. La paura ha accompagnato anche la crescita di Desirée; ad anticiparlo è proprio la madre che nel corso dell’anamnesi riferisce: «Dai tre ai cinque anni ha sofferto di attacchi di panico, li abbiamo curati con fiori di Bach. Si metteva sotto le coperte per la paura e tremava per ore». È la stessa Desirée che nel corso della terapia, attraverso le storie, ci aiuta a comprendere la sua esperienza di vita: «...nella casetta vive una famiglia che si trova ad affrontare l’arrivo di uragani e terremoti... la famiglia però si può preparare perché la bambina li preannuncia». La sequenza del gioco diviene: «annunciare, far tremare, smontare i pezzi della casa, far scappare la famiglia e finire esclamando: Che bello!». Desirée ci dice che la violenza arriva all’improvviso, travolge, distrugge e l’unico modo per sopravvive-
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La paura, che forse rimarrà per sempre nei vissuti di queste bambine, potrà in parte essere modulata sostenendo la crescita della sicurezza
I/Le bambini/e che hanno assistito a violenza non possono aver sperimentato pienamente le sensazioni di protezione e sicurezza
re è scappare. Assumere un ruolo da protagonista nel gioco è una sorta di rivalsa per tutto ciò che ha subito, le consente di portare fuori il terrore e l’angoscia, di riappropriarsi di un potere come non è accaduto nella realtà. La paura, che forse rimarrà per sempre nei vissuti di queste bambine, potrà in parte essere modulata sostenendo la crescita della sicurezza: questo potrà essere possibile all’interno di una relazione terapeutica dove la bambina sarà ‘vista’ e ascoltata, dove le sue paure, imprigionate dentro la memoria corporea, saranno comprese e ‘prese sul serio’, dove i suoi bisogni, espressi anche attraverso i sintomi, saranno riconosciuti, accolti, accettati e sostenuti come espressione della sua capacità stessa, tutta personale e quindi unica, di adattarsi ad una situazione difficile. I/Le bambini/e che hanno assistito a violenza non possono aver sperimentato pienamente le sensazioni di protezione e sicurezza, per tale ragione riteniamo fondamentale che l’incontro terapeutico offra loro la possibilità di ri-sperimentarle nel qui ed ora della seduta, nella relazione con il/la terapeuta. Solo ‘nutriti/e’ da questi vissuti potranno aprirsi verso nuove possibilità di sé e al mondo.
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Modalità confluente/Contatto pieno Alessia, sin dalla prima seduta, si relaziona con la terapeuta come se fossero amiche da sempre, ricercando la vicinanza fisica ed esprimendo una modalità di contatto corporeo che la terapeuta sente troppo veloce ed intima per una terapia ancora in fase di avvio. Anche nel colloquio riferisce di ‘grandi’ regali fatti ad amici, peraltro appena conosciuti. La terapeuta ha la sensazione di ‘troppo’: troppa vicinanza fisica, troppe parole, troppi regali, troppa velocità nei passaggi della seduta, troppo da fare. Alessia porta nella relazione con la terapeuta la confusione dei confini corporei ascrivibile ad uno stile di contatto confluente. La novità che Alessia potrà sperimentare in terapia sarà quella di sentirsi accolta e sentire il calore che la terapeuta le trasmette senza la necessità di ‘fare troppo’, scoprendo pian piano il piacere di incontrare la terapeuta in piccole e piacevoli esperienze di gioco, gioco che lentamente diventerà sempre più adeguato alla sua età e al contesto. Potere/Amore Ciò che ci appare estremamente peculiare in queste situazioni sono i temi dell’amore e del potere. Mentre nel triangolo violento i genitori occupano due posizioni di potere differente, il bambino si troverà a decidere come collocarsi nel campo: potrà porsi accanto al genitore maltrattato per difenderlo, eventualmente anche attaccando il genitore maltrattante, o allearsi con il genitore più forte infierendo sul genitore più
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debole, o scegliere un’altra modalità che gli consenta di adattarsi creativamente alle relazioni del campo. Ma il bambino che vive tra relazioni di violenza viene ingannato non solo sul tema del potere ma anche su quello dell’amore. Il tema dell’amore nelle situazioni di violenza è molto complesso. In questa sede vogliamo accennare a una delle dicotomie più comuni con cui questi/e bambini/e si devono confrontare, quella del “ti amo-ti picchio”. Tra i possibili “apprendimenti sbagliati” si potranno rilevare: “picchiare come modo per dimostrare il proprio amore”, “essere picchiate come possibilità dell’essere amate” e ancora “picchiare è normale, lo fanno tutti”. Di questo parla Gabriel quando nel corso di una seduta, orientato dalla terapeuta verso l’esplorazione della sua consapevolezza, dice: «Io sono amaro perché uccido le bolle. Quelle che uccido mi dicono “Ti amiamo Gabriel”, quelle che salvo dicono “Ti odiamo Gabriel”». L’esperienza della violenza familiare ha messo Gabriel in un difficile campo relazionale: per non soccombere si è ‘schierato’ a fianco del padre, assumendone il ruolo up e squalificando la figura materna. Così si relaziona con la terapeuta all’inizio delle sedute, mettendo in atto comportamenti di sfida e giochi di potere, senza possibilità di un reciproco riconoscimento (Io-Tu). Anche nel caso di Luca l’identificazione col genitore violento l’ha portato ad assumere atteggiamenti di provocazione; la modalità relazionale che conosce meglio è quella di far provare paura agli altri e questa modalità l’ha portato a definirsi lui stesso pericoloso, violento. Nel corso della terapia è stato importante, attraverso il gioco − disegni e i giochi di ruolo −, fargli sperimentare nuove modalità di espressione della rabbia, rese possibili dal fatto che la terapeuta non si spaventava di lui, ma riusciva a contenere la sua energia rimandandogliela in una modalità non più distruttiva. Con i bambini travolti da esperienze più grandi di loro, come l’aver assistito a violenze tra i propri genitori, diviene importante accompagnarli a sperimentare che l’ambiente, in questo caso rappresentato dal/dalla terapeuta, è in grado di contenerli, un ambiente in cui non si perde la pazienza, non si agisce violenza, non si scompare né si implode. Tutto ciò costituisce per i bambini un nuovo ground di sicurezza e li accompagna, infine, alla novità di sentirsi amati e stimati in maniera autentica.
Il bambino che vive tra relazioni di violenza viene ingannato non solo sul tema del potere ma anche su quello dell’amore
Tra i possibili “apprendimenti sbagliati” si potranno rilevare: “picchiare come modo per dimostrare il proprio amore”, “essere picchiate come possibilità dell’essere amate” e ancora “picchiare è normale, lo fanno tutti”
Segreto/Rivelazione In alcuni casi diventa liberatorio per i bambini poter “finalmente” raccontare i fatti per come realmente sono. Nel dire alla terapeuta che «il papà fa male alla mamma» recuperano la loro spontaneità (normalmente bloccata nel segreto) e i loro comportamenti,
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spesso letti troppo velocemente dagli altri in modo disfunzionale, acquistano un nuovo significato. È il caso, per esempio, dei tanti bambini che non vogliono andare a scuola perché sentono l’esigenza di dover controllare cosa accade in casa. In altri casi invece i bambini non ci hanno rivelato la loro storia attraverso racconti espliciti ma solo attraverso le scene di gioco, in cui la tematica è emersa spesso come ‘figura’. Se da un certo punto di vista possiamo dire che la violenza è rimasta indicibile è altrettanto importante ricordare che la comunicazione verbale è solo una delle modalità di esprimere vissuti e non è certo quella preferita dai bambini, soprattutto da quelli più piccoli. Gli esempi che abbiamo illustrato nel corso dell’articolo sono solo alcuni di quelli che abbiamo raccolto nel corso delle sedute. Alla luce di tutto questo possiamo affermare che le tematiche portate da questi bambini sono singolari/tipiche, non ritrovabili in bambini e bambine che non hanno vissuto questo tipo di esperienza. La specificità del trauma delle vittime di violenza assistita ci appare ben esemplificata dalle parole di Perls quando scrive: «probabilmente non si verifica mai un singolo momento traumatico ma piuttosto una serie traumatica di momenti più o meno simili frustranti e pericolosi, durante i quali la tensione e il sentimento e l’esplosività pericolosa della risposta gradualmente si intensificano e, l’inibizione di queste ultime si rafforza, finché il sentimento e la risposta vengono cancellati»4. Come terapeute della Gestalt Therapy possiamo leggere questo tipo di trauma come una emozione senza pre-contatto, dove sono mancate le figure genitoriali per aiutare il/la bambino/a ad elaborare l’esperienza traumatica. Ciò che diviene fondamentale nel percorso di psicoterapia con chi ha subito un trauma, non è tanto la rievocazione della scena traumatica, in quanto questo non “libera” di per sé l’organismo, ma il recuperare il desiderio rimasto libero e fornire all’organismo il sostegno specifico affinché possa soddisfare il suo bisogno e compiere il “gesto mancato” riprendendo così il normale percorso di crescita. Rivolgiamo un augurio a tutti i bambini e le bambine che abbiamo seguito, e che tuttora stiamo seguendo, con alle spalle esperienze tristemente simili, perché nella loro vita futura possano riparare la ferita relazionale recuperando la fiducia necessaria per incontrare l’ambiente, vivere nuovi contatti nutrienti in cui poter esprimere i propri bisogni e desideri, affrontando la diversità con il “sano” conflitto come purtroppo non è accaduto nelle relazioni del loro triangolo primario.
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Cosa ha di diverso la violenza assistita da tutte le altre forme di violenza? Quali specificità hanno gli interventi clinici in questo ambito? Sono questi gli interrogativi ai quali le autrici hanno dato risposta in questo articolo a partire dalla loro esperienza clinica con i bambini, tristemente numerosi, vittime di violenza assistita. L’articolo, infatti, descrive le specificità dei percorsi terapeutici effettuati con questi bambini e bambine, partendo dalla fenomenologia della violenza assistita per delineare le conseguenze psicologiche, relazionali, affettive che la caratterizzano rispetto ad altre forme di violenza. Sono altresì evidenziati i temi emergenti all’interno della relazione terapeutica e come questi vengono affrontati in PdG per dare ai bambini e alle bambine la possibilità di recuperare la spontaneità relazionale che poi potranno trasferire nei loro contesti di vita.
SPS
Pubblicazioni IT
Antropologia
GIOVANNI SALONIA SVLFRORJR H SVLFRWHUDSHXWD 2)0 &DS 'LUHWWRUH 6FLHQWLôFR GHOOD 6FXROD GL 6SHFLDOL]]D]LRQH LQ 3VLFRWHUDSLD GHOOD *HVWDOW Ô +&& .DLU²V 5DJXVD 5RPD 9HQH]LD H GHOOD ULYLVWD LQWHUQD]LRQDOH RQ OLQH GL SVLFRWHUDSLD l*7.{ 'RFHQWH GHOOD 3RQWLôFLD 8QLYHUVLW $QWRQLDQXP H GHOOD 6FXROD GL 6SHFLDOL]]D]LRQH LQ 3VLFKLDWULD SUHVVR O×8QLYHUVLW &DWWROLFD GHO 6DFUR &XRUH GL 5RPD
Nel libro testi di D. Iacono e G. Maltese, G. Salonia, A. Sichera.
L’
invidia è la piÚ triste e universale delle passioni: un tarlo che ci insidia e ci costringe a guardare di sbieco (in-videre) fuori di noi, un desiderio persistente di ciò che non abbiamo avuto o di cui la vita, crediamo, ci abbia privato. PerchÊ non ho, ovvero non sono, come lui, come lei, come te? PerchÊ tanti di quelli che conosco sono stati piÚ fortunati di me? I come invidia prende avvio dalle interpretazioni fondamentali della passione triste e con gli strumenti della Gestalt Therapy offre una prospettiva nuova al desiderio di unicità e di contatto che ci abita sin da bambini. E da cui tutto comincia.
G. Salonia (ed.)
Peter Pan ¨ XQR GHL WHVWL SLš LQFRPSUHVL H PLVWLôFDWL GHOOD OHWWHUDWXUD SHU O×LQIDQ]LD 3UHVHQWDWD FRPH OD VWRULD GL XQ EDPELQR FKH QRQ YXROH FUHVFHUH HVVD ULYHOD LQ UHDOW OD WHQGHQ]D GLIIXVD DG HWLFKHWWDUH LO FRPSRUWDPHQWR GHL EDPELQL H D FUHDUH WHRULH VDOYD DGXOWL LO FRPSOHVVR GL (GLSR GL 7HOHPDFR GL 3HWHU 3DQ 0D FKL ¨ 3HWHU" %DVWD DSULUH LO OLEUR SHU VFRSULUOR l6H YRL R LR R :HQG\ IRVVLPR VWDWL O DYUHPPR YLVWR FKH 3HWHU 3DQ DVVRPLJOLDYD SURSULR DO EDFLR GHOOD VLJQRUD 'DUOLQJ{ ,O YROWR GL 3HWHU ¨ TXHOOR GHO EDFLR FKH PDPPD 'DUOLQJ WUDWWLHQH DOO×DQJROR GHOOD VXD ERFFD LO EDFLR FKH QRQ UDJJLXQJH :HQG\ LO VXR GHVLGHULR LO VXR FRUSR ,O EDFLR FKH VRWWR OH VSHFLH GHO ERWWRQH GL 3HWHU GL O D SRFR OH VDOYHU OD YLWD 7DOH ¨ OR VIRQGR HUPHQHXWLFR GD FXL HPHUJH LQ TXHVWR OLEUR LO SXQWR GL YLVWD JHVWDOWLFR VX 3HWHU &RQ UHJLVWUL GLYHUVL GDOOD WHRULD FOLQLFD DOOD SVLFRWHUDSLD LQIDQWLOH GDOOD FULWLFD VHPDQWLFD DO SHQVLHUR HGXFDWLYR
Giovanni Salonia (ed.)
i come invidia
Giovanni Salonia, psicologo e psicoterapeuta, insegna all’Università Pontificia Antonianum di Roma. Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dell’Istituto di Gestalt Therapy HCC Kairòs, didatta a livello internazionale, ha pubblicato recentemente Sulla felicità e dintorni e Odós. La via della vita e, come coautore, Devo sapere subito se sono vivo e La luna è fatta di formaggio, che trattano tematiche antropologiche e cliniche. Ha fondato e diretto la rivista Quaderni di Gestalt e dal 2008 è direttore scientifico di GTK Rivista on line di Psicoterapia. Per Cittadella Editrice dirige, con Rosella De Leonibus, la collana Dià pathos. Nel volume, contributi di Valentina Chinnici, Giovanni Salonia, Dada Iacono, Ghery Maltese.
Psicoguide
Alfabeti per le emozioni
ISBN/EAN
ISBN/EAN
9 788830 814288
9 788830 815025 EURO
9,50
www.cittadellaeditrice.com
EURO
11,00
La vera storia di Peter Pan. Un bacio salva la vita A cura di: Giovanni Salonia Peter Pan è uno dei testi piÚ incompresi e mistificati della letteratura per l’infanzia. Presentata come la storia di un bambino che non vuole crescere, essa rivela in realtà la tendenza diffusa ad etichettare il comportamento dei bambini e a creare teorie salva-adulti: il complesso di Edipo, di Telemaco, di Peter Pan. Ma chi è Peter? Basta aprire il libro per scoprirlo: Se voi, o io, o Wendy fossimo stati là , avremmo visto che Peter Pan assomigliava proprio al bacio della signora Darling. Il volto di Peter è quello del bacio che mamma Darling trattiene all’angolo della sua bocca: il bacio che non raggiunge Wendy, il suo desiderio, il suo corpo. Il bacio che sotto le specie del bottone di Peter di lÏ a poco le salverà la vita. Tale è lo sfondo ermeneutico da cui emerge in questo libro il punto di vista gestaltico su Peter. Con registri diversi: dalla teoria clinica alla psicoterapia infantile, dalla critica semantica al pensiero educativo.
Cittadella Editrice
Psicoguide
I come Invidia. A cura di: Giovanni Salonia L’invidia è la piÚ triste e universale delle passioni: un tarlo che ci insidia e ci costringe a guardare di sbieco (in-videre) fuori di noi, un desiderio persistente di ciò che non abbiamo avuto o di cui la vita, crediamo, ci abbia privato. PerchÊ non ho, ovvero non sono, come lui, come lei, come te? PerchÊ tanti di quelli che conosco sono stati piÚ fortunati di me? I come invidia prende avvio dalle interpretazioni fondamentali della passione triste e con gli strumenti della Gestalt Therapy offre una prospettiva nuova al desiderio di unicità e di contatto che ci abita sin da bambini. E da cui tutto comincia. ISBN: 978-88-3081-428-8 Pagine: 112
Ogni giorno merita una Gestalt. A cura di: Stefania Antoci, Alessandro Rusca Il volume rappresenta il primo diario gestaltico curato dall’Istituto Gestalt Therapy hcc Kairos. L’istituto, al suo quarto decennio di attivitĂ , opera nell’ambito della formazione e della ricerca in psicoterapia della Gestalt a livello nazionale e internazionale. Propone una sorta di “quarta anima della Gestaltâ€? che apre nuove prospettive sull’antropologia e sulla clinica del vivere insieme e della crescita, sviluppando contributi innovativi sia a livello ermeneutico che clinico. Tra gli ultimi si annoverano l’elaborazione di una teoria sui modelli relazionali di base e la psicopatologia, un modello di teoria evolutiva e un modello di Gestalt Therapy con le coppie e le famiglie (teoria del SĂŠ e dell’intercorporeitĂ ). ISBN: 978-88-3081-392-2 Pagine: 156
ISBN: 978-88-3081-502-5 Pagine: 84
PUB
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mirror no.1
La Gestalt Therapy (e GTK) in Nepal1
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el1giugno 2011, i colleghi Greet Cassiers, Ernst Knijff e Frans Meulmesteer, psicoterapeuti belgi e olandesi, furono contattati dallo psicologo nepalese Shambar Thapa, con la richiesta di supportarlo nella costruzione di un istituto di psicoterapia a Kathmandu, in Nepal. L’istituto avrebbe dovuto fornire psicoterapia e counseling nella regione, insieme a un programma di formazione sulla psicoterapia della Gestalt, secondo gli standard internazionali dell’EAGT. I potenziali partecipanti avrebbero dovuto essere psicologi e sociologi che lavoravano nella cura di bambini, rifugiati e vittime di abusi sessuali e torture. I tre decisero quindi di andare in Nepal nel luglio 2011 con tre obiettivi principali: avere una migliore comprensione della situazione dei servizi per la salute mentale, della cultura e del clima socio-politico-economico in Nepal; fornire un seminario introduttivo di due giorni sull’approccio gestaltico per coloro che erano interessati a seguire il programma di formazione quadriennale; esplorare la motivazione, i bisogni e le competenze degli psicologi e degli altri professionisti che volevano essere coinvolti nella creazione dell’istituto. E, naturalmente, esplorare le proprie motivazioni a dare inizio a tale esperienza. Rimasero in Nepal circa tre settimane, lavorando sodo per costruire la struttura di base per l’organizzazione e il programma di formazione. Nell’aprile 2012, i tre colleghi iniziarono il programma con diciotto studenti e posero le basi per l’Himalayan Pathway Psychology Institute, oggi rinominato “Gestalt Institute Nepal”. Quasi sei anni dopo, nel marzo 2018, il primo gruppo di allievi ha completato la formazione, e sono iniziati altri tre gruppi. Nel 2017 i tre colleghi fondatori hanno esteso la squadra principale di trainers, accogliendo Beatrix Wimmer dall’Austria (attuale presidente dell’EAGT) e il sottoscritto, didatta dell’Istituto GTK della sede di Venezia. Il Gestalt Institute Nepal è oggi diventato una casa professionale, dove allievi e professionisti possono trovare conoscenza, formazione, esperienza e sostegno. Io e gli altri 4 colleghi occidentali siamo coinvolti come fondatori e formatori del programma di formazione quadriennale in psicoterapia della Gestalt. Offriamo non solo training, ma anche supervisione, conferenze e workshops o seminari più brevi per
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GTK DISSEMINATION
Giovanni Turra
Per ulteriori approfondimenti si consulti il sito http://www.gestaltinnepal.com/
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scuole, college e università. Stiamo anche formando i primi allievi didatti nepalesi a diventare essi stessi trainer locali. Dal 2013 abbiamo un nuovo coordinatore nepalese, Minakshi Rana, che ha preso il posto di Shambar Thapa, nel frattempo emigrato negli Stati Uniti. Lavoriamo anche a stretto contatto con le iniziative locali e con organizzazioni come il centro di counseling per i gravi ustionati, un centro per i giovani con autismo, un rifugio per i bambini di strada e la Transcultural Psychosocial Organization Nepal (TPO Nepal). Quest’ultima è una delle principali organizzazioni psicosociali del Nepal, istituita nel 2005 con l’obiettivo di promuovere il benessere psicosociale e la salute mentale di bambini e famiglie in aree colpite da conflitti e in altre comunità caratterizzate da particolari fragilità. Alcuni dei nostri allievi lavorano lì come psicologi. Accanto a queste organizzazioni, collaboriamo con molti altri progetti psicosociali in aree remote, e i nostri studenti sono direttamente coinvolti nel lavoro di comunità, in particolare nella regione di Sindhupalchok. Il Nepal è un paese a due facce: da un lato è un paese bellissimo con persone estremamente gentili, dolci, accoglienti e amichevoli; dall’altro è un paese come tanti, dove la corruzione fa parte della vita quotidiana, la povertà è estesa, la violenza presente comunque in varie forme. Un paese dove la globalizzazione economica e culturale con lo stile di vita occidentale liberale hanno avuto un effetto devastante, ampliando disparità tra le città e le zone rurali e montane e tra i ceti sociali. Il paese inoltre non si è davvero ripreso dai terremoti che lo hanno martoriato nel 2015. A causa dell’enorme corruzione, molti dei soldi che sono stati donati da tutto il mondo sono scomparsi e non hanno mai raggiunto le vittime. Tuttavia, è stato fantastico vedere come gruppi di giovani hanno preso l’iniziativa di andare nelle aree più colpite per aiutare a ricostruire villaggi e scuole. Molti sono stati coinvolti in counseling traumatico in aree remote del Nepal, dove il danno e la sofferenza erano enormi. La situazione della salute mentale è ciò che ci motiva a creare e sostenere questo progetto. Siamo rimasti scioccati dalla scarsa presenza di servizi per la salute mentale in Nepal e da quanto sia difficile per le persone che hanno bisogno di counseling e psicoterapia ottenere l’aiuto di cui necessitano. È comunque ancora molto presente, socialmente riconosciuto e utilizzato un sistema tradizionale di cura del disagio mentale, che, in quanto occidentali, rispettiamo e tentiamo di conoscere (sciamani, guru, religiosi hindu, stregoneria, ecc.). Tendenzialmente, la credenza locale, legata alle leggi karmiche, spiega i problemi mentali come derivanti da errori o comportamenti sbagliati in questa vita o in vite precedenti. Psicologi, operatori psicosociali e counselor in Nepal svolgono un lavoro vitale e difficile, spesso prendendosi cura di bambini vulnerabili, rifugiati e vittime di torture sopravvissuti al conflitto civile,
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ma hanno scarso sostegno e spesso una carente preparazione professionale. Hanno bisogno e diritto a un solido livello di istruzione e supporto professionale. Le esperienze passate mostrano quanto sia importante per i lavoratori di quest’area psicosociale e psicoterapeutica avere un riferimento professionale, un istituto dove potersi ritrovare, formare, ottenere supervisione e sostegno. La partecipazione degli allievi al corso è spesso problematica, poiché arrivano da diverse parti del paese e devono affrontare viaggi disagevoli e spese impegnative, lasciando le proprie famiglie per giorni (i corsi sono intensivi e ogni modulo è di cinque giorni pieni di lezioni: questo per permettere a tutti, formatori e allievi, di risparmiare tempo), ecc. La maggior parte dei nostri allievi – in particolare le donne – si alza alle quattro del mattino per preparare i pasti, pulire la casa e portare i bambini a scuola, prima di intraprendere un’ora e mezza di viaggio, a volte a piedi, per arrivare al corso. L’obiettivo finale di questo progetto è stato fin dall’inizio, e lo è tutt’oggi, quello di istituire un istituto di Gestalt Therapy indipendente, autosufficiente, che riunisca psicologi, counselor e didatti locali, che possano fornire psicoterapia, counseling e formazione per gli allievi nepalesi e per la società tutta. Nel corso degli anni ci siamo accorti di come questo incontro tra formatori europei e allievi nepalesi sia fecondo di scambi e apprendimenti. Questi riguardano certamente l’incontro tra una ‘figura’ occidentale come la psicoterapia, sorta e sviluppatasi in società occidentali per rispondere ai disagi che in tali società sono emersi nelle diverse fasi storiche, e uno ‘sfondo’ orientale, come quello nepalese, caratterizzato da un forte senso religioso e comunitario che per molti aspetti si mantiene inalterato da secoli. Non poche sono state le situazioni in cui abbiamo avuto il dubbio di rischiare di compiere una sorta di ‘colonialismo culturale’. Ciò che ci ha guidato sono stati alcuni elementi fondanti: la richiesta la richiesta di sostegno in termini formativi ricevuta dai colleghi nepalesi; l’ascolto e l’atteggiamento non giudicante rispetto a pratiche sociali e comunitarie molto distanti dalla nostra cultura (ma a volte ritrovabili nelle nostre società contadine tradizionali); un atteggiamento di costante dialogo (affascinanti e illuminanti alcuni seminari da noi facilitati in cui abbiamo coinvolto gli allievi nella narrazione dei molteplici rituali comunitari di cui è costellata la loro crescita e la loro vita in generale); la costante messa in gioco e in discussione dei nostri preconcetti (se non pregiudizi) rispetto a ruoli e funzioni sociali di uomini, donne, bambini, adulti, anziani, famiglie, gruppi professionali, ecc.; la comprensione del sistema delle caste (che, seppure fuorilegge, esiste nei fatti nelle pratiche di scambio sociale) e delle numerosissime etnie; la valorizzazione della loro lingua madre (il training è in inglese, lingua che molti
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giovani nepalesi conoscono bene e imparano a scuola, ma a volte li invitiamo a parlare la propria lingua durante simulate, role-play, triplette, ecc.). È interessante, per fare un esempio, notare come i modelli di psicologia evolutiva occidentale male si adattino ad una cultura orientale come quella nepalese: il nostro modello lineare e progressivo (spesso anche rappresentato da una scala o una linea retta in ascesa), che si evolve dall’infanzia all’adultità, progredendo dalla simbiosi madre-bambino e dal triangolo primario fino al raggiungimento dell’autonomia e dell’indipendenza, non è in fondo il loro modello. Per la cultura nepalese, la vita, che inizia prima della nascita e prosegue oltre la morte (il defunto infatti, diviene ‘antenato’ e la famiglia mantiene un rapporto vivo e nutriente con lui, attraverso ritualità fondate sul rispetto e la venerazione), ha una modalità circolare e ricorsiva, ed è tale sia per l’individuo che per la famiglia e la comunità. Per i nepalesi, indipendenza e autonomia, totem sacri dell’Occidente, corrispondono spesso a solitudine, isolamento e maggiore vulnerabilità per chiunque. Ecco quindi che la cultura nepalese, sia hindu che buddhista, cristiana o animista, tiene assieme le istanze della vita comunitaria e quelle dell’individuo, il Noi come l’Io (la Moksha, ovvero il Nirvana, è infatti raggiunta solo dall’individuo che, anche attraverso l’espletazione dei suoi doveri nei confronti della famiglia e della comunità, potrà dedicarsi in età anziana alla meditazione e alla preghiera in vista della propria liberazione dal circolo delle rinascite e delle morti, il Samsāra). Anche la teoria gestaltica del Sé andrà dunque riadattata affinché lo ‘sfondo’ culturale e sociale nepalese la possa fare propria, digerendola e trasformandola. Per certi versi, e così come da noi interpretato, l’approccio della Gestalt sembra quasi completamente opposto alla cultura nepalese, forse anche dell’intero continente asiatico. Mentre l’approccio della Gestalt è portato a volte a rendere esplicito l’implicito, la cultura nepalese valorizza e apprezza l’implicito. Laddove l’approccio della Gestalt valorizza la consapevolezza, per esempio delle emozioni, e la loro esplorazione e adeguata (per il paziente) espressione, la cultura nepalese si concentra sul mantenere le emozioni negative (soprattutto le più estreme, come la rabbia, la tristezza, la delusione, ecc.) distanti dalla relazione, in modo che non interferiscano eccessivamente con il buon vivere sociale. Uno dei nostri studenti ha intrapreso alcune ricerche su come gli psicologi affrontano la rabbia dei propri pazienti. Queste ricerche hanno rivelato che la maggior parte cerca di sostenere il paziente nel rapporto con la rabbia, mediandola o lasciando che sfumi attraverso il respiro. Pochi lavorerebbero con la rabbia, e solo uno di loro ha affermato che permetterebbe alla rabbia di esprimersi nella seduta.
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Molte emozioni quindi, sebbene consapevoli, non vengono lasciate emergere, mentre noi, col nostro occhio occidentale, facilmente siamo inclini a denotare tali atteggiamenti come modalità relazionali introiettive e/o retroflessive. Lo sono veramente? Se sono così diffuse, e socialmente riconosciute e incoraggiate in una cultura diversa dalla nostra, come le dovremmo considerare? E inoltre, ciò che noi chiamiamo ‘tristezza’, è tale anche per loro e ha le stesse connotazioni che ha per noi? Queste e altre sono le domande che ci facciamo costantemente. In questo senso, ci assicuriamo di rendere noto ai nuovi allievi che il training in psicoterapia della Gestalt potrebbe essere difficile all’inizio per loro; occorre come sempre capirsi e capire che tale processo sarà lungo e impegnativo: ‘tradurre’ da una lingua ad un’altra, da una cultura ad un’altra, richiede che sia dia dignità a tutti gli attori di tale scambio. Come formatori otteniamo molto da questo programma, non ultimo il miglioramento delle nostre capacità di didatti e terapeuti della Gestalt di fronte a una cultura così diversa e a una situazione socio-economica così grave, che causa crisi esistenziali di non poco impatto sui singoli e sulle comunità. Siamo dunque sfidati a implementare l’approccio della psicoterapia della Gestalt in un paese e in una cultura completamente nuovi per noi, e allo stesso tempo il progetto approfondisce la nostra comprensione e la nostra sensibilità, anche in merito alla stessa prassi della psicoterapia in generale, e in particolare della Gestalt, come approccio importante in questo contesto, in quanto approccio umanistico, olistico e culturalmente sensibile. La psicoterapia della Gestalt è la terapia del contatto. Il contatto tra la Gestalt Therapy e le culture del Nepal è una sfida a esplorare, e forse a riconsiderare, i concetti di base della psicoterapia della Gestalt in tutte le sue possibilità e i suoi limiti.
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Greet Cassiers «I don’t believe in charity. I believe in solidarity. Charity is vertical, so it’s humiliating. It goes from the top to the bottom. Solidarity is horizontal. It respects the other and learns from the other» Eduardo Galeano,
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ARTE E PSICOTERAPIA
They left their home and hearth Where east and west meet each other; about language, images, cultural differences and friendship.
Uruguyan journalist and writer
16.6 -14 ‹Sweet memory› - mixed media on wood, 30 x 40 cm
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s a Belgian Gestalt-therapist and painter, working for over 30 years as a therapist/trainer in Europe and in Nepal (since 2011), I was shocked as so many of us by the devastating earthquakes in Nepal in 2015. That is the moment my involvement with refugees started on a conscious level. We, four other colleagues and I, are teaching Gestalt in Kathmandu since 2011. We founded the Gestalt Institute Nepal and go there to teach every 3 months with two teams. Our first group of students graduated in 2017. Besides the ‘Train the Trainer’ programme, we have three other groups of Gestalt students. In total, there are 54 students1. 1
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The poems are translated into English by Meetje Swellengrebel,
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We just had left the country in April 2015 when the earthquakes took place. We felt very close to the people who suffered from this terrible event, so in June we went back to emotionally and psychologically support our students and their families. We also took some money, given to us by friends and colleagues, with us. ’Do some good with it.’ they said. ‘You meet the people over there, you will know what to do with it. ’ And so we did. Together with our students we started the project ‘Care for the forgotten people’. We have built shelters and small houses, toilets. We distributed food, clothes, schoolbooks and uniforms. It was a side path of the work we already did with our foundation, Just Solidarity, which supports the Gestalt Education for our students in Nepal since 2011. A few months later, in September 2015, huge fleets of refugees from the south and east arrived in Europe. We, all of us, were confronted with the reality and images of endless rows of people, walking, carrying children and belongings, anything of what was left. Refugees and people losing their home and all their belongings became so much foreground for me, that I had to find a way to express myself beyond words and beyond any rationality. As a therapist the main way to communicate is language. As an artist, writing poems and painting are a way to express myself and to communicate in a different way. The practices of painting and writing poems are both gestalt formation processes: giving attention to and taking serious what is foreground using colour, form, line, word, sentence. By now I know I can just trust the process. The next step (word, line) follows. Often there is only one word foreground. Writing it down and trusting the process, the second word or sentence comes and then the third, and so on until it is done. During that time, I felt very touched by the enormity of the problem. And powerless in the same time, not able to solve this problem, unable to physically help in a practical way. The only thing I was able to do was writing poems and painting those people in all their anonymity, just as we saw them on television, in the news. We didn’t know their names or their stories. But I saw them as brave, courageous, talented and….. exhausted. And yes, writing and painting was also a way of recognising their existence and the miserable state they were in. Painting them in vibrant colours was a way of showing their talents, richness, capacities, who they were in an existential way.
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17.4 - 7 ‚Exodus›, mixed media on canvas, 100 x 100 cm
People take flight, leaving home and hearth behind; a child on their backs, tree apples in the hand to swap for some security on the road. Up-rooted, chasing a dream with five illusions of certaintyWith a sigh they take the plunge and step across the border.
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In October 2018 I organised an exposition together with Iraqi painter/refugee, Raid Alwasety, in Antwerp. We weekly worked together in my studio for 6 months on end. And although we didn’t speak or understand each other’s language, we found each other without any problem by painting together and by sharing our passion in a very practical way. And …. with a little help of google translator. The exposition ‘Where East and West met each other’ was the fruit of our cooperation and friendship. In this context, I was investigating my own family history of being refugees. I discovered the following and experienced that I understood myself in relationship to this greater whole and in relationship with the other, the Iraqi painter in this case. Two centuries ago, the Jewish family Schaack took flight as Askenazy Jews from Poland, by Germany to Belgium. In Antwerp, they first started a business in fabrics and later in diamonds. For reason of security, they changed their name Schaack into Jacques. My grandmother from my mother’s side, Maria Jacques, was a very good storyteller. As young children we listened to her stories. How she took flight in 1914 to England with two young children, with the diamonds her father gave her, sewed in the hem of her jacket. It was in Southfield, England a few years later (in 1918) when she gave birth to my mother during a bombardment. After the war the family came back to Antwerp and my grandmother told us, years later, how touched she was by the help and the kindness of the English people. And the story goes on. Two of our grandchildren are partly Iranian/ Belgian/ Dutch. Their Iranian father came to Europe via Germany and asked for asylum in the Netherlands. This happened 25 years ago. There, he studied at the university and met our daughter (Belgian) who studied anthropology in the Netherlands. They have two children and live their lives in a multicultural fashion. And from fathers side….., I have Spanish blood. What do they mean: ‘There is a refugee problem nowadays’? Migration is of all times! Cultural diversity is not only an issue today. It has been reality in the history of humankind and will be for evermore. Contact is the appreciation of differences! Waauw! For me as a therapist, in working with individual clients, couples and groups, it is important to have this field of awareness and to realise, also when working in Antwerp in my therapy room with
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17.3 - 4 ‹Sharing› - mixed media on wood, 21 x 29 cm
an individual client, this situation is happening in a vibrant social context where insecurity, chaos and need for change is as much a reality as it is in the suffocating situation of my client. Perhaps my client, who’s world is very small at that moment, is in retroflection or projection or denial or whatever his favourite survival or coping mechanism of that moment is. He is used to handling the crisis in his life in the most creative way.
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And so is the refugee. So am I. At the Human Rights conference in Berlin last October, the healthcare for refugees was a common European problem and a big issue. Therapists shared their frustration about the fact that, when their organisations offered counselling or therapy for refugees, people were not coming. Programmes for refugees to do practical things like cooking were more successful. A Syrian woman student and refugee expressed the need of her fellow compatriots, to build a future in the first place, for recognition of their talents and capacities, and not to be seen as pitiful. In their turn, the therapists expressed their feelings of powerlessness, the frustration of wanting to help, but not being able to use their skills and experience to talk and work on the wounds. These therapists had not been aware until this very moment that these refugees did not feel the need to look back or to talk about their traumas. Not at that moment, in this stage of their lives Yes, of course, refugees have all kinds of traumas, are indeed often confronted with the barbarity of war and the cruelty of nature, but s(h)e is not only wounded. S(h)e is a fighter in the first place, looking for a better and safe place in the world. From the moment there is a safe place, s(h)e needs possibilities/options, recognition of his/her talents and experience, support to build a future. The traumas will probably become foreground again at a later stage. The pain and loss will awaken, be felt again. The feelings of homesickness, missing family members, the experience of feeling alienated. But, initially, it is enough to recognise them. I remember the moment that Raid red my poems for the first time. They were translated in Arabic. So now, he was able to read them in his own language. Tears came into his eyes. Two, three minutes he was touched, then he wanted to get going again. But at the same time, he felt seen and it brought us together even more. Refugees are not victims, are not pathetic, are not pitiful. They are proud, strong, want to go forward whatever it takes. They have nothing more to lose. They want to live. At that moment we as therapists are powerless if we do not realize that recognition, kindness, encouragement, opportunities are enough to begin with. We would like to think that we are strong in those qualities as therapists. We appear to be powerless. Stay with what is. Follow the energy. That seems it’s more like doing something then standing still or holding on.
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When we worked together in the studio and when we were preparing the exposition, Raid and I spontaneously had small conversations about difficult moments during his journey. Painful experiences, about the bombardments and the tinnitus he is suffering since the bombardments. About the moments that he was alone in a strange environment, separated from his wife and children who were still in Iraq. About the depression and insecurity and also how painting (using his skills) helped him. He recalled the kindness of people who organised material to paint or make a sculpture. They were crucial.
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In addition to this, refugees are coming from a background and culture where problems are often faced and coped with in a very different way. Much more family- and cast-oriented for example. People in Nepal are more thinking in a problem-solving way than in an empathic process-oriented way. Also in healthcare and counselling. As teachers in Nepal, we experience relief when we give attention to how they experience a certain problem. But at the same time, we had to allow for a lot of time to find a common language and words to name different feelings and emotions, and for the distinction between them. In conversation with my Iraqi friend, I discovered that he was using symbolic and poetic language to describe a situation more than I did. Often, I had to read or listen between the lines to understand what he meant. In both contexts (Nepal and Iraq), it became very clear that our direct western way to put or explain things, is often experienced as impolite, shocking even, and after that at the same time as a relief. Yes, ‘Psychotherapy is always rooted in a cultural, social and political field.’ Freedom – Sharing our wealth When Raid and I were interviewed by an organisation for refugees, they asked us what the most important value was of working together in this cooperative companionship. Raid named: Freedom. My value was: Sharing what you have and what you are in experience and talents. The outcome for both of us is feeling happy and rich. «I don’t believe in charity. I believe in solidarity. Charity is vertical, so it’s humiliating. It goes from the top to the bottom. Solidarity is horizontal. It respects the other and learns from the other» Eduardo Galeano, Uruguyan journalist and writer
Finally, I only want to share two examples from a therapy context to make this clear.
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16.5 - 7 ‹Homesick› - mixed media on wood, 21 x 29 cm
Case Sarita: Once I was working in my practice in Antwerp with a woman, Sarita, 42 years old. She had been adopted as a small baby from Nepal. She needed some help to handle her situation as single mother with two teenage daughters. As a single parent, Sarita was not able to pay the full amount for the therapy session and after a discussion about this problem, we agreed that she would pay 20 € per session. But still it remained an issue for her and she felt guilty towards me that she was not able to pay the full amount. The 20.00€
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was completely fine for me, so I was wondering how we could come to grips with this situation in a way that it would be ok for her and leave her self-esteem intact. After having reflected on it, I proposed to her that I would put the 20 euro she paid on the account of the foundation ‘Just Solidarity’ offering scholarships for Nepalese Gestalt students. A strange thing happened. What she had seen as charity, turned into a gift supporting people from her initial background and homeland. It was amazing to see the result of this proposal. Immediately she didn’t feel guilty anymore. On the contrary, she was a person who was able to contribute and the money would go to people she was related to. I still see her gentle smile and the light in her eyes during this moment of sharing.
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Case scholarships in Nepal: The work we do of teaching Gestalt in Nepal is voluntary. All the teachers (5 trainers) involved contribute by working for free and even pay their own transport or look themselves for funds to pay for it. But to be able to engage ourselves in that way, we needed to find a balance in giving and taking. So, it was important that we clarified that they had to pay for the education to keep our relationship in balance (and not get it for free as usually is the case in NGO’s). We took the time to find a price which was fitting for both the teachers and the students. In that way, they do not have to feel guilty, they can feel proud and full of self-esteem and it is obvious that they fully contribute and engage themselves in their turn. In addition to this contribution, the foundation of Just Solidarity is looking for funds to cover the costs. So every student gets a scholarship. The students are informed and have a lot of appreciation. In both cases it is about: balance in giving and taking, recognition of talents and existence, recognition of the social injustice, of different opportunities depending on what side of the world you are born, or in which social situation you are finding yourselves.
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16.5 - 8 ‹Endless› - mixed media on wood, 21 x 29 cm
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I long for that old, familiar sky -a soft and powdery blue with now and then a little cloud; the sweet aroma of jasmine and orange-blossom; the court-yard where the children played with some pebbles and a stick; the green squares, the red rose-bush, the taste of the herbs with which my grandmother flavoured the leg-of-lamb. Ach, where is my country, my village, my home? Nr. 8 from the series ‘They left their home and hearth’
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Yesterday, a woman smiled at me. I still feel the warmth radiate throughout my body and soul. Slowly, bit by bit, I thaw a little. I did not return the smile, I was too surprised. But I did put up my hand in greeting then, she was gone, the chaos of the camp surrounded me again. I pulled the blanket up around my shoulders, tried to make myself tiny and warmed myself for another while on this one memory. Nr.9 from the series ‘They left their home and hearth’
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17.4 - 8 ‹On their way to a better life›, mixed media on canvas, 80 x 120cm
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I exist, Even though you cannot see me. I am here and now and eat your troubled conscience. And sometimes, I am like acid bile so sour in your throat. Enveloped in blankets I am with a woolly hat drawn over my eyes. Sometimes I disappear for a wee while then, I let myself be heard, again, but louder now. I call your name and force you to look me in the eye. Because, yes,
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I do exist. Nr.11 from the series ‘They left their home and hearth’
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Nothing. No voice. No colour. No country. Endless silence only. Where can I go? Not a human being on this earth who waits for me. No desire to live anymoreAnd yetI will live. My children will see flowers and smiling faces. They will play, jump, learn to sing about how things were in the old country. They will be glad and smile at me happily, all misery forgotten. Nr.15 from the series ‘They left their home and hearth’
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17.8 - 5 ‹Dreaming›, mixed media on wood, 21 x 29 cm
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Pietro Andrea Cavaleri
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Il primato della compassione. Nelle relazioni familiari e nella creazione di una comunità globale.
l dialogo tra il sapere della psicologia e il sapere della fede è da sempre condizionato da una reciproca diffidenza, da una sorta di ‘preclusione ideologica’ che impedisce a entrambe le parti di contaminarsi, di confrontarsi e nel confronto estendere i rispettivi orizzonti di conoscenza e di ricerca. Tuttavia, la sfida a tentare un tale dialogo è stata di recente raccolta da uno psicologo di grande autorevolezza come Erminio Gius, sacerdote e frate cappuccino, per tanti anni professore di Psicologia sociale all’Università di Padova. Il suo ultimo libro, Compassione, pubblicato dalle Edizione Dehoniane di Bologna con una bellissima prefazione di Eugenio Borgna, costituisce la preziosa e straordinaria dimostrazione di come oggi sia possibile far dialogare psicologia e fede, di come l’una possa illuminare l’altra nell’arduo tentativo di penetrare il mistero dell’esistenza umana e delle sue molteplici contraddizioni. Partendo da due famose parabole del Vangelo, quella del figliol prodigo e quella del buon samaritano, Gius affronta il tema della compassione analizzandone gli aspetti psicologici e psicodinamici, ma anche filosofici e neuroscientifici, in un coerente e incalzante succedersi di argomentazioni e prospettive. Fin dalle prime battute, l’Autore dimostra la propria curiosità e il proprio interesse a penetrare “la sapienza delle Scritture” non solo da una angolatura teologica e spirituale, ma anche da una prospettiva psicodinamica, capace di cogliere più in profondità la vita dell’uomo nella sua “nuda esistenza”, nel suo essere “gettato nel mondo”. La manifesta intenzione di Gius è quella di accompagnare il lettore in un affascinante percorso, che gli consenta di capire la compassione attraverso precise coordinate a forte valenza scientifica, per intravederne poi con maggiore intensità sia la “potenza salvifica” nella visione della fede, sia il “potere terapeutico” verso la fragilità e il dolore umano nell’ottica della psicologia. Egli, quasi a volere condividere con il lettore i sentimenti che animano il libro, afferma: «L’attenzione partecipata al dolore delle persone, nell’inquieta gioventù, mi ha indirizzato sulla strada dello studio della filosofia umanistica e della teologia antropologica fino all’approdo alla psicologia scientifica nell’età matura» (p.25). La prima parte del testo indaga il tema della misericordia-compassione e i significati esistenziali che emergono dalla parabola del figliol prodigo e in altri scritti affini della Bibbia. La miseri-
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cordia appartiene solo a Dio e ne costituisce l’essenza, gli uomini invece possono partecipare ad essa solo vivendo ed esercitando la compassione, che si concretizza nella relazione di aiuto e nella pratica di una socialità democratica. Sul piano scientifico, risulta evidente come l’essere umano sia biologicamente condizionato dall’esigenza di salvaguardare in primo luogo la sua integrità fisica e psichica. La compassione e la misericordia costituiscono per la persona umana l’esito evolutivo di complessi processi di adattamento socio-culturale e di articolati percorsi educativi. La parabola del figliol prodigo diventa il pretesto per una attenta analisi degli equilibri psichici che caratterizzano la persona umana sia dal punto di vista della crescita evolutiva che dei processi relazionali intersoggettivi, in particolare nel contesto delle dinamiche familiari e del rapporto genitori-figli. L’Autore offre una puntuale e rigorosa interpretazione psicologica del significato sotteso alla richiesta del figlio minore di separarsi dalla famiglia, ma anche del significato esistenziale inconscio insito nella separazione e nella sofferenza che l’accompagna. Egli, sulle orme di Winnicott, sottolinea come per ogni bambino l’innata aggressività abbia la possibilità di evolversi in modo costruttivo se, all’interno del rapporto primario, la madre/ ambiente è capace di tollerarne l’espressione. Sopravvivere al potere distruttivo dell’aggressività permette al bambino di integrare quest’ultima, radicando in sé il senso di realtà e di soggettività. Al contrario, se il bambino non riceve cure materne adeguate, in un ambiente che non facilita l’integrazione dell’aggressività, questa finirà per manifestarsi attraverso modalità antisociali e distruttive. È necessario, dunque, assicurare ad ogni persona uno spazio relazionale dialettico, in cui possa viversi come “altra dagli altri”, come una identità soggettiva in rapporto con “identità collettive plurime”. Si delinea come patologico, invece, quel processo evolutivo che culmina in identità soggettive appiattite sulle identità altrui, dalle quali poi diventa impossibile separarsi. Queste riflessioni psicologiche permettono all’Autore di dare una forma più definita ai personaggi della parabola, ponendo in luce la grandezza del padre compassionevole. Questi si delinea come immagine di quei genitori capaci di entrare nell’oscura notte del dolore prodotto da ogni separazione e di accettare in modo consapevole la necessità di consegnare ai propri figli la piena libertà di scegliere, aprendosi in tal modo all’incognita stessa di una possibile separazione. Si tratta per i genitori di “sacrificare” le proprie aspettative, i propri progetti, di rinunciare in modo definitivo al proprio legame ancestrale, ad un amore esclusivo e possessivo verso il loro figlio. «I genitori che decidono di accettare il dolore della separazione − afferma Gius –, decidono di accettare di morire a se stessi per quella parte di sé (identità genitoriale)
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rappresentata dal figlio, purché tale sofferenza sia un’opportunità per il figlio di conquistare il senso della sua identità vissuta come ‘alterità’» (p. 66). L’abbraccio accogliente e compassionevole del padre, colto dal celebre dipinto di Rembrandt, diventa così icona dello “spazio mentale dell’alterità”. Solo chi è capace di compassione, chi sa perdere se stesso per l’altro, è in grado di “riparare” la rottura, di volgere in positivo la differenza di cui l’altro è portatore, di attraversare la depressione conseguente alla separazione. Sostiene a questo riguardo l’Autore che solo «accettando di entrare nel buio della depressione e, di conseguenza, della possibile perdita dell’identità di genitori, è possibile evitare di ‘colludere’ con la sofferenza depressiva del figlio e, quindi, di costruire un setting relazionale di autentico aiuto» (p. 67). Sia in un contesto educativo che terapeutico, il fallimento di un tale processo comporta inevitabilmente l’emergere di preoccupanti sintomi psicopatologici. Inoltrandosi in una ardita quanto opportuna riflessione teorica e ponendo in pieno dialogo il sapere della fede con quello della psicologia, Gius afferma la natura “trinitaria” della relazione che intercorre tra la coppia genitoriale e il figlio. Si tratta di una relazione dialettica che è insita nell’essenza stessa della famiglia. Il figlio è l’immagine dei genitori, i quali possono “ridire” se stessi come coppia genitoriale in un’altra persona simile a loro, senza tuttavia perdere la loro integrità. Nel “pronunciare” l’esistenza del figlio, nel “dire” lo stupore della sua alterità, i genitori “imprimono vigore alla reciproca conoscenza di se stessi”. La “parola” che afferma, sostiene e “dice” l’altro nella sua differenza si incarna così in una “relazione trinitaria tra soggettività plurime”, capace di rianimare in modo vitale gli affetti e le emozioni, in una reciproca conoscenza di ciascun componente del nucleo familiare. Dire la differenza dell’altro innesca, in tal modo, una dinamica intrafamiliare fatta di reciproco riconoscimento, alimenta preziosi flussi emotivi e affettivi, genera stati intrapsichici e rapporti interpersonali sani. È a questo punto del suo libro che l’Autore sente “l’irrinunciabile obbligo” di guardare al mistero della Trinità (del “Dio-Relazione”) affinché da esso possa ricevere “illuminazione” sulla complessità e sul significato delle relazioni umane, sia nel contesto familiare che in quello sociale. Riflettere sulla Trinità ci consente di riflettere meglio anche sulla conoscenza stessa «della realtà che ci circonda e sulle nostre relazioni interpersonali, di cui la compassione è ‘immagine e sintesi’ dell’amore trinitario» (p. 71). Egli esprime la convinzione che tutta la realtà sia “proiettata in una soluzione trinitaria”, all’interno della quale “l’uomo diviene esso stesso artefice nel riconoscere a se stesso la sua dignità di persona umana”. Ogni relazione autenticamente umana “sprigiona” la co-
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noscenza di sé e la propria sussistenza. «L’essere persona, infatti, consiste nel suo ‘essere con’ la sua parola (logos) che pronuncia la relazione intra e interpsichica» (p. 72). La compassione, dunque, ci introduce contemporaneamente al mistero trinitario e al mistero stesso della relazione umana, permettendoci di accogliere la radicale alterità dell’altro, di attivare una sana dinamica di reciproco riconoscimento, di operare una adeguata riparazione dopo ogni rottura, di elaborare il senso di colpa che segue ad ogni tentativo di differenziazione. Il rapporto che il bambino istaura inizialmente con i genitori, in particolare con il padre, è all’insegna della dipendenza, che gli garantisce stabilità e rassicurazione. Questi innegabili benefici, tuttavia, lo bloccano nello sviluppo dell’autonomia, lo costringono alla passività e alla regressione. Egli è prigioniero di un paradosso, che è proprio di ogni esistenza umana. Se si rende indipendente afferma se stesso, ma perde la sicurezza ed è travolto dal senso di colpa per avere sfidato la presenza normativa del genitore. Se rinuncia all’autonomia è costretto a confrontarsi con la mortificazione della sua identità e con la depressione che ne consegue. La dipendenza esita nel blocco evolutivo e nella depressione, la controdipendenza produce invece senso di colpa e può sfociare in una incontenibile carica eversiva. Entrambi gli atteggiamenti psicologici, tuttavia, fanno parte di un normale percorso evolutivo. Ma come uscire dall’irrisolvibile paradosso? Solo la forza riparativa della compassione può orientare la coppia genitoriale e il figlio verso uno spazio terzo, oltre la dipendenza e la controdipendenza, verso una terza possibilità, cioè verso l’interdipendenza generata dal reciproco riconoscimento, dalla “riparazione” della rottura e della colpa. Dipendenza, controdipendenza e interdipendenza si profilano allora come momenti dialettici di un unico processo di “sviluppo psicologico pieno e solidale”. Le varie discipline scientifiche ci dicono che la realtà è in continuo sviluppo e cambiamento, sia sul versante biologico che psicologico, nel contesto sia della famiglia che della società. Per poter evolvere, per poter cambiare gli assetti mentali della propria identità soggettiva e sociale occorre aprirsi alle esigenze della novità che emerge dal mondo di oggi, è necessario coltivare un pensiero divergente che ci ponga al riparo dai pericoli “della dipendenza acritica e della indifferenza depressiva”. Da qui la preziosa attualità della compassione come pratica relazionale in grado di garantire una necessaria “dinamica riparatoria” (nella famiglia come nella società) e di assicurare un sano passaggio dalla dipendenza/controdipendenza all’interdipendenza, intesa come “fondamento della relazione democratica”. Queste considerazioni ci permettono di passare alla seconda parte del volume di Gius che, analizzando la parabola del buon sa-
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maritano, affronta il tema della compassione questa volta in riferimento all’attuale “società globale” e alla necessità di fondare una nuova “etica della responsabilità”. Nell’era della tecnica, a volte dominata da una razionalità irrazionale e irrispettosa dell’umano, la psicologia è chiamata a capire e a salvaguardare il significato e la pratica della compassione. In questo nostro tempo, a giudizio dell’Autore, è necessario ripensare la «relazione d’aiuto» e occorre «trasferire l’idea di intervento terapeutico dal singolo soggetto alla collettività» (p. 141). E, a tale proposito, egli ipotizza una «carta etica mondiale», che possa costituire di fatto, e non solo sul piano ideale, “un aiuto al vivere democratico”. Nel ripensare la relazione d’aiuto, Gius la definisce come “superficie interpsichica”, come “interfaccia”, come “spazio mentale” all’interno del quale sia possibile per i protagonisti non solo conoscere l’altro e da lui essere riconosciuto, ma anche conoscere se stessi e saper leggere il sistema relazionale in cui si è coinvolti. Dopo aver posto in correlazione il concetto di compassione con quelli di empatia e prosocialità, dopo aver esplicitato la differenza fra “responsività empatica”, comportamenti prosociali e altruismo, l’Autore si sofferma ad analizzare il contributo della ricerca neuroscientifica nella comprensione delle relazioni interpersonali, dei processi di attaccamento, dell’azione morale. Di particolare interesse risultano le pagine dedicate ai “lati oscuri della compassione”, nelle quali egli esplora in chiave psicodinamica “alcune anomalie” che motivano la compassione e che, radicandosi in una molteplicità di vissuti inconsci, potrebbero assumere una valenza “psicopatologica”. La parabola del buon samaritano è l’occasione per riflettere sul concetto di prossimità nel “mondo globalizzato”. L’epoca tardomoderna, nella quale viviamo, è attraversata da molteplici contraddizioni e da problematiche sociali di difficile soluzione, che vanno dalle grandi migrazioni al crescente divario tra ricchi e poveri. L’economia globalizzata ha trasformato radicalmente la nostra società, generando innumerevoli paradossi, primo fra i quali l’esistenza di uno spazio globale al quale non corrisponde però una comunità globale. Alla globalizzazione dei sistemi economici, della cultura, dell’informazione, si contrappongono rigide tendenze alla chiusura localistica, al rifiuto di elementari forme di solidarietà e di rispetto della dignità umana. Tutto è ormai diventato più vicino, eppure tale vicinanza non riesce ancora a trasformarsi in prossimità, sicché paradossalmente sembrano diminuire fra gli umani i comportamenti sociali ispirati alla compassione e all’empatia. Nel villaggio globale si sono frantumati i tradizionali sistemi di riferimento, globale e locale non riescono a integrarsi, domina la “geopolitica del caos”, la politica è latitante e i governi non vogliono assumersi la responsabilità di scelte radicali, capaci
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di rispondere alle nuove emergenze climatiche e umanitarie su un piano internazionale. Manca una “agenda politica planetaria” in grado di contrastare il traffico di droga e di armi, il terrorismo, la criminalità internazionale, l’incontrollata mobilità di capitali, l’instabilità del mercato del lavoro. Emerge con tutta evidenza come a decidere sulla qualità della vita umana e sul destino del pianeta debbano ormai essere “poteri globali”, sovranazionali, democraticamente costituiti. In altri termini, diventa urgente prendere atto dell’interdipendenza dell’umanità e costruire, da parte dei governi nazionali, il “pianeta sociale universale”, garantendo così la “governabilità planetaria”. Gius indica nella compassione l’unica strada possibile da percorrere per giungere ad un nuovo ordine mondiale che tenga conto della sofferenza. Facendo proprio il pensiero del teologo Metz, l’Autore sostiene che solo dalla compassione per la sofferenza umana può scaturire un “nucleo di universalità” capace di generare un ethos universale, di riconoscere una carta etica mondiale. L’unica autorità in grado di creare un nuovo umanesimo, un nuovo ordine globale, è la “fragile autorità di chi soffre”. La compassione come forza riparatrice, come universale esperienza del patire insieme, può costituire l’unico elemento identitario di una società globale comunitaria, l’unica autorità politica mondiale, l’unico progetto di mondo possibile. Le ricerche della psicologia e delle neuroscienze possono essere di grande aiuto nell’approfondimento del pensiero sulla sofferenza umana. Anche nell’ultima pagina del libro di Gius, il sapere della fede e quello della psicologia si intrecciano felicemente, si contaminano reciprocamente: «Per la ricerca teologica la compassione è perdono, empatia, carità solidarietà, ed è già essa stessa ‘profezia’. Per la ricerca psicologica la compassione è ‘riparazione del dolore innocente’, ed è essa pure ‘profezia’» (p. 201). Erminio GIUS, Compassione. Bibbia e psicoanalisi per uno studio della società, EDB, Bologna 2019, pp. 223 – euro 18,50
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Ricerca L’angoscia dell’agire tra eccitazione e trasgressione La Gestalt Therapy con gli stili relazionali fobico-ossessivo -compulsivi Giovanni Salonia
Ricerca La Gestalt Therapy e i pazienti gravi Valeria Conte
Ricerca La funzione-Personalità nel testo Gestalt Therapy Antonio Sichera
L’errore di Perls Intuizioni e fraintendimenti del postfreudismo gestaltico Intervista a Giovanni Salonia a cura di Piero A. Cavaleri
Teoria del sé e società liquida Riscrivere la funzione-Personalità in Gestalt Therapy Giovanni Salonia
Il paziente borderline: una ostinata e sofferta richiesta di chiarezza Intervista a Valeria Conte a cura di Rosa Grazia Romano Arte e psicoterapia Ricordo di Alda Merini Paola Argentino Prendimi l’anima Giuliana Gambuzza Nuove applicazioni cliniche Gestalt Therapy e Onoterapia: nuove applicazioni della pet therapy Silvia Zuddas e Francesco Padoan Letture Nello Dell’Agli, Aluette Merenda, Fabio Presti, Assunta Tolentino
Arte e psicoterapia Il corpo ritrovato Scritture e immagini da una terapia Non so scriverlo... Eva Aster Nuove applicazioni cliniche Narciso: il riflesso senza acqua Il mito secondo Bill Viola, riflessioni sull’esperienza narcisistica Giovanna Silvestri Letture Bruno Callieri, Michela Gecele, Aluette Merenda
Arte e psicoterapia Borderline Border-line Annalisa Iaculo Rileggendo ‘Il corpo ritrovato’ Intervista a Maurizio Stupiggia a cura di Elisa Amenta Nuove applicazioni cliniche La Gestalt Therapy e la cura del disturbo post-traumatico da stress Un’ipotesi di intervento in gruppo con i sopravvissuti del genocidio cambogiano Vinanda Var Società e psicoterapia Il volo di Bauman a Siracusa Intervista a Zygmunt Bauman a cura di Orazio Mezzio Letture P. Cavalieri, L. Marchiori, F. Pecorari
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Editoriale In questo numero Ricerca La modalità relazionale narcisistica nella post modernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy Valeria Conte Oltre L’Edipo, un fratello per Narciso Paola Aparo Nuove applicazioni cliniche Il vissuto dell’adolescente prende corpo nella relazione. Risultati di una ricerca Stefania Antoci e Rosaria Lisi Adolescenza: generazione e degenerazione di una Festa Federico Battaglini Affrontare il dolore con un bagaglio di leggerezza Anna Cò e Annalisa Marinoni L’esperienza triadica in Gestalt Therapy Enrica Ficili e Gabriella Gionfriddo Coparenting nelle nuove figure familiari:orizzonti teorici e percorsi di osservazione in Gestalt Therapy Daniela Lipari e Aluette Merenda La vergogna nella coppia: un appello all’intimità Daniele Marini Il cancro al seno: per ridefinire ricordi, progetti e aspettative Il sostegno specifico nelle relazioni di coppia Valeria Nigro e Alessandra Pitino Il video racconto. Un’arte di gruppo Giovanna Silvestri La mafia e la plebe. La psicoterapia e la violenza rimossa della politica in Sicilia Dario Vicari Arte e psicoterapia Incesto Dada Iacono Lettura A. Merenda, A. Sichera
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Ricerca Gestalt animal assisted psychotherapy: incontri eterospecifici in psicoterapia Aluette Merenda Intersezioni. La terapia della Gestalt incontra l’etnopsichiatria Michela Gecele Arte e psicoterapia Poesie sul femminile Chiara Gatti Nuove applicazioni cliniche Da Geppetto a Pigmalione: il maschile come presenza che (si) trasforma Claudia Angelini Con te non ho paura. Per una rilettura del testo «Attacchi di panico e Postmodernità» Annalisa Castrechini L’elaborazione del lutto in psicoterapia della Gestalt Nadia Iannella Società e psicoterapia Now moment o finally contact? Incontri e confronti con D. Stern, amico e maestro Giovanni Salonia GTK dissemination Report VI CONVEGNO F.I.A.P. L’emergere del Sé in psicoterapia. Neuroscienze, psicopatologia e fenomenologia del Sé 2-5 Ottobre 2014 Riva del Garda (TN) Grace Maiorana Letture Aluette Merenda, Giovanni Salonia
Ricerca Il frammentarsi delle traità nella Demenza di Alzheimer Ed io avrò cura di te: ricucire trame smarrite Grace Maiorana e Barbara Buoso Il cuore della cogenitorialità nella Gestalt Therapy Intervista a Valeria Conte e Giovanni Salonia a cura di Aluette Merenda Arte e psicoterapia Ungaretti. Il dolore Antonio Sichera Nuove applicazioni cliniche Il crampo del violinista. La Gestalt Therapy nel trattamento della distonia focale alla mano del musicista Giovanni Turra e Elena Ponzio Società e psicoterapia Dalle radici alle foglie. Vitalità ed accrescimento della Psicoterapia della Gestalt Serena Bimbati L’onestà come competenza terapeutica Giovanni Salonia GTK dissemination Report V Convegno FISIG Pratica e teoria della Terapia della Gestalt 16-19 Aprile 2015 Torino Laura Leggio Letture Andreana Amato, Paolo Ottavi, Zi Lin Luca You
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